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Full text of "Studj di filologia romanza"

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HANDBOUND 
AT  THE 


UNIVERSITY  OF 
TnnoNrrri  porcc 


J 


8TITDJ 


FILOLOGIA  ROMANZA 


PUBBLICATI 


E.  MONACI    e    C.  DE  LOLLIS 


Voi.  IX. 


1#? 


^■ 


TORINO 


Casa     Editrice 


ERMANNO    LOESCHER 


190: 


k 

So  8 
V.'ì 


PROFRIKTA     lETTKRARIA 


Torino  —  Stabilimento  Tipojfrafico  Vincenzo  Bona  (9413). 


INDICE    DEL   VOLUME    IX 


\j.  BiADKNE,   "  Cnniiina  de  Men>;ibus  ,   di  Boiivesin  de  la 

Riva Po;/.       1 

(x.  A.  Cesareo.   La  sirventesca  d'un  giullare  toscano     .     -      l'!l 

1'.   Maiìchot,  Dans  quel    sens  en   France   et  en   Italie  le 

boucher  est-il  le  tueur  des  "  Boucs  „  V 14tì 

C.   De  Lollis,  Proposte  di  correzioni  ed  osservazioni  ai 

testi  provenzali  del  manoscritto  Campori  .     .      ,      L58 

PiEKKE  ToLDo,  Études  sur  le  théàtre  comique  franc^ais  du 
moyen  àge  et  sur  le  ròle  de  la  nouvelle  dans  les 
farces  et  dans  les  comédies „     181 

G.  B.  BoNELLT,  I  nomi  degli  uccelli  nei  dialetti   lombardi      „     370 

Paolo  Savj-Lopez,  Il  Canzoniere  provenzale  J.      .     .     .     ,     489 

Arturo  Ferretto,  Notizie  intorno  a  Caleca  Panzano  tro- 
vatore genovese  e  alla  sua  famiglia  (1248-1313)  .     „     595 

G.  Crocioni,  "  La  Intervenuta  ridicolosa  „.  Commedia  iti 

dialetto  di  Cingoli  (Macerata)  1606 ,617 

Francesco  Luigi  Manxucci,  Del  Libro  de  la  misera  hu- 
maria  condicione.  Prosa  genovese  inedita  del  secolo 
decimoquarto ,     676 

Giuseppe  Flechia,    Note  lessicali  ed  onomatologiche  di 

Giovanni  Flechia ,     693 

F.  d'Ovidio,  Per  il  dialetto  di  Campobasso „     707 

Giuseppe  Popovici  ,    Nuove  postille    al    dizionario    delle 

Colonie  mmene  d'Istria ,     714 

Bullettino  bibliografico  : 

Recensioni.  l'ag.  171.  469.  720 

Notizie ,      176.  483.  734 


CARMINA  DE  MENSIBUS 

DI  BOXYESIN  DA  LA  RIVA 


INTRODTIZIO^^E 


Cenni  sulle  rappresentazioni  e  i  contrasti  delle  Sta- 
gioni E  dei  Mesi  nelle  arti  figurative  e  nella  poesia.  — 
Antichissimo  è  l'uso  dei  simboli  delle  Stagioni  nei  monu- 
menti. Tali  simboli  sono  già  abbastanza  frequenti  nell'arte 
greca,  e  più  frequenti  diventano  in  quella  romana  dell'età 
imperiale  e  dei  primi  tempi  del  Cristianesimo  ;  cessano  poi 
forse  del  tutto  per  alcuni  secoli  a  cominciare  dalla  fine 
del  quinto  o  dal  principio  del  sesto,  ma  ritornano  a  com- 
parire di  nuovo  nel  duodecimo,  se  non  già  nell'undecimo  ; 
e  da  allora  in  avanti,  più  o  meno  rari,  o  più  o  meno  spessi, 
continuano  fino  ai  nostri  giorni  ^). 


')  Per  le  rappresentazioni  delle  Stagioni  nell'antichità  si  veda  : 
RoscHER,  AusfUhrliches  Lexicon  d.  griech.  it.  rimi.  Mijthol.,  II,  2723  sgg. 
e  Daremberg  et  Saglio,  Dictionnaire  des  antiquités  grecqiies  et  romaines, 
V,  249  sgg.;  per  l'epoca  cristiana:  Martigny,  Dictionnaire  des  anti- 
quités chrétiennes,  p.  86  sgg.;  Le  C.te  De  Grimouabd  de  Saint  Laurent, 
-Guide  de  l'Art  chrétien,  Paris-Poitiers,  1873,  t.  Ili,  496-99;  A.  Peraté, 
L'Archeologie  chrétienne,  Paris,  1892,  p.  60  sg.  Assai  ben  fatto  è  il 
capitolo  sulle    Stagioni    nell'egregia    opera    del    Piper,  Mythologie  u. 

Studj  di  filologia  romanza,  IS.  ^ 


2  LEANDRO   BIADENE 

Molto  più  numerose  di  quelle  delle  Stagioni  sono  le  rap- 
presentanze dei  Mesi.  Contentandoci  di  accennare  appena 
alle  immagini  delle  divinità  egizio  dei  medesimi  dipinte 
sulle  pareti  dell'antichissimo  Ramesseo  di  Tebe  e  più  tardi 
nei  tempj  di  Edfu  e  Denderali,  rammenteremo  che  il  più 
antico  calendario  figurato  finora  conosciuto  è  un  fregio  mar- 
moreo greco  della  fine  del  secondo  o  del  principio  del 
primo  secolo  avanti  Cristo,  murato  sulla  facciata  della 
chiesa  metropolitana  Panagia  Gorgopiko  di  Atene.  In  esso 
sono  riprodotte  feste  pubbliche  speciali  a  ciascun  mese,  il 
quale  è  inoltre  anche  meglio  indicato  dal  segno  dello  zodiaco 
che  gli  corrisponde  ^).  Per  trovare  qualche  altra  rappre- 
sentanza dei  Mesi  conviene  poi  discendere  al  quarto  secolo 
dell'era  nostra,  e  in  esso  nessuna  si  può  dire  con  sicurezza 
più  antica  del  Calendario  di  Filocalo  del  354,  le  cui  figure 
furono  tutte  quante  pubblicate  con  ampio  corredo  di  illu- 
strazioni da  J.  Strzygowski   nel   1888  ^).  Qui    ci    stanno 


Spnbolik  d.  christl.  Kunst,  II  (Weimar,  1851),  313-46,  capitolo  a  cui 
anche  oggigiorro  poco  manca  per  .essere  compiuto.  In  esso,  come 
l'autore  suol  fare  quasi  per  ognuno  degli  argomenti  da  lui  trattati, 
le  Stagioni  sono  distintamente  studiate  nell'antichità  pagana,  in 
quella  cristiana,  nel  medio  evo  e  nell'età  moderna.  Buono  è  anche 
l'articolo  sull'iconografia  delle  Stagioni  nel  Larousse,  Grand  Dietimi- 
naire  universel  du  XIX'  siede,  contenente  per  l'età  moderna  notizie 
e  ragguagli  che  non  si  trovano  altrove  raccolti.  M.  Hehon  de  Ville- 
fosse  ha  dedicato  uno  studio  compiuto  ai  mosaici  rappresentanti  le 
Stagioni  nella  Gazette  archéologique  del  1879,  come  apprendo  da 
E.  Muntz,  Etudes  iconographiques  et  archéologiques  sur  le  moyen  tige, 
Paris,  Leroux,  1887,  p.  27  n.  Uno  scritto,  che  non  aggiunge  ne  pre- 
tende aggiungere  molto  di  nuovo  a  ciò  che  già  si  sapeva,  ma  fatto 
con  assai  garbo  e  senso  d'arte,  è  quello  di  A.  Ventcri,  La  Primavera 
nelle  arti  rappresentative  (Nuora  Antol.,  fase,  del  1°  maggio  1892, 
pp.  39-50). 

*)  Cfr.  Daremuebg  e  Saglio,  op.  cit.,  alla  voce  Calendrier,  1. 1, 1909-10. 

*)  Die  Calenderhilder  des  Chronograp/ien  rotn  Jahre  35à.  Mit  30  Tafeln. 


'  CARMINA    DE    MENSIBUS  '   DI    BONVESIN    DA    LA    RIVA  3 

innanzi  i  Mesi  in  forma  di  persone,  con  intorno  alcuni  og- 
getti e  attributi,  nell'atto  di  fare  qualche  cosa  di  caratte- 
ristico a  ciascun  d'essi.  Filocalo  naturalmente  non  inventò 
egli  queste  figure  ma  riprodusse  quelle  che  erano  comuni 
al  suo  tempo,  e  altri  ha  già  mostrato,  con  argomenti  che 
non  fa  mestieri  qui  riferire,  che  le  medesime  probabilmente 
usavano  già  nel  primo  secolo  dopo  Cristo,  se  non  piìi  ad- 
dietro. Dal  quarto  al  principio  del  nono  non  ci  sono  note 
altre  rappresentazioni  dei  Mesi,  se  non  sia  forse  da  fare 
eccezione  per  quella  scoperta  dal  Renan  in  un  pavimento 
di  una  chiesa  a  Kabr-Hiram  in  Siria,  che  potrebbe  anche 
appartenere  al  sesto  secolo  ^). 

Ciò  per  altro  non  vuol  dire  che  non  sieno  continuate 
anche  nei  secoli  frammezzo.  Appartengono  ad  essi  infatti 
alcune  brevi  poesie  latine  e  greche  -),  che  manifestamente 
dovevano  servire  a  spiegarle  e  ci  aiutano  anche  a  compren- 
dere come  andassero  modificandosi.  Qualcuna  di  siffatte 
poesie  continuò  a  comporsi  nel  secolo  nono  ^]  ;  nel  quale  poi 
fu  copiato  almeno  due  volte  il  Calendario  di  Filocalo  *),  e  dei 


Berlin,  Reimer,  1888  (Jahrbuch  des  k.  d.  Archaologischen  Instituts, 
Ergiinzungsheft,  I).  Delle  altre  tre  rappresentazioni  dello  stesso  secolo, 
due  si  trovavano  in  pavimenti  scoperti  a  Cartagine,  una  in  un  mosaico 
scoperto  a  Roma  ;  ma  di  esse  non  ci  sono  pervenuti  che  frammenti  ; 
di  due  anzi  un  mese  soltanto,  quello  di  Maggio. 

^)  Cfr.  Durano  ,  Mosat'que  de  Sour,  nelle  Annales  archéologiques, 
a.  1863,  p.  278  sgg.  e  a.  1864,  p.  207  sg, 

^)  Tali  i  testi  latini  n'  4,  5,  13  e  forse  anche  qualche  altro  della 
nostra  Appendice,  Parte  II,  e  nella  medesima  anche  i  testi  greci 
n'  2  e  3,  se  pure  quest'ultimi  non  sono  del  secolo  nono. 

^)  P.  es.  il  testo  latino  n.  8  della  Parte  II  della  nostra  Appendice, 
e  probabilmente  anche  qualche  alti'O. 

*)  Al  secolo  nono  risalgono  i  due  archetipi  dei  codici  che  si  con- 
servano del  Cronografo  del  354,  di  cui  fa  parte   il   Calendario.   Del- 


4  LEANDRO    BIADE.NE 

primi  anni  del  quale  ci  sono  pervenute  duo  rappresenta- 
zioni figurate  ^).  E  queste  non  dovevano  allora  essere  rare, 
se  nei  libri  Carolini  scritti  verso  la  fine  del  secolo  ottavo 
si  biasima,  come  poco  conformo  alla  religione,  l'uso  che  se 
ne  fa  ^);  uso  che  non  deve  essersi  interrotto  neppure  nel 
secolo  decimo,  poiché  nel  Calendario  francese  di  S.  Mesmin 
conservato  nella  Vaticana,  e  composto  intorno  al  mille, 
vediamo  già  compiuta  la  trasformazione  medievale  degli 
antichi  tipi  dei  Mesi  in  quegli  altri  che  rimasero  poi  im- 
mutati per  tanto  tempo  e  rispecchiano  la  vita  e  le  occu- 
pazioni caratteristiche  del  colono  in  ciascun  mese. 


l'opera  ritesse  la  storia  esterna  lo  Stkzygowski  nelle  prime  pagine 
della  Memoria  indietro  citata  Die  Calenderhilder  ecc.,  richiaman- 
dosi al  MoMMSEN ,  XJeher  den  Chronographen  vom  J.  354  (Abhandl. 
d.  phil.  Mst.  CI.  d.  kon.  sachs.  G esellschaft  d.  Wissenschaften,  voi.  I, 
547-668,  Lipsia,  1850),  il  quale  ivi  pubblicò  tutta  Fopera  secondo  il 
codice  viennese,  tranne  i  B^isti  Furii  Dionisii  Filocali  da  lui  editi 
più  tardi,  senza  le  immagini  dei  Mesi,  e  illustrati  nel  Corpus  Inscr. 
Lat.,  voi.  I  [1863]  332  sgg.  Qui  possiamo  aggiungere  che  i  Fasti 
furono  da  lui  ripubblicati  nella  seconda  edizione  (a.  1893)  del  primo 
volume  del  Corpus  {Pars  prior,  p.  254  sgg.),  lasciando  da  parte  alcune 
delle  illustrazioni  della  prima  edizione,  e  il  Cronografo  fu  anch'esso 
da  lui  ripubblicato  nel  volume  Chronica  minora  saec.  IV,  V,  VI,  VII, 
Berlino,  1891  (nei  Monum.  Germaniae  hist.). 

')  Una  è  contenuta  nel  cod.  Vat.  greco  1291  e,  secondo  la  descri- 
zione mandatagliene  da  A.  Riegl,  fu  esaminata  dallo  Strzygowski, 
Einc  trapezuntische  Bilderhandschrift  vom  Jahre  1346  {Repertorium 
f.  Kunstwissenschaft,  XIII  [1890],  241-63),  pp.  261-62;  l'altra  è  quella 
edita  di  recente  da  A.  Chroust  (vedi  la  nostra  Appendice,  Parte  II, 
Testi  latini,  n.  8),  della  quale  si  fa  ora  qui  per  la  prima  volta  men- 
zione in  un  discorso  sulla  storia  delle  rappresentazioni  figurate 
dei  Mesi. 

'^)  Lih.  de  iìnag.  Ili,  23:  "  Nonne    divinis    scripturis    eos   contraire 

band  dubium  est,  cum mensibus  singulis  prò  qualitate 

temporum  quid  unusquisque  deferat,  quibusdam  nudas  quibusdam 
etiam  indutas  diversis  vestibus  figuras  dant?  „. 


'  CARMINA    DE    MENs^IBUS  '    DI    BONVESIN   DA    LA    RIVA  5 

E  nei  secoli  XII  e  XIII  o,  sebbene  forse  un  po'  meno, 
anche  nel  XIV  cotesti  tipi  furono  riprodotti  un  numero  di 
volte  veramente  grande,  tanto  da  poter  dire  che  la  rap- 
presentazione simbolica  dei  Mesi  fosse  allora  uno  degli  ar- 
gomenti prediletti  delle  arti  figurative  cosi  in  Oriente  come 
in  Occidente  :  massime  in  Italia,  Francia  e  Inghilterra.  Al 
proposito  nostro  non  è  necessario  né  opportuno  tentare  qui 
l'enumerazione  tutt'altro  che  breve  di  siffatte  rappresenta- 
zioni; bensì  stimiamo  utile  dare  in  nota  ragguaglio  degli 
scritti  che  si  hanno  intorno  alle  medesime,  e  non  soltanto 
per  i  tre  secoli  ora  detti,  ma  per  tutti;  scritti  dovuti  la 
maggior  parte  a  studiosi  stranieri,  e  mal  noti  in  Italia, 
qualcuno  anzi  forse  del  tutto  ignoto  ^).  Qui  ci  contenteremo 


*)  In  ordine  di  tempo  vanno  anzitutto  nominate  le  Annales  archéo- 
logiqnes,  in  cui  si  hanno  parecchie  descrizioni  di  rappresentanze  delle 
Stagioni  e  dei  Mesi  in  monumenti  medievali,  descrizioni  comprese 
negli  articoli  a  cui  rimanda  l'Indice  contenuto  nel  voi.  XXVIII,  alla 
voce  Mesi.  Della  figurazione  dei  quali,  e  specialmente  di  Gennaio, 
ragiona  colla  solita  precisione  ed  erudizione  il  Pipee,  op.  cit.,  II, 
377  sgg.  e  più  brevemente  e  vagamente  il  De  Grimcùard,  op.  cit., 
HI,  499-505. 

Conosciamo  soltanto  indirettamente,  per  le  citazioni  fattene  da 
altri,  la  pubblicazione  di  E.  Aus'm  Weerth,  Der  Mosaikfussboden  in 
S.  Gereon  zu  Coln,  Bonn,  1873  ;  nella  quale  il  pavimento  a  mosaico 
colle  figure  dei  mesi  della  cripta  di  S.  Gereone  di  Colonia,  fattura 
probabilmente  di  artisti  italiani,  è  confrontato  con  altri  pavimenti 
consimili  delle  chiese  d'Italia.  E  neppure  ci  fu  possibile  di  vedere  il 
lavoro  di  J.  Fowler,  On  medioeval  representations  of  the  nionths  and 
seasons,  contenuto  neìVArchaealogia,  XLIV  (London,  1873),  137-224: 
periodico  che,  secondo  le  nostre  informazioni,  non  si  trova  in  alcuna 
delle  biblioteche  pubbliche  italiane.  Sappiamo  per  altro  che  di  questo 
lavoro  fondamentale  si  giovò  Ch.  Boutkll,  Si/mbols  of  the  seasons  and 
ìHonths  represented  in  early  art  Ta.e\VArt  Journal,  N.  S.,  XVI  (London, 
1877),  49-52,  113-16,  177-80,  237-40.  In  questo  lavoro,  pur  esso  fon- 
damentale, l'autore  indica  a  p.  177  le  rappresentazioni  figurate  dei 
Mesi  a  lui  note  (e  sono  molte)  che    si   trovano  nei   manoscritti,  nei 


6  LEANDRO   BIADENE 

di  brevissime   notizie  sommarie.  E  cominceremo    col    dire 
che  le  figm^e  dei  Mesi  erano  a  tutti  famigliari  e  presenti 


libri  a  stampa,  nelle  opere  di  scultura  e  pittura  e  nei  monumenti  di 
qualsiasi  genere.  Poi  raccoglie  le  caratteristiche  dei  singoli  Mesi,  se- 
gnando accanto  ad  ognuna  di  esse  i  monumenti  che  le  corrispon- 
dono. Splendide  incisioni  riproducono  alcune  delle  rappresentazioni 
stesse.  Delle  pubblicazioni  del  Fowler  e  del  Boutell  sembra  non  aver 
avuto  contezza  J.  Rudolf  Rahn  nella  Memoria  intitolata  Die  Glasge- 
mdlde  in  der  Rosette  der  Kathedrale  voti  Lausanne,  Ziirich,  1879  {Mit- 
theilungen  der  Antiqiiarischen  Gesellschaft  in  Ziirich,  XLIll),  che  manca 
alle  biblioteche  italiane  e  abbiamo  potuto  avere,  prima  che  per  via 
commerciale,  dalla  cortesia  dello  stesso  autore  a  mezzo  del  profes- 
sore G.  Pizzo  del  Politecnico  di  Zurigo,  a  cui  rendiamo  pubbliche 
grazie.  È  anche  questo  un  lavoro  egregio,  fatto  con  molta  dottrina  e 
grande  apparato  di  appropriata  erudizione  ;  nel  quale  l'autore  si  pro- 
pone di  illustrare  le  figure  dipinte  sui  vetri  della  rosa  della  catte- 
drale di  Losanna,  che  nella  sua  parte  più  antica  è  del  secolo  XIII. 
Fra  queste  figure  si  trovano  anche  le  Stagioni  e  i  Mesi  (di  cui  ora 
più  non  si  conservano  Febbraio  e  Dicembre).  Il  R.,  senza  pretendere  di 
dare  un  elenco  compiuto  delle  rappresentazioni  dei  Mesi,  ne  enumera 
parecchie  (p.  5  sgg.),  alcune  anzi  non  registrate  dal  Boutell,  così 
d'Italia,  come  di  Francia;  due  soltanto  di  Germania  (p.  7,  n.  5).  L'in- 
tento suo  principale  è  di  mostrare  che  le  varie  figure  della  rosa,  cioè 
a  dire,  oltre  le  Stagioni  e  i  Mesi,  le  personificazioni  dei  quattro  ele- 
menti, con  attorno  il  Sole  e  la  Luna,  il  Giorno  e  la  Notte  e  i  segni 
dello  zodiaco,  e  quelle  dei  fiumi  del  Paradiso  ed  altre,  sono  fra  di 
loro  idealmente  connesse  così  da  formare  un  sol  tutto,  uri  imago  mundi 
(p.  8  sgg.  e  p.  27),  che  trova  riscontro  in  altri  monumenti,  dove  i 
Mesi  stanno  insieme  colle  immagini  dei  Vizi  e  delle  Virtù.  Di  qui  il 
secondo  titolo  della  Memoria:  Ein  Bild  der  Welt  aus  dem  XlIIJahr- 
hundert.  Le  figure  dei  Mesi  non  servivano  dunque,  egli  dice ,  alla 
semplice  illustrazione  del  calendario  (p.  8),  ma  sono  una  parte  del- 
l'enciclopedia medievale  figurata.  ì^eW Appendice  sono  indicate  per 
ogni  mese  le  rappresentazioni  uguali  a  quelle  della  rosa  di  Losanna 
in  altri  monumenti.  Alla  Memoria  stanno  unite  nove  tavole,  di  cui 
le  due  prime  riproducono  le  immagini  dei  Mesi,  la  terza  quella  delle 
Stagioni,  la  nona  l'intera  rosa.  Per  ordine  di  tempo  viene  dopo  questo 
del  R.  lo  studio  di  A.  D'Ancona,  /  dodici  mesi  dell'anno  nella  tradi- 
zione popolare  (Archivio per  lo  studio  delle  tradizioni  popolari,  Il  [1883], 
239-70).  In  esso  dopo  aver  accennato  al  testo  /  dodici  mesi  allora  di 


CARMINA    DE   MENSIBUS      DI    BONVESIN    DA    LA    RIVA  7 

come  quelle  che  solevano  adornare  il  monumento  massimo 
della  vita    medievale:  la  Chiesa.  All'uomo  del  medio  evo 


corto  pubblicato  da  V.  Simoncelli  nel  Preludio,  VII,  n.  5  (vedi  la 
nostra  Appendice,  Parte  IP,  Testi  ital.,  n.  9),  soggiunge  (p.  238): 
"  A  noi  non  è  parso  superfluo  raffi'ontare  questo  testo  popolare  con 
altri  documenti  di  vario  genere,  più  o  meno  popolari,  e  così  della 
parola  come  dell'arte  rappresentativa.  Senza  nutrir  la  fiducia  di  aver 
raccolto  quanto  si  potrebbe,  vogliamo  intanto  metter  insieme  alcuni 
fatti  che  a  questo  si  riconnettono,  e  stabilire  così  un  primo  fonda- 
mento a  ricerche  su  siffatto  soggetto  „.  Queste  ultime  parole  dicono 
di  per  sé  sole  che  gli  rimasero  ignoti  i  lavori  dianzi  menzionati  del 
Fowler,  del  Boutell,  del  Rahn.  Egli  infatti  indicando  i  monumenti 
italiani,  si  richiama  fra  le  pubblicazioni  straniere  soltanto  a  quella 
dell' Aus'm  Weerth;  la  quale,  come  abbiamo  detto,  si  restringe  ai 
mosaici  dei  pavimenti  delle  chiese.  Quanto  agli  altri  monumenti,  tutti 
italiani,  i  ragguaglj  del  D'A.  sono  dovuti  a  descrizioni  staccate  già  a 
stampa  o  privatamente  comunicategli.  Ne  indica  così  un  buon  nu- 
mero, tutti  per  altro,  o  quasi  tutti,  già  compresi  negli  elenchi  dei 
lavori  stranieri  predetti.  Ad  ogni  modo,  se  egli  non  fu  il  primo  a 
raccogliere  le  indicazioni  e  descrizioni  delle  rappresentanze  dei  Mesi 
nelle  arti  figurative,  fu  invece  bene  il  primo  a  rassegnare  i  testi 
poetici  italiani  sui  Mesi,  dando  di  ciascuno  di  essi  le  debite  notizie. 
E  la  sua  rassegna  si  può  dire  quasi  compiuta  quando  si  tenga  conto 
degli  altri  testi  da  lui  indicati  nello  scritto  sui  Calendarj  monumen- 
tali dell'età  di  mezzo,  il  quale  riassume  e  rifonde  la  precedente  Me- 
moria accomodandola  all'indole  del  periodico  in  cui  esso  comparve  e 
che  si  dirige  a  un  più  largo  pubblico  di  lettori  (Suppl.  àéìV Illustra- 
zione italiana,  Natale  e  Capo  d'anno  1883-84). 

Poco  appresso,  nel  1884,  il  Lecot  de  la  Marche  in  un  articolo 
della  Gazette  des  Beaux-Arts,  XXX,  363  sgg.  su  La  miniature  en  France 
du  XIII^  au  XVI^  siècle  parlava  delle  vignette  dei  Mesi  nei  libri  di 
Ore,  e  dal  loro  confronto  raccoglieva  le  caratteristiche  più  usuali  di 
ciascun  Mese.  Quest'articolo  passava  poi  nel  libro  dello  stesso  autore 
Les  Manuscrits  et  la  Miniature  en  France  (Biblioth.  de  V enseignement 
des  Beaux-Arts),  dove  la  descrizione  predetta  dei  tipi  dei  Mesi  si  trova 
a  pag.  220  sgg.  Nel  1886  usciva  a  Parigi  (editori  Frinzine  et  C"")  il 
magnifico  volume  in-folio  di  V.  Champier,  Anciens  almanachs  illustrés 
con  cinquanta  tavole.  A  dare  un'idea  della  contenenza  del  medesimo 
gioverà  riportarne,  poiché  anch'esso  dev'essere  poco  noto  in  Italia,  il 
breve  Indice:  "  I.  Aper9u  general  de  l'histoire  des  calendriers [(p.  9). 


LEANDRO    BIADENE 


che  s'accostava  al  tempio  o  entrava  in  esso,  si  affacciavano 
cotesto  figure  in  rilievo  marmoreo  dall'archivolto  o  dal  tim- 


—  IL  Les  calendriei's  illustrés  des  livres  d'Heures  (p.  21).  —  III.  Les 
almanachs  ou  "  compost  „  des  bergers  (p.  36).  —  IV.  Les  Almanachs 
littéraires,  prophétiques,  satiriques,  politiques  etc.  du  XV®  au  XIX* 
siede  (p.  44).  —  V.  Les  almanachs-estainpes  du  XVP  au  XIX'  siede 
(p.  66)  ,.  Infine  c'è  la  Tavola  degli  artisti  disegnatori  e  incisori  degli 
almanacchi  citati  nel  volume  (p.  137).  Contiene  anche  un  catalogo  dei 
principali  libri-almanacchi  dal  1685  al  1823  (p.  52  sgg.)  e  un  altro 
dei  principali  almanacchi  illustrati  francesi  conservati  in  alcune  col- 
lezioni pubbliche  e  private  (p.  85  sgg.).  La  pubblicazione  dello  Cham- 
pier  si  riferisce,  come  si  vede,  soltanto  alle  illustrazioni  che  si  trovano 
in  libri  manoscritti  e  stampati  francesi.  Tuttavia  qua  e  là  non  manca 
qualche  accenno  anche  a  monumenti  d'altro  genere.  Giova  per  la 
storia  della  rappresentazione  dei  Mesi  dal  secolo  XIV  in  poi.  Degli 
scritti  sopra  menzionati  è  qui  citato  soltanto  quello  del  Lecoy  de  la 
ìlarohe,  da  cui  a  pag.  27  sono  riportate  le  caratteristiche  dei  Mesi. 

Del  1887  è  il  volumetto  già  citato  di  E.  Mììntz,  Études  icotiogra- 
j)hiques  et  archéologiques  sur  le  moyen  age  (Petite  Bibliothèque  d'Art  et 
d'Archeologie),  Paris,  Leroux,  il  cui  primo  capitolo  è  intitolato  Les 
pavements  historiés  du  IV"  au  XIP  siede,  e  riproduce  un  articolo  già 
da  lui  pubblicato  fino  dal  1876  nella  Revue  archéoL,  XXXII,  400  sgg. 

Carattere  scientifico  hanno  tre  Memorie  di  J.  Strzygowski.  Nella 
prima  in  ordine  di  tempo.  Die  Monatscyclen  der  hyzantinischen  Kunst 
{Repertorium  filr  Kunstwissenschaft,  XI  [1888],  23-46),  confronta  tre 
cicli  dei  Mesi  rappresentati  da  tre  miniature  in  codici  greci  dei  se- 
coli XI  e  XII  colla  descrizione  delle  immagini  dei  Mesi  lasciataci 
dallo  scrittore  greco  Eustazio  del  secolo  XII.  Il  risultato  del  confronto 
è,  che  al  tempo  in  cui  risalgono  i  versi  e  le  figure,  queste  erano  già 
tradizionalmente  fissate.  Inoltre,  che  sullo  scorcio  del  secolo  XII  fu 
introdotta  una  mutazione,  per  la  quale,  in  seguito  a  influsso  occi- 
dentale, a  uno  dei  Mesi,  ordinariamente  Gennaio,  fu  attribuito  lo 
*  sventramento  del  porco  ,.  Dopo  aver  detto  che  tutti  quattro  i  cicli 
risalgono  a  un  sol  tipo  (p.  48),  si  accenna  anche  a  quanto  è  poi 
dimostrato  nella  Memoria  seguente,  che  esso  non  è  se  non  una  evolu- 
zione di  quello  antico  romano-cristiano. 

Questa  breve  Memoria  e  riassunta  a  p.  52  dell'altra  molto  piìi  estesa 
e  per  noi  piìi  importante,  che  abbiamo  già  indietro  avuto  occasione 
di  citare  :  Die  Calenderhilder,  ecc.  L'autore  dopo  aver  ragguagliato 
sulla  storia  estema  del  Calendario  costantiniano  del   354  e    special- 


'  CARMINA   DE    MENSIBLS  '   DI    BONVESIN   DA    LA   RIVA  9 

pano  0  dagli  stipiti    della    porta,    o    dipinte   nel    mosaico 
del  pavimento,  o  dipinte  sui  vetri  della  rosa,  o  scolpite  sul 


mente  sui  maiioscritti  di  esso,  ne  pubblica  in  trenta  tavole  le  figure 
e  le  illustra  con  assai  ordine.  Fra  queste  si  trovano  anche  quelle  dei 
Mesi,  sulle  quali  si  trattiene  a  lungo  (pp.  44-90  e  103-4),  confrontan- 
dole con  quelle  poche  che  si  conoscono  ad  esse  contemporanee  e  con 
molte  di  quelle  medievali,  restringendosi  per  questa  parte  soltanto 
ai  monumenti  italiani  (pp.  52-53).  Sono  pochi  più  di  quelli  indicati 
dal  d'Ancona,  il  cui  lavoro  gli  rimase  sconosciuto.  Dei  lavori  degli 
altri  autori  indietro  citati  nomina  soltanto  quello  dell'Aus'm  Weerth 
(p.52,  n.  65)  e  quello  dello  Champier  (p.  69,  n.  87).  Le  conclusioni 
principali  a  cui  giunge  sono  :  che  le  figure  di  Filocalo  corrispondono 
ai  tipi  per  esse  comuni  al  suo  tempo  in  Roma,  e  i  versi  che  le  ac- 
compagnano e  le  illustrano  erano  fatti  per  l'archetipo  del  Calendario. 
E  inoltre:  che  il  ciclo  bizantino  è  strettamente  connesso  con  quello 
romano-cristiano,  in  fondo  anzi  è  il  medesimo  (p.  88);  che  il  ciclo 
medievale  italiano  non  ha  nulla  di  comune  ne  con  l'uno  ne  con  l'altro 
(p.  89);  e  che  i  versi  dichiarativi  delle  figure  dei  Mesi  nel  Calendario 
di  Filocalo  risalgono  al  primo  o  secondo  secolo  dopo  Cristo  (p.  103). 
Della  terza  Memoria  dello  Strzygowski,  Eine  trapezuntische  Bilder- 
handschrift,  ci  è  già  accaduto  di  far  menzione  più  indietro.  In  essa 
l'A.  a  pp.  245-46  enumera  tredici  cicli  orientali  dei  Mesi  cominciando 
da  quello  di  Filocalo,  che  potè  mettere  in  testa  dell'elenco,  essendo, 
come  già  si  disse,  il  fondamento  anche  del  calendario  bizantino.  A 
pp.  261-62  esamina  la  rappresentazione  dei  Mesi  dell'anno  814  con- 
tenuta nel  Cod.  Vat.  greco  1291,  e  che  egli  non  conosceva  quando 
scrisse  la  sua  prima  Memoria  Die  Monatscyclen  ecc.,  e  conchiude  a 
p.  262  che  essa  rappresentazione  corrisponde  ai  tipi  bizantini  poste- 
riori e  già  noti,  ma  non  reca  ancora  l'impronta  stabile  dei  medesimi. 
La  descrizione  di  questo  ciclo  greco  deir814  fu  comunicata  allo  St. 
da  A.  RiEGL,  che  di  essa  aveva  già  toccato  a  p.  70  del  suo  lavoro 
Die  mittelalterliche  Kalenderillustration  [Mitthcilungen  d.  Institnts  f. 
osterr.  Geschichtsforschung,  X  [1889],  1-74).  È  questo  il  lavoro  più  com- 
piuto e  meglio  condotto  che  si  abbia  intorno  all'illustrazione  medie- 
vale del  Calendario,  quantunque  s'arresti  a  poco  dopo  il  mille,  quando, 
come  l'autore  con  finezza  di  osservazioni  giunge  a  dimostrare,  aveva 
già  finito  di  compiersi  l'evoluzione  degli  antichi  tipi  dei  Mesi  in  quegli 
altri  che  rimasero  poi  stabili  negli  altri  secoli  del  medioevo  dopo  il 
mille.  Come  si  vede,  egli  non  s'accorda  collo  Strzygowski  nel  tenere 
che  questi  ultimi  tipi  non  abbiano  nulla  di    comune   coi   primi:   gli 


10  LEANDRO   BIADENE 

fonte  battesimale  o  sui  capitelli  dei  pilastri.    Per  restrin- 
gerci all'Italia,  e  anche  qui  citando  soltanto  qualche  esempio, 


uni  invece  si  vennero  gradatamente  trasformando  negli  altri.  È  questa 
la  conclusione  principale  della  dissertazione.  Nella  quale,  dopo  alcune 
osservazioni  sul  Calendario  in  genere  (pp.  1-5),  l'A.  discorre  di  esso 
presso  i  greci  (pp.  6-13)  e  presso  i  romani  (pp.  14-27),  intrattenen- 
dosi abbastanza  a  lungo  su  quello  di  Filocalo  (pp.  19-27),  per  passare 
quindi  al  medio  evo  (pp.  27  sgg.)  e  specialmente  all'esame  delle  figure 
dei  Mesi  nel  Martirologio  di  Wandalberto  quale  si  ha  nel  Cod.  Vat. 
Rog.  438  (pp.  40-51),  e  a  quelle  del  Calendario  di  S'  Mesmin  (pp.  51-61). 
Degli  altri  autori  sopra  menzionati  cita  il  Boutell  (p.  57)  e  FAus'm 
Weerth  (p.  68)  e  lo  scritto  dello  Strzygowski,  Die  Monatscyclen  ecc. 
(pp.  45  n.  e  57  n.).  Dell'opera  di  questo  stesso  autore,  Die  Calender- 
hilder,  uscita  mentre  il  Riegl  attendeva  al  suo  lavoro,  dà  il  titolo 
preciso  in  fine  del  medesimo  (p.  74  n.),  dicendo  di  non  dover  per 
essa  modificare  in  nulla  le  conclusioni  a  cui  giunse. 

Del  1892  è  lo  scritto  innanzi  citato  di  A.  Venturi,  La  Primavera 
nelle  arti  rappresentative,  nel  quale  egli  ha  l'opportunità  di  discorrere, 
oltre  che  delle  Stagioni,  anche  dei  Mesi.  Attingendo  alle  fonti  più 
note  senza  citarle,  che  non  era  il  caso,  fa,  come  già  indietro  si  disse, 
un  rapido  e  geniale  riassunto  di  quanto  era  già  stato  detto  da  altri 
intorno  agli  argomenti  di  cui  discorre  e  di  quanto  aveva  egli  stesso 
direttamente  osservato,  riassunto  animato  da  vivo  sentimento  dell'arte. 

È  bene  rammentare  qui  anche  la  Memoria  di  J.  von  Schlossek, 
Criusto's  Fresken  in  Padua  und  die  Vorlàufer  der  Stanza  della  Segna- 
tura (aus  dem  XVll  Bande  des  "  Jahrbuches  der  Kunsthistorischen 
Sammlungen  der  allerhochsten  Kaiserhauses  „),  Vienna,  1866,  in  grazia 
del  cap.  Il,  nel  quale  si  parla  delle  rappresentazioni  enciclopediche 
figurate  nei  monumenti  medievali,  di  cui  diede  per  il  primo  la  spie- 
gazione il  Didron  e  fra  cui  si  trovano  anche  i  Mesi. 

Il  medesimo  concetto  dell'enciclopedia  medievale  rappresentata  nei 
monumenti  e  specialmente  nelle  chiese,  h  accolto  e  svolto  nel  bel 
libro  di  E.  Male,  L'art  religieux  di(  XIII"  sihle  en  France.  Étude  sur 
Viconographie  du  moyen  àge,  Paris,  Leroux,  1898,  libro  che,  sebbene 
recente,  non  si  trova  più  in  commercio  e  io  potei  avere  dalla  cortesia 
di  Paolo  D'Ancona.  Il  M.,  come  avverte  nella  prefazione,  si  propose 
di  coordinare  i  lavori  sparsi  che  già  s'avevano  sull'argomento,  di 
dare  forma  sistematica  alle  ricerche  altrui  e,  potendo,  di  compierle. 
Delle  rappresentazioni  dei  Mesi,  del  loro  significato,  dei  monumenti 
francesi  che  le  conservano  si  ragiona  per  alcune  pagine,  cominciando 


'CARMINA   DE    MENSIBUS  '    DI    BONVESIN   DA    LA    RIVA  11 

esse  compaiono  sui  pavimenti  dello  cattedrali  di  Aosta  e 
di  Otranto,  della  chiesa  di  S.  Michele  di  Pavia,  di  S.  Pro- 
spero Maggiore  in  Reggio,  di  S.  Giovanni  Evangelista  di 
Ravenna  e  nella  cripta  di  S.  Savino  di  Piacenza;  sulla 
porta  di  S.  Marco  di  Venezia,  del  Battistero  di  Pisa,  del 
duomo  di  Modena,  di  S.  Zeno  di  Verona,  e  sulla  facciata 
del  duomo  di  Cremona  e  di  S.  Martino  di  Lucca. 

Se  d'ordinario  i  Mesi  erano  effigiati  nelle  chiese,  non  è 
da  dire  che  qualche  volta  non  fossero  scelti  ad  adornare 
anche  qualche  altro  pubblico  monumento;  così  essi  abbel- 
liscono la  fontana  di  Perugia  eretta  nel  1277  da  Nicola 
Pisano.  E,  oltre  che  nei  monumenti,  ci  si  presentano  nelle 
miniature  dei  codici.  Cosi  negli  uni  come  nelle  altre  le  loro 
figure  sono  da  prima  poco  finamente  lavorate,  alcune  volte 
anzi  addirittura  rozze,  e  attraggono,  se  mai,  soltanto  per 
l'ingenuità.  Questo  in  generale,  s'intende,  che  abbiamo  già 


da  pag.  89.  A  pag.  94  sgg.  sono  descritti  i  tipi  dei  Mesi  prendendo 
a  modello  quelli  della  cattedrale  di  Amiens. 

Sebbene  recente,  è  nota,  almeno  di  nome,  anche  a  coloro  che  non 
si  occupano  ex  professo  di  storia  dell'arte,  la  Geschichte  der  Christ- 
lichen  Kimst  di  F.  X.  Kraus,  1897.  In  essa,  colla  brevità  richiesta 
dalle  proporzioni  dell'opera,  ma  con  precisione,  si  parla  delle  figure 
delle  Stagioni  (1,  205-6)  e  dei  Mesi  (II,  415-16)  e  del  Calendario  di 
Filocalo  (1,  448-50). 

L'articolo  sull'iconografia  dei  Mesi  nel  Dizionario  del  Lakocsse  con- 
tiene l'indicazione  di  incisioni  del  Cinquecento  e  pitture  moderne 
non  ricordate  nei  libri  e  negli  scritti  precedenti. 

Chiuderemo  finalmente  questa  lunga  nota,  rifacendoci  indietro  nel 
tempo,  col  ricordare  che  nella  Selva  di  varia  lettione  di  Pietro  Messia 
rinovata  sino  l'anno  1682,  Venezia,  1682,  il  cap.  XIV  della  Parte  quinta 
è  intitolato  (p.  508):  "  Come  si  dipingevano  anticamente,  et  hoggi  an- 
cora i  dodeci  mesi  dell'anno,  e  le  significationi,  et  misterij  delle  tali 
pitture,  e  parimente  quella  dell'anno  ,.  Sono  descritti  i  comuni  tipi 
medievali.  La  prima  edizione  originale  spagnuola  della  Silva  de  varia 
lecion  di  Pier  Messia  uscì  a  Siviglia  nel  1542. 


12  LEANDRO   BIADENE 

teste  rammentato  una  notevole  eccezione,  e  un'altra  anche 
più  notevole,  a  cui  abbiamo  pure  accennato  senza  rilevarla, 
è  quella  della  porta  di  S.  Marco  di  Venezia.  A  cominciare 
invece  dal  principio  del  sec.  XV,  ciò  che  innanzi  accadeva 
di  rado,  avviene  abbastanza  spesso:  i  migliori  artisti  si 
compiacciono  di  mostrare  la  loro  valentia  nella  rappresen- 
tazione dei  Mesi,  Specialmente  quelli  della  scuola  fiamminga 
e  specialmente  nei  libri  di  Ore  ;  sui  quali  l'occhio  si  allieta 
nella  contemplazione  di  dodici  o  ventiquattro  quadretti  in- 
spirati dall'aspetto  vario  della  natura  e  dalle  varie  occu- 
pazioni degli  uomini  in  ciascun  mese.  Il  quale  non  è  rap- 
presentato, come  in  addietro,  da  una  sola  figura  o  da  due 
al  pili,  ma  da  una  scena  della  vita  campestre  o  della  vita 
signorile.  Quindi  alle  ordinarie  e  rudi  fatiche  del  campa- 
gnuolo  vediamo  alternarsi  le  caccie,  i  banchetti,  i  sontuosi 
sposalizj,  le  danze,  i  sollazzi  insomma  e  gli  spassi  dei  ricchi. 
Appartengono  ai  primi  anni  del  secolo  XV  le  Belles  Heures 
di  Chantilly,  vero  capolavoro  eseguito  da  Paolo  di  Limburgo 
e  dai  suoi  fratelli  per  il  Duca  di  Berry  ;  è  della  fine  dello 
stesso  secolo  il  celebre  Breviario  Grimani  custodito  con 
gelosissima  cura  dalla  Repubblica  di  Venezia  ed  ora  esposto 
all'ammirazione  dei  visitatori  della  Marciana,  nel  quale  i 
Mesi  furono  dipinti  da  Giovanni  Memling  ^)  ;  sono  del  se- 
colo seguente  le  ben  note  Heures  di  Anna  di  Bretagna  e 
le  Heures  de  Notre-Dame  di  Hennessy,  nelle  cui  miniature,^ 
e  fra  esse  quelle  dei  Mesi,  si  riconosce  la  mano  di  Simone 


*)  Per  la  storia  del  Breviario  e  la  descrizione  particolareg'giata  delle 
sue  miniature,  vedasi  il  Fac-similc  delle  miniature  contenute  nel  Bre- 
viario Grimani eseguilo  in  fotografìa  da  Antonio    Perini,    con 

illustrazioni  di  Francksco  Zanotto,  Venezia,  1862. 


'  CARMINA    DE    MENSIBUS  '    DI   BONVESIN    DA    LA   RIVA  13 

Bening  ^).  E  anche  in  Italia  artisti  egregi  riprendevano  a 
trattare  lo  stesso  tema:  si  attribuiscono  a  Luca  della  Robbia 
dodici  medaglioni  in  maiolica  corrispondenti  ai  dodici  Mesi, 
che  si  conservano  nel  museo  di  South  Kensington  ^),  e 
Giulio  Romano  sul  palco  d'un'anticamera  del  palazzo  del  T 
a  Mantova  dipinse  "  le  storie  de'  dodici  Mesi  dell'anno,  e 
quello  che  in  ciascuno  d'essi  fanno  l'arti  più  dagli  uomini 
esercitate;  la  quale  pittura  non  è  meno  capricciosa  e  di 
bella  invenzione  e  dilettevole,  che  fatta  con  giudizio  e  dili- 
genza ^)  „ .  E  i  lavori  rurali  dei  singoli  Mesi,  per  citare 
ancora  qualche  ben  noto  esempio,  si  possono  vedere  nel 
salone  di  Padova  e  a  Ferrara  nella  sala  della  delizia  estense, 
detta  di  Schifanoia.  Nella  quale,  ai  soliti  tipi  medievali 
s'aggiungono  a  rappresentare  le  Stagioni  ed  i  Mesi  le  divi- 
nità mitologiche  che  ne  reggono  il  corso.  È  la  Rinascenza 
che  si  afferma  pure  in  questa  parte.  Similmente  nel  museo 
di  Madrid  si  ammirano  dodici  quadri  della  maniera  di  Mar- 
tino de  Vos,  le  cui  pitture  dei  Mesi  contano  fra  le  più 
pregiate  del  secolo  XVI  e  servirono  di  modello  a  più  d'un 
imitatore  ;  nei  quali  quadri  Gennaio  è  simboleggiato  per 
mezzo  del  Trionfo  di  Giunone,  Febbraio  da  quello  di  Net- 
tuno, Marzo  da  quello  di  Minerva  e  cosi  via  gli  altri  Mesi 
da  altre  divinità.  E,  o  secondo  la  concezione  medievale,  o 
forse  più  spesso  secondo  quella  che  potremmo  dire  umani- 
stica, 0  qualche   volta   secondo  qualche    nuova  invenzione 


')  Su  di  esse  vedasi  J.  Destrée,  Les  Heures  de  Notre-Dame  à  Bru- 
xelles, Bruxelles,  Claesen,  1896;  p.  28  sgg. 

^)  Segnati  del  n.  23  nell'elenco  delle  rappresentanze  dei  Mesi  dato 
dal  Boutell,  op.  cit.,  p.  177  sgg. 

^)  G.  Milanesi,  Le  opere  di  Giorgio  Vasari,  Firenze,  Sansoni,  voi.  V 
(1880),  p.  540. 


14  LEANDRO   BIADENE 

individuale,  i  Mesi  continuarono  a  essere  scelti,  anche  nei 
secoli  seguenti,  come  figure  decorative  di  pareti,  di  vetri, 
tappeti,  oggetti  di  oreficeria,  stoviglie  e  altri  utensili  do- 
mestici ^),  e  da  ultimo  delle  cartoline  postali  illustrate.  La 
rappresentazione  dunque  delle  Stagioni  e  dei  Mesi  si  è  per- 
petuata nelle  arti  figurative  attraverso  i  secoli  dall'anti- 
chità fino  ai  giorni  nostri. 

E  come  nelle  arti  figurative,  così  anche  nella  letteratura 
e  specialmente  nella  poesia  popolare.  Già  in  un  breve  testo 
greco  in  prosa,  in  una  favola  esopica,  ci  compariscono  in- 
nanzi l'Inverno  e  la  Primavera  come  persone  che  vengono 
a  diverbio  tra  loro,  intendendo  ciascuno  dei  due  di  mostrare 
di  essere  superiore  all'altro  ^).  Si  oda  :  "  L'Inverno  scher- 
niva la  Primavera  e  le  muoveva  rimprovero  perchè,  ap- 
pena apparsa,  nessuno  sa  star  quieto,  ma  alcuni,  a  cui 
piaccia  cogliere  fiori  e  gigli  e  qualche  specie  di  rose  e  vagar 
sopra  di  essi  qua  e  là  cogli  occhi  ed  intrecciarsene  i  capelli, 
vanno  per  i  prati  e  per  i  boschi;  altri  salendo  su  di  una 
nave  e  varcando  il  mare,  va,  se  gli  riesce,  fra  altre  genti,  e 
nessuno  si  dà  più  pensiero  dei  venti  e  delle  copiose  pioggie. 
—  "  Io,  diceva,  somiglio  ad  un  signore  e  tiranno,  e  non  verso 
il  cielo,  ma  in  giù  e  verso  la  terra  comando  che  si  volga 
lo  sguardo  e  che  si  tremi,  e  si  può  ben  passare  piacevol- 
mente la  giornata  quando  costringo  [a  rimanere]  a  casa  „. 


*)  Per  quello  che  si  riferisce  alla  Francia,  alcune  indicazioni  di 
rappresentanze  dei  Mesi,  anche  per  i  secoli  XVII  e  XVIII,  si  possono 
trovare  raccolte  nella  citata  opera  dello  Champier,  p.  71.  Vedasi 
inoltre,  anche  per  le  altre  nazioni,  l'articolo  già  citato  sui  Mesi  nel 
Larousse. 

^)  Halm,  Fahulae  Aesopicae  collectae,  Lipsia,  Teubner,  1860,  p.  199, 
n.  414. 


'  CARMINA   DE    MENSIBUS  '    DI   BONVESIN    DA    LA    RIVA  15 

—  "  Per  questo  appunto,  rispose  la  Primavera,  gli  uomini  si 
libererebbero  volentieri  di  te.  Di  me  invece  pare  ad  essi 
che  sia  bello  persino  il  nome,  —  ed  è  veramente,  per  Giove, 
il  migliore  dei  nomi,  —  così  che  e  mi  ricordano  quando  non 
ci  sono  e,  quando  riappajo,  ne  gioiscono  „.  Come  si  vede, 
qui  la  disputa  è  appena  accennata;  i  due  contendenti  s'ac- 
contentano di  parlare  brevemente  una  volta  per  uno  ;  non  si 
ha  qui  l'alterco  ben  vivo  e  continuato,  botta  e  risposta,  il 
vero  e  proprio  contrasto.  Per  trovare  il  quale  tra  le  due 
Stagioni  converrà  discendere  di  alcuni  secoli  nel  medio  evo, 
al  Con-flictus  Veris  et  Hiemis  composto  alla  fine  dell'ottavo 
0  al  principio  del  nono  secolo  e  attribuito  a  piìi  d'un  autore, 
a  Beda,  a  Milone  di  S.  Amand,  a  Dodone  discepolo  di  Al- 
cuino,  ad  Alcuino  stesso  ^).  Qui  nello  stampo  dell'ecloga  antica, 
in  55  esametri,  si  ha  il  vero  contrasto  delle  due  Stagioni. 
La  Primavera  coronata  di  fiori  e  l'Inverno  coi  capelli  irsuti 
si  rimandano  l'uno  all'altro  ogni  volta  tre  versi  2),  nei  quali 
la  prima  invoca  la  venuta  del  cuculo  e  ne  canta  le  lodi, 
l'altro  invece  vorrebbe  che  esso  stesse  lontano,  non  essendo, 
a  parer  suo,  se  non  apportatore  di  malanni  e  di  danni; 
quel  cuculo  che  nella  poesia  dei  popoli  di  razza  germanica, 
e  specialmente  dell'Inghilterra,  è  il  nunzio  della  Primavera. 
Dafni  e  Palemone  e  i  pastori  tutti  presenti  alla  contesa  a 
un  certo  punto  la  troncano  essi,  non  lasciando  più  parlare 
l'Inverno  : 

Desine  plura,  Hiems,  rerum  tu  prodigus  atros, 
Et  veniat  cuculus,  pastorum  dulcis  amicus. 


')  Quali  siano  le  più  recenti  e  migliori  edizioni  del  Conflictus  e 
quali  le  opere  in  cui  di  esso  meglio  si  discorre,  si  può  vedere  nella 
nostra  Appendice,  Parte  I,  dove  esso  ha  il  n.  1  fra  i  Testi  latini. 

^)  Il  vero  alterco  è  soltanto  di  33  versi,  dal  v.  10  al  v.  42. 


16  LEANDRO    BIAUENE 

E  continuano  inneggiando  al  cuculo  e  alla  Primavera  fonte 
di  letizia  e  di  vita.  Il  contrasto  si  dibatte  fra  l'Inverno  e 
la  Primavera,  ma  giova  avvertire  che  a  un  certo  punto 
questa  parla  anche  a  nome  dell'Estate  ^). 

E  fra  l'Inverno  e  l'Estate,  che  ne  è  il  vero  contrapposto, 
sono  quasi  tutti  i  contrasti  fra  due  Stagioni  composti  nelle 
lingue  volgari  e  che  in  generale  si  possono  considerare 
come  una  lontana  imitazione  del  Confiìcius,  di  cui  ripren- 
dono e  svolgono  gli  argomenti.  Ne  conosciamo  in  italiano, 
in  francese,  in  portoghese,  in  inglese,  in  tedesco.  Il  numero 
di  quelli  che  ci  sono  pervenuti  è,  se  si  faccia  eccezione  dei 
tedeschi,  piccolo  ;  a  noi  qui  preme  sopratutto  notare  che 
alcuni  risalgono  ai  secoli  XIII  e  XIV.  Del  XIII  è  un  testo 
in  antico  genovese.  Di  quasi  tutti  diede  precise  indicazioni 
bibliografiche  ed  espose  con  esattezza  l'argomento,  facendovi 
sopra  ottime  osservazioni,  L.  Uhland  nella  mirabile  disser- 
tazione intitolata  appunto  Estate  ed  Inverno  -),  che  sembra 
sia  rimasta  fin  qui  del  tutto  ignota  in  Italia.  Nella  quale 
dissertazione,  colla  scorta  della  Mitologia  tedesca  del  Grimm, 
l'autore  discorre  anche  di  certi  usi  e  costumi  dei  popoli 
nordici  che  hanno  la  loro  origine  nel  concetto  del  contrasto 
fra  le  due  Stagioni  e  specialmente  in  quello  della  vittoria 
dell'Estate  sull'Inverno  ^),   concetto  che,  com'egli   ben  di- 

*)  Dice  a  un  certo  punto  la  Primavera  (vv.  34-36): 

Quis  tibi,  tarda  Hiems,  semper  dormire  parata, 
Divitias  cumulat  gazas  vel  congregat  ullas, 
Si  ver  vel  aestas  ante  tibi  nulla  laborant? 
2)  Sommer  und   Winter   in    Uiilands    Schriften   zur    Geschichte    der 
Dichtung  und  Suge,  voi.  Ili,  Stuttgart,  1866,  pp.  17-39. 

'^)  Ha  quindi  l'opportunità  di  parlare  anche  delle  feste  di  maggio  ; 
intorno  alle  quali,  specialmente  per  ciò  che  concerne  l'Italia,  raccoglie 
e  ordina  molte  notizie  il  D'Ancoka,  Origini  del  Teatro  italiano^,  Torino, 
Loescher,  1891;  voi.  II,  245  sgg. 


'CARMINA   DE    MENSIBUS  '   DI   BONVESIN   DA    LA    RIVA  17 

I nostra,  ha  la  sua  manifestazione  anche  nella  poesia  e  mi- 
-ilogia  nordica,  come  altri  recentemente  intese  di  mo- 
strare che  esso  informa  pure  gran  parte  dei  miti  ellenici  ^). 
Alle  indicazioni  dell'Uhland  non  seppe  fare  che  alcune 
aggiunte  di  testi  tedeschi  moderni  H,  Jantzen  -)  ;  il  quale 
discorrendo  dei  contrasti  in  generale  trascura  affatto  la  let- 
teratura italiana.  Non  conosceva  di  certo  l'ottimo  capitolo 
che  su  di  essi  scrisse  il  D'Ancona  ^). 

Analogamente  alle  Stagioni  i  Mesi.  Abbiamo  già  indietro 
avuto  l'opportunità  di  dire  che  alcune  brevi  poesie  latine 
e  greche  anteriori  al  secolo  decimo  dovettero  essere  com- 
poste a  illustrazione  delle  figure  dei  Mesi  :  certo  a  tal  fine 
servono  i  versi  che  accompagnano  quelle  del  Calendario  di 
Filocalo.  Ognuno  agevolmente  capisce  come  tali  versi  doves- 
sero assumere  di  leggeri  la  forma  di  veri  e  proprj  vanti, 
come  si  vede  essere  avvenuto  dei  versi  illustrativi  di  altre 
figure  di  cui  si  compiaceva  l'arte  medievale.  E  siffatti  vanti 
e  componimenti  in  genere  sui  Mesi  devono  essere  stati  ben 
comuni  già  nei  secoli  XIII  e  XIV.  A  persuadersene  basta 
por  mente  a  quanto  segue.  Jacopo  da  Acqui,  che  scrisse  la 
sua  Cronaca  nella  prima  metà  del  secolo  XIV,  alla  fine  del 
racconto  di  certa  avventura  riferita  a  Pier  della  Vigna, 
narra  che  questi,  persuasosi  non  averlo  la  moglie  tradito, 
com'egli  sospettava,  coll'imperatore  Federico  II,  fa  la  pace 
con  lei  e  "  cantat   prò    gaudio    metrice   de   XII  mensibus 


')  H.  WoLF,  Mythuft,  Sage,  Mdrchen  [Sommer  wtd  Winter),  Dussel- 
dorf, 1896  (Beilaye  z.  Osterprogr.  d.  Realgymn.  zu  Dusseldorf). 

^)  Geschichte  des  deutschen  Streitgedichtes  im  Mittelalter ,  Breslau,  1896 
{Germanistische  Abhandlungeti,  XIII). 

3)  Origini  del  Teatro^,  I,  547-62. 

StiulJ  di  filolorjin  romanza,  IX.  2 


18  LEANDRO   BtADENE 

anni  et  de  proprietatibus  eorum  „  ^).  0  perchè  scegliere 
appunto  tale  argomento  a  manifestare  la  sua  gioia?  Certo, 
nell'intenzione  di  chi  appropriò  la  storiella  al  della  Vigna  -), 
perchè  la  poesia  dei  Mesi  doveva  essere  nota  e  famigliare 
a  tutti,  doveva  essere  una  di  quelle  poesie  che  vengono 
quasi  inconsapevolmente  sulle  labbra,  senza  che  l'argo- 
mento loro  abbia  relazione  collo  stato  dell'animo  di  chi  le 
dice.  Di  siffatte  poesie  sui  Mesi,  fatte  la  maggior  parte 
per  essere  recitate  davanti  alla  gente  raccolta  ad  udirle, 
furono  composte  anche  piìi  tardi  e  in  parecchie  lingue.  "  I 
Mesi,  come  scrive  il  D'Ancona  ^),  discesero  a  così  dire  dal 
frontone  del  tempio^  o  sorsero  fuori  delle  cripte,  e  le  loro 
rigide  personificazioni  si  animarono  a  vita  ed  atteggiamenti 
di  persone  serbando  le  vesti  e  gli  strumenti  rituali,  e  sciol- 
sero la  lingua  a  cantare  le  proprie  lodi,  o  l'un  l'altro  rim- 
beccarsi. Così  si  ebbero  nella  forma  all'età  media  prediletta 
del  Contrasto  piccoli  drammi  essenzialmente  popolari,  che 
dovevano  essere  riprodotti  pe'  trivi j  e  per  le  piazze  da 
uomini  e  da  fantocci  ,, .  Siffatti  drammi  si  solevano  rappre- 
sentare fino  a  pochi  anni  addietro  nell'Italia  meridionale  ^). 
Il  D'Ancona  ha  già  raccolto  i  canti  italiani  sui  Mesi  ^)  e 


')  Chronicon  Imaginis  mundi  nei  Monum.  hist.  patr.,  Ili,  1577,  To- 
rino, 1848.  Farà  piacer  di  sapere  che  quel  solerte  e  sagace  ricerca- 
tore che  è  il  prof.  Nevati  metterà  in  luce  il  testo,  fin  qui  passato 
inosservato,  della  poesia  sui  Mesi  (un  vanto)  attribuito  al  della  Vigna. 

^)  La  storiella  è  di  origine  molto  più  antica,  orientale,  come  mostrò 
il  D'Ancona  nella  nota  aggiunta  al  testo  ristampato  dal  Cabdccci, 
Cantilene  e  ballate,  p.  27. 

^)  Calendarj  monumentali  (Suppl.  deW Illustrazione  italiana,  Natale 
e  Capo  d'anno  1883-84). 

*)  Vedasi  la  nostra  Appendice,  Parte  II,  Testi  italiani,  nn.  7,  8,  9. 

")  Nello  studio  già  indietro  citato  e  pubblicato  neWArch.  trad.  pop., 
Il,  239  sgg. 


'carmina    de    MENSIBUS  '    DI   BONVESIN    DA   LA    RIVA  19 

alla  sua  raccolta  poco  manca  per  essere  compiuta;  di  alcuni 
di  essi  anche  in  altre  lingue  fa  menzione  G.  Morici  nel  suo 
pregevole  studio  su  La  poesia  delle  Stagioni'^);  quegli  greci 
antichi  sono  indicati  dal  Krumbacher  ^).  A  noi  è  sembrato 
che  di  tutti  i  testi  sulle  Stagioni  ed  i  Mesi  disseminati  in 
un  numero  grande  di  libri,  riviste  ed  opuscoli,  e  in  gene- 
rale poco  e  mal  noti,  mettesse  conto  di  fare  in  Appendice 
una  rassegna  quanto  più  possibile  compiuta,  sperando  di 
recar  così  un  contributo  non  ispregevole  alla  conoscenza 
della  letteratura  popolare. 

Il  Trattato  dei  Mesit>i  Bonvesin  da  la  Riva. — 
Di  tutti  i  componimenti  sui  mesi  il  più  notevole  è  forse  quello 
dell*  antico  maestro  e  rimator  milanese  Bonvesin  da  la 
Riva  2),  pubblicato  per  la  prima  volta  nel  1872  da  uno  stra- 


')  Nuova  Antologia,  fase,  del  1°  dicembre  1893,  pp.  479-515. 

^)  Vedasi  la  nostra  Appendice,  Parte  II,  Testi  greci. 

^)  Tale  sembra  essere  stata  la  vera  forma  volgare  del  nome  del- 
l'autore piuttosto  che  "  da  Riva  „,  antica  del  resto  pur  essa.  Il  Mo- 
vati nell'erudita  e  bella  Prefazione  all'edizione  da  lui  curata  dell'ope- 
retta latina  De  Magnalibus  Urbis  Mediolani  dello  stesso  Bonvesin  (Roma, 
1898;  estr.  dal  Bullettino  dell'Istituto  Storico  Italiano,  n.  20)  preferisce 
invece  chiamarlo  "  della  Riva  „,  come  aveva  fatto  anche  C.  Canetta 
pubblicandone  i  testamenti  nel  Giorn.  stor.  d.  lett.  ital.,  VII,  170  sgg. 
Ma  la  forma  "  de  la  Riva  „  s'incontra  soltanto  nel  testamento  del  1313 
e  in  un  documento  latino  del  1290  edito  in  parte  nel  Giorn.  cit., 
pag.  172,  ciò  che  non  apparisce  ben  chiaro  dalla  nota  dell'an- 
zidetta Prefazione  (pag.  26),  in  cui  il  Nevati  raccoglie  le  varie 
forme  nelle  quali  il  nome  dell'autore  si  presenta  nelle  antiche  scrit- 
ture che  gli  appartengono  o  gli  si  riferiscono.  In  cotesta  nota  infatti 
non  tenendo  egli  distinte  le  forme  "  da  la  „  e  "  de  la  „,  potrebbe 
rimanere  il  dubbio  che  anche  quest'ultima  si  trovi  nei  due  compo- 
nimenti volgari  di  Bonvesin  da  lui  citati,  mentre  vi  si  trova  soltanto 
la  prima,  come  in  un  altro  componimento  da  lui  non  rammentato, 
la  Disputano  musce  cum  formica  (ediz.  Bekkee,  Rendiconti  dell'Acca- 
demia di  Berlino,  a.  1851,  p.  8,  v.  1),  tutti  compresi  nel  noto  codice 


20  LEANDRO   BIADENE 

niero,  il  professore  E.  Lidforss  dell'Università  di  Lund  ^). 
L'argomento  ne  è  ormai  noto  agli  studiosi  della  storia  let- 
teraria, ma  qui  gioverà  riferirlo  più  distesamente  e  deter- 
minatamente che  non  sia  stato  fatto  finora  da  altri  -). 
L'autore  stesso  lo  espone  nelle  prime  tre  strofe  così: 

Moresta  da  ventagio  ki  vor  odi  cantare, 
Io  Bonvesin  da  Riva  la  voglio  determinare 
come  s'alomenta  li  mesi  vogliando  depotestare 
lo  so  segnore  Zenere,  ke  no  debia  piìi  regnare. 

Stagando  Zenere  al  fogo  per  tema  del  fredore, 
li  mesi  an  fagio  capitulo  ad  ira  e  a  furore 
pur  per  cason  d'invidia  de  quel  k'  è  so  signore, 
zò  è  de  ser  Zenere,  ke  vive  senza  lavore. 

De  lui  per  invidia  egli  fan  lamentasone, 
de  la  soa  segnoria  ke  egli  lo  von  depone; 
zascun  de  lu  si  lomenta  e  mostra  soa  casone  : 
io  Bonvesin  da  Riva  de  zò  voglio  far  sermone. 

Precisamente  cosi.  I  mesi  prendendo  a  parlare  uno  dopo 
l'altro  rinfacciano  a   Gennaio   i  suoi  vizj  e   le   sue  colpe, 


berlinese  della  fine  del  eec.  XIII  o  del  principio  del  XIV.  Per  noi  il 
"  de  ,  di  "de  la  Riva  „  che  si  affaccia,  non  bisogna  dimenticare,  da 
documenti  latini ,  sarebbe  quello  stesso  della  forma  latina  *  de 
Ripa  ,  con  cui  il  nome  comparisce  altrove  (v.  la  nota  sopra  citata). 
A  farci  propendere  per  il  ■*  da  la  „  contribuisce  pure  la  forma  "  da 
Riva  ,,  la  quale  —  e  compiamo  anche  qui  la  nota  del  Novati  —  ci 
è  attestata  da  due  altri  componimenti  di  Bonvesin  contenuti  —  neppur 
questo  è  da  trascurare  —  in  codici  del  sec.  XV:  il  Trattato  dei  mesi 
st.  1*'  e  3^  (e  così  pure  nella  rubrica  iniziale  e  neìV explicit)  e  quello  ; 
inedito  che  nella  nostra  edizione  sarà  indicato  con  R  (vv.  93-94: 
Anchora  uno  altro  exemplo,  lo  quale  partene  a  zò,  \  eio  Bonvexino  da 
Riva  ve  volio  cuntare  quilò).  E  anche  nei  due  componimenti  citati  dal 
Novati  di  sul  codice  berlinese,  si  trova  la  forma  "  da  Riva  „  nel  testo 
datone  dal  Biondelli,  Poesie  lomh.  ined.,  p.  161,  vv.  1  e  4,  p.  183,  v.  1. 

')  Il  tractato  dei  mesi  di  Bonvesin  da  Riva,  Bologna,  Romagnoli, 
1872  {Scelta  di  Curiosità  letterarie,  disp.  127). 

^)  Cfr.  Wesselofsky,  Propugnatore,  V,  ii,  368  sgg.,  Mussafia,  Romania, 
II,  113  sgg.,  D'Ancona,  Arch.  d.  trad.  j^op.,  II,  pp.  258-59,  Gaspary, 
Storia  d.  letter.  ital.,  1, 116,  Morici,  Nuova  Antol.,  die.  1893,  pp.  494-95. 


'CARMINA   DE    MENSIBL'S  '    DI    BONVESIN   DA    LA   RIVA  21 

mentre  poi  ciascuno  vanta  i  proprj  pregi.  "  Gennaio,  essi  di- 
'\ino,  non  vuol  saperne  di  lavorare  ^)  ;  so  ne  sta  tappato  in 
rasa  2)  consumando  il  tempo  nell'ozio  ^).  Siede  tranquilla- 
mente al  fuoco  ■^)  e  mangia  e  beve  e  canta  ^).  Tutto  dedito 
ai  piaceri  della  gola "), mangia  i  buoni  bocconi^)  e  le  frutta^) 
e  in  generale  i  cibi  che  gli  sono  preparati  dagli  altri  mesi  ^). 
A'ive  del  sudore  altrui  ^"),  chiedendo  e  prendendo  per  sé 
ma  non  dando  mai  nulla  agli  altri  ^^).  Non  produce  alcun 
buon  frutto  ^-)  ne  reca  alcuna  utilità  ^^),  anzi  fa  tremare 
i  poveri  ^*),  toglie  lavoro  ai  braccianti  ^^),  fa  sentire  il 
freddo  ai  mesi  che  gli  sono  vicini  ^*'),  tiene  in  destrenzimento 
le  erbe,  gli  alberi  ^^)  e  tutte  le  cose  ^^).  È  insomma  intento 
soltanto  a  far  male  ^^j.  Ci  tiene  come  servi  -*^)  .e  vuole 
pestarci  sotto  i  piedi  -i).  Vuole  minacciare  e  offendere  ^'^), 
ci  dispregia  '^^)  e  si  fa  beffe  di  noi  ~^).  Non  vuole  pagare  -^) 
V  invece  impone  tributi  ^'^)  ;  e  vuole  comandare  2^)  e  re- 
gnare 2*)  e  tenere  per  forza  e  sempre  il  potere  -^).  E  non 
c'è  alcuna  ragione  perché  egli  debba  avere  la  signoria  ^^), 
anzi  è  il  peggiore  di  tutti  ^^).  È  l'ultimo  mese  dell'anno  ^^), 
è  egoista  ^^),  superbo  ^^),  orgoglioso  ^^),  disdegnoso  ^^),  pre- 


*)  Le  lettere  aggiunte  a  modo  d'esponente  ai  numeri  delle  strofe 
indicano  i  singoli  versi  delle  medesime:  st.  2^  19^,  46%  86%  106% 
70%  66%  68"=. 

»)  st.  66^         3)  gQa-c,  78%  79%         *)  7%  51%  57%  58%  65%  86%  89^ 

^)  70%  7P.  ")  46%  ')  51%         8)  7b^  ggb-c^ 

3)  71%  89%  18%  56%  59%  83%  9b^',  100»'-%     ")  66%  71%  86%  107% 

")  49=%  58%  71%  73%  81.  86%  90^"%  106^ 

i3)  12%  25%  45»,  72%  102^    ")  6%  68%  70%    **)  5^"%  24% 

'^)  23^    ")  4"-*,  5%  6%  8%  97^-%  108*%    ")  20'^"%  34%  38% 

")  34%  76%    13)  14%  36%  53%  63%  96%  100%    ^°)  20%  91%  103». 

2')  34%  48%  2^j  91%   2'')  101%  *')   10%  17%  55%  56%  100*.  ^^)  91». 

'^)    70-^.         ^'}    49%   71%  28j    97a_  29j    33e,  .3.5».  30)    3f)c.d^    33a-b^    20% 

^1)  30"%  103%        3^)  28,  29.        ^^)  11*%         ^')  18%  77,  78». 
"  ^5)  30%  48%         36)  gid^  78a^  101% 


22  LEANDRO    niADENE 

suntuoso  M,  ingrato-),  matto'')  e  non  adora  Iddio*)  „. 
E  non  basta,  che  gli  rovescian  sul  capo  tutta  quest'altra 
serqua  di  epiteti  :  malastrudo  ^),  misero  malastrudo  '^),  in- 
gord  malastrudo  ''),  malvas  **),  vilan  "),  malvas  vilan  ^"), 
goton  hacaler  ^^),  desconvenevre  ^^),  reo  signore  ^^),  bruto  si- 
gnore ^*),  ladro  ^^),  pezo  ka  serpente  ^")-  Ciascun  mese,  essi 
aggiungono,  è  più  degno  di  lui  ^^),  e  a  somiglianza  delle 
altre  prosopopee  dei  mesi,  anche  in  questa  di  Bonvesin,  come 
s'è  già  detto,  ciascuno  esalta  tutto  ciò  che  fa  di  buono  e 
di  bello,  e  conchiude  che  Gennaio  dev'essere  spodestato  ^^). 
E  quando  hanno  finito  di  dire  le  loro  ragioni,  tutti  insieme 
gridano  a  squarciagola:  "  Muoia  Gennaio  „  ^•');  e  già  si 
apprestano  a  mettere  in  atto  il  loro  divisamente  e  corrono 
all'armi.  Ed  eccoli  davanti  a  noi  i  mesi  rappresentati  pro- 
prio come  il  popolo  era  abituato  a  vederli  nei  monumenti 
delle  arti  figurative  -'°)  :  Febbraio  colla  forca,  Marzo  colla 
tromba.  Aprile  che  per  gonfalone  porta  un  ramo  fiorito, 
Maggio  armato  a  cavallo,  Giugno  col  falcetto.  Luglio  colla 
zappa.  Agosto  infermizo  si  regge  su  un  bastone,  Set- 
tembre ha  in  mano  la  mazza  con  cui  stringe  le  botti. 
Ottobre  ha  la  pertica  delle  castagne,  Novembre  un  coltello 
da  beccaio  e  Dicembre  la  scure  con  cui  spacca  la  legna. 
Riunitisi  in  armi  hanno  dunque  stabilito  di  deporre  Gen- 
naio e  pieni  d'ira  sembrano  leoni  scatenati  ^^).  Sennonché 


')  l03^ 

')  8%  18c,  19'■^  59^  m-\  88^  89^  91  ■')  12*,  64,  405»*. 

*)  79^  5)  8^  28^  ^)  54^  ")  86^  «)  109S  102^ 

»)  \0h^.        '")  %l\        ")  99-=.        ")  89^        '3)  82%  92%  98\ 

")  W.        ''^)  9%  59%        '«)  27%      ")  13%  27'-%  45'-^,  74%  76%  100. 

'8)  30',  45%  48%  53%  54%  59S  73%  94%  107%  109'.  '**)  109% 

'")  110-14.  21)  115C 


•  CARMINA    DE    MENSIBUS  '    DI    BONVESIN   DA    LA    RIVA  23 

Gennaio  udito  il  tumulto  e  accortosi  subito  di  che  si  tratta, 
si  alza  da  sedere  al  fuoco  e  prende  una  mazza  smisurata 
e  pesantissima  e  con  quella  va  incontro  ai  mesi  ^);  i  quali 
spaventati  dal  terribile  assalto  non  osano  più  muoversi  ne 
difendersi  e  muti  e  tremanti  buttano  via  le  armi  ^).  Al- 
lora Gennaio,  vedendo  di  aver  vinto,  si  sfoga  a  parole  contro 
di  loro  e  in  un  lungo  discorso  ribatte  tutte  le  accuse  ri- 
voltegli. "  Voi,  egli  dice,  siete  stati  mossi  a  ribellarvi  da 
superbia  e  da  invidia  ^).  Se  tengo  la  signoria,  la  tengo  ben 
a  ragione:  la  possiedo  ab  immemorabili^).  Io  sono  occu- 
pato in  molte  faccende  e  perciò  non  posso  adempirle  bene 
tutte  ^)  ;  voi  che  siete  villani  dovete  lavorare  *^).  Vorreste 
che  mi  dimettessi?  Con  ciò  non  farei  che  cagionare  la  vostra 
discordia:  aspirereste  tutti  alla  signoria  ').  Vi  lagnate 
anche  che  non  vi  ringrazio  dei  vostri  servizi,  ma  che  forse 
è  uso  dei  signori  di  ringraziare  i  sudditi?  ^).  I  sudditi  de- 
vono ubbidire  e  lavorare,  i  signori  comandare  e  stare  al- 
legri ■').  E  del  resto  non  è  poi  vero  ch'io  stia  colle  mani 
in  mano  ^°):  combino  i  matrimoni  ^^)  e  penso  ai  lavori  da 
fare  in  campagna  ^-).  Se  sono  l'ultimo  mese,  sono  stato  ag- 
giunto da  Numa  agli  altri  mesi  per  essere  vostro  capo, 
giacché  nessuno  di  voi  era  degno  d'onore  i").  Per  dignità 
e  per  senno  sono  il  primo  ^^).  Sono  il  portinaio  dell'anno  ^°) 
e  quando  io  comincio  entrano  in  reggimento  i  podestà  no- 
velli ^''j.  Ho  due  volti  e  guardo  indietro  e  innanzi  a  me  ^')  „. 
Si  scaglia  specialmente  contro  Febbraio  e  Dicembre  che  gli 
sono  vicini  ^*)  e  termina  dicendo  che  continuerà  sempre  a 


')  116-18.  ^)  119.          ')  127,  U2\ 

')  129-31.  '')  133.           ")  1.34.          ")  1,37-38.          ^)  140-41. 

■^)  144.  ">)  148^          '')  148',  149-51.          '')  1-52.          ")  153 

'*)  154\  '»)  155.       '^)  156^  •>.       *■)  157.       ")  158-61. 


24  LEANDRO    BIADENE 

regnare  e  a  mangiare  e  bere  e  a  fare  ciò  che  vorrà.  Se 
qualcuno  osa  opporsi  si  faccia  innanzi  '). 

Dopo  questo  rabbuffo  di  Gennaio  gli  altri  Mesi  se  ne 
stanno  muti  e  sbigottiti  a  capo  basso  senza  osare  di  con- 
trastargli e  col  timore  di  essere  presi  ^).  Allora  Aprii  cortes 
colla  sua  faza  allegra  parla  a  Gennaio  per  tutti  gli  altri, 
e  chiamandolo  segnor  regal  e  segnar  insuperabil,  chiede  per- 
dono del  fallo  commesso,  assicura  che  tutti  ne  sono  pentiti 
e  non  lo  ripeteranno  pili  ;  e  dopo  aver  dimostrato  con  una 
serie  di  proverbj  che  non  conviene  a  un  nobile  signore  adi- 
rarsi per  pizena  cosa,  protesta  che  d'ora  in  avanti  tutti  gli 
obbediranno  e  lo  terranno  per  re  perpetuo  ^).  Alle  parole  di 
Aprile  Gennaio  si  rabbonisce,  e  i  Mesi,  che  poc'  anzi  ave- 
vano manifestato  contro  di  lui  tanto  fieri  propositi  e  lo 
avevano  coperto  di  tante  contumelie,  ora  gridano  tutti  ad 
una  voce:  "  Zener  fiza  fermado  perpetuamente  segnor  e!  „  e 
con  pubblico  strumento  si  obbligano  a  riconoscerlo  per  tale  •*). 

Qui  termina  il  contrasto  e  prende  la  parola  l'autore  per 
cavarne  la  morale  seguente.  La  storia  dei  Mesi,  egli  dice, 
sta  a  dimostrare  che  l'uomo  non  deve  cimentarsi  a  imprese 
che  non  sappia  di  poter  condurre  a  buon  fine;  altrimenti 
può  venirgliene  danno  e  dover  pentirsene,  appunto  come 
toccò  ai  Mesi  ^). 

Tale  il  poemetto  di  Bonvesin,  che,  come  osservò  già  il 
Mussafia  (op.  cit.  1.  e),  fa  venire  a  mente  l'apologo  di 
Menenio  Agrippa.  A  immaginare  il  contrasto  poteva  arri- 
vare facilmente  da  sé  anche  un  autore  che  per  tal  forma 
cara    al    medio    evo   non   avesse   avuto   la  propensione  di 


')  163-65.        2j  166.         •'')  167-78.         *)  179-82.         '')  183-84. 


'CARMINA    DE    MENSIBUS  '    DI    BONVESIN    DA    LA    RIVA  25 

Bonvesin.  Da  una  parte  infatti  si  avevano  le  rappresenta- 
zioni e  i  vanti  tradizionali  dei  Mesi  e  dall'altra  il  pure 
tradizionale  contrasto  delle  Stagioni  ^).  Per  ciò  che  con- 
cerne l'invenzione,  la  parte  di  Bonvesin  sarebbe  dunque  pic- 
cola. La  novità  principale  sta  nell'aver  volto,  com'egli 
sempre  suol  fare,  l'argomento  a  un  fine  didattico  e  morale. 
E  siffatto  intento  si  manifesta  non  soltanto  nella  chiusa, 
di  cui  abbiamo  dianzi  riferito  il  tenore  ;  ma  pervade  e  com- 
penetra tutto  il  poemetto,  che  è  largamente  cosparso  di 
sentenze  e  proverbj,  e  nel  quale  anche  i  singoli  atti  e  fatti 
dei  Mesi  sono  tirati  ingenuamente  a  significazione  morale. 
Del  resto,  se  questo  è  l'intento,  l'allegoria,  come  altri 
notò  -),  è  superficiale^  e  l'attrattiva  principale  del  com- 
ponimento sta  nella  naturalezza  e  vivacità  e  comicità  della 
rappresentazione,  per  i  quali  pregi  non  la  cede  agli  altri 
contrasti  drammatici  dello  stesso  autore,  com'è  anche  il 
pili  esteso  di  tutti,  contando  non  meno  di  184  strofe. 

I  Carmina  de  Mensibus.  —  Sfuggito  fin  qui  alla 
diligenza  investigatrice  dei  ricercatori  dell'antica  lettera- 
tura italiana  e  medievale  in  genere,  esiste  di  questo  com- 
ponimento anche  il  testo  latino,  che  abbiamo  avuto  la  for- 
tuna alcuni  anni  addietro  di  ritrovare  e  ora  pubblichiamo. 
Ce  lo  ha  conservato  il  manoscritto  Vaticano  3113  del  se- 


')  Il  D'Ancona,  op.  cit.,  pag.  258,  scrive:  "  Probabilmente  a  prefe- 
rire tal  forma  l'autore  era  condotto  e  dalla  propria  propensione,  che 
si  mostra  anche  in  altri  suoi  componimenti,  e  dalla  conoscenza  del 
Conflictus  Veris  et  Hiemis,  che  l'età  media  ben  conobbe,  attribuen- 
dolo a  Beda,  ad  Alenino,  a  Milone  di  S.  Amand  „. 

^)  A  questo  proposito  vedansi  le  belle  osservazioni  del  Wesselofsky, 
op.  cit.,  pagg.  382-83. 


26  LEANDRO   BIADENE 

colo  XV,  ed  è  per  l'appunto  l'ultimo  dei  testi  in  esso  con- 
tenuti; gli  altri  che  precedono  sono  quasi  tutti  trattatelli 
astronomici  in  prosa,  a  cui  ben  si  comprende  come  per 
certa  quale  affinità  dell'argomento  possa  essere  stato  acco- 
dato ^).  Non  ha  veruna  intitolazione,  e  quella  di  Bonvicini 
carmina  de  mensibus,  recata  dalla  Tavola  del  manoscritto, 
anche  questa  di  mano  antica,  sarà  stata  probabilmente  de- 
sunta, per  ciò  che  concerne  il  nome  dell'autore,  dal  terzul- 
timo verso. 

CONFEONTO  DEI  CARMINA  COL  TESTO  VOLCxARE  DEL  TRAT- 
TATO,—  Ma  in  questo  testo  latino  dobbiamo  veramente  rico- 
noscere il  medesimo  componimento  del  testo  volgare?  Quando 
si  osservi  che  mentre  quest'ultimo  si  distende,  come  già 
indietro  abbiamo  avuto  l'opportunità  di  dire,  per  184  strofe 
quadernarie  di  alessandrini  ossia  per  736  di  tali  versi, 
l'altro  invece  è  ristretto  in  430  esametri  (dei  sei  dell'^a;- 
plicit  non  accade  qui  tener  conto),  verrebbe  fatto  di  dubi- 
tarne, e  si  chiederà  ad  ogni  modo  quale  sia  con  esattezza 
la  relazione  dei  due  testi.  Or  bene,  chi  li  confronti  minu- 
tamente fra  di  loro  noterà  che  non  soltanto  hanno  uguale 
l'orditura,  ma  che  quasi  tutto  quello  che  si  trova  nel  testo 
latino  si  ritrova  anche,  e  assai  spesso  con  corrispondenza 
letterale,  e  quasi  sempre  disposto  nel  medesimo  ordine,  nel 


')  Occupa  le  carte  123"  —  129';  Il  manoscritto  è  cartaceo,  e  ba 
due  fogli  di  guardia  in  pergamena.  A  tergo  dell'  ultima  carta  (129) 
sono  notate  le  ragioni  della  luna  dal  1442  al  1460  e  si  trova  qualche 
altra  annotazioncina  astronomica;  l'ultima  data  è  il  1484.  Ai  Carmina 
de  mensibus  precedono  quindici  scritture,  anch'esse  senza  intestazione. 
La  prima  è  il  noto  trattato  De  sphaera  di  Giovanni  Sacrobosco. 


'  CARMINA    DE    MENSIBUS  "    DI   BONVESIN    DA    LA    RIVA  27 

tosto  italiano;  la  maggior  lunghezza  del  quale,  forse  più 
che  a  particolari  nuovi,  è  in  generale  dovuta  all'amplifica- 
zione o  ripetizione  in  forma  tanto  o  quanto  variata  di  quelli 
comuni  ai  due  testi. 

Converrà  determinar  meglio  questa  conchiusione.  Che  le 
vere  e  proprie  aggiunte  del  testo  latino  sieno  poche,  ap- 
parisce già  dal  prospetto  delle  corrispondenze  dei  due  testi 
unito  qui  a  pie  di  pagina  ^);  ora  gioverà  dire  che  sono  anche 


')  Al  numero  dei  versi  del  testo  latino  si  aggiungono  talvolta  qui  sotto 
le  lettere  a  e  b  per  indicare  soltanto  il  primo  o  il  secondo  emistichio; 
le  lettere  invece  aggiunte  al  numero  delle  strofe  del  testo  italiano 
indicano,  come  d'uso,  il  verso  di  ciascuna  strofa.  Si  badi  che  qualche 
volta  la  corrispondenza  dei  due  testi  non  è  segnata,  non  perché  vera- 
mente manchi,  ma  perché  è  poco  manifesta. 


1 

-    2  =  str. 

1 

61   =30c 

3 

-   4'' =  2 

4>  =  ^^ 

5 

63  - 
65" 

62  =31=^-^ 

-  65' =  32^-1) 

-  67  =31-1 +  78»  4- 35^-1'? 

6 

-18  =12»-^ 

_l_  6-J  4-  9"  4- 

68  • 

-   70»  =  32c-a  +  SBa-b 

13"  -L  4t-c 

+  5» 

+ 

70" 

-    71»  =  32»? 

10"  +  15» 

-h8^ 

+ 

71" 

-   72«  =  45'i 

9" 

72^ 

-   85  =36»-''  + 38^-^  +  39» 

19  =13» 

+  40a-t  +  36-=  + 

20  =  14» 

41»  +  42<:-d  +  54» 

21 

-23 

+  45'^ 

24 

-27  =15c-<J 

-16 

86 

-   89  =46a-c  +  47» 

28 

-31   = 

90 

32 

-  34  =  17=i-b 

91 

-    92»  =  49'= 

35 

-39 

40» 

40"  =  30-= 

41 

92" 
93" 

-  93a  =  50c-d  +47»+  48» 

-  94  =48" 

95  =53" +  54^ 

96  =:=47"  +  50'= 

42 

-46  =18''-^ 

-43'' 

-^19» 

+ 

97  ■ 

-    98 

20»-»' 

+  21 

C-d  _f_  37a 

99  - 

-  102  =  50»  +  51-=  -h   52c-d 

4-25 

a-b 

+  52"  +  62-1 

47 

-49  =37i'-d 
50  =43^ 

103 

-105 
106 

51 

-52  =25^ 
53  =23a-b 
64 

107 
109  - 

-108 

-110  =51» +  52» 
111 

55 

-  56a  =  26 

112  ■ 

-  121  =  55^-1'  +  56  +  57»-i' 

56" 

-59  =28 
60 

+  58»  +  59»  + 
59'' 

28  LEANDRO    BIADENE 

brevi  e  di  piccolo  rilievo  e  inoltre  del  genere  appunto   di 


vv. 

122 

201 

=  92a-b? 

123 

202 

=  93»-i> 

12i 

-125 

=  62''-c 

203 

-204 

=  93'=-'* 

126 

-127 

205 

128 

=  65» +112» 

206 

-208 

=  94a  —  95a-c 

129 

=  55"= 

209 

-210 

130 

-137 

=  65^-d  +  eea-b  + 
67a-b  +  67c_|_68b 

211 

-214 
215 

=  96a  +  97" 

138 

216 

=  97<i 

139* 

=  68" 

217 

139" 

=  68^ 

218 

=  99a 

UO» 

-141 

=  69"  +  62^  +  70» 

219 

142 

=  71a-ì) 

220 

-227 

=  4'=-'!  4-  108»-t  + 

143 

-   47 

--72 

92^  -^-^  108  +  gQ-' 

148 

=  54" 

228 

-234" 

149 

234" 

-235 

=  lOO^-c 

150 

-    51» 

=  73a-'> 

236 

-    37 

=  102»-^ 

ISP 

-    59 

=  73b-c 

238 

-   41 

160 

-    61 

=  74"  +  76"  -f-  75" 

242 

+  75^ 

243 

=  107" 

162 

244 

-   48" 

=  109 

163 

-    64 

=  74<:-d 

248" 

-    67 

=  110-14 

165 

=  75" 

268 

-    72 

=  115  +  x 

166 

-    67 

273 

-374 

=  116  +   117-3  M 

les'' 

=  73'^ 

118»-c  +  119  + 

169 

=  80" 

120  +   123"   + 

170 

-    72 

122  4-  123'»-<=  + 

173 

-    74* 

=  81i'-c 

121"  +  121'^-d  -1- 

175=^ 

=  81"^ 

123"=   +  163"  4- 

176 

-    77 

124"  4-  143"  4- 

178 

=  82"+81b-c+86" 

148-504-1524- 

179 

=  82t-d  +  86"+86'= 

144c-d  _i_  140  + 

180 

141    4-    143a    4- 

181" 

=  83" 

146?  4-   153   4- 

181" 

=  182 

129?  4- 1544- 127 

183 

=  83-= 

+  128'  4-132  4- 

184 

-    86'' 

=  84"  4-  83-^  +  84" 

134b.d  4-  158  + 

186" 

=  187 

160^164  4-137^- 

188 

=  84'! 

4-  138  4-  145"  4- 

189 

=  85" 

156a-b  -f  i55a  _^ 

190 

154"  4- 166 

191 

=  88" 

375 

-420 

=  166-684-170'+ 

192 

=  90" 

170"  +  171<:-a  4_ 

193 

-194 

=  89*-c 

171"  +  171"  + 

194" 

-    96" 

172-74+175'=-^ 

196" 

=  90':? 

176  4-  177»-''  + 

197 

=  86^? 

178-82 

198 

-    99 

=  9Ia-b 

421 

-    27 

=  183  -  84^-i> 

200 

=  92J 

428 

-    30 

'  CARMINA    DE    MENSIBUS  '    DI   BONVESIN    DA    LA    RIVA  29 

quelle  onde  s'allarga  il  testo  italiano.  Si  vuole  veramente 
sapere  quali  sono?  Ce  ne  sbrigheremo  presto.  Quando  Feb- 
braio e  Dicembre  sono  introdotti  a  parlare,  non  vengono 
indicati  soltanto  col  nome,  ma  vediamo  il  primo  comparirci 
innanzi  coi  calzari  sudici  di  fango  (v.  5)  e  l'altro  vestito 
colla  pelliccia  (v.  218).  In  Marzo  non  soltanto  la  vite  è  in 
fiore,  come  s' accontenta  di  dire  il  testo  italiano,  ma  l'olezzo 
della  vigna  è  così  forte  da  far  scappare  i  rospi  e  le  serpi 
(vv.  97-98).  In  Settembre,  oltre  il  panico  e  il  miglio,  si 
raccolgono  anche  i  fagiuoli  colFocchio  (vv.  181-82),  e,  oltre 
che  maturano  piìi  sorta  di  frutta,  si  seccano  i  fichi  (v,  186). 
Dicembre  poi  è  anche  il  mese  della  piccola  Quaresima  ossia 
dell'Avvento  (vv.  238-41).  Si  tenga  conto  oltre  a  ciò  di  tre 
brevi  avvertimenti  morali  (vv.  21-23,  103-5,  336-39)  e  sarà 
compiuta  l'enumerazione  delle  aggiunte  vere  e  proprie  del 
testo  latino. 

Veramente  fra  esse  si  potrebbe  inchinare  a  comprendere 
anche  i  tre  proverbj  corrispondenti  ai  versi  122,  138,  162; 
ma  questi,  massime  i  due  ultimi,  non  sembrano  bene  a 
posto,  e  inoltre  i  due  primi,  a  differenza  degli  altri  del 
poemetto  (i  sei  deìVexpUcit  non  vanno  neppur  qui  conside- 
rati) sono  leonini;  è  da  credere  quindi  che  non  facessero 
parte  del  testo  originario,  dove  invece  saranno  stati  intrusi 
più  tardi  dal  copista  ^),  e  a  qualcuno  più  dotto  di  noi  riu- 
scirà forse  di  determinare  donde  sieno  presi. 


')  Il  fatto  che  i  versi  122,  138  sono  due  schietti  leonini,  di  per  sé 
solo  potrebbe  sì  far  dubitare  ma  non  basterebbe  a  provare  che  sieno 
interpolati;  giacché,  a  dire  il  vero,  è  leonino  con  lievissima  imper 
fezione  nella  rima  anche  il  v.  398  "  nec  propter  muscaìn  fit  temo 
volubilis  usquain  „,  il  quale  doveva  certamente  far  parte  del  testo 
originario,  trovando  riscontro  in  quello  italiano  (st.  174"),  e  sebbene 


30  LEANDRO   BIADENE 

Un  po'  più  grande  del  numero  delle  aggiunte  è  quello 
delle  differenze  nella  disposizione  di  quanto  hanno  comune 
i  due  testi,  ma  anche  queste  in  fondo  non  si  possono  dir 
molte,  e  tutte  poi  sono  cosiffatte  da  non  apparir  determi- 
nate da  alcuna  speciale  ragione.  Passando  a  esaminarle 
particolarmente,  noteremo  anzitutto  che  assai  di  rado  in 
un  testo  è  attribuito  ad  un  mese  ciò  che  nell'altro  è  attri- 
buito ad  un  altro,  e  in  cotesti  casi  i  due  mesi  sono  con- 
secutivi, sicché  le  due  attribuzioni  possono  essere,  anche 
in  una  medesima  regione,  ugualmente  giuste.  E  per  vero 
la  semina  del  lino  e  la  piantagione  delle  viti  novelle  nel 
testo  latino  viene  posta  in  Marzo  (vv.  42,  50)  e  nell'ita- 
liano in  Aprile  (st.  43*,  43°);  secondo  il  primo  gli  alberi 
s'  adornano  di  foglie  e  fiori  in  Marzo  (v.  45)  e  secondo 
l'altro  in  Aprile  (st.  37^);  nell'uno  i  gigli  fioriscono  in 
Maggio  (v.  112)  e  nell'altro  in  Giugno  (st.62^). 

Più  di  frequente  varia  nei  due  testi  l'ordine  delle  cose 
dette  da  un  medesimo  mese.  Ma  poiché  i  mesi  non  fanno 
che  enumerare  le  proprie  occupazioni,  i  proprj  prodotti  e 
meriti  e  ripetere  le  medesime  accuse  ed  ingiurie  contro 
Gennaio,  è  evidente  che  in  cotesta  enumerazione  l'ordine 
può  essere  quale  meglio  piaccia.  Che  ragione  infatti  di  pre- 
ferire, per  citare  un  esempio,  il  testo  latino,  in  cui  Maggio 
in  due  versi  consecutivi  (92-93)  si  vanta  di  essere  il  mese 
del  buon  formaggio  e  del  fieno,  al  testo  italiano,  in  cui 
esso  mese  nomina  il  formaggio  due  strofe  dopo  del  fieno 
(st.  50*^,  47")  ?  E  similmente,  non  è  altrettanto  ammissibile 


in  questo  non  trovi  riscontro,  niente  vieta  di  credere  che  fosse  nel 
testo  originario  anche  il  v.  74  "  prò  nive  do  flores,  prò  bruma  semino 
rorem  „,  il  quale,  sia  pure  con  maggiore  imperfezione  nella  rima, 
suona  come  leonino  anch'esso. 


'  CARMINA    DE    MENSIBUS  '    DI    BONVESIN    DA    LA    RIVA  31 

che  Settembre  dica  prima  di  preparare  le  botti  e  poi  di 
spremere  il  mosto,  come  nel  testo  latino  (vv.  184-85), 
quanto  di  fare  innanzi  questa  seconda  cosa  e  poi  l'altra, 
come  in  quello  italiano  (st.  83%  84^)?  La  parte  del  poemetto, 
in  cui  per  questo  rispetto  la  somiglianza  e  diremmo  quasi 
la  congruenza  dei  due  testi  apparisce  minore,  è  subito  sul 
principio  il  discorso  di  Febbraio;  tuttavia  anche  qui  chi  ben 
guardi  riconoscerà  che  il  testo  latino  fonde  e  ricompone 
elementi,  i  quali,  sia  pure  talvolta  diversamente  ordinati 
e  atteggiati,  fanno  parte  anche  del  testo  italiano.  E  a  pro- 
posito di  questa  unione  o  fusione  in  uno  dei  due  testi  di 
elementi  disgiunti  nell'altro,  giova  richiamare  l'attenzione 
su  questo  esempio  caratteristico.  Il  testo  latino  introduce 
a  parlare  Luglio  in  questa  maniera  (v.  128): 

Julius  assequitur  quasi  nudus  pulverulentus 

e  quello  italiano  invece  così  (st.  G5*): 

Apreso  el  parla  Lullo  con  soa  sapa  in  man 

e  "  descolzo  e  in  camisa  „  in  corrispondenza  del  "  quasi 
nudus  „  ^);  ma  poi,  molto  più  avanti  (st.  112-''),  quando  i 
mesi,  dopo  aver  finito  i  loro  discorsi,  si  riuniscono,  bran- 
dendo ciascuno  l'arme  che  gli  è  propria,  per  dare  l'assalto 
a  Gennaio 

Con  soa  sapa  Lullo  ven  tuto  polverento. 

Polverento  !  ossia  appunto  il  pulverulentus  del  luogo  sopra 
citato  del  testo  latino.  E,  si  badi,  in  tutti  due  i  testi  l'ap- 
pellativo si  trova  in  fine  di  verso. 

')  Più  esattamente  le  parole  "  descolao  e  in  camisa  „  corrispondono 
a  quelle  con  cui  nel  testo  latino  (vv.  112-13)  viene  rappresentato 
Giugno  "  prò  magno  caumate  lino  |  indutus  solo,  nudo  pede  „. 


32  LEANDRO    BIADENE 

L'autore  dei  Carmina,  —  Ora,  dopo  quanto  si  è 
già  innanzi  osservato  sulle  relazioni  fra  i  due  testi,  ci 
sembra  che  concordanze  del  genere  di  quest'ultima  non  si 
possano  spiegare  se  non  ammettendo  che  essi  sieno  opera 
di  un  medesimo  autore;  il  quale  nell'uno  si  era  proposto 
di  allargare  e  nell'altro  di  restringere  la  materia,  senza 
che  ci  sieno  indizj  sufficenti  per  dire  con  sicurezza  quale  ^ 
dei  due  sia  stato  composto  prima  ^). 

E  così  il  confronto  che  abbiamo  fatto  toglierebbe  il  dubbio 
che  il  testo  latino  non  sia  di  Bonvesin,  anche  se  in  fine 
egli  non  se  ne  dichiarasse  l'autore,  appunto  come  fa  in 
principio  di  quello  italiano. 

Ne  recherà  meraviglia  veder  trattato  da  un  medesimo 
autore  un  medesimo  tema  in  latino  e  in  volgare,  massime 
quando  si  ponga  mente  all'indole  del  tema  stesso.  0  che 
forse  sono  rari  nel  medio  evo  i  componimenti  popolareg- 
gianti e  moraleggianti  sopra  uno  stesso  tema  e  scritti  in 
latino  e  in  volgare?  Non  sappiamo  che  così  appunto  è  av- 
venuto, anche  fuori  d'Italia,  per  quello  dei  mesi?  E,  per 
citare  un  altro  esempio  calzante,  gli  argomenti  di  quasi 
tutte  le  poesie  italiane  di  Bonvesin  non  furono  svolti  pure 
in  latino  e  qualcuno  in  maniera  molto  simile  a  quella  te- 
nuta da  lui?  Niente  strano  dunque  ch'egli  si  potesse  de- 


*)  L'ultima  strofa  (54)  del  discorso    di    Maggio    nel    testo    italiano 
principia  : 

A  quel  frugio  ke  fa  l'arbor  el  pò  fi  cognoscudo, 
s'el  no  porta  bon  frugio  al  fogo  de  fi  metudo; 

due  sentenze  che  forse  stanno  meglio  riunite  come  sono  qui  che  non 
staccate  come  nel  testo  latino,  in  cui  la  prima  è  in  bocca  di  Aprile 
(v.  84),  l'altra  di  Luglio  (v.  148).  Ad  ogni  modo  questo  fatto  da  solo 
non  basterebbe,  ci  sembra,  a  dimostrare  la  priorità  del  testo  italiano. 


'  CARMINA    DE    MENSIBUS  '    DI    BO.NVESIN    DA    LA    RIVA  33 

cidere  a  fare  da  solo  ciò  che  d'ordinario  era  fatto  da  due 
autori  diversi.  E  lo  fece  non  questa  volta  soltanto:  alcuni 
miracoli  delle  sue  poesie  italiane  ci  ritornano  innanzi  in 
prosa  latina  nella  sua   Vita  Scholastica  ^). 

La  forma  esteriore  dei  Carmina.  —  Venendo  a 
discorrere  della  forma  esteriore  del  De  Mensibus,  diremo 
anzitutto  che  l'elocuzione  ne  è  schiettamente  medievale  ^). 
Bonvesin  non  si  studia  di  conformarsi  per  nulla  ai  modelli 
letterarj.  In  lui  poi  nessuna  o  quasi  nessuna  reminiscenza 
immediata  d'altri  autori  o  d'altri  libri.  C'è  sì  un  verso  che 
ne  riproduce  in  gran  parte  un  altro  dei  Distici  di  Catone  ^), 
a  lui  maestro  di  scuola  certamente  noti  ^),  ma  appunto  quel 
verso  ha  carattere  proverbiale.  E  parimenti  due  altri  versi 
(84,  148)  sono  sentenze  comuni  che  risalgono  alla  Bibbia; 
e  quantunque  non  sentenziosa,  dovette  essere  spesso  usata 
un'espressione  della  stessa  Bibbia  ricorrente  in  un  altro 
verso  °).  E  come  nessuna  reminiscenza  cosi  nessun  ar- 
tificio retorico  deliberatamente    voluto.    Non    mancano,    è 


')  Sono  i  miracoli  De  Castellano  e  De  pirrata  nejla  poesia  italiana 
intitolata  Lattdes  de  Viryine  Maria  {Rendiconti  dell'Accademia  di  Ber- 
lino, a.  1850,  pp.  481  e  483)  e  il  miracolo  De  agricola  desperato  nel- 
l'altra poesia  italiana  col  titolo  Rationes  quare  Virgo  tenetur  diligere 
peccatores  {Rendiconti  cit.,  a.  1851,  p.  95);  tutti  tre  i  quali  nella 
Vita  Scholastica  sono  riuniti  nel  capitolo  De  detotione  hubenda  erga 
Virginem  Mariani. 

^)  Lo  stesso  anche  nella  Vita  Scholastica  e  nel  De  Magnalibus,  come 
nell'Introduzione  a  quest'ultimo  (pag.  26  n.)  non  mancò  di  notare  il 
Novati. 

■')  Vedi  più  avanti  la  nota  al  v.  107. 

*)  11  Novati  pubblicando  il  De  Magnalibus  di  Bonvesin  nota  (p.  61) 
che  il  "  cum  animadverterem  ,  della  quarta  linea,  col  quale  comincia 
veramente  il  discorso,  riproduce  il  principio  dei  Distici. 

■')  Vedi  la  nota  al  v.  334. 

Stiidj  di  filolojia  romanza,  IX.  3 


34  LEANDRO   BIADENE 

vero,  le  ripetizioni,  ma  sono  spontanee  e  quasi  inevitabili  e 
non  fatte  ad  arte:  i  mesi  scagliandosi  ad  uno  ad  uno  contro 
Gennaio  è  natui'ale  che  si  esprimano  spesso  nella  stessa 
maniera  e  po'  su  po'  giù  colle  stesse  parole. 

Quanto  al  ritmo,  il  lessico,  l'ortografia,  valgano  le  osser- 
vazioni che  appresso. 

Osservazioni  ritmiche.  —  Il  carme  è  composto  in  esa- 
metri; ma  conviene  dir  subito  che,  se  di  essi  molti  sono 
regolari  anche  secondo  la  metrica  classica,  molti  altri  in-: 
vece  non  tornano  se  non  attribuendo  a  certe  sillabe  un 
valore  prosodico  diverso  da  quello  che  avevano  nell'età 
aurea.  Quest'ultimi  appartengono  alla  maniera  degli  esa- 
metri schiettamente  e  solamente  ritmici,  i  quali  abbondano 
nel  medio  evo  e  anzi  si  potrebbero  chiamare  i  veri  esametri 
medievali,  in  quanto  rappresentano  una  degenerazione  di 
quelli  classici  cagionata  dall'affievolirsi  e  spegnersi  del  senso 
della  quantità  e  dal  prevalere  su  di  essa  dell'accento  gram- 
maticale. Rendono  quindi  il  suono  degli  esametri  quanti- 
tativi letti  secondo  la  comune  pronunzia  della  parola,  ossia 
letti  a  norma  d'accento  grammaticale,  e  di  qui  si  com- 
prende quanto  grande  possa  essere  la  varietà  della  loro 
struttura.  Come  già  fu  notato  da  altri,  stanno  cogli  esa- 
metri quantitativi  nello  stesso  rapporto  degli  esametri  bar- 
bari carducciani  ^). 


*)  Quindi  gli  studj  fatti  per  ispiegare  la  genesi  e  la  struttura 
degli  esametri  barbari  carducciani  giovano  anche  a  dichiarare  quella 
degli  esametri  ritmici  latini  medievali.  Di  siffatti  studj  basterà  men- 
zionare qui  quello  di  E.  Stampisi,  Lt>  odi  barbare  di  G.  Carducci  e  la 
metrica  latina,  Torino,  Loescher,  1881,  pag.  43  e  segg.,  e  l'altro  anche 
pili  compiuto  di  L.  Falconi,  L'esametro  latino  e  il  verso  sillabico  ita- 
liano, che  è  il  secondo  di  Due  saggi  critici,  Vienna-Torino-Roma,  1885. 


'CARMINA    DE    MENSIliUS  '    DI    BONVESIN    DA    LA    RIVA  35 

Ma  poiché,  come  abbiamo  detto  di  sopra,  molti  degli 
esametri  di  Bonvesin  rispondono  appieno  anche  alle  regole 
della  metrica  classica,  avrà  egli  dunque  inteso  di  usare 
due  specie  di  esametri  ?  Sarebbe  ben  strano,  e  si  potrebbe 
invece  piìi  ragionevolmente  sostenere  del  pari  che  egli  abbia 
voluto  comporre  o  tutti  esametri  ritmici  o  tutti  esametri 
quantitativi.  La  prima  opinione  si  fonderebbe  sulla  consi- 
derazione che  gli  esametri  dello  stampo  classico,  oltre  che 
quantitativi,  sono  di  necessità  ritmici  anch'essi  ;  l'altra  opi- 
nione sul  fatto  che  via  via  che  il  sistema  di  versificazione 
quantitativa  classica  andava  tramutandosi  in  quello  di  ver- 
sificazione solamente  ritmica,  e  anche  per  un  pezzo  dopo 
che  tale  tramutamento  s'era  già  compiuto,  i  grammatici 
credettero  di  poter  spiegarlo,  astraendo  dall'accento  della 
parola  e  dall'ictus  metrico,  soltanto  mediante  alterazioni 
avvenute  nella  quantità  delle  varie  sillabe  e,  ciò  che  qui 
preme  soprattutto  di  notare,  tentarono  di  fermare,  ingar- 
bugliandosi spesso,  s'intende,  le  regole  di  cotesta  come  a 
dire  nuova  quantità  ^).  Quindi  chi  componeva  versi  se- 
condo queste  nuove  regole  poteva  benissimo  illudersi  di 
osservare  scrupolosamente  il  sistema  quantitativo. 

C'è  per  altro  da  scommettere  che  Bonvesin  non  si  sarà 
veramente  proposto  di  adoperare  piuttosto  l'una  che  l'altra 
specie  di  esametri,  pago  soltanto  di  comporli  siffatti  che 
all'orecchio  suo  e  dei  suoi  contemporanei  dovessero  parer 
regolari. 

Queste  poche  osservazioni  generali  sulla  qualità  del  verso 


')  Una  rassegna  di  coteste  regole  si  può  vedere  nel  lavoro  di 
U.  Ronca,  Metrica  e  ritmica  latina  nel  medio  evo,  parte  I,  pag.  91  e 
segg.,  Roma,  Loescher,  1890. 


36  LEANDRO   BIADENE 

del  De  Mensibus  potrebbero  forse  bastare;  ma  poiché  se 
ormai,  massime  in  grazia  delle  ricerche  e  dimostrazioni  di 
filologi  italiani  ^),  non  par  dubbio  che  la  causa  del  pas- 
saggio dalla  versificazione  quantitativa  alla  versificazione 
solamente  ritmica  sia  quella  dianzi  accennata  -),  rimane 
nondimeno  qualche  punto  ancora  non  ben  chiaro  nel  pas- 
saggio stesso;  non  sarà  senza  utilità  esaminare  minutamente 
la  struttura  degli  esametri  di  Bonvesin. 

Quest'esame  si  ridurrà,  com'è  naturale,  a  un  confronto 
dell'esametro  ritmico  con  quello  quantitativo,  di  cui,  come 
avvertimmo,  esso  non  è  che  una  trasformazione  o  degene- 
razione. E  sebbene  il  principio  informatore  delle  due  specie 
di  versi  non  sia  il  medesimo,  sembra  non  si  possa  fare  tale 
confronto  meglio  che  attribuendo  alle  sillabe  dell'esametro 
ritmico,  le  quali  non  possono  essere  né  più  ne  meno  di 
quante  può  contarne  l'esametro  classico,  né  più  di  dicias- 


')  Oltre  al  pregevole  e  in  molte  parti  acuto  lavoro  sopra  citato 
del  Ronca,  intendiamo  riferirci  a  quello  non  meno  pregevole  e  più 
metodico  di  F.  Ramorino,  La  pronunzia  j^opolare  dei  versi  quantitativi 
latini  nei  bassi  tempi,  ed  origine  della  versificazione  ritmica  (nelle  Me- 
morie dell' Accad.  di  Torino,  serie  II,  t.  XLIII  [a.  1893],  pp.  155-222) 
e  alla  prima  parte  dell'altro  di  F.  D'Ovidio,  Sull'origine  dei  versi  ita- 
liani (nel  Giornale  storico  della  letteratura  italiana,  XXXII  [a.  1898], 
pagg.  1-88);  il  quale,  non  senza  correggere  qualche  errore  e  qualche 
svista  dei  due  primi,  ne  accetta  in  fondo  le  conchiusioni  principali, 
temperandole  per  altro  e  compiendole  con  giudiziose  osservazioni  sue 
proprie,  e  le  riespone  poi  e  le  argomenta  con  invidiabile  limpidezza 
di  discorso  persuasivo. 

^)  Coloro  che  dissentono  da  quest'  opinione  devono  essere  ormai 
ben  pochi,  ed  è  sperabile  che  non  tardino  a  ricredersi.  E.  Stengel, 
il  quale  espresse  già  il  suo  dissenso  nella  Romanische  Verslehre  (nel 
Grundriss  d.  roman.  Philol.,  II,  18  sgg.),  continuò  per  altro  anche  più 
recentemente  a  non  mostrarsene  ben  persuaso  nel  Jahresbericht  d.  roman. 
Philol,  III,  1-2. 


'  CARMINA   DE    MEN^inUS  '    DI    BONVESIN    DA    LA    RIVA  37 

sette  né  meno  di  tredici,  la  quantità  che  dovrebbero  avere 
perché  esso  apparisca  giusto  a  norma  della  prosodia  classica. 
Poiché  per  altro  siffatta  quantità  loro  attribuita  non  sarebbe 
costante  come  nel  latino  dell'età  aurea,  sì  invece  variabile 
suppergiìi  come  nelle  lingue  neolatine,  converrà  considerarla 
sempre  in  rapporto  colle  cause  da  cui  sembra  determinata, 
vale  a  dire  l'ictus  metrico  e  l'accento  grammaticale  ^). 

Ciò  premesso ,  nell'  esametro  ritmico  potrà  accadere 
0  che  una  sillaba,  la  quale,  secondo  la  prosodia  classica, 
sarebbe  breve,  si  trovi  invece  di  una  lunga,  o  viceversa  una 
lunga  invece  di  una  breve.  Sarà  anche  da  tener  conto  dei 
casi  di  sinizesi.  Da  tutti  tre  questi  aspetti  guarderemo  ora 
gli  esametri  del  De  Mensihus. 

1.  Una  sillaba,  che  secondo  la  prosodia  classica  sa- 
rebbe breve,  può  trovarsi  in  quelle  sedi  dove  la  metrica 
classica  richiedeva  una  lunga,  nei  due  casi  seguenti: 

a)  alla  fine  della  parola,  quando  essa  sillaba,  per  la 
sua  posizione  nel  verso,  avrebbe  dovuto,  secondo  la  metrica 
classica,  essere  colpita  àaWictus  metrico  ^). 

Com'è  agevole  intendere,  il   fatto   può  avverarsi   più 


')  Qualche  editore  di  testi  poetici  latini  medievali,  come  per  es. 
E.  VoiGT  nell'Indice  metrico  della  Fecunda  ratis  (Halle,  Niemeyer,  1889), 
si  contenta  di  notare  che  la  tal  sillaba  è  lunga  nei  tali  e  tali  versi 
e  breve  nei  tali  e  tali  altri;  dalla  quale  constatazione  di  per  sé  sola 
non  è  dato,  ci  sembra,  ricavare  alcun  costrutto. 

^)  11  Ronca,  op.  cit.,  p.  96,  osserva  come  questa  regola  fosse  già 
stata  fermata  da  Massimo  Vittorino  {De  rat.  metr.  P.  1966;  K.  vi.  220) 
colle  seguenti  parole:  "  in  heroo  versu  cuiuscumque  pedis  syllaba 
prima,   cum    a  superiore   verbo  remanserit,  promiscue   longa  sit  aut 

brevis,  ut  poeta  voluerit , ,  ed  egli   la  allarga  per  modo  da  dire 

in  generale,  che  "  in  arsi  potessero  stare  legittimamente  anche  sillabe 
•brevi  „,  quand'anche  non  fossero  in  fine  di  parola. 


38  LEANDRO   BIADENE 

facilmente  che  altrove  nella  sillaba  che  secondo  la  metrica 
classica  sarebbe  stata  nell'arsi  immediatamente  precedente 
alla  cesura  semiquinaria,  ossia  alla  cesura  forte  maschile. 
Così  nei  vv.  61,  86,  94,  108^),  124,  136,  137,  139,  140, 
146,  155,  174,  183,  184,  193,  235,  236,  255,  257,  295, 
357,  364,  366,  380,  428.  E,  oltre  che  in  questa  sillaba,  in 
quella  precedente  alla  cesura  semisettenaria,  nei  vv.  124, 
146,  255;  e  soltanto  in  quest'ultima,  nei  vv.  163,  270;  e 
nell'arsi  del  secondo  piede,  nei  vv.  81,  104. 

Fanno  eccezione  a  questa  regola:  immO  29,  143,  ma- 
ronà  193;  sua  acc.  plur.  239  ;  nelle  quali  parole  la  vocale 
finale  da  considerarsi  lunga  anziché  breve,  come  era  nel- 
l'età classica,  si  trova  non  in  arsi  ma  in  tesi. 

h)  avanti  la  fine  della  parola,  quando  sopra  di  essa 
sillaba  cada  l'accento  grammaticale,  anche  se  sopra  di 
essa,  secondo  la  metrica  classica,  non  sarebbe  caduto  l'ictus 
metrico. 

Nel  recare  gli  esempj  sarà  opportuno  distinguere  le 
sillabe  in  arsi  (a)  da  quelle  in  tesi  (t). 

Superfluo  aggiungere  il  segno  di  distinzione  testé  indi- 
cato fra  parentesi,  alle  sillabe  notate  col  segno  di  brevità, 
il  quale  di  per  sé  solo  le  manifesta  in  tesi. 

Verbi  :  U(jat  1  (a)  ma  relègat  1,  fùgat  22  (t),  paro 
102  (a)  ma  preparo  185,  233,  preparare  213. 

Nomi  :  ròsa  104  (t)  ma  ròsas  102,  lupus  140  (t),  ònus 
331  (t)  ma  ònus  \2,  pira  143  (a)  ma  pira  193,  castanea 
185  (a),  òpus   315  (t)   ma  òpus  241;   inoltre  pamctim   99, 


')  Qui,  e  così  pure  più  avanti  nei  vv.  139,  236,  428,  si  considera 
breve,  nell'età  classica,  quale  era  in  fatto,  V-o  di  ego,  che  in  origine 
era  lunga  come  in  èYib  e  come  tale  si  trova  anche  in  Virgilio,  ma 
sotto  la  percussione  (cfr.  Zambaldi,  Metrica  greca  e  latina,  p.  158). 


'  CARMINA    DE    MENSIBUS  *   DI    BONTESIN    DA    LA    RIVA  39 

lt>0  (t),  se,  coutrariamente  all'attestazione  dei  lessici,  l'i 
non  era  già  lunga  nel  latino  classico,  come  pensa  l'Ascoli, 
Archivio  glottol.  ital.  IV,  353n  (cfr.  anche  Korting,  Lateiti.- 
roman.  Wb.  n.  5856). 

Possessivi  :  suo  44  (t),  sua  239  (t),  255  (t)  ma  sua 
03,  sìiis  263,  meo  124  (a)  ma  méus  12. 

Avverbj:  mchil  194  (t)  ma  nìchil  195,  197,  230,  231; 
famen  327  (t)  ma  tdmen  18;  rètro  317  (t). 

Fanno  eccezione  a  questa  seconda  regola:  dolore  13  {t) 
ma  dòloris  137,  retribuendo  194  (a)  ma  rétributio  200,  tor- 
cfdaria  184  (t);  dove  la  sillaba  da  considerarsi  lunga  in- 
vece di  breve  non  si  trova  sotto  l'accento.  Sennonché  quanto 
a  retribuendo,  si  potrebbe  osservare  che  un  accento  gram- 
maticale quasi  altrettanto  forte  di  quello  principale  che 
colpisce  la  penultima  sillaba,  cade  anche  sulla  prima  ;  e 
quanto  a  torcidaria,  secondo  la  quantità  classica  (tórcù- 
làrìa)  sarebbe  stata  voce  da  non  poter  introdursi  nell'esa- 
metro, e  quindi  la  sua  quantità  fu  alterata  per  necessità 
metrica,  causa  quest'ultima  produttrice  di  consimili  altera- 
zioni fino  dall'età  aurea. 

Nei  due  casi  ora  esaminati  l'ictus  metrico  e  l'accento 
grammaticale  producono  dunque  il  medesimo  effetto,  ciò 
che  indirettamente  apparisce  anche  dalla  regola  che  segue. 

2.  Una  sillaba,  che  secondo  la  prosodia  classica  sa- 
rebbe lunga,  può  trovarsi  in  quelle  sedi  dove  secondo  la 
metrica  classica  dovrebbe  stare  una  breve,  in  questo  solo 
caso  :  quando  essa  sillaba,  quale  che  sia  il  suo  posto  nella 
parola,  sempre  per  altro  fuori  dell'accento,  secondo  la  me- 
trica classica,  per  la  sua  posizione  nel  verso,  non  sarebbe 
stata  colpita  à?i\\'ictus  metrico. 


40  LEANDRO    BIADENE 

Cos'i  accade,  con  più  frequenza  che  altrove,  nella  vo- 
cale finale  della  prima  persona  singolare  del  presente  del- 
l'indicativo dei  verbi:  depellò  20,  prebeó  43,  piatito  50,  se- 
mino 74-,  99,  tondeò  99,  paro  102,  collido  193,  fero  187, 
preparò  185  (e  233?),  condió  206,  porrigò  208,  vitó  306, 
cai'pò  307,  tracio  313,  respondeó  325,  ^rac?o  328. 

Invece  in  arsi:  dò  24,  73  (il  primo  dei  due)  74,  307, 
303,  424,  renilo  89,  defendò  110,  Ugonisó  130,  fundò  184, 
maturo  187,  consumò,  cantò  308,  induco  240,  fructiferò  307, 
fructificò  310,  320,  referò  325,  /"ado  329,  spargo  328,  t'acf> 
367.  Ciò  per  altro  non  toglie  che,  secondo  la  prosodia  clas- 
sica, si  abbia  anche  in  ^esj;  j^eró  308  (il  primo),  dò  73, 
192,  325,  per  non  tener  conto  di  quiesco  307,  quero  308, 
321,  spjecto  316,  in  fine  di  verso,  dove  l'ultima  sillaba  può 
essere  così  lunga  come  breve. 

Altra  breve  invece  di  lunga,  in  tesi:  preparare  213; 
invece  la  stessa  preposizione  pre  in  arsi  e  in  parole  com- 
poste è  sempre  lunga:  prépositus  59,  prècipitetur  61,  pre- 
paro 185,  prècipiendo  318,  prèposuit  344,  prènieditari  422. 

Similmente  in  tesi:  ergo  29,  40,  139,  168,  243,  ma  in 
arsi:  ergo  60,  e  così  pure  in  tesi:  85,  366,  389. 

Quanto  alla  quantità  della  finale  di  preterea  124,  ne 
tocchiamo  qui  appresso. 

3.  Sinizesi:  céu  2,  104,  236,  fuit  38  ma  fuit  58, 
cut  122,  162,  copiàm  144  ma  copia  162,  231,  dentmm  ^)  334, 

')  Potrebbe  venire  il  dubbio  di  dover  leggere  dentum,  forma  la  cui 
esistenza  è  attestata  da  un  esempio  recato  dal  Forcellini;  ma  oltre 
che  in  altri  testi  occorrono  analoghi  esempj  della  sinizesi  '-ti-,  secondo 
la  pronuncia  popolare,  giova  notare  che  appunto  dentium  sta  nel  ver- 
setto della  Bibbia  qui  in  parte  riprodotto  da  Bonvesin,  come  si  può 
vedere  più  avanti  nella  nota  apposta  a  cotesto  verso  334. 


'  CARMINA    DE    ME.NSIBUS  '    DI    BONVESIN    DA    LA   RIVA  41 

huic  417,  lìinTìis  255.  davanti  a  parola  principiante  per 
consonante  e  quindi  forse  anche  lulàis  128,  sebbene  davanti 
a  parola  principiante  da  vocale.  Quanto  ad  liTis  309,  375, 
411,  piuttosto  che  dell'unione  fonetica  delle  due  vocali,  si 
tratta  di  un  vezzo  ortografico,  come  spiegheremo  meglio 
più  avanti.  In  Februs  4,  248,  354  per  Februus  e  in^rop-rs 
189  per  j^ropriis  la  sinizesi  è  indicata  anche  dalla  scrittura, 
se  questa  è  giusta  come  in  7iil  41,  95,  123,  141,  156,  usato, 
si  sa.  pur  nell'età  classica  e  a  cui  dovrà  ridursi  anche  ni- 
cìiil  325.  Notevole  che  in  preterea  124  -ea  sia  ridotto  a  una 
sola  sillaba  breve,  ma  nei  vv.  362,  367  si  ha,  come  nel 
tempo  classico,  preterèa  ^). 

Dopo  ciò  rimangono  sempre  alcuni  versi,  pochi  a  dir 
vero,  che  o  assolutamente  non  tornano,  anche  secondo  la 
teorica  dell'esametro  ritmico,  o  che  è  molto  dubbio  se  tornino. 

Li  esamineremo  ad  uno  ad  uno. 

II  v.  27  è  tale: 

salvus  erit  et  celestia  regna  tenebit. 

La  quantità  delle  due  prime  parole,  secondo  la  pro- 
sodia classica,  sarebbe  salvus  érti.  Perché  il  verso  tornasse 
bisognerebbe  invece  che  la  quantità  fosse  salvus  èrlt,  e 
anche  così  non  sarebbe  verso  bello,  mancando  della  vera  e 
propria  cesura;  e  devesi  aggiungere  che.  anche  secondo 
le  regole  dell'esametro  ritmico,  non  sembra  possibile  che 
le  tre  brevi   si  trovino  nel    posto   delle    tre    lunghe.  Non 


')  Il  Ronca,  op.  cit.,  p.  91,  nota  che  era  "  adoperato  spesso  breve 
fin  dall'età  di  Marziale  V-a  degli  avverbi  e  aggettivi  numerali  „.  Cfr. 
anche  Ramokino,  op.  cit.,  p.  177.  Nel  v.  124  di  Bonvesin  resta  per 
altro  sempre  notevole,  computando  pur  breve  V-a  di  preterèa,  che 
funga  da  breve  anche  tutta  la  sillaba  -eà. 


42  LEANDRO   BIADENE 

sembra,  diciamo  ;  non  essendo  mai  troppa  in  questa  materia 
la  cautela  delle  affermazioni.  Viene  il  dubbio  che  l'autore 
abbia  scritto  o  abbia  avuto  intenzione  di  scrivere  atque  in- 
vece di  et,  e  cosi  l'esametro  sarebbe  ritmicamente  regolare  : 

salvùs  èrit  atquè  cèlèstia  regna  tènèbìt 

dove  V-it  di  erit  e  il  que  di  atque,  trovandosi  in  arsi,  po- 
trebbero,  benché    brevi,   essere    computate    come    lunghe, 
quali  appariscono  nel  nostro  schema. 
Sbagliato  dev'essere  il  v.  177: 

nos  ridet  innocuos  et  sub  pede  calcat. 

Si  accomoderebbe  leggendo  deridet  invece  di  ridet,  so- 
stituzione in  certo  qual  modo  consigliata  anche  dal  v.  88  : 
"  cìim  nos  fructiferos  sterilis  derideat  ille  „.  Bisognerebbe 
per  altro  considerare  lunga  anche  Vet  finale,  sebbene  da- 
vanti a  parola  incominciante  da  vocale  e  in  tesi,  e  leggere 
dérldét. 

E  il  V.  233 

sed  nos  multa  quidam  facimus:  preparo  ligna 

è  ritmicamente  giusto?  Non  sarebbe  del  tutto  giusto  nep- 
pure leggendo  preparo,  ammettendo  cioè  uno  spondeo  nel 
quinto  piede,  giacché  in  tal  caso  converrebbe  avere,  e  qui 
invece  non  si  ha,  un  dattilo  nel  quarto.  Che  dinanzi  a 
preparo  sia  omesso  ego? 
Nel  V.  136 

et  dare  quam  carperà  legitur  plus  esse  beatum 

probabilmente  invece  di  carpere  è  da  leggere  capere. 
Sbagliato  certamente  è  il  v.  188 

ac  agriculturas  facio  quibus  semina  prima  seruntur 


'carmina    de   MENSIBIS  '    DI   BONVESIN    DA    LA   RIVA  43 

da  correggere  cosi: 

cultui-as  facio  quis  semina  prima  seruiitur; 
e  similmente  sbagliato  è  il  v.  312 

aut  agriculture  quid  opus  sit  consilium  do, 

dove  è  da  leggere  culture  invece  di  agricuUtire. 
E  nel  V.  156 

sed  dir  hoc  patimur?  ecce  vivit  prodigus  ille 
sarà  da  sostituire  e)i  ad  ecce. 

Osservazioni  lessicali.  —  Non  mancano  nel  nostro  testo 
alcune  voci  notevoli  o  per  la  loro  forma  o  per  il  loro  signi- 
ficato, e  le  passeremo  ora  in  rassegna. 

petitos  (?),  5  "  ceno  fedatus  caligas  et  utrosque  petitos  „ . 
La  parola  manca  ai  lessici  e  forse  è  male  scritta.  Non  in 
tendiamo  che  cosa  veramente  significhi.    Che    si   tratti  di 
un  derivato  di  pes? 

Februs,  4,  248,  354,  per  Fehruarius.  Ne  reca  un  solo 
esempio  il  Du  Gange,  che  ne  cita  due  o  tre  (e  si  potrebbe 
aumentarne  il  numero)  della  forma  distesa  Februus,  voce 
registrata  dal  Forcellini  soltanto  nel  significato  di  "  Fiuto, 
vel  pater  Plutonis  „. 

lanus,  6,  28,  35,  44,  51,  ecc.,  per  lanuarius.  Il  For- 
cellini s.  v,,  §  12.  reca  il  solo  esempio  di  Ovidio,  Fast.,  II,  1: 
"  lanus  habet  finem  :  cum  Carmine  crescit  et  annus  „  e 
nessuno  il  Du  Gange;  ma  qualche  esempio  medievale  non 
manca.  Gosi  una  ben  nota  serie  di  versi  sui  dies  aegyptiaci 
principia:  "  lani  prima  dies  et  septima  fine  timetur  „ 
(Baehrens,  PLM,  V,  354),  e  un'altra:  "  Prima  dies  lani 
timor  est  et  septima  vani  „  (Valentinelli,  Bibliotheca  Ma- 


44  LEANDRO    BIADENE 

imscripta  ad  S.  Marcì  Venetiarum,  I,  277);  e  nel  Regimen 
della  Schola  Salernitana  leggiamo:  "  In  lano  claris  cali- 
disque  cibis  potiaris  „  (De  Renzi,  CoUectio  Salernitana, 
Napoli,  1852,  t.  I,  446). 

festinus,  62,  378.  In  tutti  due  i  versi  è  l'epiteto  di 
Aprile  (festinus  Aprilis),  il  quale  nei  luoghi  corrispondenti  del 
testo  italiano  (st.  3P,  167-'^)  è  detto  cortese  (Aprii  cortes). 
Può  venire  il  dubbio  che  invece  di  festinus,  come  reca  chia- 
ramente il  codice,  sia  da  leggere  festivus,  ma  è  dubbio  che 
quasi  del  tutto  dilegua  quando  si  abbiano  presenti  i  due  versi 
378-79  :  "  Tunc  alacri  facie  coram  festinus  Aprilis  Festive 
loquitur  ut  lani  mitiget  iram  „  ;  dove  festive  è  di  lettura 
altrettanto  sicura  di  festinus.  Converrà  dunque  ammettere 
che  quest'ultimo  aggettivo  dal  significato  primitivo  e  usuale 
di  '  presto,  veloce  ',  sia  passato,  come  non  era  diffìcile,  a 
quello  di  '  agile,  svelto  '  e  quindi  '  leggiadro  '  e  forse  per- 
sino '  cortese  '.  Per  l'evoluzione  del  significato  farebbe 
riscontro  l'ital.  snello,  che  giunge  a  dire  appunto  anche 
'  leggiadro'  ,  dal  tedesco  scimeli  '  rapido,  veloce  '. 

])liylomena,  11 .  Il  ras.  ha  phylomè,  abbreviatura,  piut- 
tosto che  della  forma  classica  phylomela,  della  neolatina 
2)hylo)nena  ;  la  quale,  del  resto,  s'incontra  anche  in  altri 
testi  medievali  latini. 

affìigerei?),  98,  "  a  se  bufones,  serpentes  affuyit  omnes  „. 
Probabilmente  sarà  da  correggere  affugat  adoperato  nel 
senso  del  semplice  fugat  (vedi  Du  Gange  s.  v.  affugare). 

facetus,  109,  "  et  equis  facetus  et  armis  „.  Ha  il  signi- 
ficato, in  cui  fu  usato  spesso  nel  medioevo,  di  '  elegante, 
leggiadi-o  '. 

in  sero,  116,  141.  Locuzione  avverbiale  a  cui  nel  testo 
italiano  risponde  da  eira  (st.  58*,  69''). 


'  CARMINA    DE    MENSIBUS  '   DI    BONVESIN    DA    LA    RIVA  45 

Hijoniso,  130,  '  ligone  fodio  '.  Il  Dii  Gange  e  anche  il 
De  Vit  (aggiunte  al  Forcellini)  riportano  da  Giovanni  di 
Genova:  "  Ligonizare,  sarpere,  ligone  terram  vertere.  Ver- 
bum  notum  Columellae  „.  Tre  esempj  dal  pseudo-Agostino 
aggiunge  A.  Funk,  Die  Verha  auf  issare  und  izare  [Archiv 
f.  latein.  Lexicographie,  III,  410  e  vedi  anche  258). 

amygdola,  164,  invece  di  amyydala.  La  parola  ha 
dunque  Vo  che  le  è  proprio  in  alcuni  dei  riflessi  neolatini, 
e  col  quale  comparisce  anche  in  qualche  altro  testo  me- 
dievale latino  (cfr.  Schuchardt,  Vokalismtis,  1,  37,  e  spe- 
cialmente 219).  Già  xìqW Appendix  Probi  (Keil,  G ramni, 
lat.,  IV,  Lipsia,  1862,  p.  198,  1.  26)  si  osserva  che  la 
forma  giusta  della  parola  è  "  amigdala  non  amigdala  „, 
con  che  ci  si  fa  indirettamente  sapere  che  si  pronunciasse 
0  si  scrivesse  anche  in  quest'ultima  maniera.  Il  Du  Gange 
registra  un  solo  esempio,  e  molto  tardivo,  di  amigdala 
per  amigdala,  ma  non  omette  di  notare,  dietro  il  Diefen- 
bach,   "  amiqdalum,  -olum  „. 

in  succidilo,  207  :  "  porci  sale  condio  carnes  Quas  iti 
succidilo  commedit  sopissimo  lanus  „.  Il  Forcellini  ha  sol- 
tanto l'aggettivo  succiduus  '  cadente,  caduto  ',  col  quale  per 
il  senso  e  l'etimo  nulla  ha  che  vedere  il  nostro,  e  succidia 
'  carne  porcina  salata  ',  che  sarà  invece  tutt'  uno  colla 
'  carne  in  succidilo  ' . 

"  ligie,  tiiceta,  multis  quoque  partibus  hirne  „,  235.  Ai 
tre  termini  fanno  riscontro  nel  testo  italiano  (st.  100^"^)  lu- 
ganege,  indugeri,  tornasele  con  cervelao,  senza  che  si  possa 
dire  che  le  parole  latine  e  volgari  si  corrispondano  l'una 
all'altra  nell'ordine  in  cui  sono  disposte;  ma  è  certo  che 
tutti  tre  sono  nomi  di  carni  trite  e  salate  preparate  in  varia 
maniera.  Esaminiamo  separatamente  ciascuna  delle  tre  voci 


46  LEANDRO   BIADENE 

latine.  Il  Forcellini  spiega  hillae  '  intestini,  budelle  ',  aggiun- 
gendo {§  3)  che  il  termine  è  proprio  "  et  de  intestinis  fartis 
vel  salitis  „.  Secondo  iìForceWìnì  tucetum  o  tuccetiim  voce  dì 
origine  celtica  significherebbe  *  tocchetto,  intingolo,  guaz- 
zetto ',  ma  per  il  nostro  testo  varrà  meglio  la  spiegazione 
di  Giovanni  da  Genova  riferita  dal  Du  Gange  "  Gibus  qui 
fìt  ex  carnium  contusione  sicut  salcicia  est  „.  Cfr.  anche 
Korting,  Late'm.-roman.  Wb.,  n.  8414,  il  quale  nota  come 
con  diverso  suffisso  si  abbia  la  stessa  parola  nel  catalano 
tocin,  spagnuolo  tocbio,  portoghese  toucinho,  e  rimanda  al 
Diez,  EWb.  s,  v.  tochio  e  al  Grober,  Archiv  f.  latein.  Le- 
xicograiohie,  VI,  135.  È  la  stessa  parola,  domandiamo  noi, 
anche  il  veneto  tocìo,  che  significa  appunto  'guazzetto, 
intinto  '?  Quanto  alla  terza  voce,  sarebbe  notevole  per  questo, 
che  sembra  non  se  ne  conosca  alcun  altro  esempio  di  un 
determinato  autore  e  soltanto  il  Du  Gange  riferisce  da  un 
glossario  latino-italiano  manoscritto  "  hirna  la  salsiza  „. 
Sarà  probabilmente  un  derivato  di  hira  come  hillae. 

variamine,  252.  Un  solo  esempio  della  voce  variamen 
è  registrato  nell'ultima  edizione  del  Du  Gange,  nessuno 
dal  Forcellini.  Qui  notiamo  che  lo  stesso  Bonvesin  la  ado- 
pera anche  nella  Vita  Scholastica  (v.  9), 

substentat,  258.  Invece  di  se  substentat. 

eccturbo,  282,  "  esturbo  turbine  strati  „.  Il  Forcellini 
registra  turbus  '  qui  turbat  '  ed  exturbatus  '  cacciato  fuori, 
expulsus,  dejectus  ';,  due  forme,  per  così  dire,  riunite  in 
quella  del  nostro  testo.  Exturbus  significherà  '  violento,  im- 
petuoso '. 

induperator,  342  per  imperato)'.  Voce  arcaica  ma  ado- 
perata anche  da  Giovenale  (cfr.  Forcellini).  Si  noti  che  tale 
titolo  è  dato  a  Numa. 


•CARMINA    DE    MENSIBUS  '    DI    BONVESIN    DA    LA    RIVA  47 

Mutamento  di  genere  e  di  numero.  Sarebbero 
considerati  come  neutri  plurali  i  sostantivi  femminili  sin- 
golari agresta  1-45,  castanea  185,  sull'analogia  di  altri  nomi 
di  frutta,  che  ricorrono  in  copia  nello  stesso  nostro  testo  : 
cerasa,  fraga  100,  prima,  poma,  mora  124,  pira  143,  193, 
marona  193,  ecc.;  se  pure  invece  di  multa  videntur  agresta 
non  è  da  leggere  multa  videtxir  a.  e  castanea  pulcra  ma- 
turatur  invece  di  maturantur. 

Grecismi.  Sono  due:  cauma  112  '  arder,  aestus,  caler 

intensus  '  e  pir  274,  313  '  focus  '.  Del  primo  reca  più  d'un 

esempio  il   Du    Gange    e    lo    registra  anche    il    Forcellini 

(ediz.  De  Vit),  che  non  ne  adduce  però    esempj  classici  e 

rimanda  per  la  spiegazione  a  Isidoro.  L'altro  invece,  ignoto 

ai  lessici  latini,  è  da  Bonvesin  adoperato  nella  frase  sedere 

ad  pir,  come  da  Fra   Salimbene,  Chronica   (Parma,  1857), 

p.  399  1): 

Dura  trutaunus  in  m.  pateram  tenet  et  sedet  ad  x)ir 
Regem  Cappadocum  credit  habere  cocum. 

Incongruenze:  mileum  100  ma  milium  181;  ligu- 
mina  181  ma  legumina  42;  posteriori  {sihì)  227  q  posteriore 
358  ;  e  per  ragione  ritmica,  agevolata  dalla  pronuncia  vol- 
gare, dextra  261,  277  ma  dextera  51. 

OssERVAZioxi  ORTOGRAFICHE.  —  L'ortografia  del  nostro 
testo,  confrontata  con  quella  degli  altri  testi  latini  medie- 
vali, non  offre  in  fondo  nulla  di  singolare.  Nondimeno  ora 
che  anche  l'ortografia  latina  medievale  si  studia  metodica- 
mente, non  parrà  superfluo  l'esame  piuttosto  minuto  che 
faremo  di  quella  del  nostro  testo,  richiamandoci  sempre, 
per  le  spiegazioni  e  i  raffronti,  all'ottimo  capitolo  sull'Or- 

')  Questo  luogo  di  Fra  Salimbene  mi  fu  indicato  dal  prof.  No  vati. 


48  LEANDRO   lilADENE 

tografia,  che  fa  parte  della  magistrale  Introduzione  del 
Rajna  all'edizione  da  lui  curata  del  Trattato  De  vulgari  elo- 
quentia  dell'Alighieri  (Firenze,  Succ.  Le  Monnier,  1896), 
capitolo  che  dovrà  esser  sempre  tenuto  dinanzi  dagli  editori 
di  testi  medievali  latini;  come  egli  fra  i  lavori  moderni 
ebbe  presenti  gli  utilissimi  Notices  et  extraits  de  divers  ma- 
nuscrits  latins  pour  servir  à  l'histoire  des  doctrines  yramma- 
ticales  au  moyen  mje  (Notices  et  extraits  des  manuscrits  de 
la  Bihl.  Impér.  etautres  Bihl,  tom.  XXII,  p.  2'':  Parigi,  1868) 
di  Ch.  Thurot,  a  cui  noi  pure  avremo  l'opportunità  di  riferirci. 

-ti  e  -ci  davanti  a  vocale  (Rajna,  op.  cit.,  p.  CLXII  sgg.). 
La  confusione   già   incominciata   nell'antichità   fra   ti  e  ci 
davanti  a  vocale  e  cresciuta  poi  d'assai  nel  medio  evo,  si 
riscontra  naturalmente  anche  nel  nostro  testo.  Va  per  altro 
notato  che   in  esso  è  in   generale  difficile  distinguere  il  t  m 
dal  e,  e  quindi   l'incoerenza  dei  modi  in  cui  è  veramente 
scritta  una  stessa  parola  potrebbe  essere  minore  di  quello     « 
che  è  sembrato  a  noi,  che  abbiamo  letto  :    solatia  1  e  so-     a 
lacia  196,  308,  321  ;   oda  13  e  otia  106,  vicium  28,  viciis 
107  e  vitium  291;  nequitie  29  e  nequicia  388;   ratione  39, 
rationes  373  e  racione  68;  potius  66  e  pocius  121  :  patientia 
389,  406  e  paciencia  337.    Inoltre  sapientia  341    ma  exer- 
cicio  70,  leticie  79,  spaciunique  367  e  per  contro  effitiens  9. 

-et-  =  -tt-  gucture  86.  Scrizione  altrove  frequentissima. 

-mpn-  =  -mn-  (Rajna,  op.  cit.,  p.  CLXXIII)  :  tyrampnus 
38  ma  tyranno  201,  tyrannus  346;  aiitumpnus  165,  au- 
tumpni  213. 

-nt-  =  -mpt-  (Rajna,  op.  cit.,  p.  CLXXXI)  :  temptoria  254. 

n  per  m  davanti  a.  q  e  b.  Il  ms.  reca  distesamente 
umquam  166  e  tamquam  171  col  m  davanti  al  q;  nono- 
stante sciogliamo  in  nunquam  il  nùquam  del   ms.  tutte  le 


•  CARMINA    DE    MENSIBUS  '   DI   BONVESIN    DA    LA   RIVA  49 

volte  in  cui  occorre  (167,  198,  361,  390,  391,  404),  in 
quicunque  il  quiciìque  (80,  141,  223),  in  quanquam  il  qq^ 
(16),  giacché  questa  era  la  comune  scrittura  medievale  di 
tali  parole  (Rajxa,  op.  cit.,  p.  CLIX-LXII),  e  ci  sembra  più 
facile  ammettere  che  il  copista  intendesse  di  attenersi  ge- 
neralmente ad  essa,  pur  essendosene  scostato  un  paio  di 
volte,  che  non  il  contrario  ;  tanto  più  che  egli  è  caduto  in 
altre  incoerenze  ortografiche.  Analogamente  mewòra  108, 131. 
Rimane  tuttavia  un  po'  d'incertezza  intorno  a  cotesto  par- 
ticolare. Sempre  poi  tenendo  conto  delle  abitudini  e  delle 
norme  ortografiche  medievali,  mettiamo  per  contro  m  in- 
vece di  n  pur  davanti  a  q  dovendo  sciogliere  nimiaque  12, 
spaciiìque  367,  giacché  qui  il  monosillabo  principiante  per  q 
non  è,  per  così  dire,  che  provvisoriamente  unito  alla  pa- 
rola precedente  (cfr.  Rajxa,  1.  e).  Del  pari,  sciogliendo 
l'abbreviatura,  stampiamo  September  169,  November  206, 
December  218,  col  m  di  septem,  novem,  decem. 

Quanto  ad  hiis  309,  375,  411  per  his,  il  doppio  i  è  do- 
\uto  alla  fusione  e  confusione  avvenuta  nel  medio  evo  di 
hic  e  is,  come  bene  mostrò- il  Rajna,  op.  cit.,  p.  CLXXX-XI. 
Già  i  grammatici  medievali  notarono  che  si  doveva  scrivere 
ìiii  e  leggere  hi. 

Nel  primo  m  di  secumdum  160  ravviseremo  quello  di 
stcnm;  deve  trattarsi  di  svista  dell'amanuense,  il  quale  più 
avanti  scrisse  secundus  251. 

Quanto  a  micM,  nichil,  sono  scritti  sempre  col  eh,  come 
di  regola  nel  medio  evo.  Cfr.  Thurot,  op.  cit.,  p.  142  e  533. 

Anche  in  questo  testo  si  ha,  secondo  l'uso  medievale  più 

comune^  abiciunt  282  con  un  solo  i  (cfr.  Rajxa,    op.   cit., 

p.  CLXXXI)  e  attendens  385  (cfr.  Rajxa,  op.  cit.,  p.  CLVI). 

Uso  dell'/?.  —  Il  ms.  ha  habiinde  9,  210,  415  e  ha- 

Studj  di  filologia  romanza,  IX,  4 


50  LEANDRO    BIADENE 

hundo  145,  ortografia  riprovata  dai  grammatici,  fra  cui  dal 
commentatore  di  Prisciano  del  sec.  XIU,  Pietro  Elia,  il 
quale  avverte:  "  Plerique  tamen  dicunt  habundo/per  h  aspi- 
rationem.  Quod  sì  dicitur,  simplex  est  et  derivatum  ab 
habeo  „  (cfr.  Thurot,  op.  cit.,  p.  533,  nota  a  p.  142,  1.  7 
e  p.  521,  nota  a  p.  79,  1.  18j. 

Se  negli  esempj  ora  recati  si  ha  un  Jl  non  etimolo- 
gico, questo  per  contro  è  omesso  in  ortos  51,  ortografia 
approvata  dai  grammatici  ;  giacché,  come  dice  Velie  Longo, 
si  deve  scrivere  ortus  e  non  hortus,  essendo  il  luogo  così 
denominato  "  quod  ibi  herbae  oriantur  ,,  (cfr.  Rajna,  op. 
cit.,  p.  CLXVI).  È  tralasciato  pure  ìli  in  anneìitus  33  in- 
vece di  anhelitus  e  in  pulcra   185  ma  pulchra  428. 

Uso  dell't/  (cfr.  Rajna,  op.  cit.,  p.  CLXX).  —  Re- 
lativamente abbastanza  frequente:  lujems  21,  hyemem  20, 
22,  214,  liyemales  117;  ymmo  (cfr.  Rajna,  p.  CLXXII)  29, 
39,  143,  347  e  quindi  anche  yma  61,  giacché  da  questo 
aggettivo  si  credeva  e  da  taluni  ancora  si  crede  derivare 
l'avverbio  (cfr.  Rajna,  p.  CXC),  ma  ima  232;  tyrampnus 
38,  tyranno  201,  tyrannus  346;  hyle  235;  phylomena  77; 
amygdola  260,  dyademate  346,  hystoria  422  e  nel  terzo  dei 
leonini  finali. 

Uso  del  ph  (cfr.  Rajna,  op.  cit.,  p.  CLXXII),  —  phy- 
lomena 11. 

Raddoppiamento  di  consonanti.  — Per  effetto 
della  pronuncia  volgare:  tolleremus  67,  tollerare  219,  in- 
tollerabile 334  ^).  Inoltre  anneìitus  33,  commedo  132,  commedit 


*)  Nei  tre  esempj  ora  citati  il  raddoppiamento  della  consonante 
non  ha  per  altro  l'effetto  di  far  considerare  come  lunga  ^er^osi^iowe 
la  vocale  che  precede,  posto  che  i  versi  si  scandiscano  quantitati- 
vamente: Vo  va  computato  breve  come  nel  classico  tólerare. 


'  CARMINA    DE    MENSIBUS  '    DI    BONVESIN    DA    LA    RIVA  51 

194,  207,  a  quella  stessa  guisa  che  già  nell'evo  classico  si 
scriveva  commissoì'  e  commissatio  oltre  che  comissor,  comis- 
satio  (cfr.  Forcellini,  s.  v.).  In  Numma  343  il  raddoppia- 
mento deve  essere  conseguenza  di  un  falso  rapporto  eti- 
mologico, che  si  credeva  esistere  fra  questo  nome  e  numus, 
come  apparisce  dalle  seguenti  parole  di  Isidoro,  Eti/moL,  VI, 
18,  10:  ""  Numi  a  Numa  Romanorum  rege  vocati  sunt  „.  Ora, 
poiché  contro  i  grammatici  (cfr.  Rajxa,  op.  cit.,  p,  CXC) 
accanto  a  numus  si  scriveva  anche  nummus,  cosi  si  credette 
poter  scrivere  anche  Numma. 

Consonanti  scempie  invece  di  doppie:   sucos 
116,  ìiyle  235,  tuceta  23C  ^),  maleus  260. 

AWEETIMENTI    SUL    MODO  DI  PUBBLICAZIONE   DEI    CARMINA. 

—  L'ortografia  è  quella  del  manoscritto;  sono  per  altro 
sciolte  le  abbreviature,  seguendo  nei  pochi  casi  dubbj  i 
criterj  esposti  qui  indietro  (p.  49);  è  rammodernata  e  in- 
tegrata l'interpunzione^),  e  in  carattere  grasso  sono  aggiunte 
le  iniziali  per  le  quali  nel  manoscritto  è  lasciato  lo  spazio 
bianco  e  che  indicano  le  principali  divisioni  del  poemetto^ 
Fra  l'una  e  l'altra  di  quest'ultime  poi  è  sembrato  oppor- 
tuno lasciare  nella  stampa  l'intervallo  di  una  linea.  Gli 
errori  manifesti  di  scrittura  sono  emendati  nel  primo  or- 
dine di  note.  Fra  parentesi  quadre  chiudiamo  i  tre  versi  che, 
come  già  dicemmo  (p.  29),  si  palesano  interpolati,  e  così 
pure  il  titolo  Bonvicini  carmina  de  mensibus,  tolto,  come 
parimenti  avvertimmo  (p.  26),  dalla  Tavola  del  manoscritto. 

*)  Mettiamo  qui  anche  questo  esempio,  giacché,  secondo  il  Marx, 
si  dovrebbe  scrivere  tuccetum  con  doppio  e  e  non  tucetum.  Cfr.  Archiv 
f.  latein.  Lexicographie,  VI,  135. 

^)  Nell'interno  dei  versi  le  varie  pause  del  senso  sono  indicate  nel 
manoscritto,  raramente  del  resto,  dalle  solite  asticelle. 


52  LEANDRO   BIADENE 

Quanto  al  modo  in  cui  il  poemetto  è  illustrato,  già  in 
questa  Introduzione  è  stato  mostrato  come  Bonvesin  abbia 
svolto  il  tema  da  lui  preso  a  trattare  esaminando  anche 
a  parte  a  parte  la  composizione,  il  ritmo,  il  lessico,  l'orto- 
grafia del  poemetto.  E  la  storia  del  tema  stesso  è  per  così 
dire  documentata  nell'Appendice.  Nel  secondo  ordine  di  note 
poi  onde  il  testo  è  accompagnato,  intendiamo  principalmente 
di  mostrare  quanto  nei  particolari  contenga  di  tradizionale 
0  comunque  derivato  da  altre  fonti,  e  ci  fermiamo  inoltre 
a  dichiarare  qualche  parola  o  espressione  del  medesimo 
testo  latino,  e,  ove  si  presenti  l'opportunità  del  raffronto, 
anche  di  quello  italiano,  e  aggiungiamo  qualche  altra  os- 
servazione e  spiegazione. 

Giunti  alla  fine  del  lavoro,  sentiamo  il  bisogno  di  ringra- 
ziare tutti  quelli  che  benevolmente  ci  aiutarono  a  compirlo. 
Riservandoci  di  menzionare  gli  altri  più  avanti  di  mano 
in  mano  che  se  ne  offrirà  l'opportuna  occasione,  qui  in- 
tanto nominiamo  il  prof.  F.  No  vati,  il  quale  ebbe  la  bontà 
di  rivedere  sul  manoscritto  la  copia  da  noi  eseguita  e  colla 
sua  perizia  paleografica  assicura  dell'esattezza  della  mede- 
sima, e  il  prof.  I.  Della  Giovanna,  a  cui  piti  tardi  ricor- 
remmo per  alcuni  ragguaglj,  da  lui  gentilmente  trasmessici, 
intorno  al  manoscritto  stesso.  Soprattutto  poi  vive  grazie 
dobbiamo  rendere  al  prof.  A.  D'Ancona,  il  quale,  al  solito, 
ci  fu  largo  di  libri  da  consultare  e  inoltre  sul  tema  da  noi 
preso  a  studiare  ci  fornì  alcune  notizie  non  contenute  ne'  suoi 
scritti  e  che  riferiremo  via  via  col  suo  nome. 

Leandro  Biadene. 


*  CARMINA    DE    MENSIBUS  '    DI   BONVESIN    DA    LA    RIVA  53 


[BONVICINI  CARMINA  DE  MENSIBUS] 

Ms.  Vaticano  3113. 


H 


ic  legat  relegat  quisquis  solatia  querens  [123^] 

ceu  menses  voluere  suum  deponere  regem. 

1.  Il  testo  volgare  principia: 

Moresta  da  ventagio  ki  vor  odi  cantare, 
io  Bonvesin  da  Riva  la  voglio  determinare 
come  s'alomenta  li  mesi,  vegliando  depotestare 
lo  so  segnore  Zenere,  ke  no  debia  piìi  regnare. 

Solatia  del  testo  latino  corrisponde  a  moresta  da  ventagio,  locuzione 
fin  qui  non  esattamente  intesa  e  tanto  meno  spiegata.  Le  varie  spie- 
gazioni finora  proposte  della  parola  moresta  si  possono  trovare  rac- 
colte nel  Glossar  zu  den  Gedichten  des  Bonvesin  da  Riva,  Berlin,  1886, 
di  A.  Seifert;  il  quale  per  altro,  a  essere  compiutissimo,  avrebbe 
dovuto  aggiungere  che  il  Wesselofsky  nello  scritto  da  lui  citato  {Pro- 
pugnatore, V  n,  370)  mentre  inchina  a  credere  che  invece  di  moresta 
sia  da  leggere  moresca  '  specie  di  lotta  e  di  scherma  ',  avanza,  sia 
pure  con  maggiore  esitazione,  anche  due  altre  ipotesi  :  che  1'  autore 
avesse  scritto  o  intenzione  di  scrivere  movesta  '  mossa  '  con  valore  di 
sostantivo  '  movimento  '  (e  questa  è  altresì  l'opinione  dell'Ascoli,  Ar- 
chino glottologico  ital.,  II,  406  e  cfr.  Romania,  II,  115),  oppure  molesta 
invece  di  molestia.  Or  bene,  quest'ultima,  come  ora  vedremo,  è  ap- 
punto la  parola  voluta  scrivei'e  dall'autore  ;  soltanto  non  è  necessario 
alterarne  la  forma  moresta,  dove  si  avrà  la  riduzione  di  l  in  r  frequente, 
com'è  noto,  tra  vocali  nell'antico  lombardo  più  che  nel  moderno.  E 
che  così  sia  veramente,  vale  a  dire  che  moresta  non  solo  possa  cor- 
rispondere ma  corrisponda  anche  in  fatto  a  molesta,  apparisce  dal 
confronto  di  due  poesie  dello  stesso  Bonvesin  contenute  in  due  di- 
versi manoscritti  e  contenenti  le  due  diverse  forme  di  questa  che 
diciamo  essere  una  sola  e  medesima  parola.  Parlando  di  ciò  che  av- 
-verrà  dei  buoni  il  giorno  del  Giudizio,  così  si  esprime  (D  837)  : 


54  LEANDRO   BIADENE 


c 


onvenerunt;  livore  suas  dictante  qnerelas 
nequiter  effundunt.  Primus  fert  talia  Februs 

Et  intre  lor  ha  esse  sì  confoiiabel  festa 
ke  mai  no  fo  vezuda  così  zentil  moresta; 
li  zogi  e  li  conforti  k'an  esse  in  quella  jesta 
seran  da  tute  le  parte  in  la  cita  celesta. 

E  in  una  poesia  inedita  descrivendo  le  glorie  del  Paradiso,  esclama 
(S  III,  181): 

Oi  deo,  splendore  purissimo  in  la  cita  celeste, 
corno  questo  è  grande  conforto  e  quen  zentile  molesta! 
qui  non  piove  ne  fiocha,  qui  non  dà  tempesta, 
^  ma  el  gè  è  strabello  temporio  e  stradulcissima  festa. 

E  più  sotto  (349): 

Oy  festarcza  gloria,  oy  glorioxa  festa 
mirare  cotale  dolceza,  cossi  mirabile  gesta  ; 
mirare  le  faze  de  li  angeli  in  la  cita  celeste 
e  le  faze  de  li  arcbangeli,  tropo  è  zentile  molesta. 

Può  esserci  più  dubbio  che  moresta  e  molesta  non  sieno  due  diverse 
forme  di  una  stessa  parola?  Quanto  poi  a  molesta  per  molestia,  la 
Crusca,  è  vero,  non  ne  riporta  alcun  esempio,  ma  il  Dizionario  del 
Tommaseo  e  del  Bellini  nota  tal  voce  "  in  un  verseggiatore  del  300  , 
e  aggiungiamo  noi  che  essa  si  trova  anche  in  uno  dei  sonetti  attri- 
buiti a  Guido  Cavalcanti  (vedi  G.  Salvadori,  La  poesia  giovanile  e  la 
canzone  d'amore  di  G.  Cav.  Roma,  1895,  son.  39,  v.  2,  p.  107)  e  in  una 
poesia  di  Rinaldo  d'Aquino  (Cod.  Palatino  418,  n"  46),  dove  il  Caix 
non  avrebbe  detto,  come  fece  {Origini  della  lingua  poetica  ital.,  §  258), 
che  è  usata  soltanto  in  grazia  della  rima,  se  avesse  potuto  sapere 
che  s'incontra  anche  in  prosa  nel  Libro  de  li  exempli  edito  più  tardi 
da  G.  Ulrich  [Trattati  religiosi  e  Libro  ecc.  nella  Scelta  di  curiosità 
leti.,  disp.  239,  Bologna,  1891  ;  vedi  il  Glossario  a  p.  170),  dove  fu  già 
notata  dal  Salvioni  [Giorn.  stor.  d.  letter.  it.  XV,  270  *).  Moresta  dunque, 
anche  nel  primo  verso  sopra  riportato  del  Trattato  dei  mesi,  starà 
per  molesta  ossia  molestia;  ma  questo,  che  è  il  significato  della  pa- 
rola in  sé,  viene  nel  contesto  del  verso  ad  assumere  una  particolare 
determinazione  e  ad  alterarsi  tanto  da  essere,  se  così  si  può  dire, 
capovolto,  in  forza  dell'espressione  da  ventagio,  che  immediatamente 
le  segue  e  da  cui  non  può  disgiungersi.  Il  Dizionario  del  Tommaseo 
e  del  Bellini  s.  v.  vantaggio  mostra,  ciò  che  del  resto  s'intende  facil- 

*)  Ci  accorgiamo  ora  sulle  bozze  già  messe  in  pagina  che  un.  esempio  tolto  da 
un  testo  in  prosa  del  Cavalca  era  stato  accolto  da  un  pezzo  nel  Vocabolario 
della  Crusca  accresciuta  dal  Cesari  (Verona,  1806). 


'  CARMINA    DE    MENSIBUS  '   DI   BONVESIN   DA   LA   RITA  55 

5         ceno  fedatus  caligas  et  utrosque  petitos: 

"  ecce,  quis  est  lanus?  quis  eum  sine  fine  super  nos 

5.  Il  ma.  reca  chiaramente  petitos.  6.  Mg.  cu 


meite  da  sé,  che  cosa  di  vantaggio  vale  '  vantaggiata,  che  è  fra  le 
migliori  ',  e  così  moresta  da  ventagio  corrisponderà  a  '  molestia  van- 
taggiata 0  vantaggiosa  '  ossia  in  fondo  '  cosa  grata,  piacevole,  dilet- 
tevole '  e  quindi  press'a  poco  fa  riscontro  a  zentile  moresta  o  molesta 
dalle  quartine  sopra  riportate.  Ci  troviamo  dunque  dinanzi  una  di 
quelle  locuzioni  in  cui  il  valore  antifrastico  del  sostantivo  è  reso  evi- 
derte  dall'aggettivo  o  dall'espressione  aggettivale  che  lo  accompagna 
0  die  esprime  un'idea  ad  esso  opposta.  E  qui  gioverà  notare  che  di 
sifiatte  locuzioni  (e  non  monta  se  di  significato  appunto  contrarie  a 
quella  di  cui  si  discorre,  bastando  ne  sia  analoga  la  costruzione  ideale) 
Bonvesin  si  compiacque  anche  altre  volte.  Nella  poesia  inedita  già 
sopra  citata  leggiamo  : 

169.     De  zò  sì  me  partisco;  or  ve  dirò  de  la  pena 

ke  ha  l'homo  quando  el  more,  corno  quella  è  soza  zema 
e 

208.     se  debio  andar  con  questi,  questo  è  reo  stramezo 
e 

1099.     oy  dee,  comò  mal  gè  steva,  oy  deo  quen  reo  deporto 

Quest'ultima  espressione  è  usata  dallo  stesso  Bonvesin  anche  al- 
trove (D  65  e  85). 

E  così,  conchiudendo,  tutto  il  verso  "  Moresta  da  ventagio  ki  vor 
od^i  cantare  „  (il  quale  nella  penultima  strofa  del  poemetto  ritorna 
determinato  e  per  metà  ripetuto  in  questa  forma  "  L'ystoria  de  gli 
misi  ki  vor  odi  cantare  ,)  apparisce  quasi  una  variazione  tli  quest'altro 

Ki  voi  odir  cnintar  d'una  zentil  novella  „  con  cui  Bonvesin  inco- 
mincia un'altra  poesia  (J).  Quindi  1'  opinione  del  Lidforss  (ediz.  cit., 
p.  101),  il  quale  dal  confronto  del  moresta  del  Trattato  dei  mesi  con 
quello  dell'altra  quartina  sopra  recata,  credeva  risultare  il  significato 
di  '  intertenimento,  sollazzo,  festa  ',  diventa  giusta  soltanto  quando  la 
parola  si  consideri  insieme  coll'aggettivo  o  l'espressione  aggettivale 
{zentile,  da  ventagio)  da  cui  è  accompagnata  nei  due  luoghi  ;  e  per 
tal  modo  resta  esclusa  anche  la  derivazione,  a  cui  egli  inchinava,  di 
essa  parola  dal  latino  morari  nel  senso  di  '  divertire,  sollazzare  ',  e 
che  del  resto  era  difficile  pure  per  ragioni  formali. 

5.  Nelle  arti  figurative  Febbraio    è    rappresentato  o  nell'atto  di 
potare  le  viti  (nel  Battistero  di  Parma  lavora  colla  marra)  o  intento 


56  LEANDRO   BIADENE 

constituit,  tanto  cum  non  sit  dignus  honore? 
Nani  nullum  fructum  pariens  nil  utilitatis 
efficiens,  poscit,  recipit,  consumit  habunde; 

10         nil  dat  ni  glaciem,  fluxum  nivis  atque  pruinam. 
Tarn  sevum  tam  grande  gelu  parit  ille  malignus 
quod  meus  asis  onus  sentit,  nimiuraque  gravatus 
compescor  dolore,  gelu  ;  sed  is  ocia  solum 
solus  amat,  nostro  fruitar  sua  vita  labore, 

15         et  quia  sum  vicinus  ei,  quia  parvulus  assum, 

me  premit,  et  quanquam  vites  cum  falce  putare 
incipiam,  quarum  fructu  sibi  postmodo  gaudet, 
me  tamen  ingratus  prò  nullo  pendere  ponit. 
Cur  nimis  indignor?  quoniam  sum  dignior  ilio, 

20         nam  ver  incipiens  hjemem  depello  malignam. 

Mortem  signat  hyemps  anime,  ver  fertile  vitam; 
sic  sapiens  hyemem  fugat,  ver  fertile  carpens, 
linquendo  vi  cium,  prorsus  virtute  vigendo  ; 
exemplum  quoque  do,  cum  vites  amputo  falce, 

25         ut  crimen  sapiens  sic  amputet  omne  fatendo 
presbitero  proprio,  cuius  mandata  tenendo 
salvus  erit  et  celestia  regna  tenebit. 
Exemplum  nullum  lano  probitatis  inheret, 
ymmo  nequitie;  cur  ergo  michi  dominatur 

30         pessimus  ille  canis?  cogatur  linquere  regnum 
ac  decernatur  de  nobis  dignior  unus  „. 

9.  IHs.  effitiens 


alla  pesca  (Stkzygowski,  Calenderbilder,  p,  61).  Poiché  più  avanti  Bon- 
vesin  di  coteste  due  occupazioni  di  Tebbraio  rammenta  soltanto  la 
prima  (vv.  16-17,  248-49),  vien  fatto  di  pensare  che  il  fango  di  cui, 
secondo  questo  quinto  verso,  ha  insozzati  i  calzari,  sia  quello  dei 
campi  ordinariamente  umidi  in  quel  mese.  Potrebbe  del  resto  anche 
non  essere  conservata  la  coerenza  dei  simboli. 


'CARMINA   DE   MENStBUS  "    DI   BONVESIN   DA    LA   RIVA  57 


M. 


.artias  irato  vultu  sparsusque  capillos, 
totus  turbatus,  cui  creber  annelitus  instat, 
OS  aperit  tumidum,  clamoso  turbine  fatur: 

35         "  quis  dedit  ut  lanus  gelidus,  piger  et  sceleratus, 
prodigus  et  mensis  nichili  cunctisque  nocivus, 
quis  dedit  ut  nobis  dominetur  pessimus  ille  [124''] 

tyrarnpnus?  per  nos  non  fuit  rex  ille  locatus, 
ymmo  dolis  habuit  regnum  sed  non  ratione. 

40         Ergo  quid  hoc  patimur?  regno  privetur  ab  isto. 
Nil  facit  ille  piger  nisi  nostros  carpere  fructus. 
Vites  extendo,  sero  lina,  legumina  campis; 
herbis,  arboribus  cunctis  iam  prebeo  vires, 
oppressit  suo  proprio  quas  tempore  lanus, 

45         iamque  vigent  foliis  et  floribus  ac  redolentes 
apparent  viole  nova  gaudia  significantes. 
Hoc  est  exemplum  :  qui  vult  sibi  gaudia  vera 
floreat  et  vireat  vii'tutum  fronde  vigendo 
ut  sua  vita  bonum  reliquis  bona  prestet  odorem. 

50         Pianto  novas  vites  ut  det  nova  vinea  vinum; 
ingrato  lano  mea  dextera  seminat  òrtos 
fercula  prestantes  humane  progeniei; 
tunc  opus  inveniunt  inopes  quo  lucra  parantur, 
quos  tenet  oppressos  nimio  pre  frigore  lanus; 

55         ad  nostrasque  manus  quadragesima  fertur 
inducens  homines  ut  crimina  confiteantur 
peniteantque  mali.  Sed  quid  facit  advena  lanus 
cur  laudem  mereat?  post  nos  fuit  ille  repertus, 
qui  nunc  prepositus  nos  centra  iura  cohercet; 

60         cur  ergo  patimur  lani  crudelia  regna? 

prorsus  ab  arce  ruat  et  precipitetur  ad  yma  ,. 


"    bi.  Ms.   p  fr. 


58  LEANDRO   BIADENE 


F. 


loribus  ornatus  loquitur  festinus  Aprili  s: 

"  si  lanus  pei'  se  sua  regna  relinquere  vellet, 

cura  non  sit  dignus  nec  nobis  denique  gratus, 

65         urbane  faceret;  vetat  alta  superbia  lani 

se  flecti,  qui  vult  potius  moriamur  ut  omnes 
quam  se  deponi;  nullatenus  hoc  tolleremus 
cum  dignus  regno  nulla  racione  videtur 
plus  nobis,  quia  non  sensu  nec  more  nec  ortu, 

70         non  exercicio  superat  nos;  sufficit  illi 

quod  tenuit  septrum  dudum,  quo  dignior  ilio 

sum  multo,  quia  prò  glacie  quam  parturit  ille 

do  frondes,  do  temperiem  prò  frigore  duro, 

prò  nive  do  flores,  prò  bruma  semino  rorem;  [124^] 

75         iamque  reviviscunt  campi,  vii'idaria,  prata, 

iamque  boves  et  oves  pascuntur  gramine,  fronde  ; 
omnia  florescunt,  cantat  phylomena  suave, 
ac  omnes  letantur  aves,  aperitur  et  omnis 
leticie  facies  ;  poscit  mea  limina  Pascha 

62.  Il  ma.  ha  chiaramente  qui,  e  più  avanti  al  v.  378,  festinus  e  non  festivus,  come 
si  potrebbe  sospettare.  77.  Ms.  phylome  78.  Ms.  at 


78-79.  Più  chiaramente  si  accenna  all'etimologia  di  Aprile  nel 
testo  italiano,  st.  36"  "  Per  zio  o  nome  Aprile  ke  avrò  gran  beleza  ,. 
Del  resto  l'etimologia  di  Aprile  da  cqìerire  è  tradizionale.  Ovidio, 
Fast.,  IV,  87:  "  quia  ver  aperit  tunc  omnia...  foetaque  terra  patet 
Aprilem  memorant  ab  aperto  tempore  dictum  ,.  Plutarco,  Vita  di 
Ninna  (TTXouTdpxou  Bioi,  Parigi,  Didot,  1857,  voi.  T,  Nóiuaq,  cap.  XIX, 
p.  86,  lin.  21  sgg.):  «  Tivé^  he  où  òià  Tf\v  'A(ppobiTr|v  tòv  'AirpiXXiov 
«■paalv,  ÓXX'  uJOTTep  ?x^\  touvo^ìo  vjjiXòv  'ATTpiXXiov  K€KXf|a9ai  tòv  lirjva, 
ir\<;  èapivfi^  iljpac;  ÓKuaZouariq  óvoiYovTa  Kai  àvaKoXÙTTTOvTa  toù^  pXa- 
OTOùq  TÙJV  qpuTuùv  •  toOto  Top  f\  T^uJTTa  or|)Liaiv€i  ».  Macrobio,  Saturn., 
I,  12,  14:  "  cum  fere  ante  aequinoctium  vernum  triste  sit  coelum  et 
nubibus  obductum,  sed  et  mare  navigautibus  clausum,  terrae  etiam 
ipsae  aut  aqua  aut  pruina  contegantur,  eaque  omnia  verno  id  est  hoc 
mense  aperiantur,  arbores  quoque  nec  minus  cetera  quae  continet 


'CARMINA    DE    MENSIBUS  '    DI    BONVESUN    DA    LA    RIVA  59 

80         quando  resurrexit  Dominus;  quicunque  venire 
ad  Pascila  celeste  petit,  quod  fine  carebit, 
dum  vivit  pei'  eum  fiat  quadragesima  talis 
ut  sit  dignus  eo;  per  me  bona  plurima  fiunt: 
fructibus  a  propriis  omnis  cognoscitur  arbor; 

85         ergo  quam  lanus  sum  dignior  in  dominatu  ,. 


T 


alitar  alloquitur  extenso  gucture  Maius: 
"  lanus  continuo  de  regno  precipitetur, 
cuni  nos  fructiferos  sterilis  derideat  ille; 
ulterius  renuo  sua  seva  gravamina  forre, 


terra  aperire  se  in  germen  incipiant,  ab  bis  omnibus  mensem 
Aprilem  dici  merito  credendum  est  quasi  aperilem  „.  Secondo  i 
Fasti  Praenestini  editi  dal  Mommseu  {Corpus  Insci'.  Lat.,  I,  316  e  364) 
Aprile  è  così  chiamato  "  quia  fruges  flores  animaliaque  ac  maria  et 
terrae  aperiuntur  ,.  Isidoro,  Etymol.,  lib.  V,  cap.  38,  6:  "...  vel  quia 
in  eo  mense  omnia  aperiuntur  in  florem, quasi  aperilis  „.  Wandal- 
berto  di  Prùm,  De  mensitim  nominibus  (Dùmmler,  Poetae  lat.  aevi  Carvi., 
Il,  604),  vv.  77-79:  "Vel  mage  quod  terras  brumali  frigore  clausas 
In  varios  aperit  faetus  cogitque  fovendo.  Romano  tantum  excellet 
sermone  vocatus  „.  E  l'autore  deWYdioma  mensiiim  singnlorum  (Dùmm- 
LEK,  op.  cit.,  t.  Il,  p.  644),  vv.  13-14:  "  Dicitur  Aprelis,  crescunt  dum 
germine  flores,  Frondibus  et  herbis  quaeque  virecta  patent  ,.  E  nel- 
V Imago  mundi  di  Onorio  d'Autun,  cap.  XL:  "  Dicitur  etiam  quasi 
aperilis,  eo  quod  aperiat  terram  in  flores  „.  Th.  Wright,  Early 
Mysteries  and  other  latin  poems,  London,  Smith,  1849,  Carminum  re- 
sonantium  specimen,  VI,  7-8:'  fert  Aprilis  Aperii  |  nomen  ab  officio  ,. 
E  un  antico  rimatore  così  principia  un  sonetto  :  *  Tutor  ch'aprile  ab 
aperio  sia  decto  Perchè  s'apre  la  terra  „  (P.  Tommasini  Mattiucci, 
Nerio  Mescoli  antico  rimatore  sconosciuto,  Perugia,  1897,  p.  99).  E 
l'autore  delle  Ottave  sui  mesi  edite  da  M.  Menghini,  Rivista  crit.  d. 
lett.  ital.,  VII,  189:  "  I  pori  della  terra  aprendo  Aprile  Vero  son 
io  della  stagion  amena  ,.  Gioverà  aggiungere  che  nel  Veneto  i  con- 
tadini dicono  ordinariamente  verta  cioè  '  aperta  '  il  principio  della 
primavera,  quando  cioè,  anche  secondo  l'espressione  comune,  si  apre 
la  stagione. 

84.  Luca  VI,  44  :  "  Unaquaeque  enim  arbor  de  fructu    suo  cogno- 
scitur „;  Matteo,  VII,  20:  "  Igitur  ex  fructibus  eorum  cognoscetis  eoa  ,. 


60  LEANDRO   BIADENE 

90       nam  nichilum  faciens  est  importanus  et  omne 
quod  volt  nos  cogit  sibi  tradere,  nil  prohiberi 
quo  gaudet  lanus;  fit  caseus  optimus  a  me 
et  fenum  quo  pascit  equos;  ingratus  et  ille 
quod  sibi  porrigitur  a  nobis  dissipat  omne; 
95       nil  nisi  tristitias  nobis  parit  ille  malignus; 
maturans  fruges  ego  sum;  iam  florida  vitis 
in  tantum  redolet  quod  vinea  propter  odorem 
a  se  bufones,  serpentes  aflFugit  omnes. 
Panicum,  mileum  iam  semino,  tondeo  lanas, 

100       cerasa  iam  matura  patent  maturaque  fraga, 
prorsus  odoriferas  candentes  et  rnbicundas 
multas  paro  rosas,  iam  lilla  candida  candent, 
A  quo  dilectus  Deus  est  et  proximus,  ille 
ceu  rosa  splendet,  ceu  lilla  candida  candet, 

105       prò  Christo  servans  sine  crimine  virginitatem. 
Hec  ego  ;  sed  lanus  quid  agit  ?  petit  otia  sola, 
que  viciis  assueta  suis  alimenta  ministrant. 
At  curiosus  ego  iusto  dans  menbra  labori, 
militiamque  gerens  et  equis  facetus  et  armis  [125""] 

Ilo       defendo  patriam;  iam  ver  abit  et  incipit  estas; 
sed  lanus  nichili  fert  nomen  oflici,  perdi  „. 


96.  Ms.  maturas.  Sarebbe  dunque  stato  omesso  per  isvista  sopra  Va,  dell' uUiìna  sillaba 
il  se^no  dell'abbreviatura.  L'emendazione  ci  fu  proposta  dal  prof.  Novali.  Il 
costrutto  maturans  fruges  ego  sum  jjìtò  parere  ostico  anche  in  un  testo  medie- 
vale come  il  nostro;  ma  come  provvedere  altrimenti  al  senso? 

98.  Probabilmente  invece  di  affugit  sarà  da  leggere  affugat.        108.  Ms.  ac 


97-98.  Che  l'odore  della  vite  in  fiore  scacci  i  rospi  e  i  serpenti 
sarà  stata  credenza  popolare;  a  me  non  è  nota  se  non  da  questi 
versi  di  Bonvesin. 

107.  Cfr.  Dionisio  Catone,  Distich.,  I,  2  (Baehkens,  PLM,  III, 
217):  "  Nam  diuturna  quies  vitiis  alimenta  ministrai  „. 


'  CARMINA   DE    MENSIBUS  '   DI   BONVESIN   DA   LA   RIVA  61 


L 


.unius  alloquitur  prò  magno  caumate  lino 
indutus  solo,  nudo  pede,  corpore  fessus: 
"  quis  lanus?  prò  quo  tanto  sudore  laboro, 

115       messem  falce  seco,  frumenti  grana  repono, 
unde  facit  sucos  in  sero  perfidns  ille, 
triticeumque  facit  panem  nec  sum  sibi  gratus. 
Amplius  ingrato  maturo  legumina  lano, 
prò  quo  quidquid  ago  totum  me  perdere  cerno, 

120       nam  non  dignatur  saltem  miclii  reddere  grates 
at  pocius  me  prò  niellilo  reputare  videtur; 
[merces  est  talis,  dominus  cui  servio  qualis] 
nil  pariens  nil  dat  parientibus  omnia  nobis. 
Preterea  matura  mora  sunt  tempore  meo 

125       prunaque  iam  parent  estu,  iam  poma  patescunt; 
ille  nivem,  glaciem  solum  parit  atque  pruinam  ; 
cur  ergo  patimur  lani  sevissima  regna?  , 


L 


.ulius  assequitur  quasi  nudus,  pulverulentus 

et  multum  queritur  de  lano  talia  dicens: 
130       "  ecce  ligoniso  multoque  labore  laboro; 

sol  mea  menbra  coquit,  laxat  mea  corpora  sudor, 

panem  quem  commedo  mereor,  sed  lanus  ad  ignem 

presidet  et  nostro  vivit  gaudendo  labore; 

plus  meret  omnis  homo  manuum  vivendo  labore 
135       quam  mendicando  vel  a  reliquis  rapiendo, 

et  dare  quam  capere  legitur  plus  esse  beatum. 

117.  Ms.  triticumque  136.  Ms.  carpere,  ma  cfr.  Introd.,  p.  42. 

122.  Proverbio,  che  in  questa  precisa  forma  non  so  di  chi  sia. 

136.  È  sentenza  che  variamente  foggiata  ritoma  ad  ogni  mo- 
mento nella  poesia  trovadorica  (cfr.  Diez,  Die  Poesie  der  Trouhadours  ^ 
Lipsia,  1883,  p.  40),  ma  che  non  saprei  dire  se  si  trovasse  già  in 
latino  0  in  italiano  in  forma  uguale  o  molto  simile  a  quella  in  cui 
qui  ci  si  presenta. 


62  LEANDRO   lUADENE 

Ve  qui  se  pascit  alieni  pane  dolorisi 

[Dat  labor  ardentem,  gelidam  dant  otia  mentem] 

ergo  beatus  ego  non  lanus;  pastus  ab  orbis 

140       efficitur  lupus  alienis,  ocia  querens; 

nil  meret  in  sero,  vitat  quicunque  laborem; 
et  ego  non  tantum  proprio  me  pasco  labore, 
ymmo  raultiplices  parlo  fructus,  poma,  pira, 
copiam  moro  rum,  prunorum;  multa  videntur 

145       agresta,  puUisque  novis  fecundus  habundo.  [125^] 

lam  matura  patet  uva  domestica  quedam, 
at  nullum  fructum  lanus  sterilissimus  affert. 
Est  tradenda  rogo  fructum  que  non  parit  arbor, 
sic  et  comburi  lanus  dignissimus  esset  „. 

150       \Jalidus  Augustus  facie  tamen  intus  iniquus 

de  lano  quex'itur:   "  Quis  lanus?  quid  facit  ipse 
cur  laudem  mereat?  quidquid  fit  proditur  illi, 
qui  facit  omne  malum,  nulli  placet,  impedit  omnes. 
Indignor  quoniam  bona  plurima- me  faciente 

155  et  lanus  nullum,  me  subiugat  atque  molestat. 
Sed  cur  hoc  patimur?  ecce  vivit  prodigus  ille, 
multa  rapit,  nil  dat,  large  petit  absque  rubore. 

142.  3Is.  tantis  o  cantis  155.  3Is.  iitque 


137.  Il  testo  italiano,  st.  Ql^:  "  Beao,  zio  dis  David,  ke  vive  de  soa 
fadiga  „  richiamandosi  al  Salmo  CXXVII,  2  :  "  Labores  manuum  tuarum 
quia  manducabis  :  beatus  es  et  bene  tibi  erit  „  ;  ma  più  che  queste 
parole,  scrivendo  il  verso  latino,  Bonvesin  avrà  forse  avuto  presente  il 
versetto  del  Genesi,  TU,  19:  "  Vesceris  pane  tuo  in  sudore  vultus  tui  ,. 

138.  Non  conosco  la  fonte  del  proverbio  nella  forma  in  cui  è 
espresso  qui.  Alcuni  proverbj  italiani  e  stranieri  ad  esso  affini  furono 
raccolti  dal  Vannucci,  Proverbi  latini,  II,  19  n. 

148.  Matteo,  VII,  19:  "  Omnis  arbor  quae  non  facit  fructum  bo- 
num  excidetur  et  in  ignem  mittetur  „. 


'  CARMINA   DE   MENSIBUS  '   DI    BONTESIN   DA    LA   RIVA  .63 

Cur  ipso  faciente  malmn  nos  sub  pede  calcai 

et  premit  ut  servos  viles  vilissimus  ille? 
160       Panicum,  milium,  fenum  maturo  secumdum, 

uve  pinguntur,  aquis  iam  macero  Unum  ; 

(nuBus  toUet  aquam  fuerit  cui  copia  vini] 

pruna  damascena,  ficus  et  persica  pando, 

sic  et  avellanas  et  amygdola  sana  comestu; 
165       incipit  autumpnus,  qui  multis  fructibus  uber. 

Hec  ego;  sed  dicat  lanus  quid  fecerit  umquam: 

omne  malum  tantum,  nunquam  se  corrigit  ipsum; 

ergo  cadat  lanus,  rex  alter  instituatur  „. 


A. 


.t  post  Augustum  September  talia  fatus  : 
170       "  Ve  michi!  quis  lanus  cuius  sub  pondere  pressus 
tamquam  servus  ego?  per  me  bona  plurima  fiunt 
quis  fruitur  lanus;  recipit  tantummodo,  nil  dat; 
est  eius  reserata  manus  qui  porrigit  illi, 
sed  dando  clausa;  cupidus  simul  est  et  avarus, 
175       ingratus  ganeo,  tyrannus  pessimus^  asper, 

nil  dans,  nil  boni  pariens  sed  crimine  vivens 
nos  ridet  innocuos  et  sub  pede  calcat; 
strictior  ad  dandum  sed  largus  ad  accipiendum, 
perfidus,  incultus,  brutus,  villanus  habetur. 
180       Sic  lanus,  sed  fetus  ego  bona  plurima  spargo: 

panicum,  milium,  matura  ligumina  trado  [126''] 

que  medio  ventris  oculos  dicuntur  habere; 
vinca  matura  mustosis  affluit  uvis, 


170.  Ms.  sub  cuius  ITI.  Ms.  bono 

182.  Di  fianco  a  quanto  verso,  coll'indice  teso  verso  di  esso,  sta  nel  margine  una  mano 

con  accanto  le  parole  supp[le]  fasoli.  /  legumi  nominati  nel  testo  sono  dunque 
quelli  che  anche  oggi  si  chiamano  fagiuoli  coll'occhio. 

183.  Seìnbrerebhe  scritto  muscosis. 


162.  Cfr.  Jacopone  da  Todi,  Proverbi  (Nannucci,  Manuale  d.  lett. 
,ital.,  P,  405):  "  Dell'acqua  suole  bevere  Chi  non  ave  del  vino  „. 


64  LEANDRO   BIADENE 

iam  vegetes,  tina,  iam  torcularia  piena 
185       preparo,  iam  mustum  fundo,  castanea  pulcra 
iam  maturantur,  ficus  siccantur  et  omnes 
maturo  fructus  hyemales,  quos  fero  lano, 
ac  agriculturas  facio  quibus  semina  prima  seruntur, 
iamque  nuces  propris  de  plantis  excutiuntur; 
190       ergo  michi  lanus  conferri  nil  valet  ille  „. 


0< 


'ctober  sequitur  facie  mustosus  et  inquit: 
"  Multiplicis  vinum  do  lano  raaneriei  ; 
colligo  poma,  pira,  raarona,  que  penes  ignem 
ille  sedens  commedit,  nichil  michi  retribuendo, 

195       at  nichil  ìpse  facit  sed  nostris  fetibus  utens 
ignem  cantat  apud,  tantum  solacia  querens, 
deque  nichil  nostri  curat  sudore  laboris; 
plurima  consumit,  nunquani  vult  ad  rationem 
se  poni,  sed  prò  nichilo  nos  computat  omnes. 

200       A  nichilo  domino  niellili  retributio  surgit; 
tyranno  misero  non  stat  securus  adherens; 
quo  magis  ingrato  servitur,  perditur  hoc  plus; 
servivimus  lano  gratis  nichilumque  meretur; 
serpentem  sinu  nostro  nutrire  videmur; 

205       ergo  ruat  lanus  dimittere  regna  coactus  „. 


200.  Sentenza  simile  a  quella  del  v.  122. 

201.  Vedi  più  avanti  la  nota  apposta  ai  vv.  222-24,  a  cui  questo 
per  il  pensiero  è  da  ravvicinare. 

202.  Ha  qualche  somiglianza  col  proverbio  volgare  "  Chi  serve 
a  rio  segnore  ne  grao  ne  guerdone  „  (n.  62  della  raccolta  di  Geremia 
da  Montagnone  pubbl.  da  A.  Gloria  e  meglio  indicata  nella  nota 
al  V.  303). 

204.  Cfr.  il  proverbio  italiano  "  Nutri  la  serpe  in  seno  ti  renderà 
veleno  „  (Giusti,  Proverbi,  p.  158),  che,  per  così  dire,  compendia  una 
favola  di  Fedro  (lib.  II,  xvi). 


'  CARMINA    DE    ME.NSIIJL  S  '    DI    BONVESIN    DA    LA    RIVA  65 

Hicce  November  ait:   "  i"iorci  sale  condio  carnes, 

quas  in  succiduo  commedit  sepissime  lanus; 

rapas  et  napos  extirpans  porrigo  lano, 

unde  paratui-  olus  cura  multe  maneriei 
210       carnibus,  unde  replens  ventrera  solatur  habunde; 

omne  malum  sed  lanus  agit:  succrescere  frigus 

intensum  our  cogor,  linquere  fetum 

autumpni,  cursunique  sibi  preparare  rigoris, 

ac  hyemem  sterilem  cogor  violenter  inire; 
215       propter  quod  claret  lanum  nimis  esse  malignum. 

Donec  erit  dominus  crescit  tribulatio  nostra; 

ipso  deposito  pax  nobis  multa  vigebit  „. 

1  ostremo  loquitur  vestitus  vulpe  December:  [126^] 

"  Nullo  facta  modo  lani  tollerare  valebo, 
220       nam  nimium  mea  dorsa  gravant  sua  pondera  seva; 

tantum  frigus  agit,  sum  quia  proxiiuus  illi, 

sentio  grande  gelu,  pravo  nocet  esse  propinquum 

vicino  ;  quicunque  potest  se  separet  inde  ; 

stans  prope  serpentem  securus  non  bene  dormit. 
225       Omnibus  ille  prior  posuit  me  posteriorem; 

hoc  ego  non  patiar  quod  sit  prior;  advena  cum  sit 

214.  Ms.  at 


222-24.  ì^ovATi,  Serie  proverbiali  nel  Giorn.stor.  d.lett.ital.,'^Nlll, 
132,  n.  47  "  Chi  à  lo  reo  vesin  si  à  lo  bon  matin  ,.  E  in  nota  i  se- 
guenti riscontri  :  *  Zacher  [Altfranzosische  SprichwSrter  nella  Zeitschr. 
f.  deutsch.  Alterthum,  XI  (1859),  p.  114  sgg.],  n.  178  "  Qui  a  mal  vesin 
a  mal  matiu  ,:  cfr.  C\\jr:[im.,  Altprovenzalische  SprichwOrter,  Marhurg, 
1888],  p.  31,  n.  224;  Verslus  Prorerbiales]  58  (p.  43);  L[e  Roux  de 
Lincy,  Le  Iure  des  proverbes  fì-angais,  Paris,  1842,  e  2*  ediz.,  Paris, 
1859]  II  380,  459,  498,  G[iusti,  Proverbi  Toscani,  Firenze,  1855]  61, 
Dur[ingsfeld  u.  0.  Freiherr  von  Reinsberg-Dùringsfeld,  Sprichtvorter 
.der  german.  u.  roman.  Sprachen,  Leipzig,  1872-75]  124,  132  „. 

SiiiJJ  di  filologia  romanza,  IX.  ^ 


66  LEANDRO   BUDENE 

posteriori  loco  debet  de  iure  locari. 

Rursus  non  partu  fructus,  sensu,  probitate 

me  superai.  Cut  post  ego  sum,  sed  is  ante  locatus? 

230       isque  agit  nichilum;  nichil  est  ex  quo  nichil  fit; 
ergo  nichil  lanus  cum  nil  agat;  ergo  meretur 
prò  nichilo  poni  claudique  sub  ima  profondi; 
sed  nos  multa  quidem  facimus:  preparo  ligna 
tam  michi  quara  lano,  per  me  siccantur  ad  ignem 

235       byle,  tuceta,  multis  quoque  partibus  hirne. 
Rursus  ego  festum  domini  ciò  virgine  nati, 
qui  deus  est  et  homo  quo  gentes  letificantur. 
Ad  nostras  manus  minor  est  quadragesima  ducta, 


230.  3Ts.  idque 

284.  3l8.  eiocatur  ;  omesso  sopra  l'a  il  segno  dell'abbreviatura.  235.  Ms.  ceii 


230.  Il  secondo  emistichio  è  un  ben  noto  aforisma  (cfr.  Forcel- 
LiNi,  s.  V.  nihilum  e  Otto,  Die  Sprichworter  der  Romer,  Lipsia,  Teubner 
1890,  p.  243,  s.  V.  niUl). 

238.  La  quadragesima  minor  non  può  essere  se  non  quel  periodo 
dell'anno  che  nel  calendario  eccles,iastico  ha  il  nome  àaìV Avvento  ed  è 
chiamato  anche  Quaresima  di  S.  Martino  e  in  Oriente  Quaresima  di 
S.  Filippo  (v.  MoEONi,  Dizionario  di  erudizione  storico-ecclesiastica,  III, 
801  e  302).  In  origine  durava  dappertutto,  a  quanto  sembra,  quaranta 
giorni,  ma  poi  nella  maggior  parte  dei  paesi  cattolici  si  ridusse  alle 
sole  quattro  settimane  che  precedono  il  Natale  e  principiano  col  30 
Novembre  ;  sicché  si  può  dire  che  sia  compreso  tutto  intero  nel  mese 
di  Dicembre,  in  cui  lo  pone  anche  Bonvesin.  Ma  qui  è  legittimo  il 
sospetto  che  egli  si  contentasse  di  esprimersi  in  modo  anche  più 
approssimativo  (nessun  lume  ci  viene  dal  testo  italiano,  dove  i  v.  238-41 
rimangono  senza  riscontro)  e  intendesse  soltanto  di  dire  che  la  mag- 
gior parte  dell'Avvento  cade  in  Dicembre,  pur  incominciando  alquanti 
giorni  prima  in  Novembre,  se  è  vero  quanto  scrive  il  Moroni,  op. 
cit.,  p.  300,  che  "  La  chiesa  di  Milano,  che  sempre  si  attenne  alla 
sua  antica  disciplina,  osserva  anche  a'  nostri  giorni,  come  nei  primi 
secoli,  l'Avvento  di  sei  settimane  „.  E  tale  sospetto  sarebbe  avvalo- 
rato dal  vedere  che  con  le  stesse  parole  con  cui  Dicembre  della  pic- 
cola Quaresima,   si  vanta    Marzo    di    essere  il  mese  della  Quaresima 


'  CARMINA    DE    MENSIBUS  '    DI    BONVESIN    DA    LA    RIVA  67 

qaam  multi  faciunt  ut  sua  crimina  pellant; 
240       induco  multas  ad  spiritualia  gentes  : 

est  opus  hoc  sanctum  domino  super  omnia  gratum. 
lanus  ad  omne  nefas  dans  se  nimis  est  sceleratus; 
ergo  ruat  penitus  cum  non  sit  vivere  dignus. 


Q. 


'uisque  voluntatem  propriam  patefecit,  et  omnes 
245       una  concordes  strepitum  pedibus  facientes 

vocibus  ad  celum  transmissis  undique  claraant: 
"  lanus  queratur,  lanus  moriatur  „.  Ad  arma 
omnes  discurrunt.  Februs  prior  accipit  illam 


vera  e  propria  (cfr.  i  vv.  238  e  55),  quantunque  non  di  rado,  come  si 
sa,  una  parte  di  questa  cada  in  Febbraio.  Sembra  dunque  che  l'espres- 
sione minor  aggiunta  a  quadragesima  e  che,  nella  corrispondente 
forma  volgare,  avrebbe  1'  aria  d'  essere  stata  d'uso  comune,  non  do- 
vesse indicare  la  minore  durata  dell'Avvento  in  confronto  della  Qua- 
resima vera  e  propria,  ma  soltanto  la  minore  severità  e  il  minor 
numero  di  obblighi  di  digiunare  e  di  astenersi  dalle  carni  e  dai  sol- 
lazzi. Già  lo  stesso  Bonvesin  nota  (v.  56)  che  cotesta  Quaresima  è 
osservata  da  molti,  ma  non  da  tutti  {quam  multi  faciunt).  Non  trala- 
scieremo,  ad  ogni  modo,  e  parrà  forse  scrupolo  soverchio,  di  tener 
conto  che,  secondo  riferisce  pure  il  Moroni,  op.  cit.,  p.  301  "  Raterio 
vescovo  di  Verona,  al  cominciare  del  decimo  secolo,  asserisce  che 
l'Avvento  durava  nella  Lombardia,  quattro  sole  settimane  come  a 
Roma  ,.  Dovremo  pensare  che  sia  stato  così  anche  nella  capitale 
lombarda  al  tempo  di  Bonvesin?  Dopo  quanto  abbiamo  osservato 
più  sopra  non  inchineremmo  certamente  a  crederlo,  ma  se  qualche 
dubbio  potesse  rimanere  intomo  a  cotesto  punto,  gli  eruditi  eccle- 
siastici avranno  certamente  modo  di  scioglierlo. 

248-65.  Per  le  rappresentazioni  figurate  dei  Mesi  nei  monumenti 
italiani  ci  contenteremo  qui  di  rimandare  ai  ragguaglj  dati  dallo 
Strzygowski,  Calenderbilder,  pp.  52  sgg.  Gli  strumenti  che  Bonvesin 
mette  in  mano  ai  singoli  Mesi,  o  le  armi  di  cui  li  vediamo  muniti,  sono 
in  generale  quegli  stessi  che  hanno  nei  monumenti;  nondimeno  con- 
viene notare  qualche  differenza.  Così  secondo  lo  Strzygowski,  op.  cit., 
p.  69,  Maggio  è  rappresentato  spesso  come  un  cavaliere  che  esce 
alla  campagna  o  solo  o  in  compagnia  della  sua  dama,  ma  senz'armi  ; 
Bonvesin  invece  lo  dice,  vv.  254-55  "  eques  splendentibus  armis  [  Om- 


08  LEANDRO    BlADENE 

falciculain  cum  qua  vites  putat;  ecce  secuudus 
250       Martius  est  clangore  tube  resonando  secutus; 


nibus  armatus,  campo  temptoria  tendens  „.  Ora  anche  quest'ultimo 
modo  di  raffigurarlo  doveva  parer  tutt'altro  che  strano  in  Italia.  Il 
Wesselofsky  nella  recensione  che  fece  del  poemetto  italiano  di  Bon- 
vesin  {Propugnatore,  V,  ii,  368  sgg.)  osserva  opportunamente  che 
Maggio  era  il  mese  delle  giostre  e  rammenta  i  versi  di  Folgore  da 
S.  Gemignano  :  "  Di  Maggio  vi  do  molti  cavagli  E  tutti  quanti  siano 
affi-enatori . .  .  Rompere  e  fiaccare  bigordi  e  lancie  .  . .  „.  Nei  monumenti 
indicati  dallo  Strzygowski,  op.  cit.,  p.  74,  neppure  Agosto  è  rappresen- 
tato come  qui  fa  Bonvesin,  vv.  257-60;  ma  che  non  sia  stato  egli  il  primo 
a  concepirlo  ec/er  [infermizo  dice  il  testo  italiano,  st.  142  ^),  apparisce 
anche  dai  seguenti  versi  di  un  canto  meridionale  sui  dodici  mesi 
(D'Ancona,  op.  cit.,  pp.  244-247):  *  Io  so  Austo  cu  la  'nfermeria  Me 
l'aggio  strutta  "na  spezzieria  Mangianno  'n'  'allina  ogni  matina  Pe  fa 
passa  sa  'róssa  'nfermaria  „.  E  in  un  altro  canto  meridionale  (D'An- 
cona, op.  cit.,  pp.  240-44)  egli  si  dice  :  "  dottore  de  legge  e  de  bona 
medicina  ,.  Quanto  a  Settembre,  lo  Strzygowski,  op.  cit.,  p.  75,  non 
cita  esempj  in  cui  apparisca  sotto  forma  di  uomo  che  racconcia  le 
botti  e  a  cui  quindi  starebbe  bene  in  mano  il  "  maleus  quoque  ligneus 
Unde  stringuntur  vegetes  ,  di  Bonvesin,  vv.  260-61;  ma  in  tale  ope- 
razione, per  citare  un  esempio,  lo  vediamo  occupato  nella  chiesa  di 
S.  Geminiano  di  Modena.  Neanche  di  Ottobre,  che  abbia  una  pertica  in 
mano  da  abbacchiare  le  castagne,  lo  Strzygowski,  op.  cit.,  pp.  77-78, 
sa  addurre  riscontri;  ma  è  abbastanza  comune  che  esso  abbacchj  le 
ghiande.  Ordinariamente  non  è  Novembre,  come  nella  poesia  di  Bon- 
vesin, vv.  264-65,  in  atto  di  sventrare  un  porco,  ma  così  suole  fare 
Dicembre  ;  il  quale  invece  più  di  rado  ha  in  mano,  come  nel  nostro 
testo,  vv.  266-67,  la  scure  colla  quale  spacca  legne. 

Bonvesin  si  scostò  qua  e  là  un  pochino  dai  tipi  piìi  comuni  forse 
per  la  necessità  che  aveva  di  mettere  in  mano  a  ciascun  mese 
un'arme  o  uno  strumento  qualsiasi. 

249.  Si  noti  qui  una  differenza  nella  rappresentazione  di  Febbraio 
fra  il  testo  latino,  secondo  il  quale  esso  "  accipifc  illam  Falciculam 
cum  qua  vites  putat  „  e  quello  volgare  secondo  cui  "  a  soa  forca 
corre  „.  Ora  poiché  in  nessun'altra  rappresentazione,  per  quel  eh'  io 
sappia,  cotesto  mese  è  raffigurato  colla  forca  in  mano,  mentre  lo  ve- 
diamo invece  potare  le  viti  con  un  falcetto  (falcicula)  anche  altrove 
(p.  es.  sulla  porta  della  chiesa  di  S.  Zeno  a  Verona  e  nell'edicola  di 
S.  Geminiano  del  duomo  di  Modena)  e,   ciò  che   in  questo  caso  vale 


'CARMINA    DE    MENSIBUS  '   DI   BONVESIN   DA    LA   RIVA  69 

tertius  Aprilis  ramum  vexillifer  ofFert, 

in  vicem  vexilli  florum  variamine  plenum. 

Accedit  iam  Maius  eques  splendentibus  armis 

omnibus  armatus,  campo  temptoria  tendens. 
255       lunius  cum  falce  sua,  cura  qua  resecare  [127''] 

est  segetes  solitus,  properat;  sumit  atque  ligonem 

lulius  iratus;  Augustus  sit  licet  eger 

cum  baculo  veniens  cum  quo  substentat,  iniquo 

accedit  vultu,  baculo  multumque  minatur 
260       a  longe  lano;  maleus  quoque  ligneus  unde 

stringuntur  vegetes  destra  Septembris  habetur  ; 

Octobris  manibus  portatur  pertica  longa, 

qua  marona  suis  de  rarais  excutiuntur; 

carnificis  cultnim  capiens  Xovember  acutum, 
265       quo  porcos  iugulat,  lanum  iugulare  minatur. 

Ecce  Decomber  habet  qua  scindit  ligna  securim, 

cum  qua  proponit  lanum  mactare  repertum. 


L 


.am  iuncti  menses  armati  talibus  armis 
convellere  simul:  resonant  clamore,  tumultu, 
270       et  clangore  tube  patitui'  quasi  terra  tremorem; 

post  strepitum  nimium  fingunt  se  querere  lanum  ; 
exclaraant:   "  lanus  non  vivat  sed  moriatur  .. 


261-262.  Ci  aspetteremmo  anche  qui  che  Settembre  e  Ottobre,  analogamente  a  tutti 
gli  altri  mesi  dianzi  nominati,  fossero  i  soggetti  dette  proposisioni  di  cui  fanno 
parte,  e  per  vero  anche  le  abbreviature  del  ms.,  che  porterebbero  a  leggere  Sep- 
teniber,  October,  mostrano  che  cosi  la  pensasse  pure  lo  scrittore  di  esso;  ma 
la  grammatica  richiede  si  legga,  come  abbiamo  fatto  di  sopita,  Septembris, 
Octobris. 


di  più,  nello  stesso  testo  italiano  di  Bonvesin  esso  mese  si  vanta 
(st.  15*)  di  cominciare  a  potare  le  viti  {cum  falce,  non  omette  di  ag- 
giungere il  testo  latino  nel  luogo  corrispondente),  vien  fatto  di  pen- 
sare che  la  differenza  sopra  avvertita  sia  soltanto  apparente  e  che 
forca  non  possa  essere  se  non  alterazione  di  folca  scritto  invece  di 
folcia  0  anche  folga  ossia  fole  '  falce  '. 


70  LEANDRO   BIADENE 


L 


.nterea  lanus  tractatus  nescius  huius 

secure  cantans  ad  pir  solando  sedebat; 
275       sed  postquam  strepitum,  sensit  manare  tumultum, 

territus  exurgit,  multaque  gravedine  clavam 

accipit  in  destra  forti,  tensoque  lacerto 

aggressus  menses,  insultum  terribilemque 

in  medio  faciens  confecit  properus  omnes; 
280       ipse  furens  solo  prostravit  et  agmina  vultu. 

Abiuncti  Fienses  magnoque  pavore  trementes 

abiciunt  gladios,  exturbo  turbine  strati  ; 

iam  vieti  cessant,  clamor  silet  atque  tumultus. 

Tunc  lanus  victor  turbatus  mensibus  inquit: 
285       "  ecce  quis  est  qui  me  solito  depellere  regno 

nititur?  hic  ego  sum:  qui  vult  appareat:  ecce; 

hic  assum  presens;  quisquis  de  me  mala  dixit 

aut  neget  quod  ait  aut  exulet  aut  moriatur. 

Quid  raichi  post  dorsum  clamatis  more  canino? 

275.  Più)  venire  il  dubbio  che  sia  da  leggere  strepitìi,  nel  qual  caso  sarebbe  ludural- 
mente  d<i  togliere  la  virgola  dopo  sensit,  ma  la  correzione  non  è  necessaria. 

279.  Ms.  ppus 


273.  Qui  tractdtits  ha  il  .significato  di  '  cospirazione,  congiura  ', 
che  è  uno  di  quelli  in  cui  gli  antichi  scrittori  italiani  adoperarono 
la  stessa  parola  trattato.  La  quale,  si  noti,  non  comparisce  mai  entro 
il  testo  italiano,  sì  bene  trovasi  in  capo  e  a  piede  di  esso.  In  que- 
st'ultimo luogo  si  legge  :  "  Finice  il  tractato  de  li  misi  composto  da 
messer  Bonvesin  da  Riva  milanese.  Deo  gratias.  Amen  „,  dove  trac- 
tato  può  avere  il  valore  assegnatogli  dall'  autore  nel  testo  latino  ; 
mentre  invece  in  cima  leggiamo  :  "  Comenza  il  tractato  di  mesere 
Bonvesin  da  Riva  dove  tracta  de  la  questione  fra  ser  Zenere  e  gli 
altri  XI  mesi  ,;  e  qui  tractato,  come  mostra  la  spiegazione  principiante 
colle  parole  "  dove  tracta  ,,  sembra  dover  intendersi  nell'  accezione 
più  comune  di  '  trattazione,  sermone  '.  S' inchinerebbe  quindi  a  pen- 
sare che  le  parole  (ÌGW'expUcit  si  trovassero  già  nell'originale  e  in- 
vece quelle  della  rubrica  iniziale  sieno  state  aggiunte  da  altri  più 
tardi;  ma  questo  è  soltanto  un  dubbio  leggero. 


'CARMINA    DE    MENSIBUS  '    DI    BONVESIN   DA    LA    RIVA  71 

290       cur  michi  detrahitis?  vos  hoc  tractare  coegit 

solus  livor  edax,  vitium  culpabile  valde. 

Qui  proprio  domino  clam  detrahit  et  raaledicit  [127^] 

proditor  et  falsus  vere  nimis  est  reputandus  ; 

infidus  servus  penam  prò  laude  meretur, 
295       laudibus  et  dignus  et  honore  fidelis  habetur. 

Qui  mordens  est  clam,  canis  est  et  pessima  serpens, 

sed  clam  corripiens  bonus  est  et  fidus  amieus. 

Est  subiectorum  dominos  reverenter  amare, 

est  detractorum  solo  livore  nocere, 
300       est  sceleratorum  domini  gaudere  ruina 

ac  illum  contra  nova  crimina  fingere,  nugas 

et  cansas  falsas,  mendacia,  mui'mura,  fraudes. 

Vos  contra  stimulum  tractastis  calce  ferire 


303.  La  locuzione  contra  stimulum  calce  ferire  era  proverbiale 
già  presso  i  Romani  e  veramente  nella  forma  contra  stimulum  calci- 
trare 0  anche  soltanto  adversum  stimulum  calces  (cfr.  A.  Otto,  Die 
Sprichivorter  der  Bomer,  Lipsia,  Teubner,  1890,  pp.  331-32  s.  v.  sti- 
mulus)  e  appunto  nel  senso  traslato  in  cui  la  adopera  qui  Bonvesin, 
come  si  apprende  dalle  seguenti  parole  del  grammatico  Diomede 
(p.  462  27  K)  riferite  dall'  Otto,  1.  e.  :  "  parhoemia  est  vulgaris  pro- 
verbi! usurpatio  rebus  temporibusque  accomodata  cum  aliud  signifi- 
catur  quam  dicitur,  ut:  adversum  stimulum  calces,  quo  significatur 
contra  pessimos  vel  potentiores  audere  stultum  esse  „.  Il  proverbio 
passò  anche  nel  volgare  italiano,  e  Bonvesin  lo  aveva  presente  pure 
nella  nuova  forma  quando  nel  luogo  corrispondente  del  Trattato 
(str.  163")  scriveva  "Incontra  lo  ponzigliol  verasmente  repetai  „,  mentre 
nella  raccolta  di  Geremia  da  Montagnone  (A.  Gloria,  Volgare  illustre 
del  1100  e  proverbi  volgari  del  1200  negli  Atti  del  R.  Istituto  Veti., 
serie  VI,  t.  Ili,  p.  103,  n.  70)  suona:  "  EI  no  è  seno  repenare  a  l'asejo  ,; 
dove,  come  giustamente  notò  il  Mussafia,  Romania,  XV,  128,  tenendo 
conto  della  sentenza  evangelica  "  Durum  est  contra  stimulum  recal- 
citrare „,  asejo  "  vale  non  solo  '  pungiglione  delle  api  ',  ma  altresì 
'  pungolo  dei  buoi  '  „,  e  dove,  soggiungiamo  noi,  repenare  meglio  che 
corrispondere  a  '  impennarsi,  inquietarsi  ',  come  voleva  il  Gloria,  1.  e, 
0  è  scritto  per  errore  invece  di  repetare  [*  re-pictare],  usato,  come 
s'è  visto,  anche  da  Bonvesin,  o    è    riduzione  del  derivato   repetinare, 


72  LEANDRO    BIADENE 

puncture;  penam  vos  est  sentire  necesse; 

305       laudastis  vosmet;  proprio  laus  ore  liquescit, 
et  me  culpastis  nimium  quia  vito  laborem 
et  non  fructifero,  nil  do  sed  carpo,  quiesco, 
quero,  consumo,  canto,  solacia  quero. 
Hiis  contra  dico:  manuales  non  decet  esse 

310       reges;  fructifico  faciens  connubia  multa 

per  que  cotidie  mundus  crescens  renovatur, 
per  que  compier!  regnum  celeste  valebit. 
Tracto  sedens  ad  pir  quis  campus  restat  arandus 
aut  in  quo  campo  que  debent  semina  spargi, 

315       aut  agriculture  quid  opus  sit  consilium  do, 
et  duplici  vultu  transacta  futuraque  specto: 


repet'nare  ;  riduzione  che  diventa  tanto  più  probabile  quando  si  pensi 
che  nel  Veneto  e  propriamente,  per  quel  ch'io*  so,  in  una  parte  della 
provincia  di  Treviso,  si  trova  l'aggettivo  sostantivato  da  cui  il  verbo 
sarebbe  derivato.  Nel  distretto  di  Conegliano  si  dicono  repethn  i  po- 
veri braccianti,  che  alla  destra  del  Piave  sono  chiamati  ^^isnew^t  (su 
questa  voce  vedansi  le  nostre  Varietà  letterarie  e  linguistiche,  p.  61 
e  sgg.,  Padova,  1896),  i  quali  vivono  repetandose,  ossia  arrabattandosi 
alla  peggio. 

305.  Il  secondo  emistichio  esprime,  attenuandolo,  lo  stesso  pen- 
siero del  proverbio  italiano  "  Chi  si  loda  s'imbroda  „  (Giusti,  Pro- 
verbi, p.  221). 

816.  lanns  bifrons  è  uno  dei  simboli,  non  il  più  antico  ma  forse 
nel  tardo  medio  evo  il  più  diffuso,  del  mese  di  Gennaio  (vedi  Riegl, 
Mittelalt.  Kalenderill.,  pp.  54-56)  e  come  tale  lo  troviamo  anche  in 
Italia  (vedi  Strzygowski,  Calenderbilder,  p.  59).  La  rappresentazione 
più  comune  di  Gennaio  nei  monumenti  italiani  è  per  altro  quella 
secondo  cui  egli  siede  al  fuoco  e  talvolta  banchettando  (Strzygowski, 
op.  cit.,  1.  e).  Nel  verso  di  Bonvesin  saremmo  tentati  a  vedere  una 
reminiscenza  anche  formale  di  Macrobio,  Saturn.,  I,  18,  dove  dice  di 
Gennaio:  "  primumque  anni  esse  voluit,  tamquam  bicipitis  Doi  meu- 
sem,  respicientem  ac  prospicientem  transacti  anni  finem,  futu- 
rique  principia  „,  parole  ripetute  poi  quasi  alla  lettera  da  Beda, 
Opera,  Basilea,  1568, 1. 1,  242. 


'CARMINA    DE    MENSIBLS  '   DI    BONVESIN   DA    LA    RIVA  73 

aspicio  retro  mea  suscipiendo  tributa, 

ante  quidera  specto  subiectis  precipiendo 

ut  bene  seque  regant  et  fructificando  laborent; 
320       ergo  fruetifico,  nil  est  quod  dicitis  ergo. 

Rursus  bonorifìce  vivens  solacia  quero, 

nam  mos  est  regum  solari,  leta  videre 

et  letara  vitam  seniper  deducere  largo. 

Me  quoque  culpastis  quod  largus  in  accipiendo 
325       nicbil  do  nec  grates  refero.  Respondeo  vobis: 

non  est  mos  regis  subiectos  gratificari 

dum  tamen  dimittat  eis  que  sunt  sua  iure. 

Si  glaciem,  si  trado  nivem  spargoque  pruinam, 

frigus  et  intensum  facio,  non  est  mea  culpa.  [128'"] 

330       Quod  Deus  officium  commisit  me  faciente 

non  onus  sed  honor;  per  vos  michi  copia  rei'um 

datur  ut  intensum  valeam  depellere  frigus. 

Exemplum  quoque  do  genti  quo  Tartara  Vincent, 

dentium  stridor  ubi  fit,  intollerabile  frigus, 
335       si  quoque  tune  inopes  habeant  quod  displicet  illis. 

Nullus  in  boc  mundo  vivit  qui  semper  habere 

possit  quod  cupiat  ;  paciencia  compleat  omnem 

desertum  per  quem  possunt  eterna  parari 

gaudia,  post  mortem  perferri  continuata. 

339.  Ms.  perferre 

323.  Mi  pare  di  sentirci  una  reminiscenza  classica;  seppure  tale 
impressione  non  è  l'effetto  dell'essere  questo  un  esametro  regolare 
anche  quantitativamente. 

831.  Il  bisticcio  di  oiiits  e  honor  era,  come  si  sa,  frequente  già 
presso  i  Romani  (vedi  il  Dizionario  del  Forcellini  e  inoltre  Otto, 
op.  cit.,  p.  167,  s.  v.  honos). 

384.  Mattko,  Vili,  12:  "  Filli  autem  regni  ejicentur  in  tenebras 
exteriores:  ibi  erit  fletus  et  stridor  dentium  „.  Cfr.  Jacopone  da 
Todi  (Nannucci,  Manuale,  P,  401):  "  Nello  inferno  n'andrai  etema- 
mente  Là  dove  è  stride  e  pianto  con  gran  guai  ,. 


74  LEANDRO   BIADENE 

340       Advena  non  ego  sum,  vester  concivis  habendus 
assum  natura;  quem  plus  sapientia  dignum 
fecit  quam  reliquos  et  ob  hoc  meus  induperator 
Numma  videns  quod  nullus  erat  dignus  dorninari 
ex  vobis,  me  preposuit  regemque  locavit  ; 

845       non  igitiir  suin  rex  fraude  sed  iure  statutus, 
non  sum  tyrannus  sed  rex  dyademate  dignus, 
non  prece  nec  pretio  sum  rex  ymmo  probitate 
et  bonitate  mea;  deponere  me  voluistis 
invidia  solum;  semper  mea  regna  tenebo 

849.  La  n  di  regna  è  aggiunta  d'altra  mano  nelle  spazio  interlineare. 


342-43.  La  tradizione  secondo  la  quale  il  mese  di  Gennaio  e 
quello  di  Febbraio  furono  aggiunti  da  Numa  Pompilio  agli  altri  dieci 
mesi,  di  cui  per  l'innanzi  componevasi  l'anno,  fu  naturalmente  rac- 
colta da  Ovidio,  Fast.,  I,  43-44  :  "  At  Numa  nec  lanum  nec  avitas 
praeterit  umbras  Mensibus  antiquis  apposuitque  duos  „  e  III,  152: 
*  Pompilius  menses  sensit  abesse  duos  „.  Essa  fu  poi  via  via  ripe- 
tuta da  altri  scrittori.  Plutarco,  Vita  di  Numa  (ediz.  cit.,  voi.  I, 
cap.  XVIII,  p.  86,  lin.  1  sgg.):  «  TToXXol  he  cloiv,  o\  koI  irpooTeGf^vai 
T0ÙT0u<;  ÙTTÒ  No^a  TOÙ<;  Mnvcti;  XéTouai,  tóv  xe  'lavoudpiov  koI  tòv  0€- 
Ppoudpiov.  »  Macrobio,  Saturn.,  I,  13  dice  di  Numa  :  "  factosque 
quinquaginta  dies,  in  duos  novos  menses  pari  ratione  divisit,  ac  de 
duobus  priorem  lanuarium  nuncupavit  ,.  Beda,  Opera  (Basilea,  1563), 
t.  I,  242:  "  lanuarii  Februariique  menses  Numa  Pompilius  anno  ad- 
jicit  „.  Wandalberto  di  Priim,  Comprehensio  temporuin,  ecc.  (Dummlkr, 
Poetae  lat.  aem  Carol.,  II,  577),  vv.  22-23:  "  Solus,  quem  Februo  men- 
sem  Numa  addidit  auctor,  Bis  denis  tantum  patet  octonisque  diebus  „. 
Lo  stesso  De  mensium  duodecim  nominihus,  ecc.  (ibid.,  p.  605)  così 
principia  a  parlare  De  Fehruario  :  "  Anni  quo  numerum  regnans  Pom- 
pilius auxit.  Quo  sacra  dira  urbem  solitum  lustrare  togatam  Inferni 
Februi  retinemus  nomine  dictum  ,.  Onorio  d'Autun,  Imago  mundi, 
cap.  XXXV:  "  Romulus  Romanis  decem  menses  ordinavit  ...  Numa 
vero  Pompilius  duo:  lanuarium  videlicet  et  Februarium  adiecit  „.  E 
molto  più  tardi,  anche  dopo  Bonvesin,  la  prima  delle  Ottave  sui  mesi 
edite  da  Mario  Menghini  nella  Rivista  crit.  della  leti,  ital.,  VII,  189 
principia:  "  Zenar  io  son  principio  capo,  e  porta  De  Tanno  come  già 
Pompilio  volse  „. 


'  CARMINA    DE    MENSIBUS  '    DI   BONVESIN    DA    LA    RIVA  75 

350       vobis  invitis.  Vulgariter  est  quoque  dictuni: 

"  quisquis  babet  teneat  ,  ;  vos  que  sunt  vestra  tenete; 
quisque  suis  rebus  contentus  debeat  esse 
nec  propriam  falcem  trabat  in  messes  alienas. 
Quis  Februs  curtus,  reliquis  qui  peior  habetur, 

355       quera  prope  me  posui,  qui  me  clam  mordet  acutis 
dentibus?  et  quare  loquitur  tacenda  Decomber 
qui  nisi  frigus  agit?  ego  non,  qui  tempore  cuncto 
posteriore  loco  positus  stetit  ordine  nostro. 
Quid  novitatis  ego  feci  cur  sim  removendus 

860       a  solito  regno?  Quod  crimen,  dicite,  feci? 

Nunquam  cernetis  tempus  quo  regna  relinquam; 
preterea  mors  vestra  foret  si  linquere  regna 
cogerer.  Et  quare?  quoniam  contentio  magna 
inter  vos  esset  de  regno,  magnus  et  error; 

365       vos  non  sufficeret  concordes  ambitus  esse  ;  [128^] 

boc  ne  contingat  est  ergo  prò  meliori; 
preterea  quia  sepe  vaco  spaciumque  gerendi 
tract9,ndique  bonum  vestrum  cognoscor  habere 
plus  vobis,  quibus  est  peragendi  cura  laboris. 

370       Rursus  terrarum  rectores  tempore  lani 


351.  Il  più  vecchio  testo  italiano  in  cui  abbia  incontrato  il  pro- 
verbio volgare  qui  sopra  travestito  in  latino,  è  una  ballatina  del  rima- 
tore bolognese  Matteo  de'  Griffoni  (1351-1426);  nella  quale  il  primo 
verso  della  ripresa,  ripetuto  anche  in  fine  della  stanza,  comincia 
appunto  "  Chi  ha  si  tegna  „  (Carducci,  Cantilene  e  ballate,  ecc.  Pisa, 
Nistri,  1871,  p.  826,  n.  ccclii). 

852.  Fa  pensare  al  noto  proverbio  "  Chi  si  contenta  gode  „,  in 
forma  consimile  comune  a  parecchie  nazioni,  come  fa  vedere  il  Van- 
Nucci,  Proverbi  latini,  1,  94-95. 

357.  Evidentemente  anche  il  secondo  qui  si  riferisce  a  December 
e  non  a  ego,  che  precede  immediatamente.  Le  parole  ego  non  sono 
come  fra  parentesi  e  l'idea  negata  dal  non  è  quella  di  frigus  agere. 


10  LEANDRO   BI;»DENE 

incipiunt  regiraen.  Cur  dicor  nomine  lanus? 
lanua  sum,  quoniam  per  eam  rectoribus  est  mos 
intrent  ut  regnum;  sic  ergo  per  has  rationes 
sum  rex  et  digne  sum  primus  in  ordine  vestro  „. 

375       Jj-iis  dictis  reliqui  menses  terrore  timentes 
sub  lani  clava  mortemque  pavere  timentes 
stant  muti  flexa  facie,  testante  rubore. 
Tunc  alacri  facie  coram  festinus  Aprilis 
festive  loquitur  ut  lani  mitiget  iram, 

380       dicens:   "  0  lane,  rex  insuperabilis,  audi, 
et  precibus  nostris  intendas  te  rogitamus. 
Ut  parcas  nobis,  nostrani  nos  dicere  culpam 
atque  satisfacere  sumus  et  parere  parati 
mandatis;  nos  penituit;  miserere  rogamus 

385       ne  sis  attendens  nostris  defectibus;  iram 


371-2.  Anthol.  lai.,  ed.  Riese,  394,  1  [=Baehress  PLM  1,205]:  "  Dira 
patet  lani  Romanis  ianua  bellis  ,  ;  Fast.,  II,  51:  "  Primus  enim  laui 
mensis,  quia  ianua  prima  est  „;  Isidoro,  Eti/in.,  V,  33,  3  "  lanuarius 
mensis  a  lano  dictus, ....  vel  quia  limen  et  ianua  sit  anni  „.  Le  prece- 
denti citazioni  sono  fatte  dal  Dummler,  Poetae  lat.  aevi  Carol.,  II,  616 
al  v.  3  della  poesia  di  Wandalberto  di  Prùm,  Uorologium  per  duodecim 
niensiuDi  punctos,  che  suona:  "  Ianua  nunc  anni  est  finisque  December  ,. 
Nella  stessa  raccolta  quello  dei  Carmina  Salishurgensia  intitolato 
Idioma  mensium  Mngulorum  principia  (p.  644):  "  Fertur  de  lano  dictus 
lanuarius  olim  Vel  quia  sit  anni  ianua  semper  ibi  „.  E  già  prima 
Beda,  Opera  (Basilea,  1563,  pag.  242).  scriveva  di  Gennajo  :  "  Quidam 
autumant  eum  inde  vocatum  quod  limes  et  ianua  sit  anni  „.  E  nel- 
V Imago  Mundi  di  Onorio  d'Autun,  cap.  XXXVII  :  "  Primus  lanuarius  di- 
citur,  ab  idolo  lano,  Deo  principij,  eo  quod  hic  mensis  est  principium 
anni.  Dicitur  et  a  Ianua,  eo  quod  per  eum  intret  annus  „.  Il  Ro- 
SCHER,  AKsfìihrliches    Lexicon    d.  griech.  n.  rom.  Mgthol.,    II,  35,    cita 

Mijthogr.  Vat.  3,  4,  9  :  *  lanus anni  ianuam  pandat  ,.  E  la  prima 

delle  Ottave  sui  mesi  edite  da  M.  Menghini  nella  Riv.  crii.  d.  leti,  it., 
VII,  189,  principia  :  "  Zenar  io  son  principio  capo,  e  porta  De  l'anno 
come  già  Pompilio  volse  ,. 


'  CARMINA   DE    MENSIBUS  '    DI    BONVESIN    DA    LA    RIVA  77 

subtrahe,  lane,  tuam;  faciem  tu  flecte  benignam 

nobis,  nam  quod  nos  vice  peccavimus  ista 

non  ita  nequieia  fuit  hoc  ut  simplicitate  ; 

ergo  te  vincat  patientia  maxima  virtus  ; 
390       nunquam  nos  alias  hoc  fecimus;  hac  vice  prima 

parce  subiectis,  nunquam  peccabimus  ultra  ; 

nostro  defectu  bonitas  tua  non  minuatur; 

non  decet  ex  minimis  irasci  nobilitatem  ; 

vulnere  prò  modico  bona  non  perditur  arbor, 
395    •   queque  super  firmum  fundamen  condita  turris 

firma  manet  nec  prò  vento  prosternitur  omni; 

non  prò  passeribus  sinitur  quin  arva  serantur, 


394.  NovATi,  Serie  proverbiali  nel  Giorn.  stor.  d.  leti,  ital.,  XVIII, 
143,  n.  7  "  Per  uno  botto  no  caze  albero  „.  E  in  nota  i  seguenti  ri- 
scontri :  "  L[e  Roux  de  Linc3^  Le  livre  des  proverbes  frungais,  Paris, 
1842,  e  2''  ediz.  Paris  1859]  II,  473  (e  cfr.  I,  57,  58)  :  Au  primer  coup 
ne  chet  pas  l'arbre;  Bembo,  Motti,  274  "  Ma  per  un  colpo  l'albero 
non  cade.  Cfr.  G[iusti,  Proverbi  Toscani,  Firenze  1855]  243  e  Dur[ings- 
feld  u.  0.  Freiherr  von  Reinsberg-Diiringsfeld,  Sprichivorter  der  ger- 
ìuan.  H.  roman.  Sprachen,  Leipzig,  1872-75]  I,  64  ,.  Si  può  aggiungere: 
Pasqualigo,  Proverbi  veneti,  2*  ediz.  Venezia,  1879,  p.  102  "  Al  primo 
colpo  no  casca  l'àlbaro  „. 

395.  Vengono  subito  alla  mente  i  noti  versi  del  Purgatorio 
V,  14-15: 

Sta  come  torre  ferma  che  non  crolla 
Griammai  la  cima  per  soffiar  di  venti, 

i  quali  sono  assai  più  vicini  alla  forma  che  la  similitudine  ha  nel 
nostro  testo  che  non  a  quella  in  cui  è  espressa  dagli  altri  autori 
citati  dai  commentatori  danteschi,  e  in  questo  caso  anzi  basterà  dire 
dal  Venturi,  Le  similitudini  dantesche,  Firenze,  Sansoni,  1874,  p.  77, 
n.  122.  L'aggettivo  firma  e  l'espressione  prò  vento,  a  cui  corrispon- 
dono il  ferma  e  il  pier  soffiar  di  venti,  non  trovano  esatto  riscontro 
negli  altri  testi,  ed  è  quindi  lecito  pensare  che  Dante  scrivendo 
avesse  presente  la  similitudine  in  forma,  se  non  uguale,  molto  si- 
mile a  quella  del  nostro  testo. 

397.  NovATi,   Serie  proverb.   nel    Giorn.   stor.   XVIII,    123,   n.    13 


<8  LEANDRO   BIADENE 

nec  propter  rauscam  fit  temo  volubilis  usquam  ; 

permanet  illesa  spinis  rosa,  nilque  decoris 
400       amittit  spinis  nec  odoris,  nilque  valoris. 

Sic  ne  tui  bonitas  inter  nos  fulgida  sistat 

et  redolens  vigeat;  lux  solis  non  tenebratur  [129''] 

stellarum  radiis,  sic  et  sapientia  lani 

prò  nostris  factis  nunquam  sua  lumina  perdat; 
405       noster  defectus  non  turbet  nobilita tem, 

lane,  tuam  ;  tua  nos  vincat  patientia  magna  ; 

hec  postponantur,  hec  nunc  in  pace  quiescant; 

prò  nostro  domino  volumus  te  semper  habere, 

semper  obedire  reverentius  et  decorare, 
410       et  te  perpetuum  regem  clamare  libenter  „. 


Hi 


Liis  dictis  lanus  facilis  vultuque  benignus 
flectitur,  et  menses  nimio  terrore  paventes 
in  se  iam  redeunt,  lani  cessante  furore. 
Exclamant  omnes:   "  vivat  per  secula  lanus, 

415       vivat  rex  noster,  gaudens  letetur  liabunde, 
et  rex  perpetuus  firmetur  protinus,  et  qui 
buie  contradicet  non  vivat  sed  moriatur  ,. 
Tunc  fit  continuo  contractus  publicus  :  ut  sit 
perpetuus  rex  et  dominus  se  quilibet  horum 

420       obligat  et  iurat  spondens  attendere  pactum. 

398.  Ms.  trenior.  L'emendazione  è  suggerita  dal  confronto  col  testo  italiano,  st.  i74»''> 
e  La  mosca  sul  temon  ni-1  pliga  ni-l  desten  Ke  1  carro  no  vada  inanzo  » . 
413.  Invece  di  redeunt  sembrerebbe  piuttosto  scritto  redemit  senza  il  punto  sitW  i. 


"  Per  paura  de  le  passare  non  lassare  di  seminare  el  panico  „.  E  in 
nota:  "  Identico  in  G.  281,  Diir.  I,  532,  II,  268.  Cfr.  poi  Belis[ario] 
da  Cing[oli],  Frott[ola]  24-5  "  Chi  ha  paura  d'uccelli.  Non  getti  seme 
in  terra  „  e  X  Tav[ole]  f.  17'  "  Non  star  da  seminar  per  celege  ,. 

398.  NovATi,    Serie  proverò,    nel    Giorn.  star.,    XVIII,  119,  n.  30 
*  Mosca  in  timone  ne  leva  ne  pone  „.  E  in  nota:  "  È  proverbio  de- 


'  CARMINA    DE   MENSIBUS  '   DI   BONVESIN    DA    LA   RIVA  79 


Q, 


[luisquis  vult  aliquod  dubium  tractare  vel  aliud 
in  primis  monet  hec  hystoria  premeditari 
et  spoetare  rei  finem,  sapientis  habendo 
consilium  firmum  per  quod  deliberet  ipse 

425       ne  male  presumens  temerarius  esse  sciatur. 

Principium,  medium,  lector,  plus  aspice  finem, 
sic  et  in  eternum  tutus  sine  crimine  vives. 
Bonvicinus  ego  tibi  do  viridaria  pulchra; 
inveniens  flores  et  fructus,  elige  que  vis; 

430       exores  prò  me,   sit  laus  et  gloria  Christo. 

Qui  scripsit  scribaf  et  onini  tempore  vivai;  * 
gloria,  laits  et  honor  tibi  sii  rex  Christe  redemptor. 


sunto  dalla  nota  favola  di  Fedro  "  Musca  in  temone  sedit...  „  lib.  Ili 
VI  (corr.  v);  Hervieux  [Les  fabulistes  du  moyen  àge,  Paris,  1884],  II, 
27;  cfr.  Sacchetti,  Nov.  XVI,  I,  61  „. 

426.  Anciie  aspice  finem  è  motto  proverbiale  ;  per  altri  detti  espri- 
menti suppergiù  il  medesimo  concetto  si  veda  il  Vannucci,  Proverbi 
latini,  II,  48-49. 

430.  Il  secondo  emistichio  fa  parte  del  solito  explicit  "  Finito 
libro  sit  laus  et  gloria  Christo  „.  Gioverà  rammentare  che  la  Vita 
Scholastica  dello  stesso  Bouvesin  finisce  "  Sit  Jesu  Christo  gloria  laus 
et  honor  „,  verso  questo  che  si  può  considerare  come  risultante  dalla 
fusione  dell'altro  testé  citato  e  del  secondo  dei  leonini  finali,  di  cui 
passiamo  a  discorrere  nella  nota  che  segue. 

*  Il  primo  di  cotesti  leonini  s'incontra  di  frequente  in  fine 
delle  scritture  medievali,  e  di  solito  col  secondo  emistichio  in  questa 
forma:  "  et  semper  cum  domino  vivat  „.  Il  secondo  leonino  invece  è 
tolto  da  un  inno  della  Chiesa,  che  si  canta  nella  domenica  delle 
Palme  e  comincia  appunto  con  tale  verso,  che  serve  poi  anche  di 
responsorio  o  ritornello.  L'inno  è  attribuito  da  alcuni  a  Rinaldo  ve- 
scovo di  Langres,  ma  più  comunemente  a  Teodolfo  abbate  floriacense 
poi  vescovo  d'Orléans  nel  IX  secolo  (vedi  Moroni,  Dizionario  d'eru- 
dizione storico-ecclesiastica,  XXXI,    239    e    Vili,  281).  Quasi  superfluo 


80  LEANDRO   BIADENE 

Hystorla  finita^'  sit  nobis  bona  vita 
ac  bonum  vimon  cum  lana  ante  caminum 
sepius  infusum  jjatnim  sequentibus  usum, 
recte  vivendo  neminent  male  sti mutando. 

*  Ms.  hysto  finita  ria.  Per  l'emendazione  j/iova  tener  presente  anche  il  v.  422,  dove 
il  componimento  è  appunto  chiamato  hystoria  come  nel  testo  italiano,  st.  183^. 


avvertire  che  in  questo  secondo  leonino  la  rima  si  restringe  alla  sil- 
laba finale,  la  quale  nella  pai'ola  presa  a  sé  sarebbe  atona  (honór,  re- 
(lemptór),  come  accade  non  di  rado  e  come  anche  nell'ultimo  verso 
{vivendo,  stimnlundó).  Questi  due  versi,  secondo  e  sesto  àaW explicity 
seguendo  la  terminologia  poetica  medievale  più  esattamente  che  leonini 
sarebbero  da  chiamare  consonantes  (cfr.  Thurot,  Notices  et  extr. 
t.  XXII,  2^^^^  partie,  p.  452,  e  meglio  ancora  E.  Freymond,  Ueher  den 
reichen  Reim  bei  altfrunz.  Dichtern  nella  Zeitschr.  f.  rom.  Phil.  VI,  13-15). 


CARMINA    DE   MENSIBUS  '   DI    BONVESIN   DA    LA    RIVA  81 


APPENDICE  BIBLIOGRAFICA 


LE  RAPPRESENTAZIONI  E  I  CONTRASTI  DELLE  STAGIONI  E  DEI  MESI 
NELLA  LETTERATURA  EUROPEA. 

Il  titolo  di  quest'Appendice  ne  esprime  a  sufficienza  l'argomento. 
Per  amor  di  esattezza  aggiungeremo  che  in  essa  comprendiamo  anche 
un  testo  indo-americano  e  uno  neo-aramaico.  L'Appendice  si  divide- 
rebbe naturalmente  da  sé  in  due  parti:  I.  Rappresentazioni  e  contrasti 
delle  Stagioni,  lì.  Rappresentazioni  e  contrasti  dei  Mesi.  Sennonché 
sembra  opportuno  far  seguire  una  terza  parte  contenente  notizie  varie 
affini  agli  argomenti  delle  due  prime  e  che  mal  si  potrebbero  racco- 
gliere sotto  una  sola  comune  designazione.  A  questa  terza  parte  d'in- 
dole sua  alquanto  indeterminata  non  sarà  difficile,  lo  sappiamo  già 
da  noi,  fare  aggiunte;  le  due  prime  invece  vorrebbero  essere  un 
Indice  compiuto  di  tutti  i  testi  delle  rappresentazioni  e  dei  contrasti 
delle  Stagioni  e  dei  Mesi  ')  fin  qui  a  stampa  (soltanto  il  breve  fram- 
mento che  fra  i  testi  italiani  ha  il  n.  3  e  il  testo  latino  n.  10  erano 
finora  del  tutto  ignoti),  o  dei  quali  comecchessia  fu  fatta  pubblica  men- 
zione. Anch'esso  dunque  potrebbe  essere  in  seguito  accresciuto  da  quei 
testi  sullo  stesso  argomento  che  si  trovassero  giacere  ancora  inediti 
t'  sconosciuti  nei  manoscritti  o  che  fosse  dato  raccogliere  dalla  viva 
voce  del  popolo;  oltre,  s'intende,  di  quelli  già  a  stampa  per  avven- 
tura sfuggiti  alla  nostra  diligenza.  E  qui  dobbiamo  confessare  di  non 
avere  nemmeno  ricercato  gli  almanacchi  e  le  strenne  delle  altre  na- 
zioni eche  è  pur  probabile  contengano  poesie  modei'ne  d'indole  rap- 


')  Non  dunque  dei  testi  sulle  Stagioni  e  sui  Mesi  in  generale,  dei 
quali  parla  invece  G.  Moeici,  La  poesia  delle  stagioni  (nella  Nuova 
Antologia,  fase,  del  1°  dicembre  1893,  pp.  479-515). 

Sttidj  di  filologia  romanza,  IX.  6 


82  LEANDRO   BIADENE 

presentativa  sulle  Stagioni  e  sui  Mesi  ').  E  ci  viene  anche  il  dubbio 
che  alcuni  testi  russi,  ai  quali  qui  converrebbe  far  luogo,  sieno  già 
stampati  nei  Trairiiix  de  Vexpédition  d'aìxhMogie  et  de  statistique  dans 
la  Russie  occidentale,  Saint-Pétersburg,  1872-77,  opera  che  abbiamo 
invano  ricercata  in  alcune  delle  principali  biblioteche  italiane  e  il 
cui  terzo  volume  sappiamo  essere  "  una  specie  di  Giornale  del  popolo, 
che  dà  per  ciascun  giorno  e  ciascun  periodo  dell'anno  le  credenze,  i 
costumi,  i  canti  che  vi  si  riferiscono  „  (Piptne  et  Spabovich,  Histoire 
des  littératnres  slaves,  trad.  p.  E.  Denis,  p.  555.  Paris,  Leroux,  1881). 


PARTE  I. 

Rappresentazioni  e  contrasti  delle  Stagioni. 

Nella  poesia  greca  e  romana  sono  tutt'altro  che  frequenti  le  per- 
sonificazioni concrete  delle  Stagioni,  e  quelle  poche  che  s'incontrano 
sono,  per  così  dire,  appena  abbozzate.  Di  vere  e  proprie  rappresen- 
tazioni delle  Stagioni  nella  poesia  romana  non  sapremmo  citare  che  i 
quattro  versi  coi  quali  le  dipinge  Ovidio  nelle  Metamorfosi  (II,  27-30) 
e  che  furono  o  poterono  essere  ispirati  dalle  arti  figurative  ;  versi  i 
quali  servirono  di  tema  alle  variazioni  che  ne  fecero  più  tardi  i  coaì 
detti  dodici  sapienti,  non  tutti  per  altro  ne  sempre  attenendosi  alla 
schietta  rappresentazione.  Neil'  Anthologia  latina  coteste  variazioni 
hanno  il  titolo  di  Tetrasticha  de  qiiattuor  temporibus  (Baeheens,  PLM, 
IV,  131-34)  e  ad  essi  si  può  aggiungere  l'altro  tetrastico  intitolato 
nella  stessa  Anthologia  (Baehrens,  PLM,  IV,  290):  Lnus  temporum 
quattuor.  E  anche  nella  letteratura  europea  medievale  e  moderna, 
dove  non  iscarseggiano  di  certo  le  descrizioni  delle  Stagioni  e  spe- 
cialmente della  Primavera,  esse  sono  piuttosto  di  rado  raffigurate 
come  persone  vive  e   reali,   visibili   coll'occhio  della  fantasia. 


*)  Di  alcuna  di  siffatte  poesie,  p.  e.  di  quella  pubblicata  nel  1893 
da  A.  Thedriet  col  titolo  La  ronde  des  saisons  et  des  mois,  fa  cenno 
e  riporta  alcuni  versi  il  Morici  in  fine  dello  scritto  citato  nella  nota 
precedente. 


'  CARMINA    DE    MENSIBUS  '   DI   BONVESIN    DA    LA    RIVA  83 

Ciò  accade  talvolta,  oltre  che  in  componimenti  d'altro  genere,  nei 
contrasti  delle  Stagioni,  che  sono  abbastanza  numerosi.  Di  ognuno 
di  essi  espose  l'argomento  e  diede  precisi  ragguaglj  bibliografici 
r  Uhland  nella  dissertazione  Sommer  iind  Winter  {Schriften,  III, 
17-51),  tralasciando  per  altro  i  testi  italiani;  dei  quali,  a  dir  vero, 
quand'egli  scriveva  era  a  stampa  soltanto  il  n.  2  del  nostro  Indice.  E 
i  medesimi  rimasero  ignoti  anche  ad  H.  Jantzen;  il  quale,  Geschichte 
des  deiitschen  Streitgedichtes  im  Mittelalter,  Breslau,  1896  (Germanistische 
Ahhandlnngen,  XIII  Heft)  non  fa,  come  dice  egli  stesso  (p.  38),  che  enu- 
merare i  testi  già  esaminati  dall'  Uhland,  aggiungendo  soltanto  a 
p.  39  n.  4  l'indicazione  di  alcune  moderne  versioni,  quelle  nel  nostro 
Indice  dei  testi  tedeschi  segnate  dei  n'  10-16. 

A.  Contrasti  dell'Inverno  e  dell'Estate, 
Testo  greco. 

Xeinùjv  Koì  'Eap.  Fuhulae  Aesopicae  coUectae,  ree.  Halm,  Lipsia, 
Teubner,  1860,  p.  199,  n"  414.  Breve  testo  in  prosa. 

Testo  latino. 

Conflictns  Veris  et  Hiemis  ').  Riese,  Anthologia  latina,  II,  145  (Lipsia, 
Teubner,  1870),  n°  687;  Dùmmler,  Poetae  latini  aevi  Carolini,  I,  270  (nei 
Monumenta  Germaniae  historica).  Sono  55  esametri.  Com.  "  Conve- 
*  niunt  subito  cuncti  de  montibus  altis  |  Pastores  pecudum  „.  Su  di 
esso  vedi  Uhland,  op.  cit.,  pp.  23-24,  che  rimanda  al  Grimm,  Deutsche 
Mythologie,  640,  il  quale  ne  cita  le  più  antiche  edizioni,  e  vedi  inoltre  : 
Ebert,  Histoire  generale  de  la  littérature  latine  au  moyen-age,  II  (Paris, 
Leroux,  1884)79-80;  Selbach,  Das  Streitgedicht  in  der  altprov.  Lìjrik, 
Marburg,  Elwert,  1886,  §  20,  pp.  25-26  e  Jantzen,  op.  cit.,  pp.  5-6. 
La  poesia  è  stata  attribuita  a  Beda,  a  Milone  di  S.  Amand,  a  Dodo  di- 
scepolo di  Alenino,  ad  Alenino  stesso. 

')  Nel  cod.  11412  della  Nazionale  di  Parigi  hanno  il  titolo  comune 
di  Altercano  ìiyemis  et  aestatis  due  poesie  latine,  le  quali  non  sono 
che  rifacimenti  del  contrasto  osceno  fra  Ganimede  ed  Elena  composto 
sui  primi  del  sec.  XIII  (v.  Hauréau,  Notices  et  Extraits  des  tnst.  de  la 
Bihl.  nation.,  Paris,  1880,  t.  XXIX,  275). 


84  LEANDRO   BIADENE 

Testi  italiani. 

1.  De  hyeme  et  destate.  N.  Lagomaggiore,  Rime  Genovesi  della  fine 
del  sec.  XIII  e  del  principio  del  XIV  wqW Archivio  glottol.  ital.,  II 
(1873),  206-8. 

La  personificazione  non  è  perfetta.  Inoltre  la  poesia,  che,  così  come 
ci  è  pervenuta,  consta  di  152  versi  enneasillabi  (12  di  introduzione, 
48  in  bocca  àoiVInverno,  gli  altri  dell'altro  interlocutore),  è  incom- 
piuta. Dopo  il  discorso  à^WEstate  (o  meglio  del  difensore  e  lodatore 
di  lui)  nel  ms.  segue  il  titolo  yeme,  ma  il  testo  della  risposta  manca. 
Si  noti  die  come  VInverno  si  era  riservato  di  replicare  (vv.  57-60), 
così  aveva  espresso  anche  V Estate  l'intenzione  di  fare  altrettanto 
(vv.  151-52).  Secondo  G.  Paris  (Journal  des  Satmnts,  a.  1892,  p.  157) 
questo  contrasto  genovese  sarebbe  imitato  da  un  altro  consimile  fran- 
cese; ma  non  vediamo  su  che  cosa  veramente  si  fondi  tale  asserzione. 

2.  Contrasto  piacevole  fra  l'estate  et  il  verno  nel  quale  si  sentono 
tutti  gli  commodi  et  incommodi  tanto  dell'uno  quanto  dell'altro  di  Giulio 
Cesare  dalla  Croce.  In  Bologna,  presso  gli  Heredi  di  Gio:  Rossi,  1604; 
pp.  18;  51  ottave.  0.  Guerrini,  Vita  e  opere  di  G.  C.  Croce,  Bologna, 
Zanichelli,  1878,  p.  354  registra  al  n°  42  del  Saggio  bibliografico  anche 
un'edizione  posteriore,  s.  d.  in  8  carte,  degli  Eredi  Cocchi, 

3.  Lu  Cuntrastu  di  la  Stati  cu  In  Invernu,  pri  sapiri  cui  duna 
chiù  abbundanza  di  li  dui.  In  Palermo,  per  l' Isola,  1689.  In-8'',  pp.  4, 
a  due  coli.  Ecco  ciò  che  di  esso  scrive  S.  Salomone  Marino,  Le  storie 
popolari  in  poesia  siciliana  messe  a  stampa  dal  sec.  XV  ai  d^i  nostri 
{Archivio  jjer  lo  studio  delle  tradizioni  popolari,  XV  [aprile-giugno 
1896]  fase.  II,  183,  n"  57):  "  Mi  segnava  questo  Contrasto  il  librajo 
Carmelo  de  Stefano,  che  l'ebbe  sott'occhio  al  1886  e  pensava  ripro- 
durlo, ma  non  potè  più  perchè  andò  smarrito.  Conosco  la  traduzione 
italiana  fatta  dal  solito  Foriano  Pico  in  una  edizione  di  Napoli  della 
fine  del  sec.  XVII,  che  passo  a  registrare  in  mancanza  dell'originale  : 
Piacevole  Discorso  Dove  s'intende  contrastare  l'Estate  e  l'Inverno  Delle 
stagioni  naturali  e  chi  di  loro  dà  più  abbondanza  in  terra  et  in  Mare 
per  sostanza  del  Mondo.  Composta  da  Foriano  Pico  Fiorentino.  In 
Napoli.   Per  il  Monaco  . . .   pp.  4  non  num.   Nel  frontespizio,  dopo  il 


'  CARMINA    DE    MENSIBUS  '    DI    BONVESIN    DA    LA    RIVA  85 

6"  rigo,  una  vignetta  rappresentante ,  in  quattro  scompartimenti, 
quattro  scene  della  vita  che  si  riferiscono  alle  quattro  stagioni.  Sono 
33  ottave  epiche,  stampate  a  due  colonne,  11  per  pagina,  da  p.  2  a 
p.  4.  La  traduzione,  al  solito,  è  scempiatissima  e  basta  mutare  le  de- 
sinenze per  vedere  il  testo  siciliano  genuino. 
Comincia  : 

Signore  in  Cielo  e  in  Terra  Onnipotente 

Tutte  le  cose  son  da  te  create 
finisce  : 

Dio  creò  a  me  e  creò  a  voi 

Nessuno  vale  senza  tutti  dui. 

Come  si  vede,  Foriano  Pico  è  qui  diventato  senz'altro  autore  del 
Contrasto  *). 

Testi  francesi. 

1.  De  l'Yver  e  de  VEsté.  Jubinal,  Nouveau  recueil  de  contes,  dits, 
fabliaux,  Paris,  1842  ;  t.  II,  40-49.  Testo  anglo-normanno  del  principio 
del  sec.  XIV  (v.  Uhland,  op.  cit.,  pp,  22  e  42,  n.  10  e  G.  Paris,  La 
littérature  frangaise  au  moyen  age'^,  Paris,  1890,  p.  159,  §  110).  Note- 
vole che  ciascuno  dei  due  interlocutori  adoperi  un  metro  differente 
dall'altro  :  VInverno  coppie  di  ottonari  a  rima  baciata,  VEstate  strofe 
rimate  aabaab,  in  cui  a  e  ottonario,  b  quadernario.  La  poesia  che  se- 
condo alcuni,  come  già  dicemmo,  sarebbe  del  secolo  XIV,  secondo 
altri  invece  sarebbe  stata  composta  fra  il  1160  e  il  1190  (v.  Naetebus, 
Die  nichthjrischen  Strophenformen  des  Altfranzosischen,  Leipzig,  1891, 
pag.  191). 

2.  [Le  Debat  de  l'Yver  et  de  VEsté].  Montaiglon  et  Rothschild, 
Recueil  de  poésies  frangaises  du  XV^  et  XVP  siede,  Paris,  1875;  t.  X, 
43-49.  Del  sec.  XIV  :  32  strofe  quademarie  monoritmiche. 

*)  Alla  molta  gentilezza  del  Salomone  Marino  devo  la  copia  di  buona 
parte  del  poemetto,  nel  quale  i  due  interlocutori  ripetono  suppergiù 
i  soliti  argomenti;  mentre,  se  non  rammento  male,  nel  poemetto  del 
Croce,  essi,  e  specialmente  l'Inverno,  sapendo  di  essere  uditi  dal  po- 
polo della  grassa  Bologna,  enumerano  con  compiacenza  singolare  le 
ghiotte  vivande  di  cui  ciascuno  dei  due  va  ricco. 


86  LEANDRO  BIADENE 

3.  [Le  Debat  de  VYver  et  de  l'Esté].  Montaiglon  et  Rothschild, 
Rectteil  etc.  Paris,  1857;  t.  VI,  190-5.  Del  sec.  XV;  rimaneggiamento 
del  testo  precedente  ;  25  strofe  quademarie  monoritmiche.  Vedi  anche 
Uhland,  op.  cit.,  pp.  22-23  e  42,  n.  11. 

Testi  ispano-portoghesi. 

Due  drammi  di  Gii  Vicente  (t  1536?).  Obras  de  G.  V.,  Amburgo, 
1834;  I,  76  sgg.  :  Auto  dos  quatro  tempos;  11,446  sgg.  :  Triumpho  do 
Inverno  (v.  Uhland,  op.  cit.,  pp.  28  e  45,  n.  34). 

Testi  inglesi. 

1.  A  song  on  the  Ivy  and  the  HoUy.  Sandts,  Christmas  carols, 
Londra,  1833  (efr.  Uhland,  op.  cit.,  pp.  26-27  e  44,  n.  26).  I  due  al- 
beri simboleggiano  uno  l'Inverno  e  l'altro  l'Estate.  La  poesia  è  con- 
tenuta in  un  ms.  del  sec.  XV. 

2.  3.  4.  Tre  brevi  poesie  frammentarie,  che  riguardano  il  contrasto 
fra  i  due  alberi  indicati  nel  numero  precedente,  stanno  in  Songs  and 
Carols,  noto  first  printed  from  a  Manuscrit  of  the  15  Cent.  Edit.  by 
Th.  Wright.  Londra,  1847,  pp.  44,  84  e  sgg.  (v.  Uhland,  op.  cit., 
pp.  27  e  44,  n.  28). 

5.  The  debate  and  stryfe  betw.  Somer  and  Winter.  Hazlitt.  Remains 
of  the  early  pop.  poetry  of  England,  London,  1864;  Introd.,  p.  64.  Non 
so  se  sia  lo  stesso  testo  stampato  in  Early  Dutch  German  and  En- 
glish  Printer's  Marks,  London,  1866,  in-8°,  n"  6,  il  quale  non  è  che  la 
traduzione  letterale  del  testo  francese  n"  2  =  3  (cfr.  la  nota  di  E.  Picot 
aggiunta  a  questo  testo  nell'edizione  sopra  citata). 

Testo  indo-americano. 

Fiaba  degli  Indiani  dell'America  del  Nord.  Kletkes,  Màrchensaal, 
voi.  Ili,  Berlino,  1845,  pp.  378  sgg.  (v.  Uhland,  op.  cit.,  pp.  28  e  45 
n.  33). 

Testi  tedeschi. 

1.  Van  den  zomer  und  van  den  winter.  Ms.  pergamenaceo  all'Aja, 
n°  721,  fol.  14  sgg.;  della  fine  del  sec.   XIV.  Comincia  "  Der  somer 


'CARMINA   DE    MENSIBUS  '    DI    BONVESIN    DA    LA    RIVA  87 

.^piicht:  ich  moez  clagen  „.  Consta,  a  quanto  sembra,  di  14  strofe  di 
9  versi  ciascuna,  ma  quella  che  ora  è  terza  risulta  dalla  giustappo- 
sizione di  frammenti  di  due  strofe,  fra  i  quali  quindi  deve  esserci 
una  lacuna  (v.  Uhland,  op.  cit.,  p.  41,  n.  7,  dove  è  riportata  la 
strofa  10*,  e  p.  21,  dove  ne  è  dato  il  sunto). 

2.  *)  Een  abel  spel  van  den  lointer  ende  van  den  somer.  H.  Hoff- 
MANN,  Home  helgicae,  VI,  125,  sgg.  La  poesia,  che  è  di  625  versi  ri- 
mati, ed  ha  forma  drammatica,  fu  secondo  l'editore  (Introd.,  p.  xlv) 
composta  nella  seconda  metà  del  sec.  XIV  (v.  Uhland,  op.  cit.,  p.  42, 
n.  9  e  pp.  21-22,  dove  è  riassunta). 

3.  Des  Popjye  Hofton.  Uhland,  Germania,  V,  284-86.  Del  sec.  XV; 
tre  strofe  di  18  versi  ciascuna  (v.  Uhland,  op.  cit.,  p.  41,  n.  6  e 
pp.  20-21). 

4.  Voti  Buchsbaum  ttnd  Felber.  Uhland,  Volkslieder  N.  9,  voi.  I, 
pp.  30  sgg.  Del  principio  del  sec.  XVI.  I  due  alberi  simboleggiano 
le  due  stagioni  (v.  Uhland,  op.  cit.,  p.  44,  nn.  29  e  30  e  pp.  27-28). 

5.  Gesprcich  zwischen  dem  Sommer  imd  dem  Winter.  Hans  Sachs, 
Gedichte,  ed.  Nùmberg,  1858;  I,  419  sgg.;  ed.  Keller,  IV,  255  {Bi- 
hUoth.  d.  liti.  Vereins  in  Stuttgart.  Pubi.' 105).  La  poesia  è  dell'anno 
1538,  ed  è  notevole  in  essa  che  riesca  vincitore  VInverno.  A  spiega- 
zione di  ciò  gioverà  rammentare  che  la  scena  è  trasportata  nel  giorno 
di  S.  Matteo,  nell'equinozio  d'autunno.  Tradotta  in  moderno  alto  te- 
desco da  C.  H.  Lììtzelberger  nell'^^ÒMm  des  liti.  Ver.  in  NUrnberg 
heraitsg.  (anno  1870).  Cfr.  Uhland,  op.  cit.,  p.  41,  n.  6  e  pp.  19-20  e 
Jantzen,  op.  cit.,  pp.  38-39. 

6.  Der  Krieg  mit  dem  Winter.  Hans  Sachs,  Gedichte,  ed.  di  Nurn- 
berg,  1558,  I,  421;  ed.  Keller,  IV,  263.  È  un  rifacimento  in  forma 
narrativa  del  testo  precedente,  composto  nel  1539  (cfr.  Uhland,  op. 
cit.,  p.  41,  n.  6  e  Jantzen,  op.  cit.,  p.  39,  il  quale  inesattamente  asse- 
risce che  la  poesia  sfuggì  all'  Uhland,  soltanto  perché  questi  non  la 
menziona  nel  testo  della  dissertazipne). 

')  È  veramente  un  testo  neerlandese. 


88  LEANDRO    BIADENE 

7.  Ain  schìiner  perck-rayen  ron  Somer  und  Winter.  Keller  lnu 
GoETZE,  Hans  Sachs  Gedichte,  XXIII,  253  [Litt.  Verein  i.  Stiittgai-t, 
207).  Rifacimento  del  n"  5,  composto  nel  1565  e  terminante  anch'esso 
colla  vittoria  ù.^W Inverno.  Sfuggito  alla  diligenza  dell'  Uhland,  come 
notò  il  Jantzen,  op.  cit.,  p.  39. 

8.  Uhland,  VollcsUeder  n°  8;  I,  23.  Canzone  conservataci  in  stampe 
del  1576  e  del  1580  (cfr.  Uhland,  op.  cit.,  p.  18).  Il  ritornello  è  man- 
tenuto in  una  poesia  dialogica  del  1628  fra  la  città  di  Ulm  e  un 
soldato  (cfr.  Uhland,  op.  cit.,  pp.   19  e  40,  n.  3). 

9.  Sonimer  und  Winter.  Tobler,  Appenzeller  Sprachschatz,  Zùrich, 
1837,  pp.  425  sgg.  Testo  per  una  rappresentazione,  che  si  soleva  fare 
in  Isvizzera  fino  a  non  molti  anni  addietro  (cfr.  Uhland,  op.  cit.,  p.  40, 
n.  4  e  p.  19). 

10.  Testo  per  una  rappresentazione,  proveniente  dalla  Stiria. 
BiiscHiNG,  WochentUche  Nachrichten  fiir  Freunde  der  Oeschichte  it.  s.  tv. 
des  Mittelalters,  Breslau,  1816;  I,  226. 

11.  Testo  per  una  rappresentazione.  Panzer,  Beitrag  zur  deutschen 
Mythologie,  Mùnchen,  1848  ;  I,  253.  Della  Baviera  superiore. 

12.  Canto  accompagnato  dalla  melodia.  Ditfurt,  Frdnkische  Volhs- 
lieder,  Leipaig,  1855;  TI,  286,  n'  373. 

13.  Canti.  Hruschka  u.  Toischer,  Deutsche  VollcsUeder  aus  Bohmen, 
Prag,  1891:  pp.  48-50,  n'  70-72.  Dalle  montagne  dell' Erz,  la  Boemia 
occidentale  e  Gablonz. 

14.  Canto  o  canti.  M.  V.  Su.ss,  Salzburger  Volkslieder,  pp.  267-72. 

15.  Weinhold,  Zeitschrift  d.  Vereins  fiir  Volkskunde,  1893,  p.  226. 
Da  Hartlieb  presso  Breslavia. 

16.  Mitteilnngen  d.  Schles.  Gesellschaft  fiir  Volkskunde  hrsg.  v.Vogt 
u.  Jiriczeck,  Breslau,  anni  1895-96,  pp.  68  e  100  e  anno  1896,  p.  30 
(Soltanto  l'indicazione  di  nuove  versioni  ritrovate;  nessun  testo).  In 
parte  queste  poesie  sono  ristampate  in  Erk  u.  Bohmes  deutscher  Lie- 
derhort,  III,  11  sgg.  (Lipsia,  1894). 


'  CARMINA    DE    MENSIBUS  *    DI    GONVESIN    DA    LA  "RIVA  89 

Non  so  se  fra  le  poesie  n"  10-16  sia  compreso  anche  il  canto  sti- 
riano  di  14  strofe,  indicato  da  E.  Picot  nella  già  citata  nota  al  Re- 
citeil  de  2)0^sies  franraises,  X,  49  e  pubbl.  per  la  prima  volta  da  Fi- 
lippo voN  End  nel  suo  Malerisches  Taschenbuch  ecc.  1*'  Jahrgang, 
Vienna,  1812,  pp.  175-.9,  poi  da  F.  E.  von  Erlach  nei  VolksUeder  der 
deutschen,  Mannheim,  1835;  lY,  309-11. 


B.  Contrasti  della  Priìnavera  e  dell'Autunno. 

1.  Ain  hrieg  von  dem  Mayen  und  von  deìH  Augst  man.  Haltaus, 
Liederhuch  d.  Klara  Hàtzlerin  '),  Quedlinburg  u.  Leipzig,  1840,  p.  248, 
n°  60.  Cfr.  Jantzen,  op.  cit.,  p.  40,  il  quale  nota  che  il  testo  non  si  trova 
menzionato  dall' Uìiland;  sennonché  questi  (op.  cit.,  p.  45,  n.  31)  av- 
verte che  dei  contrasti  fra  Maggio  e  Autunno,  intorno  ai  quali  indica 
due  opere,  si  sarebbe  occupato  in  un'altra  dissertazione. 

2.  Pseudo-Neidharts  "  GefràssUed  „.  Haltaus,  Liederhuch  d.  Klara 
Hàtzlerin,  p.  70,  n°  91.  Contrasto  fra  la  Primavera  e  l'Autunno  (cfr. 
Jantzen,  op.  cit.,  p.  41). 

3.  Dis  iat  von  dem  herbste  und  von  dem  meigen.  Mullke,  Samin- 
lung  deutscher  Gedichte  a.  d.  12-14  Jahrh.  Ili,  fragm.  pp.  xxix  sgg. 
e  Keller,  Erzahlungen  a.  altd.  Hands-,  p.  588  (v.  Jantzen,  op.  cit., 
pag.  41). 


•)  Monaca  che  mise  insieme  il  predetto  libro,  accogliendovi  proba- 
bilmente anche  canzoni  anteriori  al  suo  tempo,  nel  1471  (vedi  Ko- 
berstein,  Grundriss  der  Geschichte  der  deutschen  NationalUteratur^, 
Leipzig,  Teubuer,  1872,  I,  339). 


9<)  LEANDRO   BIADENE 

PARTE     II. 

Rappresentazioni  e  contrasti  dei  Mesi. 


Testi  greci. 

8ono  tutti  direttamente  o  indirettamente  indicati  dal  Kkumbacher, 
GescMchte  der  bi/zantinischen  Litieratur^,  Mùnchen,  1897.  §  313,  nota  9, 
p.  753,  e  i  testi  qui  sotto  segnati  dei  n'  4,  6-9  furono  pubblicati  e 
diligentemente  illustrati,  massime  rispetto  alla  filologia,  da  B.  Keil, 
Die  Monatscyclen  der  hyzuntinischen  Kunst  in  spdtgriechischer  Literatur 
nei  Wiener  Studien,  XI  (1889),  94-142.  Gioverà  rammentare  che  VAn- 
thologia  Palatina,  in  cui  sono  compresi  i  tre  primi  testi  del  nostro 
Indice,  i  più  antichi,  fu  messa  insieme  in  principio  del  sec.  X  (cfr. 
Krl'mbacher,  op.  cit.,  p.  727). 

1.  Mnv6<;  AìyuttGìujv.  Adespota.  Anthologia  Palatina,  Parigi,  Didot, 
1872,  voi.  Il,  cap.  IX,  n°  383.  Dodici  esametri,  uno  per  mese.  I  mesi 
sono  designati  col  nome  egiziano.  La  serie  incomincia  dal  Settembre  : 
TTpà)TO(;  0ibe  khàr\  òpenàvriv  èiri  PÓTpuv  èYeipeiv. 

2.  Mnve<;  'Piui^aiuuv.  Adespota.  Anthologia  Palatina,  voi.  IT,  cap.  IX, 
n°  334.  Dodici  distici,  uno  per  mese,  incominciando  da  Gennaio  : 
'EE  èuéOev  XuKdaavTO<;  ÙTtrieXieoio  Oùperpa. 

3.  'Eiq  Toùq 'Pujiuaiujv  jufivac;.  k.àes'poiii.  Anthologia  Palatina, -voi.  Il, 
cap.  IX,  n.  580.  Nove  esametri:  il  primo,  quarto  e  quinto  compren- 
dono due  mesi.  Si  comincia  da  Gennaio  :  Mi^v  uttcxtujv  TrpuùToq.  '0  bè 
beuTcpoq  aiJXaKa  xéjLivei. 

4.  Oeoòóipou  ToO  TTpobpó)nou  axixoi  eì;  toùi;  òi/jòcko  |-ifjva^.  Keil, 
op.  cit.,  pp.  110-15.  Sei  trimetri  giambici  per  ciascun  mese,  incomin- 
ciando da  Marzo  :  'E^d»  orparriYoùc;  TTpòq  TravoTrXiav  (5yuj.  Gli  ultimi 
due  0  tre  versi  di  ciascun  mese  contengono  precetti  igienici  '). 

0  Come  non  mancò  di  notare  il  Keil,  op.  cit.,  pp.  108  sgg.,  a  co- 
testi precetti    danno,    per    così  dire,  l'argomento  le  prime   parole   di 


'CARMINA    DE    MENSIHUS  "    DI    BONVESIN    DA    LA    RIVA  91 

Teodoro  Prodromo,  che  finì  i  suoi  giorni  in  un  chiostro  di  Costan- 
tinopoli col  nome  di  Ilarione,  visse  dal  1118  fino  al  1181  circa  (cfr. 
Krumbacher,  op.  cit.,  §  313,  p.  749). 

5.  Descrizione  dei  Mesi  nel  romanzo  Tò  Ka9'  'To|nivriv  koì  'To|ui- 
viav  òpà|ua  composto  nella  seconda  metà  del  sec.  XII  da  Eustazio 
(ediz.  R.  Hercher,  Erotici  scriptores  graeci,  II,  161  sgg.,  ediz.  Hilberg, 
lib.  IV,  vv.  5  sgg.,  pp.  49  sgg.)  noto  soltanto  per  il  titolo  datogli  in 
un  ms.  di  TTpuuToviwgcXiaiiuoi;  e  Méyac;  xapfOopùXaS  (Krumbacher,  op- 
cit.,  §  319,  p.  766). 

6.  Descrizione  dei  Mesi  nel  romanzo  "  Lybistros  e  Rhodamne  „ 
di  autore  anonimo,  della  seconda  metà  del  sec.  XIII  (Krumbacher, 
op.  cit.  §  379,  pp.  861  sgg.).  La  descrizione  è  imitata,  spesso  alla  lettera, 
da  quella  di  Eustazio  [vedi  n"  precedente],  e  nell'ediz.  del  romanzo 
procurata  dal  Wagner,  Mediaeval  greek  texts,  London,  1880,  comincia 
col  V.  882.  Fu  poi  edita  criticamente  dal  Keil,  op.  cit.,  pp.  129-36.  La 
serie  principia  da  Marzo:  '0  Mópnoc;  fJTov  IvottXo;  OTpariujTJi;  eìt; 
TÒ  ayij\nav. 

7.  'Ek;  toùc;  òujòeKa  \xf\vac,.  Keil,  op.  cit.  pp.  116-17.  Tre  trimetri 
giambici  per  mese,  incominciando  da  Marzo  ;  ai  due  ultimi.  Gennaio 
e  Febbraio,  manca  un  verso.  Ne  è  autore  Manuel  Philes,  che  visse 
sotto  Michele  Paleologo  II  (1295-1320).  Cfr.  Strzygowski,  Repertorium 
XI,  37  e  Krumbacher,  op.  cit.,  §  324,  4,  p.  777.  Dovevano  servire  a 
spiegare  le  rappresentazioni  figurate  dei  Mesi.  Com.  Tour  fipa  oaqpé^  ' 
ó  Ypotqpeùc;  YÒp  èveàòe. 

8.  Dodici  trimetri  giambici,  uno  per  mese,  incominciando  da 
Gennaio;  di  autore  anonimo.  Keil,  op.  cit.,  p.  118.  Contenuti  nel  cod. 
Vatic.  1384,  fol.  71'  del  sec.  XV,  ma  composti  molto  prima,  non 
però  avanti  il  sec.  XII.  Evidentemente  aggiunti  a  rappresentazioni 
figurate.  Com.  0r|paTiKÓ(;  xiq  eìm,  toìx;  XaYÙJ(;  pX^ire,  e  accanto  l'ab- 
breviatura 'lavv. 

quelli  dei  mesi  corrispondenti  nel  Trattato  alimentare  di  Jerofilo  edito 
dal  BoissoNADE,  Notices  et  Extraits,  XI  (1827),  2,  192  sgg.  Lo  stesso 
Keil  (p.  109w)  nota  le  peculiari  convenienze  dei  precetti  di  Prodromo 
con  quelli  della  Schola  Salernitana  (Regimen  Salernitaniim) . 


92  LEANDRO    BIADENE 

9.  Tre  trimetri  giambici  per  mese,  tranne  per  Gennaio,  Febbraio, 
Giugno  e  Luglio,  nei  quali  è  caduto  un  verso.  Kkiv,  op.  cit.,  pp.  118-20. 
Di  autore  ignoto  ma  bizantino.  I  versi  contengono  la  maggior  parte 
precetti  igienici  [cfr.  qui  sopra  n°  4].  La  serie  principia  da  Settembre: 
rf]v  àpoa(|ariv  aireObe  T^juveiv,  àypóra. 

10.  'EKnppaan;  ]ur|vujv  ùttò  Ziuypdrpov  KOTaYeYpaMMéviuv  ouiuPoXikujc;. 
Testo  in  i:)rosa,  anonimo,  che  si  attiene,  come  il  n°  6,  alla  descrizione 
di  Eustazio  [vedi  n°  5  qui  sopra].  Contenuto  nel  cod.  2773  della  Bi- 
blioteca granducale  di  Darmstadt  (v.  L.  Voltz  und  W.  Ceoenert,  Der 
"  codex  2773  miscellaneus  graeciis  „  der  Grossherzog.  Bihliot.  zu  Darm- 
stadt nel  Centralblatt  f.  Bibliothekwesen,  14  [1897])  e  pubblicato  e  il- 
strato  da  L.  Voltz,  Beinerhungen  zh  byzantinischen  MonatsUsten  nella 
ByzantiniscJte  Zeitschrift,  IV,  547  sgg.  (1895).  Notevole  che  ai  nomi 
latino-cristiani  dei  mesi  sieno  sostituiti  i  nomi  attici. 

Testi  latini. 

Dallo  Strzygowski,  Calenderbilder,  pp.  49,  57,  90  sono  citati  i  testi 
qui  appresso  segnati  dei  n'  1,  2  e  10;  dal  Riegl,  Mittelcdt.  Kalenderill. 
i  n'  1  (p.  21),  2  (p.  23),  6-8  (pp.  25  sgg.),  11  (p.  23);  dal  RAHN,\Die 
Glasgemiilde  in  der  Rosette  der  Kathedrale  von  Lausanne,  p.  20  e  dal 
D'Ancona,  Arch.  trad.  j^op.  II,  257,  il  n°  10. 

La  maggior  parte  poi  furono  pubblicati  in  edizione  critica  dal 
Baeheens,  Poetae  latini  minores  (PLM),  Lipsia,  Teubner,  nei  voli.  I 
(1879),  IV  (1882)  e  V  (1883),  alle  pagine  che  indicheremo  qui  sotto 
per  ognuno  di  essi. 

1.  "  Hic  lani  mensis  sacer  est:  en  aspiee  ut  aris  „  PLM,  I,  xii, 
207.  È  il  cosidetto  Tetrastichon  authenticum,  che  fu  già  ei-roneamente 
attribuito  ad  Ausonio.  Due  distici  per  ciascun  Mese,  scritti  l'uno  di 
fianco  all'altro  lungo  il  margine  interno  delle  pagine  contenenti  i 
simboli  dei  Mesi  nel  Calendario  di  Filocalo  del  354  ;  ma  il  Baehrens, 
op.  cit.,  I,  204,  li  crede  più  antichi  e  veramente  prossimi  all'età  di 
Augusto,  a  cagione  dell'eleganza  ritmica  e  dei  pregi  dell'elocuzione, 
e  anche  lo  STRzyGowsKi,  Calenderbilder,  p.  103,  per  altre  ragioni,  de- 
sunte le  più  dal  confronto  di  essi  colle  immagini  dei  Mesi,  che  do- 
vrebbero spiegare  e  a  cui  invece  non  sempre  corrispondono  in  tutto, 


'  CARMINA    DE   MENSIBUS  '   DI   BONVESIN    DA   LA   RIVA  93 

li  riporta  al  primo  o  secondo  secolo  d.  C.  —  Sarebbe  questa  la  più 
antica  fra  le  poesie  d'ogni  lingua  composte  a  illustrazione  delle  figure 
dei  Mesi. 

2.  "  Primus,  lane,  tibi  sacratur,  eponyme,  mensis  „  PLM,  I,  xni, 
210.  Dodici  distici,  di  cui  l'esametro  scritto  sotto  la  figura  e  il  pen- 
tametro sotto  la  tabella  dei  giorni  del  Mese  nel  Calendario  di  Filo- 
calo. 11  primo  esametro  si  trova  anche  in  questa  forma  :  "  lanus 
adest  bifrons  pritnasque  ingreditur  anniim  „,  che  per  altro  non  deve 
essere  la  primitiva  (cfr.  Baehrens,  op.  cit.,  I,  210w  e  Strzygowski,  Ca- 
Icnderbilder,  p.  57). 

3.  "  Fulget  honorifìco  indutus  mensis  aniictu  „  PLM,  IV,  290  (n°  305 
àoìV Anthólogia  latina  [metà  circa  del  sec.  VI]  quale  fu  ricomposta  dal 
Baehrens).  Dodici  distici  col  titolo  Laus  omnium  mensium.  Coloro  che 
fin  qui  studiarono  il  trasformarsi  dei  tipi  dei  Mesi  non  fermarono 
l'attenzione  su  cotesti  versi,  i  quali  dovevano  evidentemente  servire 
a  illustrare  un  calendario  pivi  d'ogni  altro  simile  a  quello  di  Filo- 
calo,  ma  ad  esso  posterioi'e,  essendovi  fatta  parte  maggiore  alle  fac- 
cende dell'uomo  in  confronto  dei  fenomeni  naturali,  come  vediamo 
avvenire  quanto  più  si  procede  nel  tempo  (vedi  Riegl,  op.  cit.,  p.  50). 

Si  osservino  le  somiglianze  caratteristiche,  pur  nell'espressione,  dei 
due  calendarj,  specialmente  nei  mesi  di  Marzo,  Aprile  e  Agosto. 

4.  "  Purpura  iuridicis  sacros  largitur  honores  „  PLM,  V,  214. 
Ventiquattro  esametri,  due  per  mese,  di  Livio  Draconzio,  poeta  vis- 
suto verso  la  fine  del  sec.  V. 

5.  " Artatur  niveus  bntnia  lanuarius  atra  „  PLM,  V,  854.  Dodici 
esametri,  uno  per  mese,  intitolati  Officia  XII  mensium.  Composti,  a 
parere  del  Baehrens,  op.  cit.,  V,  349,  fra  l'età  di  Draconzio  e  quella 
di  Colombano,  cioè  fra  la  fine  del  V  e  la  seconda  metà  del  VII  secolo . 

6.  De  mensium  duodecim  nominibus,  signis,  culturis  aerisque  qua- 
Utatibus.  DùMMLER,  Poetae  latini  aevi  Carolini,  II,  604-16,  Berlino,  Weid- 
mann,  1884  (nei  Monumenta  Germaniae  historica).  Poemetto  composto 
da  Wandalbei-to  di  Priim  verso  la  metà  del  sec.  IX.  Dei  366  esa- 
metri onde  si  compone,    6,  in  principio,  contengono   l'argomento,  al- 


94  LEANDRO    BIADENE 

trettanti   formano   la  chiusa,    e  gli  altri   sono   così  distribuiti  :   Gen- 
naio 20,   Febbraio  21,   Marzo  26,  Aprile  29,   Maggio  33,   Giugno  29, 
Luglio  32,  Agosto  36,    Settembre  35,    Ottobre  31,    Novembre  28,  Di- 
cembre 34. 
Primi  versi  : 

Nominibus  mensum  quae  sit  rationis  origo, 
Annum  bis  seno  volvunt  qui  sidere  magnum, 
Quae  inlustrent  pariter  duodenas  signa  Kalendas, 
Quid  connexa  ferat  mensum  discretio  terris, 
Quos  usus  generet  cultus,  quos  formet  habendi: 
Servato  breviter  referemus  in  ordine,  lector. 
Ultimi  versi  : 

Wandalbertus  ego,  liortatu  compulsus  amici, 
Dulcia  me  Hreni  quo  tempore  litora  alebant, 
Maxima  Agrippinae  veteris  quis  moenia  praesunt. 

Il  titolo  riassume  esattamente  la  contenenza  del  poemetto,  come 
discorrendo  di  questo  notò  il  Riegl,  op.  cit.,  pp.  35-37  ;  il  quale  (p.  40) 
aggiunge  che  i  versi  non  possono  essere  stati  composti  per  ispiegare 
le  immagini  dei  Mesi,  ma  hanno  la  loro  origine  nel  gusto  per  la 
poesia  dei  calendari  ormai  invalente  nel  nono  secolo. 

7.  "  Fertur  de  lano  dictus  lanuariiis  olim  „.  Dùmmleb,  Poetae  lat. 
aevi  Carol.  Il,  644-45.  È  uno  dei  Carmina  Salishurgensia,  col  titolo 
Ydioma  mensium  singulorum.  Ventiquattro  distici,  due  per  mese,  com- 
posti fra  1*855  e  1*859.  Secondo  G.Wattenbach,  Deutschlands  Geschichts- 
qtiellen,  I,  238,  avrebbero  dovuto  leggersi  sulle  pareti  dell'aula  episco- 
pale di  Salzburg.  Su  di  essi  cfr.  Riegl,  op.  cit.,  p.  307.  Il  primo  distico 
di  ciascun  mese  serve  a  spiegarne  il  nome.  Tutti  due  i  distici  di 
Giugno  sul  nome  del  mese. 

8.  "  Pone  focum  ntensis  dictus  de  nomine  lani  „.  Dùhuler,  Poetae 
lat.  aevi  Carol.  II,  645-46.  Altro  dei  Carmina  Salishurgensia,  che  fa 
seguito  a  quello  del  n*  precedente,  col  titolo  Item  alii  versus.  Tredici 
distici,  uno  per  mese  e  il  seguente  di  chiusa  : 

Haec  loca  sufficiant  subito  prò  tempore  fratri, 
Nam  praesens  otium  mox  meliora  dabit. 


'  CARMINA   DE    MENSIBUS  '    DI   BONVESIN    DA    LA   RIVA  9j 

L'importanza  di  questa  poesia  nella  storia  dei  calendari  illustrati 
apparisce  dall'  esame  fattone  dal  Riegl,  op.  cit.,  pp.  38-40.  Contra- 
riamente per  altro  all'opinione  a  cui  egli  inchinava,  anche  questa 
poesia  sembra  essere  stata  composta  a  illustrazione  di  un  ciclo  dei  mesi 
e  propriamente  di  quello  edito  di  fresco  da  A.  Chroust,  Denkmdler  der 
Schreibkunst  des  Mittelalters,  erste  Abt.  (nei  Monumenta  paleographica, 
Mùnchen,  F.  Bruckmann,  1899,  Ser.  I,  Lief.  I),  che  lo  riproduce  dal 
cod.  lat.  n.  210  (fig.  91)  della  R.  Biblioteca  di  Monaco,  scritto  proba- 
bilmente a  Salzburg  nell'  818  e  copiato  da  un  apografo  dell'  809  pro- 
veniente dal  nord-ovest  della  Francia. 

9.  "  Martius  hic  falcem  retinens  vult  cedere  vitein  „.  Dieci  esametri, 
uno  per  mese  :  mancano  Gennaio  e  Febbraio,  che  probabilmente  an- 
darono perduti.  Si  legge  ciascuno  di  essi  sotto  la  tabella  del  rispettivo 
mese  nelVEphemeris  di  Beda  (Bedae  Opera,  ediz.  1563,  pp.  242  sgg.; 
ediz.  1612,  pp.  190  sgg.).  Finora  sembra  sia  passato  inosservato  che 
formano  una  sola  serie  (non  ne  tocca  il  Riegl  e  neppure  lo  Strzy- 
gowski)  e  gioverà  quindi  riprodurli  qui  riuniti  tutti  insieme. 

Martius  hic  falcem  retinens  vult  cedere  vitem. 
Aprilis  rastrum  tollendo  temperat  agrum. 
Alligat  ad  fustes  hic  Maius  in  ordine  vites. 
Tellurem  curvo  lunius  proscindit  aratro, 
lulius  ergo  secat  gramen  foenumque  reservat. 
Augustus  metit  et  fruges  in  horrea  mittit. 
September  lectos  terit  hic  cum  fuste  corymbos. 

Seminat  October  quod  maturum  metit 

Sed  purgat  semper  fruges  tundendo  November. 
Ecce  suem:  fastos  parat  nunc  iste  Decembres. 

Questi  versi  dovevano  evidentemente  essere  scritti  sotto  le  figure 
dei  Mesi  (cfr.  hic  avv.,  vv.  1,  3,  7;  ecce  10,  iste  10).  L'esametro  di 
Ottobre  è  incompiuto  in  tutte  due  le  edizioni,  e  propriamente  manca 
dell'ultimo  piede.  Forse  fu  lasciato  così  dall'autore,  che  sembra  avrebbe 
dovuto  compierlo  colla  parola  Augustus  (cfr.  v.  6);  sennonché  in  tal 
maniera  esso  avrebbe  superato  d'una  sillaba  la  giusta  misura;  sem- 
brando che  cotesti  versi  sieno,  sebbene  con  qualche  licenza,  piuttosto 
metrici  che  ritmici.  Quanto  al  tempo  in  cui  furono  composti,  non  si 


96  LEANDRO   BIADENE 

può  precisare  ;  ma,  badando  al  modo  in  cui  i  Mesi  sono  rappresentati, 
non  andremo  lungi  dal  vero  ritenendoli  composti  o  da  Beda  stesso 
0  poco  prima  di  lui. 

10.  0.  Mazzoxi-Toselli,  Spogli  dell'Archivio  criminale  di  Bologna, 
Voi.  II,  fase.  4,  p.  194'  (ms.  presso  la  Biblioteca  Comunale  di  Bologna) 
trascrive  da  "  un  libro  del  1300  „  i  versi  seguenti  '): 

Pocula  lanus  amat  et  Februs  '  aigeo  '  clamat. 
Martius  arva  fodit,  Aprilis  florida  prodit. 

Ros  et  flos  nemorum  Madio  sunt ^)  donorum. 

lunius  dat  fena,  lulio  secatur  avena. 
Augustus  spicas,  September  contulit  uvas. 
Seminat  October,  spoliat  virgulta  November. 
Gaudet  et  exultat  porcum  mactando  December. 

11.  Un  tetrastico  di  leonini,  che  indicando  brevemente  le  carat- 
teristiche di  tutti  i  dodici  Mesi,  e  in  grazia  della  brevità  e  della  rima 
essendo  facile  a  ritenersi  a  memoria,  deve  essere  stato  molto  diflFuso 
nel  medio  evo,  è  il  seguente  : 

Poto,  ligna  cremo,  de  vite  superflua  demo, 
Do  gramen  gratum,  mihi  flos  servit,  mihi  pratum, 
Foenum  declino,  messes  mete,  vina  propino, 
Semen  humi  iacto,  mihi  pasco  sues,  mihi  macto. 

Secondo  un'altra  lezione  nel  v.  3  spicas  invece  di  foeniim  e  nel  se- 
condo emistichio  del  v,  4  pasco  sues,  immolo  porcos,  erroneamente, 
come  mostra  la  mancanza  della  rima  col  primo  emistichio.  Il  tetra- 
stico fu  pubblicato  di  su  un  ms.  del  sec.  XV  da  Wright  e  Hallivell, 
Religiciae  antiquae,  London,  1845,  II,  40  e  di  su  uno  del  sec.  XIV  da 


^)  Ne  ebbi  copia  dal  prof.  D'Ancona,  a  cui  li  aveva  comunicati  il 
prof.  Nevati. 

')  Nella  copia  del  Mazzoni-Toselli  c'è  qui  una  parola  evidentemente 
sformata,  che  il  Nevati  trascrisse  per  hanes  ponendovi  sopra  bones.  Il 
dott.  Ludovico  Frati,  pregato  da  me  di  riesaminare  la  copia  del  To- 
selli,  mi  comunica  colla  consueta  prontezza  che  leggerebbe  homes  in- 
vece di  hanes  e  che  invece  di  donorum  sta  scritto  erroneamente  dinoram. 


'  CARMINA    DE   MENSIBUS  '   DI   BONVESIN   DA    LA   RIVA  97 

AuBER,  Histoire  (in  syntholisme  nUgieux,  Paris  et  Poitiers,  1871,  III, 
457,  e  da  altri  modernamente  ;  ma  già  avanti  coteste  Mensium  Notae 
avevano  veduto  la  luce  con  tal  titolo  insieme  colle  Opere  di  Beda, 
dove  si  trovano  illustrate  da  graziose  vignette.  Le  illustrazioni  del- 
l'ediz.  del  1612  (I,  377)  differiscono  da  quelle  dell' ediz.  del  1563 
(I,  coli.  457-58)  e,  singolare,  in  tutte  due  le  edizioni  è  invertito  l'or- 
dine delle  vignette  di  Settembre  e  Ottobre,  sicché  non  corrispondono 
alle  parole  che  dovrebbero  illustrare  e  che  sono  mantenute  nell'or- 
dine giusto. 

12.  Tutt'in  giro  a  ciascuna  delle  dodici  vignette  dei  mesi  dise- 
gnate da  Martino  de  Vos  e  incise  da  Crispino  de  Passe  verso  la  metà 
del  sec.  XVI  (riprodotte  dallo  Champier,  Anciens  almanachs  illustrés, 
pp.  21,  28,  35),  sono  scritti  due  versi  latini  che  le  illustrano. 

Non  essendo  essi,  crediamo,  noti    d'altronde,  li   riproduciamo  qui. 

Pocula  lanus  amo,  regi  applaudoque  bibenti 
Atque  amnem  lusu  concretum  et  polio  cursu. 

Algidus  en  recreor  multa  Februarius  olla, 
Barbara  larvato  celebrans  con  vi  via  Baccho. 

Nunc  vitem  ac  salices  praecido  et  balnea  quaero  : 
Aro,  seco  venas  et  semino  Martius  agros. 

En  aperit  terras  diuturno  frigore  clausas 
Prodeat  ut  viola  ac  reliquorum  copia  florum. 

Balnea  Maius  amo  et  iuvenilia  gaudia  quaero, 
Utor  aromatibus,  venam  seco,  salvia  potus. 

lunius  en  lautas  mihi  oves  et  pascua  tondo  ; 
Umbra  iuvat,  lactuca  virens,  somnusque  minutus. 

lulius  agricolis  et  farra  et  foena  ministrat 
Quaerit  ubi  optatas»cum  Phyllide  Tytirus  umbras. 

Arboreos  fructus  et  humi  nascentia  fraga 
Largior  Augustus,  beo  frugibus  horrea  plenis. 

Semen  humi  iacto  September  botryde  dulci 
Piscibus  et  vescor,  pyrisque  et  lacte  caprino. 

SttxóJ  di  filologia  romama,  IX.  7 


99  LEANDRO   BIADENE 

Colligit  Octobri  maturas  vinitor  uvas 
Gaudet  et  hinc  dulci  musto  madere  iuventus. 

Prospicio  vacuae  pulchra  ornamenta  colinae 
Omnigena  pecudum  laniata  carne  November. 

Macto  sues:  Boreae  nil  frigora  curo  December 

Dum  modo  ligna,  focus,  toga  sunt  et  aromata  praesto. 

13.  Raccoglieremo  sotto  questo  numero  alcune  poesie  o  frammenti 
di  poesie  nelle  quali  le  proprietà  dei  Mesi  non  formano  il  solo  o  il 
principale  argomento   o  sono  anche  soltanto  leggermente  accennate. 

a)  "  Dira  jxctet  lani  Romanis  ianua  bellis  „  PLM,  I,  xi,  205. 
Sei  distici.  Il  Baehbens,  1.  e,  è  d'opinione  che  i  versi  fossero  scritti 
sotto  le  statue  dei  dodici  segni  zodiacali  e  che  la  poesia  ci  sia  giunta 
frammentaria  e  sieno  caduti  dodici  versi;  vale  a  dire,  ammettendo 
che  anche  originariamente  fosse  composta  di  distici,  che  sieno  caduti 
il  pentametro  del  primo  distico  e  l'esametro  del  secondo,  il  penta- 
metro del  terzo  e  l'esametro  del  quarto,  e  così  di  seguito.  Non  è  im- 
probabile che  questo  carme,  di  cui  è  incerta  l'età,  fosse  composto, 
come  pensa  il  Riegl^  op.  cit.,  p.  23,  ad  illustrazione  anche  delle  figure 
dei  Mesi,  le  quali,  come  si  sa,  erano  spesso  accompagnate  dai  rispet- 
tivi segni  zodiacali. 

h)  "Aestatis  Maiiis  Tauro  primordia  prodit  „  PLM,  V,  379.  Do- 
dici esametri;  manca  il  secondo  emistichio  dell'ottavo  e  il  primo  del 
nono.  Di  incerta  età.  La  poesia  è  piuttosto  sui  segni  zodiacali  che 
sulle  proprietà  dei  Mesi,  delle  quali  per  altro^  almeno  per  alcuni,  si 
tocca  brevemente.  Notevole  fra  i  testi  latini  che  la  serie  principii  da 
Maggio. 

e)  Ricorda  le  rappresentazioni  dei  Mesi  anche  il  primo  dei  due 
esametri  d' introduzione  a  ciascun  mese  del  Martirologio  di  Wandal- 
berto.  DùMMLER,  Poetae  lat.  aevi  Carol.  II,  578-62,  da  Marzo  a  Ottobre. 
Di  Gennaio  si  rammenta  l'origine  del  nome  da  Giano. 

In  aggiunta  alle  poesie  latine  dichiarative  delle  figure  dei  Mesi 
gioverà  rammentare  qui  anche  il  carme  di  Ausonio  che  pi'incipia  : 
"  Principium   lani   sancii   trojnciis    Capricornus  „   {D.  Magni  Ausonii 


'  CARMINA    DE    MENSIBUS  '    DI    BONVESIN    DA    LA   RIVA  99 

Optisctila  ree.  R.  Peipeb,  Lipsia,  Teubner,  1886,  p.  102)  e  che  si  com- 
pone di  dodici  esametri,  i  quali  si  trovano  assai  spesso  a  spiegare 
i  segni  zodiacali  rappresentati  insieme  coi  Mesi.  Nelle  Oliere  di  Au- 
sonio volgarizzate  da  P.  Canal  (Venezia,  Antonelli,  1853)  se  ne  legge 
la  traduzione  nella  col.  575,  n"  382. 

Testi  italiani. 

Quasi  tutti  indicati  dal  D'Ancona,  /  dodici  mesi  dell'anno  nella 
tradizione  j^opolare  (Archino  per  lo  studio  d.  trad.  pop.  II  [1883], 
239-70).  Nelle  pagine  257-58  discorre  dei  testi  qui  sotto  segnati  dei 
n'  1  e  2,  e  stampa  poi  per  la  prima  volta  il  n°  5  e  ristampa  i 
n'  7-11  e  19,  alle  pagine  che  indicheremo  per  ciascuno  di  essi.  Inoltre 
nell'articolo  sui  Calendari  monumentali  (nel  Supplemento  à&W Illustra- 
zione italiana,  Natale  e  Capo  d'anno  1883-84)  menziona  i  testi  editi 
poi  da  G.  Finamore  e  che  in  questo  nostro  Indice  hanno  i  n'  12-18. 

1.  Il  tractato  dei  mesi  di  Bonvesin  da  Riva  pubbl.  da  E.  Lidforss, 
Bologna,  Romagnoli,  1872  (Scelta  di  curiosità  lett.,  n°  127).  Si  compone 
di  184  strofe  quadernario  monoritmiche  di  alessandrini.  Nella  stampa, 
come  forse  nel  codice,  ciascun  verso  è  diviso  in  due  settenarj,  il 
primo  dei  quali  resta  senza  rima.  Recensione  di  A.  Mussafia,  Romania, 
II,  113  sgg.;  di  A.  Wesselofsky,  Propugn.,  V,  ii,  368  sgg.;  di  M.  Caffi, 
Archivio  storico  italiano,  XVI,  496-98. 

2.  /  sonetti  de'  mesi  di  Folgore  da  S.  Gemignano  e  di  Cene  della 
Chitarra  d'Arezzo  pubbl.  da  G.  Navone,  Le  rime  di  F.  da  S.  G.  e  di  C. 
d.  Ch.  Bologna,  Romagnoli,  1880,  pp.  3-31  e  61-83  (Scelta  di  Curiosità 
lett.,  n.  172). 

3.  Frammento.  ')  Versi  scarabocchiati,  di  mano  del  quattrocento, 
sulla  guardia  anteriore  di  un  codice  posseduto  dal  signor  Solerò  di 
Pieve  di  Cadore  e  contenente  il  noto  poemetto  della  Passione  "  0 
increata  maestà  di  Dio  „  sul  quale  vedi  Zambrini,  Opere  volgari  a 
stampa  dei  secoli   XI fi  e  XIV,  Bologna,   Zanichelli,  1878*,  col.  754: 

*)  Mi  fu  gentilmente  indicato  e  trascritto  dal  dott.  S.  Morpurgo. 


100  LEANDRO    BIADENE 

Disse  Dezenber:  corno  dezo  fare? 

el  è  qua  lo  zomo  di  Nadalle 

e  sì  non  ho  danari  da  zugare, 

e  starò  presso  lo  fuogo  con  gran  fredore. 

Poi  di  nuovo: 

Disse  dezembrio  :  corno  debio  fare? 
'1  è  qua  le  feste  de  Nadalle 

e  n'azo da  zugare, 

e  me  vago  a  scaldar  cum  grani  fuoco. 

Disse  mazo  :  io  som  el  più  bello  '). 

4.  Una  ballata  sui  dodici  mesi  dell'anno  pubbl.  da  Lud.  Frati  nel 
Giorn.  stor.  d.  leti,  ital.,  XXXIV,  278-79  di  sul  codice  1177  della  Bi- 
blioteca Universitaria  di  Bologna.  Il  codice  è  del  secolo  XIV,  ma  la 
poesia  vi  fu  trascritta  sulla  fine  del  secolo  XV.  Si  compone  di  dodici 
strofe  quadernario  di  endecasillabi,  i  tre  primi  rimati  tra  loro  e  l'ul- 
timo di  rima  uguale  in  tutte  le  strofe.  —  Presenta  notevoli  confor- 
mità col  testo  indicato  qui  appresso. 

5.  Testo  toscano  pubblicato,  dietro  indicazione  di  S.  Ferrari,  di 
sul  codice  Laurenz.  X,  e.  96  dal  D'Ancona,  op.  cit.,  p.  260-61.  Comincia 
"  Dicie  Maggio:  Sono  il  j^ià  bello  „.  Maggio  3  versi,  Giugno  4,  Luglio  3, 
Agosto  5,  Settembre  4,  Ottobre,  Novembre,  Dicembre  e  Gennaio  3, 
Febbraio  e  Marzo  4,  Aprile  3,  di  nuovo  Maggio  4.  I  versi  sono  di 
varia  misura  e  l'ultimo  di  ciascuna  strofetta  rima  o  assuona  coll'ul- 
timo  di  tutte  le  altre. 

6.  "  Nova  Tramutatione  sopra  i  dodeci  Mesi  dell'Anno.  Datti  in 
luce  da  me  Pompeio  Ronchali  dalla  ChiAvra.  Venetia  et  in  Modena. 
Per  il  Verdi  1608  „.  Testo  ristampato  da  M.  Menghini,  Rivista  critica 
d.  leti,  ital.,  VII,  1889-90  (a.  1891).  Dodici  ottave,  una  per  mese.  Co- 
mincia "  Zenar  io  son  principio  e  capo  e  porta  ,.  Nelle  ottave  corrispon- 


')  Verso  che  ricompare  anche  in  altri  canti;  p.  es.  nei  due  indicati 
immediatamente  dopo  questo  frammento. 


'  CABMINA    DE    MENSIBUS  '    DI   BONVESIN    DA    LA    RIVA  101 

denti  ai  mesi  di  Gennaio-Maggio  e  Luglio-Novembre,  i  vv.  5-8  con- 
tengono r  indicazione  delle  principali  feste  ecclesiastiche  in  essi 
ricorrenti,  le  quali  nell'ottava  di  Giugno  sono  comprese  nei  vv.  6-8 
e  in  quella  di  Dicembre  nei  vv.  3-8.  Nelle  ottave  di  Gennaio-Maggio 
e  Luglio- Agosto  i  vv.  1-2  sono  dati  alla  spiegazione  del  nome  del 
rispettivo  mese,  i  vv.  3-4  invece  alle  note  caratteristiche  dei  mede- 
simi, per  le  quali  sono  riservati  i  vv.  1-5  dell'  ottava  di  Giugno  e  i 
vv.  1-4  delle  ottave  di  Settembre-Novembre  e  i  vv.  1-2  di  quella  di 
Dicembre  *). 

7.  Testo  di  Sora  pubblicato  da  V.  Simoncelli,  Preludio,  VII,  n"  5 
(16  marzo  1883)  e  ristampato  dal  D'Ancona,  op.  cit.,  pp.  240-44.  È  una 
piccola  rappresentazione  drammatica.  Il  Simoncelli  premette  le  se- 
guenti avvertenze  sul  modo  col  quale  si  procede  alla  recitazione  : 
"  La  scena  è  in  una  piazza  qualunque.  Vi  è  il  padre,  1'  anno,  con  i 
dodici  figli,  i  mesi.  L'  anno  è  un  vecchio  con  barba  bianca,  ed  una 
specie  di  scettro  in  mano.  Gennaio  indossa  un  cuoio  di  vacca;  Feb- 
braio una  pelle  di  montone  ;  Marzo  una  di  capra  nera  ;  Aprile  l'abito 
contadinesco  di  fatica;  Maggio  il  più  bel  giovane  è  vestito  da  festa 
e  tutto  infiorato  ;  Giugno  ha  un  costume  leggero  e  le  spiche  in  mano  ; 
Luglio  va  in  mutande  e  camicia;  Agosto  è  medico  ed  ha  un  librone 
sotto  il  braccio;  in  capo  una  tuba  e  in  mano  una  borsa  di  danaro. 
Gli  altri  mesi  sono  in  abito  ordinario  di  fatica  „. 
Parla  per  il  primo  il  Padre  e  dice: 

So'  patre  vecchio  co  dudece  figli 

Tutti  rauniti  comm'a  rose  e  gigli; 

'N  saccio  nesciune  a  chi  s'arrassomiglia. 

*)  Si  noti  il  V.  4  di  Aprile  "  Zefiro  spira  il  bel  tempo  rimena  „,  che, 
tranne  la  sostituzione  di  sjnra  a  torna,  è  tal  quale  il  primo  verso  di 
un  noto  sonetto  del  Petrarca.  Avvertito  questo,  sarà  probabilmente 
da  vedere  una  reminiscenza  petrarchesca  anche  nel  v.  4  di  Agosto 
"  Onde  fece  il  terren  tutto  sanguigno  „  riferito  al  "  gran  Romano  Au- 
gusto ,  e  che  richiama  "Cesare  taccio  che  per  ogni  piaggia  \  Fece  l'erbe 
sanguigne  \  Di  lor  rene  „  della  canzone  all'  Italia.  E  il  primo  verso 
dell'ottava  di  Maggio  "  Ben  venga  Maggio  da  maggior  detto  „  ripro- 
duce tal  quale  nel  primo  emistichio  il  principio  dei  canti  di  Maggio, 
fra  cui  quello  celebre  del  Poliziano. 


102  LEANDRO    BIADENE 

e  poi  rivolgendosi  a  Gennaio: 

Spiegarne  glie  nome  te',  chi  si' 

e  la  medesima  domanda  fa  via  via  agli  altri  Mesi.  Gennaio  risponde 
con  10  versi,  Febbraio  con  8,  Marzo  con  7,  Aprile  con  7,  Maggio 
con  12,  Giugno  con  7,  Luglio  con  6,  Agosto  con  12,  Settembre  con  8, 
Ottobre  con  10,  Novembre  con  9,  Dicembre  con  6. 

8.  Una  variante  calabrese  della  rapjyresentazione  "  I  dodici  mesi  „ 
pubblicata  da  V.  Caravelli,  Preludio,  VII,  n.  16  (30  agosto  1883)  e 
ristampata  n^W Archivio  per  lo  studio  delle  tradizioni  popolari,  II,  565-68. 
La  poesia  fa  raccolta  dalla  bocca  di  una  tessitora  di  S.  Sosti  (pro- 
vincia di  Cosenza).  Il  C.  ci  fa  sapere  che  la  rappresentazione  "  si 
componeva  di  tredici  persone,  vestite  press'a  poco  allo  stesso  modo 
descritto  dal  Simoncelli  (vedi  n.  7  qui  sopra)  :  cavalcavano  però  degli 
asini,  il  vecchio  non  era  il  padre  dei  Mesi,  ma  il  Capo  d'anno,  ed 
Aprile  una  donna  invece  d'un  uomo  ,.  Incomincia  Capo  d'anno:  "  In 
su'  Capii  d^annti  e  Capa  d'ogni  Misi  „.  Dopo  4  versi  di  lui  seguono  8 
di  Gennaio,  6  di  Febbraio,  10  di  Marzo,  14  di  Aprile,  12  di  Maggio, 
6  di  Giugno,  6  di  Luglio,  7  di  Agosto,  4  di  Settembre,  10  di  Ottobre, 
6  di  Novembre,  8  di  Dicembre. 

Questa  poesia,  la  quale  dall'editore  è  data  come  '  una  variante  '  di 
quella  pubblicata  dal  Simoncelli,  non  ha  di  comune  con  essa  che  la 
forma  di  rappresentazione;  invece  quanto  alla  lezione  del  testo  è 
una  variante  vera  e  propria,  come  a  dire  un'altra  versione,  di  quella 
che  indicheremo  subito  qui  appresso. 

9.  Testo  di  Benevento  pubbl.  da  F.  Corazzixi,  Componimenti  mi- 
nori della  Ietterai,  popol.  ital.,  Benevento,  De  Gennaro,  1877,  p.  375  e 
ristampato  dal  D'Ancona,  op.  cit.,  p.  244-47.  Il  Cor.  avvertiva  :  "  nel 
carnevale  di  ogni  anno  i  pescatori,  caprai  e  villani  di  Benevento 
hanno  uso  di  fare  una  mascherata,  chiamata  i  dudici  misi,  e  cantano 
ognuno  le  seguenti  strofe,  e  dopo  finite  tutte,  ballano  una  quadriglia 
inventata  da  loro  stessi  ,.  Com.  "  /'  so  Ghiannaro  e  so  In  principale  „. 
Gennaio  8  versi,  Febbraio  6,  Marzo  8,  Aprile  4,  Maggio  5,  Giugno  8, 
Luglio  8,  Agosto  10,  Settembre  6,  Ottobre  6,  Novembre  6,  Dicembre  6. 


'  CARMINA    DE    MENSIBUS  '    DI    BONVESIN   DA    LA    RIVA  103 

10.  Frammento  proveniente  da  Mentì  riguardante  i  soli  mesi  di 
Giugno,  Luglio,  Settembre  e  Ottobre,  pubbl.  da  L.  Vigo,  Raccolta 
amplissima,  ecc.,  e  accennato  dal  D'Ancona,  op.  cit.,  p.  247. 

11.  Testo  siciliano  pubbl.  da  L.  Vigo,  Raccolta  ampliss.,  p.  741  e 
comunicatogli  dal  rapsodo  Salvatore  'Nfìlao  di  Milo.  Ristampato  dal 
D'Ancona,  op.  cit.,  p.  247-51,  il  quale  osserva  che  nel  canto  "  il  ca- 
ratt*?re  drammatico  è  andato  a  confondersi  e  perdersi  nel  narrativo  ,. 
Sono  15  ottave  siciliane.  Com.  "  Omini  e  donni  dotti  e  sapienti  „. 

12.  Testo  di  Gessopalena  (Abruzzo)  pubbl.  da  G.  Finamore,  Ar- 
chivio per  lo  studio  d.  trad.  pop.,  IV,  436-37.  Tre  versi  per  mese,  due 
per  Novembre;  Dicembre  manca.  Com.  "  Ècche  Ggennnre  che  IV amore 
perfètte  „. 

13.  Testo  di  Mozzagrogna  (Abruzzo),  pubbl.  da  G.  Finamore,  Ai'- 
chimo  trad.  pop.,  IV,  437-40.  Incomincia  da  Maggio  con  9  versi.  Se- 
guono Giugno  con  16,  Luglio  con  5,  Agosto  con  4,  Settembre  con  7, 
Ottobre  con  12,  Novembre  con  9,  Dicembre  con  3,  Gennaio  con  5, 
Febbraio  con  5,  Marzo  con  10,  Aprile  con  12.  Com.  "  Ma'  se  nave 
lu  mése  de  Magge  „.  Il  ritornello  alla  fine  d'ogni  mese  suona:  "  Lu 
sole  che  spanne  le  ragge:  Ros'e  ffiiire  lu  prime  de  Magge  „. 

14.  Testo  umbro-marchigiano-abruzzese.  Per  ciascun  mese  due 
coppie  a  rima  baciata.  La  serie  non  comincia  sempre  dallo  stesso 
mese.  La  versione  umbra  principiante  da  Ottobre  fu  pubblicata  da 
G.  Lesca,  Canti  popolari  umbri  raccolti  a  Marmore  (Terni)  noìV Archivio 
trad.  pop.,  VI,  549,  quella  marchigiana  principiante  da  Gennaio  fu 
pubblicata  da  A.  Gianaxdrea,  Calendario  popolare  marchigiano  nella 
Nuova  Rivista  Misena  II,  [1888-89],  n'  4-15.  Delle  versioni  abruzzesi 
G.  Finamore  stampò  quella  di  Lanciano,  che  comincia  da  Marzo,  e 
quella  di  Vasto,  che  comincia  da  Gennaio,  wqW Archivio  trad.  pop., 
IV,  441-43,  avvertendo  (p.  443  n.)  che  una  variante  di  Penne  da  lui 
tralasciata  è  molto  simile  a  quella  di  Lanciano.  Altre  quattro  ver- 
sioni abruzzesi  delio  stesso  canto  contaminate  con  altri  canti  dei 
mesi  indichiamo  qui  appresso.  Intanto  notiamo  che  coteste  versioni 
abruzzesi  sono  precedute,  tranne  una,  da  quattro  versi,  le  cui  due 
principali  versioni  sono: 


104  LEANDRO    BIADENE 

1.        Ji'  so'  nu  patre  de  dudece  fijje: 
Tutt'e  ddudece  so'  uhuàle. 
So'  uhual'  e  ssone  'huale: 
Tutt'e  ddudece  so'  mmurtale.  (Lanciano) 

li.        Ji'  so'  ppatre  dde  ddudece  fijje; 
Tutt'e  ddudece  so'  mmurtale; 
E  ccujjénne  la  ros'  e  lu  gijje, 
Ji'  so'  ppatre  de  ddudece  fijje.  (Atri) 

Questo  principio  è  simile  a  quello  del  testo  n.  7  e  del  Calendario 
ecclesiastico  n.  3  (vedi  più  avanti  la  Parte  III  di  quest'Appendice). 
Anche  :  per  il  mese  di  Marzo  questo  testo  concorda  sostanzialmente 
col  n.  5,  col  quale  ha  pure  qualche  somiglianza  per  i  mesi  di  Aprile 
e  Maggio.  Cosicché  questo  canto  sembra  essere  il  più  largamente 
diffuso  di  quelli  sui  mesi. 

15.  Testo  di  S.  Eusanio  del  Sangro  (Abruzzo)  pubblicato  da 
G.  FiNAMORE,  Archivio  trad.  pop.,  IV,  444-45.  Com.  "  Ècche  Fruhbare  che 
'na  mana  ciòtele  „.  Variante  del  canto  precedente,  che  per  altro  in 
parte  conviene  coi   testi  7,  8  e  13. 

16.  Testo  di  Atri  (Abruzzo)  pubbl.  da  G.  Pinamore,  Archivio  trad, 
pop.,  IV,  445-48.  Dopo  i  4  versi  d'introduzione  riportati  al  n.  14,  com. 
'  Ji'  so'  Jennare.  Accand'a  In  foche  „.  Variante  del  n.  14.  Dopo  i  4 
versi  di  Aprile  corrispondenti  a  quelli  del  testo  ora  citato,  seguono 
fra  parentesi  quadre  4  versi,  che  riproducono  con  qualche  varietà 
quelli  di  Aprile  del  n.  13;  dopo  Maggio,  pure  fra  parentesi,  14  versi, 
il  5°  e  il  6°  e  il  13°  e  il  14°  dei  quali  formano  il  ritornello  del  n.  13; 
dopo  Settembre,  6  versi  che  ricordano  lontanamente  quelli  dello 
stesso  mese  del  n.  13,  e  dopo  i  4  di  Dicembre,  altrettanti  senza  ri- 
scontro in  altri  testi  qui  indicati. 

17.  Testo  di  Archi  (Abruzzo)  pubbl.  da  G.  Finamore,  Architno 
trad.  pop.,  IV,  448-49.  Per  Gennaio  4  versi,  per  Febbraio  4,  per  Marzo  6, 
per  Aprile  4,  Maggio,  Giugno  e  Luglio  4,  Agosto  8,  Settembre  4, 
Ottobre  6,  Novembre  e  Dicembre  4.  Com.  "  Ècche  Jinnare,  ch'è  cchiù 
galande  ,.  Fusione  dei  testi  n.  13  e  14  con  forte  prevalenza  del  primo. 


'  CARMINA    DE   ME.VSIBUS  '    DI    BONTESIN    DA    LA    RIVA  105 

I  versi  di  Maggio  sono  chiusi  fra  parentesi  quadre,  probabilmente  a 
indicare  che  in  origine  dovevano  far  parte  di  questo  canto:  in  essi 
di  fatti  ricompare  il  ritornello  del  n.  13. 

18.  Testo  di  Aquila  (frammento)  pubici,  da  G.  Finamork,  Archimo 
trad.  pop.,  IV,  449-50.  Variante  del  n.  14.  Com.  "  .//'  so'  ppatre  dde 
ddicici  fìjji  ,.  Oltre  i  4  versi  d'introduzione,  4  di  Aprile,  4  di  Giugno 
e  altri  4  riferentisi  a  uno  o  più  mesi  d'estate. 

19.  Testo  veneto-toscano.  La  versione  veneta  fu  pubblicata  prima 
da  D.  G.  Bernomi,  Tradizioni  popolari  veneziane,  Venezia,  Antonelli, 
1875,  p.  45  e  ristampata  dal  D'Ancona,  op.  cit.,  pp.  251-53  e  poi  con 
leggere  varianti  da  I.  Ninni,  Appendice  ai  materiali  per  un  vocabo- 
lario della  lingua  rusticana  del  contado  di  Treviso,  Venezia,  Longhi  e 
Montanari,  1892,  p.  64.  La  contessa  Ninni,  la  quale  non  fa  menzione 
della  prima  stampa,  avverte  di  non  aver  potuto  raccogliere  la  strofa 
del  mese  di  Dicembre.  Lo  stesso  testo,  frammentario,  leggesi  nei 
Canti  ]}02)olari  della  montagna  lucchese  pubbl.  da  G.  Giannini,  Torino, 
Loescher,  1889,  pp.  233-34.  Cotesto  frammento  toscano  comprende  i 
mesi  da  Febbraio  a  tutto  Luglio;  oltre  la  seguente  strofetta  iniziale, 
che  manca  uUa  versione  veneta: 

Viva  viva  Primavera! 
Ogni  albero  fa  ricisa 
E  la  rosa  è  gentilina 
La  stagion  perchè  l'è-b-bella: 
Viva  viva  Primavera. 

Com.  "  E  mi  so'  Genaro  fredo  ,.  Una  strofetta  di  5  settenarj  per  mese, 
rimati  abb  a  a.  L'ultimo  verso  ripete,  a  modo  di  ritornello,  il  primo 
d'ogni  strofetta.  L' esame  comparativo  delle  due  versioni  veneta  e 
toscana  dimostra  subito,  solo  che  si  badi  alla  lingua,  che  la  prima  è 
l'originaria,  anche  a  non  tener  conto  del  metro  usato  spesso  dai  can- 
tori veneti. 

Testi  francesi. 

1.  La  descrizione  della  parte  esterna  del  padiglione  di  Alessandro 
nell'antico  poema  francese,  che  da  lui  s'intitola,  incomincia  così  {Ale- 


106  LEANDRO   BIADENE 

xandriade  oh  chanson  de  geste  d' Alexandre-ìe-Grand,  epopèe  romane  du 
XII  siede  de  Lambert  le  Court  (sic)  et  Alexandre  de  Bernay,  Dinan- 
Paris,  1861,  p.  77,  v.  10  sgg.): 

Teiis  est  li  tres  declens  que  je  vus  ai  conte 

Mais  or  pores  oir  de  deliors  la  fìerté. 

E  r  premier  cief  devant,  ot  paint  i.  mois  d'esté; 

Tout  si  com  li  vregier  verdoient  et  li  pré 

Et  ensi  com  les  vignes  florisent  et  li  blé. 

Li  XII.  mois  de  l'an  i  sunt  tout  devisé, 

Tout  ensi  com  cascuns  monstre  sa  poesté; 

Les  eures  et  li  l'our  i  sunt  tot  aconté; 

Li  cius  et  li  planettes  et  li  signe  nome, 

Et  li  ans  est  desus  pains  en  sa  majesté 

Et  par  lettres  escrites  i  est  tout  demostré. 

Più  avanti  (p.  367,  v.  10  dal  basso)   si  descrive  l'elmo  di  Poro  re 
dell'  India  : 

E  r  ciercle  de  son  elme  sunt  paint  li  XII.  mois. 

2.  L'autore  del  Roman  de  Tìtèbes,  descrivendo  "  li  trez mer- 

veilleux  et  granz  „  di  Adrasto,  dopo  aver  detto  che  da  una  parte  di 
esso  è  dipinto  il  mappamondo,  continua: 

De  l'autre  part  el  destre  pan 
Son  peint  li  XII  mois  de  l'an. 
Estez  y  est  o  ses  amoiirs, 
0  ses  biautez  et  o  ses  flours, 
0  cent  coulors  est  painz  estez. 
Yver  y  fet  granz  tempestez 
Qui  nège  et  pluet  et  vente  et  gelle 
Et  ses  oiires  ensemble  melle. 

Abbiamo  seguito  per  questi  versi  la  copia  fattane  dal  prof.  Novati 
di  sul  ms.  784,  f.  27  della  Nazionale  di  Parigi,  e  favoritaci  dal  pro- 
fessore D'Ancona,  non  avendo  l'agio  di  ricercarli,  se  pur  vi  sono 
compresi,  nell'edizione  del  Roman  de  Thèbes  procurata  dal  Constans 
per  la  Société  des   anciens  textes  fran^ais,  Parigi,  1890. 


'  CARMINA    DE    MENSIBUS  '    DI   BONVESIN    DA    LA    RIVA  107 

3.  Le  Heures  ìi  Vusage  de  Rouen  (Paris,  Vostre,  s.  a.),  pubblicate 
dal  Vostre  nel  1508  e  note  col  nome  di  Grandes  Heures  de  Vostre, 
contengono  nei  fregi  marginali  del  calendario  dodici  quartine,  che 
formano  un  piccolo  vanto  dei  Mesi  '). 

Testo  provenzale. 

De  la  natura  dels  XII  mes  de  l'an  nel  Breviari  d'Amor  (ediz.  Azais, 
Béziers-Parigi,  1862-81,  vv.  6519-6756)  di  Matfré  Ermengau  (1280- 
1322).  La  descrizione  delle  proprietà  dei  mesi  incomincia  veramente 
dal  V.  6564,  e  i  versi  che  si  riferiscono  specialmente  al  modo  di  rap- 
presentazione dei  medesimi,  sono  riportati  dal  Riegl,  op.  cit.,  pp.  56-61, 
nella  descrizione  delle  illustrazioni  dei  Mesi  del  Calendario  di  S.  Mes- 
min  (del  mille  circa;  cfr.  Riegl,  op.  cit.,  p.  52),  alle  quali  corrispon- 
dono pienamente. 

Il  capitolo  sulla  natura  dei  dodici  mesi  dovrebbe  leggersi  anche  in 
catalano  nella  traduzione  in  prosa  che  del  Breviari  d'Amor  fu  fatta  in 
cotesta  lingua  nel  sec.  XIV  e  che,  meno  qualche  pezzo  (cfr.  P.  Meter, 
Recueil  d'anciens  textes,  P  partie,  n.  30,  p.  124),  giace  inedita  in  due 
mss.  della  Nazionale  di  Parigi  (cfr.  Morel-Fatio,  Catalanische  Litte- 
ratur  nel  Grundriss  d.  rem.  Philol.,  II,   ii,  104). 

Testi  spagnoli. 

Tutti  due  si  trovano  citati  dal  Keil,  op.  citi,  p.  140,  che  ana- 
lizza anche  il  primo  (pp.  440-41)  dietro  indicazione  del  Gidel,  Etudes 
sur  la  littérature  grecque  moderne,  Paris,  1863,  p.  180,  n.  2;  e  G.  Mo- 
Rici,  La  poesia  delle  stagioni,  p.  494-95,  riferisce  con  brevità  l'argo- 
mento pure  di  essi  due. 

1.  Pittura  dei  Mesi  all'ingresso  della  tenda  di  Alessandro  nel 
Libro  de  Alexandre  restituito  recentemente  a  Gonzalo  Berceo  (prima 
metà  del  sec.  XIII).  La  descrizione  occupa  le  strofe  quademarie  mono- 


')  Questa  notizia,  che  devo  all'amico  prof.  S.  Morpurgo,  mi  mette 
il  dubbio  che  anche  altri  libri  di  Ore  da  me  non  veduti  contengano 
qualche  altro  vanto  dei  Mesi. 


108  LEANDRO    BIADENE 

ritmiche  di  alessandrini,  n.  2390-402  (Biblioteca  de  nutores  espanoles, 
Madrid,  Rivadeneyra,  1864,  voi.  57,  pp.  220-21,  e  coteste  strofe,  rive- 
dute sul  codice,  anche  in  Monaci,  Testi  basso-latini  e  volgari  della 
Spagna,  Roma,  1891,  pp.  58-59). 

2.  Pittura  dei  Mesi  sulla  tenda  di  Don  Amor  nel  Libro  de  Can- 
tares  di  Juan  Ruiz  Ar9Ìpreste  de  Fita  (f  1350),  str.  1244-74  [Bibl.  de 
autor,  espafi.,  voi.  57,  pp.  266-67). 

Testo  tedesco. 

La  traduzione  in  versi  fatta  da  P.  Herzsohn  della  poesia  latina 
di  Wandalberto,  che  nel  nostro  Indice  dei  testi  latini  ha  il  n.  6  (Tu. 
Inama  Sternegg,  Wandalberts  Gedicht  ilber  die  12  Monatef  eingeleitet 
ìind  metrisch  ilbersetzt  nella  Westdeutsche  Zeitschrift  fiir  Geschichte  tmd 
Kunst,  I,  277-90:  Rheinisches  Landleben  im  9  Jahrhwtdert). 

Testo  neo-aramaico. 

Un  contrasto  dei  Mesi  in  lingua  aramea  moderna,  e  propria- 
mente nel  dialetto  Fellihì,  fu  pubblicato  da  M.  Lidzbarski,  Die  neu- 
aramàischen  Hdss.  der  h'óngl.  Bibliothek  zti  Berlin  nei  Semitische  Stu- 
dien,  II  (Weimar,  1896),  344  sgg.  Consta  di  17  strofe  quadernarie, 
tranne  l'ultima,  che  è  di  sei  versi.  Primo  a  parlare  è  Aprile  e  ul- 
timi sono  Dicembre  e  Gennaio;  mancano  dunque  Febbraio  e  Marzo. 

Poiché  il  periodico  in  cui  la  poesia  fu  stampata  è  assai  difficile  a 
trovare  nelle  biblioteche  pubbliche  italiane,  se  pur  si  trova  in  qual- 
cuna, crediamo  utile  darne  qui  la  traduzione  di  sulla  versione  te- 
desca ')  ;  tanto  più  che,  non  conoscendolo,  si  potrebbe  sospettare 
diversifichi  notevolmente  dai  testi  congeneri  occidentali ,  mentre 
invece  chi  si  piaccia  dei  confronti  troverà  che  ha  con  essi  strettis- 
sime somiglianze. 

Ecco  dunque  la  traduzione  : 


*)  Il  testo  tedesco   mi  fu  gentilmente  trascritto  dal  prof.  C.  Appel 
dell'Università  di  Breslavia. 


'  CARMINA   DE    MENSIBUS  '    DI   BONVESIN   DA    LA    RIVA  109 

1.  I  Mesi  dell'Anno  si  erano  radunati  e  parlavano  dei  loro  van- 
taggi ;  s'intrattenevano  fra  loro  e  cercavano  mostrare  ciò  che  in  loro 
havvi  di  pregevole.  2.  Comparve  e  si  fece  avanti  Aprile  e  disse  le 
seguenti  parole  ;  mostrò  che  l'Anno  non  si  compiace  degli  [altri]  mesi 
suoi  [di  Aprile]  compagni.  3.  "  Nuove  cose  si  compiono  in  me,  in  me 
recano  lieta  promessa,  anche  s'adornano  i  monti  e  risplendono  come 
lampade  ').  4.  In  me  s'allargano  i  giri  del  Sole,  le  ore  del  giorno 
diventano  più  lunghe;  nidificano  (tutte)  le  rondini  e  fanno  udire  da 
lungi  dolci  suoni  „.  5.  Si  ritirò  Aprile  e  si  avanzò  Maggio  e  disse  le 
seguenti  parole  :  "  Va  via,  Aprile  !  ,  e  lo  cacciò  via.  Questo  lo  ob- 
bedì e  andò  via.  6.  "  In  me  produce  [il  suolo]  bei  fiori,  si  spandono 
grate  aurette,  in  me  si  portano  corone  intrecciate;  anche  i  gigli 
sbocciano.  7.  Le  spiche  nei  campi  si  lanciano  in  alto  ;  s'allungano, 
diventano  piene  ed  alte,  toccano  colle  loro  cime  le  spiche  (sic)  *),  e 
crescono  al  comando  del  loro  creatore  ,.  8.  Maggio  si  ritirò  e  s'a- 
vanzò Giugno  e  gli  disse  le  parole  :  "  Va  via,  Maggio  !  ,  e  lo  cacciò 
via,  "  il  tuo  discorso  è  finito  „.  9.  "Se  tutta  la  gente  si  muove,  e  in 
questo  giorno  si  reca  ai  campi,  loda  piena  di  gioia  il  cielo,  che  pro- 
cura pace  e  prosperità  alla  terra.  10.  Balena  lo  splendore  delle  loro 
falci  ;  di  me  si  allietano  le  loro  vedove,  hanno  cibo  in  me  i  loro  or- 
fani. 11.  I  grossi  covoni  che  essi  innalzano!  e  tutte  le  aje  sono  piene. 
I  poveri  ricevono  il  loro  cibo  e  innalzano  lodi  al  Signore  ,.12.  Giugno 
si  allontanò  e  comparve  Luglio  e  disse  le  seguenti  parole  :  "  Va, 
Giugno  „  e  lo  chiamò  "  piccolo  „.  "  Piegati  e  inchinati  davanti  a  me  „ 
gli  disse.  13.  "  In  me  maturano  le  viti  e  acquistano  dolce  sapore; 
in  me  i  grappoli  e  le  cotogne  addolciscono  ogni  bocca  che  li  assaggi  „. 
14.  Luglio  andò  via;  vennero  Agosto  e  Settembre.  I  due  mesi  erano 
uniti  insieme,  portavano  una  croce  sulle  spalle  e  lodavano  il  crea- 
tore  dell'Anno.    15.  Ottobre    e  il   suo    compagno^)   si  fecero   avanti; 

')  Nella  versione  tedesca  :  "  auch  smiicken  sich  die  Berge  \  und  glànzen 
tcie  Leuchten  „.  Si  accenna  ai  fuochi  accesi  sui  monti? 

■)  Nella  versione  tedesca  questo  verso  accompagnato  pure  da  un  sic 
suona:  "  erreichen  mit  ihrem  Kopfen  die  Ahren,,,  che  nel  contesto 
del  periodo  non  ha  senso. 

')  In  siriaco,  Ottobre  e  Novembre  hanno  un  solo  nome  e  si  distin- 
guono l'uno  dall'altro  aggiungendo  ad  esso  I  e  II  {Noia  del  traduttore 
'  tedesco). 


liO  LEANDRO   BIADENE 

portavano  olio,  che  era  stato  spremuto  in  essi  ed  anch'essi  saziavano  i 
bisognosi.  Essi  schernivano  Dicembre  e  Gennaio.  16.  Però  quando  a 
loro  parlavano  li  chiamavano  mesi  infruttiferi,  li  disprezzavano  for- 
temente e  gridavano  loro:  "  Che  ci  avete  voi?  „  17.  Allora  quelli  rispo- 
sero loro  che  la  nascita  del  no^ro  Signore  ebbe  luogo  in  essi  e  nel 
secondo  di  essi  ricevette  il  battesimo,  e  che  colla  sua  nascita  colmò 
di  gioia  tutte  le  creature  fino  agli  estremi  confini,  cosicché  tutti  in- 
sieme colla  loro  voce  fanno  risuonare  altamente  le  lodi  del  loro 
creatore. 


PARTE  III. 

1.  Personificazione  dei  Mesi  in  fiabe  e  racconti. 

Le  fiabe  e  i  racconti  di  cui  qui  intendiamo  parlare  si  riducono,  a 
nostra  notizia,  ai  tipi  seguenti: 

I.  Di  due  sorelle  o  sorellastre  oppure  di  due  fratelli  uno  è 
buono  e  l'altro  cattivo.  Il  primo  è  regalato  di  bei  doni  dai  Mesi  da 
lui  trovati  per  via  o  più  spesso  mentre  stavano  a  sedere  riuniti,  ed 
ha  poi  lieta  fortuna;  l'altro,  all'opposto,  anche  per  opera  dei  Mesi, 
è  colpito  dalla  sciagura  e  finisce  male. 

Le  fiabe  e  novelle  a  noi  note  dove  tale  tema  è  sviluppato  sono  le 
seguenti,  quasi  tutte  già  indicate,  alcune  indirettamente,  da  J.  Boltk, 
Die  Wochentuge  in  der  Poesie  [Archiv  f.  d.  Stiid.  d.  neueren  Sprachen, 
XCVIII,  82  n.): 

In  Italia:  Li  Mise,  trattenemiento  secunno  de  la  Jornata  Quinta 
de  Lo  Canto  de  li  Canti  di  G.  B.  Basile.  L'autore  ne  determina  così 
l'argomento  :  "  Cianne  e  Lise,  fratielle,  l'uno  ricco  e  l'antro  povere. 
Lise  per  essere  povero  e  niente  ajutato  da  lo  frate  ricco,  sse  parte  ; 
e  'ncontro  tale  fortuna  che  sse  fa  straricco.  L'aiuto  {sic)  cerea  pe' 
'mmidia  la  medesima  suorte  ;  e  le  riesce  accessi  contraria,  che  non 
sso  po'  scazzecare  da  'na  disgrazia  granne  senza  l'ajuto  dell'auto 
frate  „.  Fu  narrata  la  stessa  novella  due  secoli  più  tardi  dal  Somma, 


'CARMINA    DE    MENSIBUS  '    DI    BONVESIN    DA    LA    RIVA  111 

col  titolo  La  Mammadraa  (Pitrè,  Fiabe,  novelle  e  racconti,  IV,  386, 
voi.  VII  della  Bihliot.  d.  leti,  popol.,  Palermo,  1875),  e  col  titolo  'E 
Mise  e  Vanne  fu  raccolta  a  Meta  da  Errico  De  Angelis,  clie  la  pub- 
blicò nel  Giornale  Napoletano  della  Domenica,  n.  23  (4  giugno  1882), 
notando  che  si  riattacca  alle  seguenti  della  Novellaja  fiorentina  di 
V.  Imbriani:  XIII  II  Lucio,  XIV  La  bella  e  la  brutta,  XV  La  bella 
Caterina. 

Fuori  d'Italia  la  stessa  novella  col  titolo  I  dodici  mesi  :  Tatarakis, 
Analectes  néohelléniques,  I,  12;  Legrand,  Recueil  de  contes  populaires 
grecs,  Paris,  Leroux,  1881,  p.  11;  Misotakis,  Ausgewàhlte  griechische 
Volksmilrchen,  1882,  p.  109;  Wenzig,  Westslavischer  March enschatz, 
1858,  p.  20  ;  H.  Seidel,  Die  Monate  [Neues  von  Leberecht  Hiihnchen, 
1888,  p.  227);  A.  Chodzko,  Contes  des  paysans  et  de  pàtres  slaves,  Paris, 
1864,  p.  15.  R.  Kohler  nella  recensione  che  fece  di  quest'ultima  ràc- 
coìtcìneìle  Gottingische  gelehrte  Anzeigen,  18QQ,  n.  28,  p.  1116,  rimanda 
al  Grimm  [Kinder  u.  Hausmdrchen],  n.  16,  e  lo  stesso  Chodzko,  op. 
cit.,  p.  29  n.,  nota  che  la  novella  fu  rifatta  in  francese  dal  Laboulaye, 
Contes  bleus  e  pure  col  titolo  Les  douze  mois. 

II.  È  la  fiaba  dei  giorni  della  merla  o,  come  li  chiamano  i  fran- 
cesi, dei  jours  d'emiìrunt.  P.  Meyer,  che  ne  discorse  per  ultimo  nella 
Romania,  XXVI  [1897],  98'-100  {Les  Jours  d'empruntd'après  A.  Neckam), 
la  riassume  così:  "  Una  vecchia  (o  un  pastore)  che  custodiva  le  sue 
pecore,  vedendo  che  Febbraio  s'era  mostrato  poco  rigido,  si  fa  beffe 
di  lui,  credendo  non  aver  più  da  temere  la  cattiva  stagione.  Ma 
Febbraio  irritato  prende  a  prestito  tre  giorni  da  Marzo,  e  durante 
questi  tre  giorni  domina  un  freddo  intenso  (o  scoppia  un  uragano), 
che  fa  perire  il  gregge  (e  talvolta  anche,  in  certi  racconti,  il  guar- 
diano) „.  Come  annunzia  il  Meyer  nello  scritto  testé  citato,  p.  100  n., 
sui  giorni  della  merla  ci  darà  uno  studio  il  Nevati,  e  intanto  sullo 
stesso  argomento  si  può  vedere  l'altro  scritto  dello  stesso  Meyer, 
Romania,  III,  294-97,  quello  di  S.  Prato,  Romania,  XIII,  170  e  quello 
finora  più 'ampio  di  tutti  di  L.  Shaineanu,  Romania,  XVII,  107  sgg. 
{Les  jours  d'emprunt  ou  les  jours  de  la  vieille). 

III.  Una  giovane  è  mandata  dalla  mamma  a  cuocere  la  pizza  da 
un'amica.    La  giovane,  fatta  la  pizza,    comincia  a  girare  per  il  vici- 


112  LEANDRO   BIADENE 

nato.  In  una  casa  si  vede  il  fumaiolo  da  cui  esce  molto  fumo.  In- 
torno a  un  gran  fuoco  siedono  dodici  vecchioni:  i  dodici  mesi  del- 
l'anno. Alla  dimanda  che  ciascuno  le  fa  che  cosa  di  lui  si  dica,  ella 
risponde  con  un  proverbio  appropriato  al  mese  (A.  De  Nino,  Usi  e 
costumi  abruzzesi,  Fiabe,  voi.  Ili,  pp.  184-89;  Firenze,  Barbera,  1883). 

IV.  Delle  faccende  dei  mesi  si  discorre  un  paio  di  volte  nell'opera 
Lauberhiitt  di  Ulrico  Megerle  più  noto  col  nome  di  Abraham  a  S.  Clara 
(1648-1709).  In  I,  1-5  si  legge  una  favola  di  cui  questo  è  in  breve  l'argo- 
mento: Giove  manda  in  terra  Mercurio  ad  informarsi  che  cosa  facciano 
gli  uomini  e  come  passino  il  loro  tempo  ').  I  dodici  Mesi  gli  danno  uno 
dopo  l'altro  i  ragguaglj  richiesti.  Ogni  risposta  termina:  "  Pensano 
assai  poco  a  Dio  „.  In  II,  256-58  si  parla  della  nascita  di  Maria  e  si 
dice  che  tutti  i  Mesi  l' hanno  ardentemente  sospirata.  Gennaio  af- 
ferma "  come  ingresso  dell'anno  che  Maria,  la  quale  viene  chiamata 
lamia  coeli,  porta  e  ingresso  del  cielo,  deve  esser  pata  in  esso,  ecc.  „ 
ma  soltanto  a  Settembre  è  toccata  la  più  grande  fortuna  :  "  in  Set- 
tembre cadono  le  ferie,  cessano  i  processi,  non  si  eseguiscono  le 
sentenze  ,  '). 

2.  Proverbj  sulle  Stagioni  e  sui  Mesi. 

11  D'Ancona,  op.  cit.,  p.  261,  inchina  a  credere  che  codesti  proverbj 
facessero  parte  di  canti  sulle  Stagioni  e  sui  Mesi,  ma  anche  se  non 

')  Gioverà  qui  notare  che  delle  occupazioni  specialmente  agricole 
degli  uomini  nei  varj  mesi  discorre  a  lungo  Vincenzo  di  Beauvais 
nello  Sjìeculitm  doctrinale,  capp.  XLV-CXLIX.  E  non  tralascieremo 
anche  di  rammentare  il  libro  duodecimo  del  Trattato  dell'agricoltura 
di  Piero  de'  Crescenzi  "  nel  quale  si  fa  menzione  di  tutte  le  cose,  che 
in  ciascun  mese  son  da  fare  in  villa  „.  Quasi  superfluo  poi  dire  che  i 
lavori  campestri  da  compiersi  nelle  varie  stagioni  sono  indicati  da 
Esiodo  nel  poemetto  che  si  intitola  appunto  Le  Opere  e  i  Giorni. 

*)  La  citazione  di  Abraham  a  S.  Clara  è  fiitta  da  J.  Bolte,  Die 
Wochenlage  in  der  Poesie  ìiaW Archiv  f.  d.  Studium  d.  neuer.  Spr., 
XCVIII  (a.  1897),  82»,  lavoro  compilato  colle  schede  lasciate  dal 
Kòhler.  Ebbe  poi  la  bontà  di  vedere  per  me  i  luoghi  qui  sopra  citati 
e  di  comunicarmene  la  contenenza  il  dott.  A.  Schnlze  della  R.  Bi- 
blioteca di  Berlino. 


'CARMINA    DE    MENSIBUS  *   DI    BONVESIN    DA    LA    RIVA  113 

ne  avessero  mai  fatto  parte,  la  loro  affinità  coi  medesimi  è  troppo 
manifesta  da  poter  tralasciarli  in  quesV Appendice.  Ci  rincresce  quindi 
di  non  essere  per  ora  in  grado  di  dare  indicazioni  di  raccolte  di  siffatti 
proverbj  che  per  alcune  nazioni  europee,  mentre  anche  le  altre,  p.  es. 
la  tedesca,  l' inglese,  la  spagnuola,  non  ne  mancheranno  di  certo. 
La  lacuna  non  sarà  probabilmente  difficile  a  colmare  in  seguito,  ma 
per  intanto  questo  capitolo  rimane  più  incompiuto  degli  altri. 

Divideremo  siffatti  proverbj  per  lingue  e  nazioni,  non  senza  prima 

vvertire   che  alcuni  di  quelli  neolatini   in  genere  sono  riportati  da 

0.  V.  Reinsberg-Dììringsfeld,  VoUcsthiimliche  Benenniingen  von  Manaten 

und  Tagen  bei  den  Romanen  (nel  Jahrbiich  f.  rom.  u.  engì.  Literatiir, 

V  [1864],  361-94). 

Italiani. 

Le  principali  raccolte  di  Proverbj  italiani  riuniscono  in  un  capitolo 
speciale  quelli  riferentisi  alle  Stagioni  e  ai  Mesi;  ma  qui  basterà  ci- 
tare, come  più  ampia  e  comprensiva  di  tutte,  fino  al  1880,  quella  di 
G.  PiTRÈ,  Proverbi,  voi.  Ili  {Bibliot.  d.  trad.  popol.,  XI,  Palermo,  1880), 
il  cui  cap.  LV  (pp.  3-71)  è  intitolato  appunto  Meteorologia,  Stagioni, 
Tempi  dell'Anno.  Più  tardi  F.  Seves  raccolse  sotto  il  medesimo  titolo 
i  proverbj  piemontesi  {Rivista  delle  tradiz.  popol.  ital.,  anno  II,  fase.  I, 
Roma,  Forzani  e  C°,  1894),  e  una  raccolta  poi  abbastanza  ampia  di 
proverbj  congeneri  marchigiani  (oltre  400)  era  venuto  via  via  pubbli- 
indo  in  alcuni  fascicoli  della  Nuova  Rivista  Misena  (II  [1888-89], 
II'  4-19)  sotto  il  titolo  Calendario  popolare  marchigiano,  a  illustrazione 
(li  un  canto  sui  Mesi  (quello  che  nella  Parte  II  di  qnesVAj)pendice 
ha  fra  i  testi  italiani  il  n"  14),  A.  Gianandrea.  Un  proverbio  di  una 
coppia  di  versi  per  mese  (Settembre  e  Ottobre  sono  riuniti  insieme 
e  così  pure  Novembre  e  Dicembre)  si  ha  nella  fiaba  già  citata  e  in- 
titolata /  dodici  mesi,  pubblicata  da  A.  De  Nino,  Usi  e  costumi  abruz- 
zesi, Fiabe,  voi.  III,  pp.  184-89.  Non  mi  riuscì  di  vedere  il  Calendario 
del  popolo  pubblicato  n&W Almanacco  del  popolo  del  1866  (Milano,  1866) 
e  registrato  dal  Pitrè  al  n"*  2542  della  Bibliografìa  delle  tradiz.  popol. 
d'Italia  (Torino-Palermo,  1894)  e  neppure  i  pochi  proverbj  romaneschi 
pubblicati  da  L.  Zanazzo  (Roma,  1866)  e  registrati  nella  menzionata 
Bibliografia  ai  n'  3404,  340-5,  3407. 

Studj  di  filologia  romanza,  IX.  8 


114  LEANDRO   BIADENE 


Francesi. 


Abbastanza  copiosa  è  la  raccolta  di  Le  Roux  de  Linct,  Le  livre  dea 
proverbes  fran^ais,  Paris,  1859,  I,  Serie  III,  pp.  88-137  {Temps,  Astres, 
Cotirs  de  l'année,Année,  Saisofis,  Jours,  Heiires).  Parecchj  Dictons  rimés 
sur  les  mois  furono  stampati  da  P.  Sebillot  nella  Revue  des  traditions 
populaires,  t.  I  [1886]  1,  29,  61,  93,  125,  t.  II  [1888]  392,  434,  521 
(473*),  590,  639.  Notizie  varie  intorno  Les  mois  en  Franche-Comté  ter- 
minò, non  è  molto,  di  pubblicare  Ch.  Bauquier  nella  stessa  Revue, 
t.  XIV  [1899],  n'  1-12,  non  trascurando  i  Proverbes  et  dictons  météoro- 
logiques  et  agricoles. 

Provenzali. 

Ne  contiene  molti  VArmana  pronvengaii,  dal  1855,  che  è  il  primo 
anno  in  cui  cominciò  ad  uscire  a  Montpellier,  fino  al  1862  incluso  '). 

Portoghesi. 

A.  Thomaz  PiEES  distribuisce  i  Proverbios  e  adagios  portttguezes  da  lui 
pubblicati  néìl' Archivio  d.  trad.  popol.,  Ili,  450-52,  sotto  questi  tre 
titoli:  1.  Agrictiltura  e  economici  ritrai,  2.  Calendario  rustico,  ^.  Meteo- 
r  agnosia. 

Retoromanci. 

Alcuni  pochi  proverbj  e  versi  sui  Mesi  a  pp.  133,  135,  136  del  la- 
voro di  H.  Caviezel,  Eàthoromanische  Kalender-Litteratur  (nella  Zeit- 
schrift  f.  rom.  Philol.,  XVI  [1892],  128-64). 

Neogreci. 

Furono  raccolti  in  copia  e  ordinati  secondo  i  Mesi  da  A.  Mommsen, 
Griechische  Jahreszeiten,  p.  1-95.  Schleswig,  1873. 

Proverbj  russi  sulle  Stagioni  e  sui  Mesi  si  troveranno  probabil- 
mente raccolti  nell'opera  già  indietro  citata  Travaux  de  Vexpédition 
d'archeologie  et  de  statistique  dans  la  Russie  occidentale,  voi.  III. 

')  Debbo  questa  indicazione  precisa  alla  cortesia  di  C.  Chabaneau, 
mentre  nella  Romania,  1,  107,  è  detto  genericamente  che  siffatti  pro- 
verbj si  trovano  aggiunti  al  calendario  nei  primi  volumi  dell'-^rmano. 


'CARMINA    DE    MENSIBUS  '    DI    BONVESIN   DA    LA   RIVA  115 

3.  Origine  dei  nomi  dei  Mesi. 

In  più  d'una  delle  poesie  indicate  nella  Parte  II  di  qnesVAppen- 
dice  Q  data,  fra  altro,  la  spiegazione  del  nome  dei  singoli  mesi,  come 
già  a  suo  luogo  avvertimmo  (n'  6  e  7  dei  testi  latini,  n°  6  dei  testi 
italiani).  Qui  converrà  aggiungere  e  rammentare  che  per  qualche 
mese  la  spiegazione  si  trova  inoltre  nei  testi  latini  n'  2,  3,  13*^  e,  per 
Gennaio  e  Aprile,  anche  nel  poemetto  di  Bonvesin.  Le  spiegazioni 
sono  suppergiù  sempre  le  stesse,  vale  a  dire  sono  tradizionali,  e  gio- 
verà quindi  indicare  qui  appresso  i  testi  che  non  potevano  compren- 
dersi nella  Parte  precedente  e  in  cui  tale  tradizione  è  espressamente 
conservata.  Fra  essi  grande  autorità  fu  riconosciuta  a  un  capitolo  dei 
Saturnali  di  Macrobio. 

Ovidio.  Fastorum  libri  VI.  L'origine  del  nome  dei  sei  pi-imi  mesi 
dell'anno  è  dichiarata  in  principio  di  ciascuno  dei  sei  libri  ad 
essi  corrispondenti  ;  anzi  l'origine  di  tutti  sei  è  già  brevemente 
accennata  nei  vv.  39-44  del  libro  primo. 

Fasti  Praenestini.  Da  essi  desunse,  per  quanto  era  possibile,  le  etimo- 
logie dei  mesi  il  Mommsen,  Corpus  Inscrip.  Latin.,  I  (1863),  364, 
confrontandole  con  quelle  di  altri  autori. 

Plutarco.  Bici,  Parigi,  Didot,  1857;  voi.  I,  Nóiuac;,  capp.  XVIII  e  XIX, 
p.  86.  Nella  versione  italiana  di  G.  Pompei,  Udine,  voi.  II, 
1821,  pp.  133-37. 

Ausonio.  Opuscula  ree.  R.  Peiper,  Lipsia,  Teubner,  1886.  Due  poesie. 
Una  intitolata  Monosticha  de  mensibus  consta  appunto  di  dodici 
esametri,  uno  per  mese,  e  comincia  "  Primus  Romanas  ordiris, 
lane,  kalendas  „  (ediz.  cit.,  p.  98,  n°  X);  l'altra  si  compone  di  do- 
dici distici,  uno  per  mese,  e  comincia  "  lane  nove,  primo  qui 
das  tua  nomina  mensi  „  (ediz.  cit.,  p.  98,  n"  XI).  Nelle  Opere  di 
Ausonio  volgarizzate  da  P.  Canal,  Venezia,  Antonelli,  1853,  le 
due  poesie  hanno  i  n'  376  e  377  (col.  572). 

Macrobio.  Convimoruin  primi  diei  Saturnaliorum  ree.  F.  Etssenhardt, 
Lipsia,  Teubner,  1868;  lib.  I,  cap.  12  "  Quomodo  annum  ordi- 
naverit  Romulus  „,  cap.  13  "  De  ordinatione  anni  per  Nummam  „. 

Giovanni  Lorenzo  Lido,  scrittore   greco    nato    nel  490  d.  C,  ragiona 


il6  LEANDRO   BIADENE 

dei  mesi  in  particolare  nel  quarto  libro  del  De  Mpnsihus  (ed 
R.  WuENscH,  Lipsia,  Teubncr,  1898)  e  in  principio  del  primo 
paragrafo  dei  singoli  mesi  tocca  anche  dell'etimologia  dei  me- 
desimi. 

Isidoro.  Etymologiarutn  libri  XX  [Corpus  grammaticorum  latinorum 
veterum,  t.  Ili,  Lipsia,  Teubner,  1833);  lib.  V,  cap.  XXXIII, 
pp.  171-73  "  De  Mensibus  „. 

Beda.  Opera,  Basilea,  1563;  t.  I,  220  sgg.  Computus  vulgaris.  Sui  nomi 
dei  mesi  pp.  242  sgg. 

Onorio  d'Autux.  De  Imagine  mundi  (Bihlioth.  veter.  Patrum,  t.  XX, 
cap.  XXXVI,  pp.  981  sgg.  "  De  Mensibus  Rotnanorum  „). 

Un  antico  rimatore  italiano,  Nerio  Moscoli,  dà  anch'esso  in  un  so- 
netto la  solita  spiegazione  tradizionale  del  nome  di  alcuni  mesi  co- 
minciando da  Aprile.  Crediamo  opportuno  riportarne  in  nota  i  primi 
undici  versi  pubblicati  da  P.  Tommasini  Mattiocci,  Nerio  Moscoli  da 
Città  di  Castello,  Perugia,  1897,  p.  99  ').  Accenni  a  etimologie  popo- 
lari dei  mesi  si  trovano  anche  nel  già  citato  lavoro  di  0.  v.  Reiss- 
BERG-DuRiNGSFELD,  VolksthUtnIiche  Benennungen  von  Monaten  und  Tagen 
bei  den  Romanen  [Jahrbuch  f.  rom.  u.  engl.  Liter.,  V,  361-92). 

4.  Calendarj  ecclesiastici  in  versi. 

Al  n'  13*=  dei  testi  latini  non  abbiamo  omesso  di  notare  che  il 
primo  dei  due  esametri  in  testa  dei  singoli  mesi  nel  Martirologio  di 
Wandalberto    rammenta  le  rappresentazioni    figurate   dei  medesimi, 


Tutor  ch'aprile  ab  aperto  sia  detto 
Perchè  s'apre  la  terra,  e  folglie  e  fiore 
D'ess'e  delgli  arbosel  se  mostren  fore. 
Donando  al  mondo  piacevol  dellecto, 
E  magio  sia  per  li  magiur  ellecto, 
E  dai  più  giovem  giungno  prenda  honore, 
Lulglio  è  quel  mese  che  lo  enperadore 
Volse  del  suo  fim  nome  esser  perfecto; 
Onde  ve  piaccia  voler  che  tal  mese 
Denominato  da  sì  gram  singnore, 
Suo  bem  non  perda  de  vostro  vallore. 


'CARMINA    DE    MENSIBUS  "    DI   BONVESIN    DA    LA   RIVA  117 

e  abbiamo  anche  notato  che  le  ottave  formanti  il  n°  6  dei  testi  ita- 
liani sono  per  metà  calendario  ecclesiastico,  e  il  principio  dei  testi 
italiani  n'  7  e  14  somiglia  a  quello  del  calendario  indicato  qui  sotto 
i^  n°  3.  Che  qualche  elemento  del  calendario  profano  in  versi  potesse 
entrare,  com'è  entrato,  nel  calendario  ecclesiastico  pure  in  versi,  s'in- 
tende da  sé,  e  forse  si  potrebbe  trovarne  qualche  altro  esempio  oltre 
quelli  testé  citati.  Ma  anche  senza  di  ciò  ci  parrebbe  di  non  poter 
omettere  qui  l' indicazione  dei  calendarj  ecclesiastici  in  versi  che  ci 
sono  noti. 

Lasciando  di  enumerare  i  martirologi  latini  '),  indicheremo  anzitutto 
i  rifacimenti  rimati  del  Computus,  il  quale,  come  si  sa,  contiene  anche 
il  calendario  ecclesiastico.  Se  ne  conoscono  ti-e  francesi  antichi:  quello, 
più  vecchio  di  tutti,  di  Filippo  di  Thaon,  non  posteriore  al  1119  e 
pubblicato  da  E.  Mail  ');  quello  di  Raùf  di  Linham  del  1259,  di  cui 
discorre  P.  Meyer  nella  Romania,  XV,  285,  e  quello  anonimo,  che 
vide  primamente  la  luce  per  cura  di  M.  de  Montaiglon  nelV Annuaire 
de  la  Société  des  antiquaires  de  France  per  il  1853  (pp.  178-83)  e, 
stante  la  rarità  di  cotesta  edizione,  fu  poi  ristampato  dal  Meyer  nel 
Bidletin  de  la  Société  des  anciens  textes  fran^ais,  n"  3  (1883),  pp.  78-84. 
Un  rifacimCiito  breve  in  versi  provenzali  fu  dato  fuori  nel  1847  da 
E.  Thomas  nei  Mémoires  de  la  Société  archéologique  de  Montpellier, 
assai  malamente,  tanto  che  C.  Chabaneau  credette  opportuno  ristam- 
parlo riveduto  sul  codice  e  illustrato,  ciò  che  fece  nella  Revue  des 
langues  romanes,  t.  XIX  (1881),  157-79. 

Inoltre  conosciamo  i  seguenti  calendarj  versificati,  tutti  italiani; 
ma    molto  probabilmente  ne  esisteranno  anche  in  altre  lingue  : 

1.  *  Calendario  in   ottava   rima   stampato   circa    la  metà   del    secolo 
scorso  a  Todi  „.  Lo  menziona  colle  parole  ora  riportate,  senz'ag- 


')  Per  essi  basterà  rimandare  al  Geòber,  Lateinische  Litteratur  nel 
Grundriss  d.  roman.  Philol.,  II,  i,  §§  15,  55,  73. 

')  Li  Cumpoz  rkilippe  de  Thailn,  Strassbourg,  1873.  Non  potei  ve- 
dere quest'edizione,  e  dovetti  quindi  tenermi  pago  di  quel  poco  che 
intomo  all'opera  è  detto  nelV Histoire  littér.,  XIII,  60,  da  G.  Paris, 
La  littérature  frangaise  au  moyeti  age^,  §  100,  e  da  G.  Gròbeb,  Fran- 
ziJsische  Litteratur  nel  Grundriss  d.  roman.  Philol.,  II,  i,  483. 


118  LEANDRO   BIADENE 

giunger  altro,  M.  Menghini,  Rivista  critica  d.  leti,  ital,,  VII 
(1891),  186. 

2,  Calendario  in  ottava  rima  (16  ottave)  *  scritto  con  tutta  probabi- 

lità sulla  fine  del  secolo  XV  o  su'  primi  del  successivo  ,.  Pub- 
blicato da  M.  Menohini,  Rivista  crii.  d.  leti,  ital.,  VII,  187-89. 

3.  Ottave  sopra  i  mesi  dell'anno  con  le  feste  loro,  Lucca,  1831.  Presso 

Francesco  Bertini  ').  Sono  15  ottave.  L'esistenza  di  questa  edi- 
zione sfuggì  a  G.  Giannini,  che  credette  di  dar  fuori  il  compo- 
nimento per  la  prima  volta  nei  Canti  popolari  della  montagna 
lucchese,  Torino,  Loescher,  1889,  pp.  235-89  (vedi  p.  289n).  Le 
differenze  fra  le  due  edizioni  sono  tenui.  Crediamo  utile  ripor- 
tarne qui  la  prima  ottava  dalla  prima  edizione  in  prova  di 
quanto  abbiamo  asserito  più  sopra,  che  somiglia  cioè  al  prin- 
cipio dei  testi  n'  7  e  14. 

Un  Padre  ho  visto  con  dodici  figli; 
Ed  ha  ciascun  di  lor  trenta  figliuole 
Dispari  e  belle  come  rose,  o  gigli, 
0  come  proprio  livide  viole: 
Io  non  saprei  a  chi  me  l'assomigli 
Ch'altre  son  bianche,  altre  son  nere  e  sóle; 
Muojono  tutte,  e  son  tutte  immortali, 
Udite  il  nome  voi,  chi  siano  e  quali. 

Una  riduzione  istriana  di  questo  poemetto  è  quella  pubblicata  dal- 
rivE,  Caìiti popolari  istriani,  Torino,  Loescher,  1877,  p.  379  e  ristampata 
dal  D'Ancona,  op.  cit.,  pp.  254-57.  Le  ottave  sono  14;  è  tralasciata 
la  prima  del  testo  toscano.  Soltanto  il  confronto  con  quest'ultimo, 
che  si  lascia  riconoscere  come  l'originale,  permette  di  intendere  bene 
alcuni  luoghi  sfigurati  di  quello  istriano.  Nell'ultima  ottava  del  quale  i 
versi  di  quello  toscano  sono  così  trasposti  :  5,  6,  3,  4,  1,  2,  7,  8.  Inoltre 
il  testo  toscano  termina  così  (ediz.  Giannini): 


')  Potei  vedere  quest'opuscolo  nella  biblioteca  del  prof.  D'Ancona, 
il  quale  possiede  una  preziosa  raccolta  di  poemetti  popolari,  che 
mette  liberalmente  a  disposizione  degli  studiosi. 


'CARMINA    DE    MENSIBUS  '   DI   BONVESIN    DA    LA    RIVA  119 

A  ventinove  Tommaso  santo  e  pio 

Silvestro  a  trentun,  e  qui  vi  lascio,  e  addio  ! 

e  quello  istriano  invece  : 

A  ventiuoto  Rumano  gioùsto  e  peìo 
Ai  trentoùn  San  Silvistro,  zi  cun  Deio. 

4.  Calendario  romano  per  il  mese  di  Dicembre.  Sono  16  versi.  Com. 

"  Il  primo  di  Decembre  Sant' Ansano  „.  Pubblicato  nella  Gazzetta 
Piemontese  di  Torino,  anno  XXIV,  n°  339  (7-8  dicembre  1889) 
e  ristampato  neìV Archivio  d.  trad.  popol.,  IX,  276.  È  press'  a 
poco  lo  stesso  di  quello  pubblicato  da  M.  Menghini,  Rivista 
critica  d.  leti,  itul.,  VII,  186,  e  da  G.  Giannini,  Canti  popolari 
della  montagna  lucchese,  p.  239n,  il  quale  rimanda  anche  al 
Bernoni,  Preghiere  veneziane,  pp.   27-29. 

5.  Come  già  dicemmo,   è  per  metà   calendario   ecclesiastico  anche  il 

testo  italiano  n"  6  della  Parte  IL 


5.  I  giorni  pericolosi  dei  Mesi. 

Secondo  un'antica  superstizione,  in  parte  viva  tuttora  '),  alcuni 
giorni  del  mese,  in  determinate  ore,  sono  pieni  di  gravi  pericoli  per 
l'uomo  '^).  Cotesti  giorni  dai  latini  erano  detti  dies  aegyptiaci,  proba- 
bilmente, dice  il  MoMMSEN  {Corpus  Inscrip.  Lat.,  I,  374),  il  quale  ac- 
cenna anche  agli  scrittori  antichi  che  ne  fecero  parola,  perché  i 
Romani  erano  soliti  considerare  come  proveniente  dall'Egitto  ogni 
nozione  matematica  e  astronomica  ^).  Aggiunge  che  tale  superstizione 


')  Occorre  dire  che  intendiamo  riferirci  specialmente  alla  supersti- 
zione del  venerdì?  Veramente  questo  è  un  determinato  giorno  della 
settimana  e  non  del  mese,  ma  in  fondo  non  c'è  diversità  sostanziale. 

')  A  dimostrare  l'antichità  di  tale  credenza  non  sarà  forse  superfluo 
rammentare  che  Esiodo  chiude  il  poemetto  Le  Opere  e  i  Giorni  ap- 
punto ooH'enumerazione  dei  giorni  del  mese  così  propizj  come  nocivi 
all'agricoltura  e  alla  vita  umana  in  genere. 

')  Nei  versi  quinto  e  sesto  dei  sei  che  talvolta  precedono  forse  la 


1^0  LEANDRO    BIADANE 

dev'essere  entrata  in  Roma  nell'età  imperiale.  Certo  è  che  i  dies 
aegyptiaci  si  trovano  già  segnati  nel  Calendario  di  Filocalo  e  più  tardi 
continuano  ad  essere  indicati  nei  calendarj  medievali.  In  alcuni  dei 
quali  non  soltanto  sono  indicati  a  lor  luogo,  volta  per  volta,  ma  ven- 
gono poi  riuniti  alla  fine  insieme  coll'enumerazione  degli  effetti  per- 
niciosi che  possono  produrre,  o  sono  ricordati  in  uno  o  più  versi  latini 
a  pie  della  tabella  dei  giorni  di  ciascun  mese. 

Poiché  le  singole  serie  di  cotesti  versi,  per  quanto  sappiamo  '), 
finora  non  furono  che  in  parte  distinte  l'una  dall'altra,  e  non  di  rado 
si  trovano  riuniti  sotto  i  singoli  mesi  i  versi  di  più  serie,  ci  prove- 
remo ora  a  distinguerle  noi. 

Quelle  che  conosciamo  sono  le  seguenti: 

1.  "  lani  jyrima  dies  et  sejHima  fine  timetur  „.  Sono  dodici  esametri 
preceduti  talvolta  da  altri  sei  e  seguiti  da  altri  quattro.  I  due  primi 
d'introduzione  sono:  "  Bis  deni  hinique  dies  scribuntur  in  anno  \  In 
qinbus  una  solet  mortalibiis  hora  timeri  „.  Coll'introduzione  e  la  chiusa 
ora  dette  la  serie  si  può  leggere  pubblicata  dal  Baehrens  PLM,  V,  354 
e  dal  MoMMSEN,  Corpus  Inscrijì.  Lat.,\,  411,  e  senza  di  esse  si  ricom- 
pone dai  calendarj  descritti  dal  Valentinelli,  Bibliotheca  manuscripta 
ad  S.  Marci  Venetiariim,  Venezia,  1868,  t.  I,  391;  t.  Ili,  117.  Nel  ca- 
lendario descritto  nel  t.  I,  296  il  primo  verso  è  "  Prima  die  lani  et 
sejìtima  fine  timetur  „,  ma   gli  altri  versi   sono  quelli  della  serie   se- 


pia antica  serie  di  Versus  de  diebus  aegyptiacis  (Baehrens  PLM,  V,  354), 
si  dà  invece  quest'altra  spiegazione  del  nome: 

Si  tenebrae  Aegyptus  Graeco  sermone  vocantur 
Inde  dies  mortis  tenebrosos  iure  vocamus. 

Questa  spiegazione  non  prova  se  non  che  il  nome  era  oscuro  anche 
anticamente;  ma  ad  ogni  modo  essa  deve  essere  sembrata  molto  ve- 
rosimile, se  la  raccolse  anche  Onorio  d'Autun  nell'imago  mundi,  lib.  Il, 
cap.  CVIII. 

\)  Ci  esprimiamo  così  non  avendo  veduto  la  memoria  di  J.  Loise- 
LEUK,  Les  jours  égyptiens,  leurs  variations  dans  les  calendriers  du  moyen 
àge  (Mém.  de  la  Soc.  des  antiq.  de  France,  t.  XXXIII,  1873).  F.  Aitano 
non  ne  tocca  nel  libro  De  calendariis  in  genere  ecc.  (Venezia,  1753), 
che  contiene  un  erudito  capitolo  De  diebus  aegyptiacis  (pp.  80-85). 


'CARMINA    DE   MENSIBLS  *    DI    BONVESIN    DA    LA    RIVA  121 

conda  qui  appresso.  Questa  prima  poi  trovasi  disciolta,  vale  a  dire  che 
ciascun  verso  è  aggiunto  insieme  con  versi  di  altre  so'ie  alla  tabella 
del  rispettivo  mese,  anche  nell'antico  calendario  Ambrosiano  pubbli- 
cato dal  MrEATORi,  Rerum  Italicarum  Scriptores,  II,  ir,  1027,  e  in  quello 
di  Beda  [Opera,  ediz.  di  Basilea,  1563,  t.  I,  242  sgg.),  per  citare  sol- 
tanto i  più  noti. 

2.  "  Prima  dies  mensis  et  septima  truncat  ut  ensis  „.  Dodici  esa- 
metri. Pubblicata  dal  Mommsen,  Corpus  Inscrip.  Lat.,  I.  411  e  si  rac- 
coglie anche  dai  calendarj  descritti  dal  Valextinelli,  op.  cit.,  I,  291  ; 
III,  117. 

3.  "  Prima  dies  Ioni  timor  est  et  sejìtima  vani  ,.  Dodici  esametri. 
Nei  calendarj  descritti  dal  Valentinelli,  op.  cit.,  1,  202  (manca  il 
verso  di  Gennaio),  277,  281,  296  (in  quest'ultimo,  il  primo  verso  è  quale 
trovasi  riferito  più  sopra,  al  n.  1). 

4.  Nelle  tre  serie  predette  sono  indicati  soltanto  i  giorni  aegyp- 
tiaci  senza  le  ore  pericolose,  indicazione  che  non  manca  invece  iu 
quella  pubblicata  dal  Muratori,  Rerum  Italicarum  Scriiìtores,  II,  ii, 
1023  e  che  si  compone  di  24  versi,  due  per  mese,  di  cui  ecco  i  due 
primi  : 

Nona  prò  te  lani  vae  sibilat  bora  diei 
Septima  fine  dies,  in  quinta  parvulus  est  serps. 


I  versi  poi  che  si  riferiscono  soltanto  alle  ore  si  trovano  uniti  na- 
turalmente a  quelli  riferentisi  ai  giorni,  ma  possono  anch'essi  dividersi 
in  serie: 

1.  "  Nona  parat  bellum  sed  quinta  dai  hora  flagellum  „.  Insieme 
coi  versi  sui  giorni  della  serie  n.  3,  nei  calendarj  descritti  dal  Va- 
lentinelli, op.  cit.,  I,  202  (manca  il  primo  verso),  296.  In  quello  de- 
scritto a  p.  281  soltanto  tre  versi. 

2.  A  ciascun  verso  della  serie  n.  1  sui  giorni,  seguono  due  versi 
sulle  ore  nel  calendario  Sitoniano  edito  dal  Muratori,  Rerum  Itali- 
carum Scriptores,  II,  ii,  1035.  I  versi  di  Gennaio  sulle  ore  sono  questi  : 


122  LEANDRO   BIADENE 

Prima  dies  nona  sit  iam  scorpius  hora 
Vulnera  saeva  nimis  fert  horis  septima  quinis. 

3.  Manca  il  primo  verso  di  quella  seì'ie  di  dodici  esametri  cia- 
scuno dei  quali  s'aggiunge  ai  versi  riuniti  delle  serie  n.  1  e  2  sui 
giorni  nel  calendario  descritto  dal  Valentinelli,  op.  cit-,  I,  291.  Il 
verso  di  Febbraio  è: 

"  In  fine  octava  februarii  lupus  et  leo  dena  ,. 

4.  "  Est  lanus  in  nona  et  quarta  scorpius  hora  ,.  Precede  al  verso 
di  Ausonio  : 

"  Principium  tropicum  sancit  capricornus  ,  (sic) 

e  a  quelli  delle  serie  n.  1  e  2  sui  giorni  nel  calendario  descritto  dal 
Valentinelli,  op.  cit.,  Ili,  117.  Sono  dodici  esametri. 

Quanto  ai  testi  in  prosa,  che  si  riducono  a  poco  piìi  di  semplici 
elenchi,  dei  dies  aegyptiaci,  P.  Meter  ne  pubblicò  quattro  francesi 
antichi  in  quel  paragrafo  delle  Bribes  de  littérature  anglo-normande 
{Jahrbueh  f.rom.  u.  engl.  Liter.,Yll  [1866],  47-51),  intitolato  appunto: 
Les  Jours  périlleux.  Piìi  tardi  nella  Romania,  VI  [1878],  3n  aggiunse 
di  averne  trovati  parecchj  altri.  Quelli  da  lui  pubblicati  sono  simili 
agli  altri  provenzali  editi  poi  da  E.  Suchier,  Denkmàler  provenz.  Liter. 
Halle,  Niemeyer,  1883,  I,  122  sgg.  Uno  italiano,  tratto  da  un  codice 
Magliabechiano,  fu  pubblicato  da  F.  Alvino,  /  Calendari,  Firenze, 
1891,  pp.  206-7. 


6.  L'igiene  delle  Stagioni  e  dei  Mesi. 

Abbiamo  già  veduto  che  Teodoro  Prodromo,  l'autore  dei  versi  greci 
segnati  nella  Parte  II  di  qnesi^ Indice  col  n.  4,  in  essi  fornisce  anche 
i  precetti  igienici  che  conviene  osservare  in  ciascun  mese,  come 
fa  l'autore  anonimo  dei  versi  pure  greci  indicati  al  n.  9.  Simili  pre- 
cetti in  versi  usò  poi  di  aggiungere  anche  ai  calendarj,  e  così,  per 
esempio,  in  fine  della   tabella  di    ciascun  mese   nel  De  embolismo  di 


'  CARMINA    DE    MENSIBUS  '    DI   BONVESIN    DA    LA    RIVA  123 

Beda  {Opera,  Basilea,  1563,  t.  I,  255  sgg.)  sono  raccolti  in  quattro 
versi,  e  nel  celebre  Breinario  Grimani  sono  aggiunti  al  calendario  i 
versi  dell'igiene  dei  mesi  del  Regimen  sanitatis  salernitano,  quali  li 
pubblicò  il  Valentinelli,  op.  cit.,  I,  303-5.  Il  Regimen,  in  cui  l'art. 
De  Mensibus  è  preceduto  da  quello  De  quattuor  anni  tempestatibus, 
ebbe,  si  sa,  larghissima  diflusione  e  ne  furono  fatte  traduzioni  in  molte 
lingue,  come  si  apprende  dalla  bibliografia  di  esso  compilata  da  S.  De 
Renzi  ')  e  premessa  all'edizione  che  egli  ne  fece  nel  primo  volume 
della  Collectio  Salernitana,  (Napoli,  1852).  Quest'edizione  è  scorretta; 
molto  migliore  è  invece  quella  procurata  dal  medesimo  De  Renzi  nel 
quinto  volume  (Napoli,  1859)  della  stessa  opera. 

Nel  testo  provenzale  edito  da  E.  Suchieb,  Denkmiiler  provenz.  Liter.,  I, 
201  sgg.*)  sono  sull'igiene  delle  stagioni  i  vv.  247-312,  e  su  quella 
dei  mesi  i  vv.  313-76.  Precetti  dietetici  per  ciascuna  stagione  e  ciascun 
mese  dell'anno  si  trovano  anche  in  altri  testi  medievali. 


')  In  essa  non  si  fa  menzione  dell'antico  rifacimento  napoletano  in 
versi  edito  più  tardi  da  A.  Mussafia,  Mittheilungen  aus  romanischen 
Handschri^ten,  I,  Vienna,  1884. 

*)  Ripubblicato  più  recentemente  dallo  stesso  Suchier  col  titolo 
Provenzalische  Diutetik  auf  Grand  neuen  Materials,  Halle,  1894,  edizione 
che  non  potei  vedere. 


124  LEANDRO    BIADENE 


GIUNTE  E  CORREZIONI 


Al  lavoro  che  precede  si  potranno  certamente  fare  aggiunte  di  vario 
genere,  e  ho  già  indietro  notato  qualche  parte  dove  esse  saranno  più 
facili.  Metto  subito  qui  quelle  che  mi  trovo  avere  già  in  pronto  in- 
sieme con  alcune  osservazioni  e  correzioni,  la  maggior  parte  gentil- 
mente comunicatemi  dal  prof.  Rajna,  a  cui  rendo  pubbliche  grazie. 
Indico  di  volta  in  volta  quelle  di  cui  gli  sono  debitore. 


Introduzione. 

Pag.  2.  Per  le  immagini  egizie  dei  Mesi  lo  Strzygowski  {Calender- 
hilder,  \).  48  n.)  cita  il  Lepsius,  Wandgcmcilde,  34  e  il  Brdgsch,  Kalen- 
darische  Inschriften  altàgyptischer  Denkmàler,  p.  471  sgg. 

Pag.  5.  Che  l'elenco  delle  rappresentazioni  figurate  dei  Mesi,  quale 
si  può  comporre  riunendo  gli  elenchi  già  fatti  da  altri  e  tenendo 
conto  anche  di  tutte  le  altre  indicazioni  che  in  qualsiasi  luogo  sieno 
state  date,  non  sia  neppur  esso  compiuto,  non  farà  di  certo  meravi- 
glia, massime  quando  si  pensi  alla  varietà  e  qualità  dei  monumenti 
e  documenti  dove  esse  possono  trovarsi.  Così  è  dato  fare  anche  a  noi 
alflune  aggiunte.  Abbiamo  già  fatto  cenno  della  figurazione  dei  Mesi 
pubblicata  di  recente  da  A.  Chroust,  notevole  per  l'antichità,  come 
quella  che  risale  al  principio  del  secolo  IX  (vedasi  la  nostra  Appen- 
dice, Parte  II,  Testi  latini,  n.  9).  Un'altra,  pur  essa  straniera,  è  quella 
del  calendario  in  legno  segnato  nella  collezione  Figdor  di  Vienna 
col  n.  799,  calendario  che  ci  offre  l'opportunità  di  far  menzione  del 
lavoro  di  A.  Riegl,  Die  Holzkalender  des  Mittelalters  und  der  Renais- 
sance {Mittheilungen  des  Institiits  fili'  osterr.  Geschichtsforschitng ,  IX 
[1888],  82-103),  in  cui  è  descritto,  e  che  si  riferisce  soltanto  indiret- 
tamente alle  figure  dei  Mesi,  occupandosi  invece  di  proposito  dei 
segni  convenzionali  adoperati  dai  popoli  nordici  nella  formazione  dei 
loro  calendarj,  a  un  dipresso  come  fa  A.  Cebtelx  nell'opuscolo  Les 
calendriers  à  etnblèmes  hiéroglyphiques,  Paris,  1891,  raccolta  di  articoli 


'  CARMINA    DE    MENSIBUS  '  "DI    BONVESIN   DA   LA   RIVA  125 

la  più  parte  anteriormente  comparsi  nella    Reme    des  traditions   i»)- 
pulaires. 

Inoltre  i  Mesi  sono  raffigurati  nei  seguenti  libri  e  monumenti 
italiani  : 

1.  Cod.  Saibante-Hamilton,  n.  360,  ora  nella  R.  Biblioteca  di  Ber- 
lino. Le  figure  dei  Mesi  stanno  sul  margine  in  quella  parte  del  ms. 
dove  sono  contenuti  i  precetti  dietetici  per  ciascun  mese  ;  ora  sono 
in  parte  mutilate,  essendo  stato  strappato  il  margine  (cfr.  A.  Tobler, 
Zeitschr.  f.  rom.  Phil.  XII  [1888],  81-83  e  87). 

2.  Codice  erbario  del  sec.  XV,  di  proprietà  del  cav.  M.  Guggenheim 
di  Venezia  (v.  E.  de  Toni,  Atti  del  R.  Istituto  veneto,  t.  IX,  ser.  VII, 
[1897-98],  5  e  24). 

3.  Fonte  battesimale  nel  pian  terreno  del  Museo  Nazionale  di 
Firenze,  dove  fu  trasportato  di  recente.  Prima  era  a  Lucca.  Sembra 
della  fine  del  secolo  XII  o  del  principio  del  XIII. 

4.  Stipiti  della  porta  laterale  della  Chiesa  degli  Eremitani  di 
Padova. 

5.  Sertorio  Ursato  nei  Monumenta  patavina  {V^,àova,  1652),  lib.  I, 
sez.  IX,  p.  342,  descrive  un  capitello  marmoreo  con  suvvi  scolpite  le 
figure  dei  sei  Mesi  (Gennaio-Giugno),  regalatogli  da  Girolamo  Santa- 
sofia  professore  di  medicina.  Gli  altri  sei  Mesi  saranno  stati  scolpiti 
in  un  altro  capitello.  Anche  il  Tractato  dei  mesi  ha  nel  codice  alcune 
immagini  a  penna  e  colorate,  come  ci  fa  sapere  il  Lidforss  nella 
prefazione  del  medesimo  (p.  XIII).  Probabilmente  saranno  quelle 
dei  Mesi. 

Pag.  Un.  e  18.  Mentre  si  finiva  di  stampare  il  nostro  lavoro  sono 
usciti  due  brevi  studj  sulle  Stagioni  e  i  Mesi.  Uno  è  di  A.  Colasanti, 
Le  Stagioni  nell'antichità  e  nell'arte  cristiana  (nella  Rivista  d'Italia,  fase. 
di  aprile  1901,  pp.  669-87).  L'autore,  discorrendo  delle  immagini  delle 
Stagioni  e  riproducendone  alcune,  aggiunge  poco  a  quello  che  già  si 
sapeva  ed  era  anche  stato  raccolto  ed  ordinato  da  altri,  ma  riespone 
la  materia  con  garbo  e  discrezione.  Strano  che  mentre  in  nota  a  pa- 
gina 685  cita  il  PiPEE,  Mytìiologie  und  Symholik,  I,  224,  a  proposito 
dei  tritoni  che  qualche  volta  si  vedono  sui  sarcofagi  cristiani,  non 
citi  poi  della  stessa  opera  il  secondo  volume  (o  più  esattamente 
la  seconda  parte  del  primo  tomo),  nel  quale,  come  abbiamo  già  detto 
nella  prima  nota  dell'Introduzione,  si  ha  sulle  Stagioni  un  capitolo 
assai  ben  fatto  e  ricco  di  notizie  e  osservazioni. 

L'altro  studio  è  di  L.  Galante  e  s'intitola  Alcuni  contrasti  delle 
Stagioni  e  dei  Mesi  {Rivista  Abruzzese,  XVI,  fase.  II  [febbraio  1901], 
70-82,  fase.  V  [maggio  1901],  222-43).  È  uno  scritto  spigliato  e  vivace, 
nel  quale  l'autore  si  propone  modestamente  di  dare  un'idea,  per  ri- 


126  LEANDRO   BIADENE 

petere  la  sua  espressione,  di  alcuni  di  tali  contrasti.  Quanto  a  quelli 
dei  Mesi  e  anche  alle  rappresentanze  figurato  dei  medesimi,  le  notizie 
sono  tutte  desunte  dallo  studio  da  lui  citato  del  D'Ancona;  quanto 
alle  Stagioni  invece,  se  dei  testi  da  noi  indicati  conosce  soltanto  il 
Conflictus  e  l'antico  testo  genovese  e  quello  originai-iamente  siciliano 
di  cui  si  ha  la  riduzione  italiana  di  Foriano  Pico,  richiama  in  com- 
penso egli  per  il  primo  l'attenzione  su  alcuni  altri  contrasti  e  com- 
ponimenti a  noi  rimasti  ignoti  e  dei  quali  godiamo  di  essere  ancora 
in  tempo  di  poter  qui  far  cenno.  Uno  di  essi  è  intitolata  appunto  La 
Contesa  delle  Stagioni.  È  un  dramma  sacro  "  di  cui  fu  poeta  Carlo 
Sigismondo  Capece,  ignoto  il  compositore  della  musica,  e  che  fu  rap- 
presentato nella  notte  di  Natale  del  1698,  nel  palazzo  Apostolico  di 
Roma  „.  NuU'altro  gli  fu  dato  sapere  intorno  ad  esso  (p.  239),  e  sol- 
tanto avverte  che  di  esso  fa  cenno  l'Ademollo,  /  teatri  di  Roma  nel 
secolo  decimosettimo,  Roma,  1888,  pp.  252-53;  il  quale  anche  a  pa- 
gina 86  dell'opera  stessa  ricorda  una  tragedia  in  cinque  atti  e  pro- 
logo attribuita  al  card.  Giulio  Rospigliosi  (poi  papa  Clemente  IX, 
1667),  nel  prologo  della  quale  sono  personaggi:  il  Tempo,  l'Occasione, 
la  Vendetta,  le  quattro  Stagioni  ;  manoscritto  nella  biblioteca  Fabro- 
niana  di  Pistoia.  Di  altri  contrasti  il  G.  è  in  grado  di  dare  ragguaglio 
convenientemente  diffuso.  Da  alcune  parole  di  Pietro  Aretino  nel 
Dialogo  delie  Corti  si  ricava  che  il  contrasto  dell'Inverno  e  dell'Estate 
doveva  essere  allora  sempre  vivo,  e  la  prova  ne  è  fornita  anche  da 
una  contesa  epistolare  del  1558  presso  la  Corte  d'Urbino.  Girolamo 
Muzio  scrisse  una  lettera  in  nome  dell'Inverno,  "  un  capolavoro  di 
requisitoria  contro  l'Estate  sua  sorella  e  nemica  „  (p.  235).  Della 
quale  prese  le  difese  Bernardo  Tasso  in  un'altra  lettera,  a  cui  replicò 
nuovamente  il  Muzio  (vedi  Lettere  di  B.  Tasso,  Padova,  Cornino,  1733, 
voi.  II,  pp.  5,  17,  30.  Le  due  epistole  del  Muzio  furono  stampate  da 
sole  fra  le  Lettere  facete  et  piacevoli  di  diversi  grandi  huomini  da 
Dionigi  Atanasi,  Venezia,  1561).  "  Pubblicatesi  le  due  lettere  del 
Muzio  per  la  prima  volta  nel  1561,  e  conosciutasi  anche  assai  presto 
quella  del  Tasso,  venne  la  voglia  di  scrivere  un  "  dialogo  del  para- 
gone tra  il  Verno  e  la  State  „  a  Cipriano  Giambelli  da  Verona,  del- 
l'Accademia de'  Solleciti  fondata  in  Treviso  nel  1585.  11  suo  dialogo 
intitolato  11  Rinaldi  e  pubblicato  a  Venezia  nel  1589,  è  un  plagio 
audace  delle  lettere  del  Muzio  (p.  229). 

Un  raro  opuscolo  tratto  fuori  dal  G.  contiene:  "  La  Gara  delle 
Stagioni.  Torneo  a  cavallo  rappresentato  in  Modana  nel  passaggio 
dei  Serenissimi  Arciduchi  Ferdinando  Carlo,  Sigismondo  Francesco 
d'Austria  et  Arciduchessa  Anna  di  Toscana.  In  Modana,  per  Giulian 
Cassiani,  Stampator  Ducale,  1652  „.  L'autore  del  testo  poetico  è  il 
Graziani,  il  quale  si  dà  cura  anche  di  descrivere  com'erano  vestite 
e  quali  attributi  avevano  le  Stagioni  sulla  scena. 


'  CARMINA   DE    MENSIBLS  '   DI   BONVESIN   DA    LA    RIVA  127 

Il  G.  fa  inoltre  menzione  delle  feste  celebrate  nel  castello  di  Ver- 
sailles dal  5  al  14  maggio  1664:  nel  primo  giorno  delle  quali  ebbe 
luogo  un  corteggio  in  cui  comparivano  le  quattro  Stagioni.  Delle  quali 
sappiamo  che  ciascuna  si  presentò  al  cospetto  della  Regina  offrendole 
i  suoi  propri  doni  e  recitando  alcuni  pochi  versi,  esempio  anch'essi 
di  prosopopea,  e  riferiti  dal  G.  (cfr.  (Euvres  de  Molière,  Nouvelle 
édition.  t.  Ili  (Paris,  1685),  p.  152  sgg.:  Les  fétes  de  Versailles  en  1664). 

Pag.  26.  Al  R.,  esaminando  il  ms.  del  De  Mensibus,  parve  che  la 
*  Tavola  ,,  dove  si  legge  il  titolo  ''  Bonvicini  carmina  de  mensibus  ,, 
sia  di  mano  antica  e  anzi  con  tutta  probabilità  di  quella  del  tra- 
scrittore. 

Pag.  30  e  32.  Secondo  il  R.  "  bisognava  pur  fermarsi  sull'indizio 
che  contro  Bonvesin  parrebbe  sorgere  dalla  differenza  di  un  mese  che 
si  ripete  tre  volte  nella  cronologia  agricola  del  testo  latino  messo  a 
confronto  col  volgare,  differenza  che  porterebbe  spontaneamente  a 
supporre  una  diversità  geografica  „.  L'argomento  non  è  senza  peso, 
ma  questo  diminuisce  di  molto  se  si  tenga  conto  degli  altri,  che  se- 
condo me  provano  essere  Bonvesin  l'autore  anche  del  testo  latino. 
Perciò  mi  è  sembrato  sufficiente  spiegare  la  diversità  cronologica  nel 
modo  che  ho  fatto,  tanto  piti,  che  se  da  essa  volessimo  inferire  che 
i  due  componimenti  appartengano  a  due  autori  di  regioni  diverse, 
dovremmo  tenere  più  meridionale  quello  del  testo  latino,  che  s'av- 
vantaggia di  un  mese  sull'altro,  così  da  fare,  p.  es.,  fiorire  i  gigli  in 
maggio  anziché  in  giugno.  Sennonché  i  gigli  sono  attribuiti  al  mese 
di  giugno  anche  nei  versi  latini  che  accompagnano  il  Calendario  di 
Filocalo  e  che,  a  quanto  pare,  sono  di  autore  romano,  più  meridio- 
nale dunque  di  Bonvesin  autore  certo  del  testo  italiano. 

Pag.  82.  Il  R.  osserva  che  "  per  la  questione  dell'autore  non  era 
da  trascurare  il  confronto  colla  metrica  della  Vita  Scholastica  „.  L'os- 
servazione è  giusta,  e  io  stesso  aveva  a  suo  tempo  già  fatto,  seb- 
bene rapidamente,  tale  confronto,  di  cui  parvemi  poi  di  poter  tra- 
lasciare di  tener  conto,  essendo  i  versi  della  Vita  composti  tutti,  se 
non  ho  veduto  male,  secondo  le  norme  della  metrica  classica.  E  mi 
spiegavo  la  diversità  di  versificazione  dei  due  componimenti  colla 
diversità  della  materia  in  essi  trattata. 

Pag.  43.  Il  R.  crede  inverosimile  il  ravvicinamento,  da  me  fatto 
del  resto  in  modo  molto  dubitativo,  di  petitos  a  pes,  e  mettendosi  a 
ricercare  l'etimologia  di  quella  parola  penserebbe  piuttosto  ai  mila- 
nesi pitt,  pettarott  (cfr.  pito  sp.).  Sennonché  non  riuscendomi  di  vedere 
quale  relazione  di  significato  possano  avere  questi  due  ultimi  vocaboli 
con  petitos  {pitt  non  può  essere  che  plurale  di  jìett  '  peto  ',  da  cui  pet- 


128  LEANDRO    BIADENE 

tarott  '  specie  di  piva  con  cui  i  contadini  anziché  sufolare  tniUano  ' 
[Cherubini,  Vocah.  milan.  s.  v.],  ne  si  può  ammettere  che  piti  valga 
'piedi',  come,  correggendosi,  osserva  il  Cherubini  nel  Suppl.  al  Vo- 
cabolario), m'accontenterò  di  dire  che  questo  è  forse  derivato  da 
quella  radice  pet-  da  cui  pezza  (pet-i-a)  e  qualche  altra  voce  si- 
gnificante lembo  e  parte  in  genere  degli  indumenti,  se  pure  petitos 
non  è  da  ravvicinare,  ciò  che  soddisferebbe  bene  al  sunso,  al  mug- 
gese  pisett  '  polpacci  '  (Arch.  glott.,  XII,  331).  [Il  R.  mi  ha  poi  comu- 
nicato esserglisi  affacciata  la  possibilità  della  relazione  fra  pettarott 
e  petitos  pensando  all'analogia  che  si  avrebbe  col  doppio  valore  di  tibia]. 

Pag.  43.  Il  R.:  "  Fehrus  sta  a  Februarius  come  lanus  a  lanuarius. 
Chiaro,  credo,  come  ci  sia  qui  di  mezzo  anche  il  fattore  analogico  „. 
E  avrà  ragione;  ma  ad  ogni  modo  la  forma  Februs,  avendo  pure 
principalmente  origine  nell'  analogia,  sarà  stata  facilitata  a  sorgere 
dall'altra  che  già  esisteva  di  Februus. 

Pag.  46.  Mi  sono  venuto  poi  confermando  nell'opinione  che  l'etimo 
di  tuccetum,  il  quale  sarebbe  non  celtico,  come  si  crede,  ma  latino, 
sia  quello  stesso  del  veneto  tocio  e  in  fondo  anche  del  pur  veneto 
poeto,  significante,  oltre  che  '  poltiglia,  melletta  ',  lo  stesso  di  tocio. 
La  dimostrazione  dell'identità  etimologica  di  queste  parole  richiede- 
rebbe un  discorso  un  po'  lungo,  e  però  qui  lo  tralascio,  tanto  più 
che  avrò  l'opportunità  di  farlo  altrove. 


Testo  e  Annotazioni. 

Secondo  il  consiglio  del  R.  ho  modificato  in  due  o  tre  luoghi  l'in- 
terpunzione e  un  paio  di  volte  anche  la  risoluzione  delle  abbreviature 
del  codice. 

V.  142.  Il  R.,  stimando  difficile  il  pervertimento  grafico  di  tantum 
in  tantis,  proporrebbe  di  correggere  captis,  mettendo  dopo  di  esso 
una  virgola. 

v.  189.  Il  R.  domanda  se  sia  veramente  da  tenere  propris  invece 
di  propriis. 

v.  203.  "  Si  rimane  titubanti  se  meretur  o  meremur.  Ci  sono  ra- 
gioni prò  e  contro  ,  R. 

V.  236.  L'emendazione  di  ceu  in  ciò  e  del  R. 

vv.  254-55.  Maggio  è  rappresentato  da  un  cavaliere  collo  scudo  in 
oraccio  sulla  porta  della  Pieve  d'Arezzo. 


'  CARMINA    DE   MENSIBUS  '   DI    BONVESIN    DA   LA    RIVA  129 

V.  371,  nota.  Anche  Arnobio,  S.  Agostino  e  S.  Girolamo  derivano 
il  nome  lanuariii!^  da  ianun.  Cfr.  Piper,  Mythol.  ti.  Symbol.  II,  381-82. 

V.  433.  L'emendazione  mi  è  suggerita   dal  R. 

Appendice. 

Pag.  86.  Ai  testi  inglesi  sono  da  aggiungere  due  drammi:  uno 
del  1593  di  Th.  Nash  e  uno  comparso  per  la  prima  volta  nel  1598 
dello  Shakespeare  (v.  Uhland,  op.  cit.,  pp.  25  e  40,  nn.  20  e  21). 

Pag.  87  n.  5.  Nella  dissertazione  di  A.  L.  Stiefel,  Ueber  die  Quellen  der 
Fabeln,  MSrchen  u.  Schwiinke  des  Hans  Sachs  contenuta  nel  volume 
Hans  S  a  e  h  s  •  Forschungen,  Festschrift  ecc.  Niirnberg,  1893,  non  si 
tocca  neppure  del  contrasto  dell'Inverno  e  dell'Estate,  com'ebbe  la 
gentilezza  di  verificare  per  me  in  Vienna  il  signor  C.  Kuzmany.  Per 
le  ragioni  addotte  dall'autore  a  pag.  38,  la  dissertazione  contiene  meno 
di  quello  che  il  titolo  prometterebbe  e  io  stesso  spei-avo. 

Pag.  88.  Di  un  dramma  dell'Inverno  e  dell'Estate,  che  si  soleva 
rappresentare  fino  a  questi  ultimi  anni  in  un  villaggio  montuoso 
della  Stiria,  parla  K.  Reiterer  in  un  articolo  intitolato  Das  Sonimer- 
und  Winterspiel  und  andere  Spiele  nella  Zeitschr.  f.  osterr.  Volkskunde, 
I  (1895),  115,  articolo  di  cui  debbo  la  notizia  alla  cortesia  del  signor 
C.  Kuzmany.  Il  R.  ragguaglia  sul  modo  della  rappresentazione  e  non 
veramente  smI  testo.  Sarà  tutt'uno  con  quello  da  noi  segnato  del  n.  10 
e  che  proviene  pure  dalla  Stiria? 

Pag.  96  n.  10.  Questi  versi  si  trovano  anche  in  libri  francesi  di  Ore  del 
principio  del  sec.  XVI  e,  in  lezione  un  poco  diversa  da  quella  del 
ms.  bolognese,  furono  già  pubblicati  o  meglio  ripubblicati  dal  Piper, 
Mythol.  u.  Symbol.,  II,  386-87.  La  parola  indecifrabile  del  ms.  bolo- 
gnese è  qui  fomes,  che  bene  sta  nel  contesto. 

Pag.  97  n.  12.  Lo  Champier,  op.  cit.,  p.  39,  fra  gli  elementi  costitutivi 
del  Calendario  in  genere  mette  un  quadernario  latino  per  ciascun 
mese,  che  ne  determina  le  proprietà  e  gli  accidenti,  e  a  p.  85  de- 
scrivendo brevemente  un  almanacco  illustrato  francese  del  1550, 
nota  che  verso  il  basso  delle  dodici  stampe  che  contiene  si  trovano 
iscrizioni  latine. 

Pag.  105  n.  19.  La  versione  veronese  della  stessa  poesia  fu  pubbli- 
cata da  P.  Caliaki,  Antiche  villotte  e  altri  canti  del  Folk-love  veronese, 
Verona-Padova,  Drucker,  1900,  pp.  214-11,  e  la  versione  mantovana, 
mancante  dei  mesi  di  ottobre  e  dicembre  e  colla  strofa  di  novembre 
incompiuta,  da  A.  Trotter  neWArch.  trad.  pop.,  XIX  [1900],  487-88. 

StudJ  di  filologia  romanza,  IX.  9 


130  LEANDRO    BIADENE 

Pag.  110  sgg.  Sotto  il  titolo  Materiaes  para  o  estudo  des  festas, 
cren^as  e  costumes  populares  portugueses  A.  Coelho  nella  Revista  d'Etimo- 
logia e  de  Glottologia,  fase.  I-III  (Lisbona,  1880)  raccoglie  notizie  in- 
torno al  Calendario  popular,  come  apprendo  dalla  Zeitschr.  f.  rom. 
PMl.  VI  (1882),  145-7. 

Pag.  122.  Sono  da  aggiungere  gli  Hucbaldi  versus  de  diebus  aegyptiacif: 
editi  recentemente  nella  prima  parte  del  tomo  quarto  dei  Poetariim 
lat.  meda  aevi,  Berlino,  1899,  p.  272  (nei  Monumenta  Germaniae  histo- 
rica).  Com.  "  Prima  diem  2)rimam  lani  frons  aspicit  atram  „.  Anche 
qui  si  dà  la  stessa  spiegazione  del  nome  aegyptiaci  già  indietro  rife- 
rita da  altri  (cfr.  p.  119  e  sg.): 

V.  31.  Et  quia  mors  visus  hominum  tenebrescere  cogit 
Ac  tenebrae  Aegyptus  graeci  sunt  famine  verbi, 
Hos  "  Aegyptiacos  ^  placuit  de  more  vocare. 

L'editore  aggiunge  queste  indicazioni,  che  in  parte  compiono  le 
altre  già  da  noi  date  :  "  De  diebus  Aegyptiacis  (i.  e.  fatalibus)  egerunt 
CI.  Salmasius  {De  annis  climatericis,  Lugd.  Batav.  1648,  p.  885  sgg.), 
Th.  Mommsen  (C.  I.  L.  V  p.  374  =  ^p.  297;  'p.  411),  W.  Schmitz 
(Rh.  M.  XII  p.  303;  XXIII  p.  520).  Hucbaldus  non  cum  diebus  Philo- 
calianis  (C.  I.  L.  I^  p.  374)  consentii,  sed  cum  Beda  (eius  enim  fe- 
runtur  esse  versus  a  Mommseno  C.  I.  L.  I*  p.  411  editi;  cfr.  Bedae 
ed.  Colon.  I  p.  394  ceterisque  medii  aevi  testibus  a  Mommseno  et 
Schmitzio  citatis)  „. 

Sui  dies  aegyptiaci  nella  letteratura  rumena  si  vedano  le  indica- 
zioni del  Gaster  nel  Grundriss  d.  rom.  Philol.  II,  in,  422. 


LA  SIRVENTESCA  D'UN  GIULLARE  TOSCANO 


Il  cod.  Laurenziano  S.  Croce  XV,  6  contiene,  come 
ognun  sa,  quella  serie  di  versi  in  antico  volgare  italiano, 
la  quale,  pubblicata  primieramente  da  Angelo  Maria  Ban- 
dini  nel  quarto  volume  del  suo  catalogo  de'  codici  lau- 
renziani,  poi  riprodotta  in  fototipia  nel  voi.  I,  tav.  17 
deW Archivio  paleografico  italiano  e  nella  tav.  66  de'  Facsi- 
mili  di  antichi  manoscritti  per  cura  di  Ernesto  Monaci,  ha 
esercitato  la  pazienza  di  più  valentuomini,  senza  che  alcuno 
sia  finora  riuscito  a  convenientemente  illustrarla.  E  ciò 
forse  accadde  perché  su  qualche  parte  del  manoscritto  of- 
fuscata da  macchie  d'umido,  e  però  indecifrabile,  l'acume 
congetturale  dei  critici  s'indugiò  meglio,  che  non  il  loro 
giudizio  esegetico  su  le  parti  chiare  e  compiute;  di  guisa 
che  l'interpretazione  mosse  sovente  da  un  equivoco  di  let- 
tura 0  d'interpretazione.  Per  iscansare  codesto  pericolo,  io 
qui  riferisco  il  testo  come  e  dove  soltanto  a  me  riesce  di 
leggerlo  ;  e  su  quello  condurrò  la  mia  indagine  fonda- 
mentale, non  senza  per  altro,  assicuratomi  in  questa,  ten- 
tare del  documento  una  ricostituzione  che  non  le  con- 
tradica. 

Salva  lo  vescovo  senato 

lo  mellior  c'umque  sia  nato 

l'ora  fue  sagrato 

tutt'allumma  1  kericato.  4 

Ne  fisolaco  ne  cato 
non  ^ue  si  ringratiato. 


132  G.   A.   CESAREO 


el  papa 

per  suo  drudo  più  privato;  8 

suo  gentile  vescovato 

ben  è  cresciuto  e  melliorato. 

L'apostolico  romano 

k Laterano:  12 

san  Benedetto  e  san  Germano 

1  destinoe  d'esser  sovrano 

de  tutto  regno  cristiano  : 

peroe  vene  da  Lornano  16 

del  paradis  iciano 

9a  non  fue  questo  villano: 

da  ke  1  mondo  fue  pagano 

non  ci  so  tal  marchisciano  :  20 

se  mi  dà  cavai  bal9ano 

monsteroir  al  bon  G. 

al  vescovo  volterrano 

cui  bendicente  bascio  la  mano.  24 

Lo  vescovo  Grimaldesco 

cento  cavaler     

di  nun  tempo  no  ll'icrescono, 

an9Ì  plaQono  e  abelliscono.  28 

Ne  latino  ne  tedesco, 

ne  lonbardo  ne  francesco, 

suo  mellior  tenon  vestisco, 

tant'è  di  boutade  fresco.  32 

Allu  mena aresco 

corridor  cavai  pultresco; 

li  arcador  ne  vann'a  tresco: 

di  paura  sbagutesco.  36 


Rispos'e  disse  latinesco: 

sten'e  tietti  nutiaresco. 

Di  lui  bendicer  non  finisco, 

mentre'n  questo  mondo  tresco.  40 


LA   SmVENTEyCA.    d'uN    GIULLARE   TOSCANO  133 

Manifestamente  codesta  composizione  fu  recitata  in  lode 
o  servigio  d'un  vescovo  ;  e  forse  è  la  forma  iniziale  e  po- 
polare di  ciò  che  in  Provenza  divenne  il  sirventes  aulico  e 
guerresco.  La  nostra  sirventesca  fu  detta  in  Toscana, 
com'è  agevole  rilevare  non  soltanto  da'  suoni  e  dalle 
forme  di  quella,  ma  anche  dai  riferimenti  toponomastici 
a  Lornano  in  Val  d'Elsa  nella  provincia  di  Siena  (v.  16) 
e  ad  un  vescovo  di  Volterra  (v.  23).  Tutti  i  paleografi  che 
videro  quella  scrittura,  il  Bandini,  il  Novati,  il  Monaci,  la 
giudicaron  concordi,  secondo  loro  scienza,  del  sec.  XII: 
per  istar  sul  sicuro  io  mi  contento  d'affermare  ch'ella  non 
può  a  ogni  modo  esser  portata  oltre  la  metà  del  sec.  XIII. 

E,  prima  di  tutto,  occorre  dissipare  alcune  dubbiezze  di 
lettura  e  d'interpretazione. 

Il  Monaci  sospettò  che  il  v.  17  possa  venir  collegato  col 
V.  18  anziché  col  v.  16.  e  propose  di  leggere: 

del  paradis  de  Viano 

9a  non  fue  questo  villano, 

in  vece  di 

peroe  vene  da  Lornano 
del  paradis  iciano  '). 

Or  quella  inversione  in  un  componin^ento  popolaresco 
a  me  riesce  intollerabile.  La  poesia  popolare  e  popolareg- 
giante corre  piana  e  spedita,  senza  dislocamenti  di  costru- 
zione; in  tutta  questa  canzone  non  è  un  altro  esempio  di 
costruzione  sforzata  :  e  a  quel  luogo  anche  sarebbe  una  stor- 
tura inescusabile,  giacché  il  giullare,  se  avesse  voluto  far 
dipendere  paradis  da  villano,  avrebbe  potuto  cantare  e 
avrebbe  cantato  di  certo: 

9a  non  fue  questo  villano 
del  paradis  iciano. 


')  Nei  Rendiconti  dei  Lincei,  IV,  2,  1895,  p.  66. 


134  G.   A.   CESAREO 

Si  può  dunque  toner  per  fermo  che  il  senso  giusto  è  quale 
vien  prima  alla  mente  del  lettore  : 

peroe  vene  da  Lornano 

del  paradis  iciano. 

(,'a  non  fue  questo  villano. 

Più  oltre  occorre  il  verso: 

non  ci  so  tal  marehisciano. 

Che  vorrà  dir  marehisciano?  Abitante  delle  Marche,  o 
Marchese  e,  in  senso  più  largo,  signor  di  marca,  di  terri- 
torio, come  interpretò  il  Monaci? 

Qui  io  tengo  dal  Monaci.  I  titoli  feudali  sovente  furon 
piegati,  durante  il  medio  evo,  a  più  larga  significazione: 
tutti  sanno,  per  dirne  una,  in  quante  mai  composizioni 
provenzali,  italiane,  francesi,  òers,  bar  e  barotie  fosse  anche 
detto  di  Gesù  Cristo  o  d'un  santo.  Lo  stesso  dove  accadere 
di  marchese  e  marchesano  ;  mi  contento  a  citare  un  esempio 
calzante  del  Roman  d'Athis: 

Un  riche  Due  de  grant  povoir 

Puissans  d'amis,  riche  d'avoir 

Y  est  Marchisans  de  la  contrée. 

Ma,  più  che  tutto,  a  intendere  là  marehisciano  per  gran 
signore,  ci  sforza  la  necessaria  contrapposizione  con  villano 
di  due  versi  avanti: 

ya  non  fue  questo  villano: 

da  ke  1  mondo  fue  pagano 

non  ci  so  tal  marehisciano; 

dove  il  senso  torna  a  un  puntino,  se  s'intenda:  —  Costui 
non  fu  già  un  villano,  ma  il  più  gran  signore  ch'io  co- 
nosca —  ;  e  non  torna  in  alcun  modo,  se  si  fraintenda  :  — 
Costui  non  fu  già  un  villano;  ma  un  delle  Marche.  —  A 
meno  che  il  nostro  giullare  non  ragionasse  come  quello  del 

proverbiale  : 

L'un  era  padovano  e  l'altro  laico. 


LA.   SIRVENTESCA    D*UN    GIULLARI:   TOSCANO  135 

L'erudizione  di  lingua  arcaica  può  contar  molto;  ma  la 
logica  conta  anche  di  più. 

Toscano  lesse  il  Bandini  l'abbreviazione  del  v.  22  ;  Gal- 
gano interpretarono  il  Novati  ed  il  Monaci.  Il  quale  oppor- 
tunamente avvertì  come  nell'antiche  scritture  s'abbrevias- 
sero i  nomi  proprj,  non  punto  gli  aggettivi:  io  aggiungo 
di  mio,  che  in  quel  verso  la  parola  Toscano  sarebbe  un'an- 
ticipata, indeterminata  e  disutile  ripetizione  di  ciò  ch'è 
detto  più  propriamente  nel  verso  che  segue:  al  vescovo 
colterrano.  Chi  sùbito  dopo  aveva  a  dire  che  il  vescovo  era 
nato  in  Volterra,  non  aveva  bisogno  di  dire  avanti  ch'era 
toscano.  E  qui  pure  mi  par  necessario  intravvedere  il 
nome  proprio  del  vescovo,  e  non  un  aggettivo  importuno. 

In  fine  è  certo  che  lo  vescovo  Grimaldesco  della  terza 
lassa  non  può  esser  tutt'uno  col  prelato  di  cui  si  ragiona 
nella  seconda.  A  questo,  di  fatti,  il  giullare  chiede  coper- 
tamente un  cavallo,  e  promette  che,  ottenutolo,  lo  mo- 
strerà al  vescovo  suo;  dall'altro,  da  Grimaldesco,  egli  invece 
racconta  come  un  cavallo,  un  "  corridor  cavai  pultresco  „ 
abbia  già  avuto,  onde  non  cessa  di  benedire  il  generoso  pre- 
lato. Chi  ha  dato  e  chi  ancora  ha  da  dare  non  posson 
essere  la  persona  medesima.  Se  fosse,  il  poeta  ce  n'avrebbe 
avvisati;  almeno  per  iscagionarsi  di  questa  sua  faccia  tosta 
del  domandare  un  cavallo  a  chi  gliene  aveva  largito  un 
altro. 

Dopo  ciò  tutto,  torniamo  su  l'allusioni  della  sirventesca. 

La  più  certa  è  quella  al  "  vescovo  Grimaldesco  „ 
(v.  25);  e  può  parer  singolare  che  non  v'abbia  troppo 
badato  nessuno  de'  primi  commentatori.  Grimaldesco  non 
può  già  essere,  come  parve  a  Gaston  Paris  e  al  Mus- 
safia  1),  un  predicato,  del  quale  non  è  traccia  nel  vol- 
gare italiano  antico  e  moderno:  è,  invece,  un  nome  proprio 


''   Romania,  XXII,  626;  e  Remliconti  dei  Lincei,  1895,  IV,  p.  34. 


136  G.    A.    CESAREO 

raccapezzato  su  Grimaldo  o  Grimoaldo,  forse  per  amor 
della  rima  o  dell'uso  ;  a  quel  modo  che  di  Franco  e  Bidolfo 
si  fece  Francesco  e  Bidolfesco  ;  di  turco,  sardo,  romano  si 
venne  a  turchesco,  sardesco,  romanesco:  a  quel  modo  che, 
ne'  versi  seguenti,  il  poeta  dabbene  ricava  latinesco  da 
latino  e  nutiaresco  da  nuziale.  Or  senza  contare  un  Gri- 
maldo, vescovo  di  Pisa  dal  958  al  965,  e  un  Grimaldo, 
vescovo  d'Ancona  fra  il  1051  e  il  1067.  altri  Grimaldi  in 
Italia  non  appariscono  vescovi  fuorché  Grimaldo  vescovo 
di  Fermo  dal  1097  al  1103;  Grimoaldo,  vescovo  d'Osimo 
almeno  dal  1151  al  1157  e  Grimaldo  (secondo  l'Ughelli; 
ma  Grunaldesco  dà  il  solo  documento  che  lo  rammemori), 
vescovo  di  Jesi  nel  1197.  Era  un  nome,  si  vede,  frequente 
in  tutta  la  Marca. 

Vescovi  di  Volterra  i  cui  nomi  comportin  d'entrare,  per 
il  numero  delle  sillabe  e  la  desinenza,  nel  v.  22,  si  tro- 
vano: Galgano  Inghirami  dal  1150  al  1171,  Pagano  d'Ar- 
denghesca  dal  1213  al  1239,  e  Galgano  II  dal  1244  al  1251. 
Ravvicinando  queste  date  alle  precedenti,  si  scorge  come 
vescovi  negli  stessi  anni  non  furon  che  due  di  tanti  Gri- 
maldi e  Pagani  e  Galgani  :  Grimaldo,  vescovo  d'Osimo  dal 
1151  al  1157  e  Galgano  Inghirami,  vescovo  di  Volterra  dal 
1150  al  1171.  Del  rimanente,  Galgano,  come  fu  detto,  era 
già  stato  proposto  dal  Nevati  e  accettato,  secondo  ra- 
gione, dal  Monaci  ^). 

Meglio  che  di  coloro,  d'un  terzo  vescovo  si  tesse  l'elogio 
nella  presente  composizione:  d'un  vescovo  dotto  ed  illustre, 
di  cospicua  casata  (v.  20),  tenuto  in  gran  pregio  persino 
dal  papa  (vv.  7-8).  Anche  di  codesto  vescovo  afferma  il 
poeta  che  San  Benedetto  e  San  Germano  l'p-vean  destinato 
a  cinger  la  tiara:  per  la  qiial  cosa,  egli  aggiunge,  vien  da 
Lornano  (*•  peroe  vene  da  Lornano  „).  Io  non  intendo  perché 
tutti  gli  espositori  abbian  fissato   il  chiodo  di  riferire  co- 


')  Rendiconti  dei  Lincei,  1892,  I,  p.  338. 


LA   SIRVENTESCA    d'uN    GIULLARE   TOSCANO  137 

desti  versi  a  un  papa,  forse   per  un'allucinazione  di  quelle 

parole:  ""  L'apostolico  romano  k Laterano  „.  Ma  come 

si  sarebbe  potuto  dire  d'un  che  già  fosse  papa,  ch'egli  era 
destinato  a  divenir  tale  e  che  appunto  per  ciò  giungea  da 
Lornano?  Che  senso  avrebbe  avuto  quel  "  peroe  vene  „ 
in  qualunque  altro  caso  che  non  fosse  stato  quello  d'un 
cardinale  il  quale,  per  diventar  papa,  avesse  intrapreso  un 
viaggio?  E  se  quella  lacuna  traditora  andasse,  com'è  piii 
probabile,  ristorata  cosi: 

L'apostolico  romano 
konsacroìlo  in  Laterano? 

Allora  tutto  riesce  chiaro  come  la  luce  del  sole  :  il  papa 
non  c'entra  per  nulla;  quel  vescovo  così  dotto  e  magnifico, 
quel  grande  amico  d'un  papa,  è  un  cardinale,  che  si  reca 
a  Roma  per  il  conclave  ;  e  il  giullare  gli  predice  ch'ei  di- 
verrà papa  a  sua  volta  e,  in  cambio  della  profezia,  gli 
chiede  un  cavallo. 

Ma  quel  cardinal  vescovo  chi  sarà  stato  egli  mai?  Fra 
tante  lodi  che  gli  son  prodigate,  una  può  sembrare  assai 
stravagante  : 

^a  non  fue  questo  villano; 

perché,  siamo  giusti,  non  è  certo  il  più  bel  complimento 
che  si  possa  fare  a  un  galantuomo,  quel  rilevare  ch'ei  non 
è  punto  un  bifolco.  Se  non  che  (vedi  caso  !)  proprio  in  quel 
torno  di  tempo  era  vescovo  di  Pisa  un  Villano  Gaetani,  il 
quale  durò  nel  suo  ufficio  almeno  dal  1146  al  1175;  e  da 
Lucio  II  un  Villano,  non  si  sa  d'onde,  fu  creato  cardinale 
di  Santo  Stefano  in  monte  Celio. 

Ma  il  cardinale  Villano  è  egli  tutt'uno  con  Villano  ar- 
civescovo di  Pisa?  Narra  Costantino  Gaetani  nell'annotazioni 
alla  vita  di  Gelasio  li,  come,  morto  Ranieri,  da  Lucio  II 
fosse  stato  creato  cardinale  Villano  Gaetani  col  titolo  di 
Santo  Stefano  in  monte  Celio,  e  come  avess'egli  sottoscritto 
le  lettere  di  Lucio  medesimo  e  d'Eugenio  III   suo  succes- 


13S  G.    A.   CESAREO 

sore  ;  secondo  qualcuno  sarebbe  mancato  ai  vivi  nel  tempo 
d'Eugenio  III  ^).  L'Ughelli  inoltre  sostiene  che  Villano 
Gaetani  succedette  arcivescovo  di  Pisa  a  Balduino  nel  1145; 
ma  nega  ch'ei  fosse  mai  cardinale  -). 

Un  Villano  fu  cardinale  di  certo  ;  e  il  suo  nome  occorre 
più  volte  ne'  regesti  di  Lucio  II  e  d'Eugenio  III.  Ne  rife- 
risco qualche  esempio  piìi  rilevante: 

31  gennaio  1145.  Un  regesto  di  Lucio  II,  da  Roma, 
è  pur  sottoscritto:  Villaniis  presbiter  Cardinalis  tit. 
Sancii  Stephanl  in  Celio  monte. 

17  marzo  1145.  Un  regesto  d'Eugenio  III,  da  Narni, 
reca  la  medesima  sottoscrizione. 

Dal  29  aprile  al  17  novembre  1145.  Cinque  regesti  di 
Eugenio  III,  da  Viterbo,  recan  la  medesima  sotto- 
scrizione '^). 

15  maggio  1146.  Un  regesto  d'Eugenio  III,  da  Sutri, 
reca  la  medesima  sottoscrizione. 

A  Villano  arcivescovo  mandan  concessioni  di  vescovati 
minori  Eugenio  III  il  29  maggio  1146,  da  Viterbo  ;  Adriano  IV 
il  31  maggio  1157,  dal  Laterano;  Alessandro  III  il  26  gen- 
naio 1162,  da  Genova;  e  i  documenti  che  lo  riguardano 
vanno  fino  al  1175'^). 

Fra  il  1160  e  il  1168  egli  si  mescolò  ne'  contrasti  della  sua 
patria  ;  e  il  suo  nome  ricorre  spesso  nelle  cronache  di  quel 
tempo.  Romoaldo  Salernitano  racconta  che,  per  suggeri- 
mento di  Villano,  papa  Alessandro  nel  1160  si  recò  a  Ge- 


')  Cfr.  CiACONio,   Vitae,  I,  1025. 

^)  Ughelli,  Italia  sacra,  III,  394. 

^)  Per  tutti  questi  documenti  cfr.  Pflugk-Harttung,  Ada  Pontif. 
Roman,  inedita:  Urhundeti  der  Piipste  voinJahre  590  bis  zumJahre  1197, 
Tiibingen,  1881 -Stuttgart,  1886,  III,  p.  65;  I,  p.  174;  III,  pp.  67,  68, 
70,  73;  Tbouillat,  Mon.  de  Bàie,  I,  295. 

')  Cfr.  Jaffè,  Regesta  pontific.  rom.^  Lipsiae,  1888,  II,  pp.  34,  125,  155, 
230  e  pss. 


I.A   SIRVENTESCA   d'un   GIULLARE   TOSCANO  139 

nova  e  vi  fu  accolto  con  gran  devozione.  Oberto  cancel- 
liere lasciò  scritto  che  l'arcivescovo  Villano,  mandato  in 
esilio  da'  suoi  stessi  concittadini  (i  quali  avevan  voluto 
vescovo  un  Benincasa,  scismatico)  nell'isola  di  Monte  Cristo, 
tornò  il  1168  a  Genova  con  l'abate  dell'isola  di  Gorgona, 
e  vi  predicò  la  pace.  Gli  Annali  di  Pisa  ne  serban  pa- 
recchie notizie  ^). 

È  certo  che  in  nessuna  delle  testimonianze  riguardanti 
Villano  arcivescovo  di  Pisa  egli  apparisce  anche  cardinale, 
come  in  nessuna  di  quelle  poche  sul  cardinale  Villano 
questi  è  mai  detto  arcivescovo  di  Pisa.  Anzi  dal  30  marzo 
1151  il  suo  titolo  "  Sancti  Stephani  in  Celio  monte  „  passa 
a  un  Gerardo  -|  :  segno  che  il  cardinale  Villano  o  era  morto 
o  aveva  cambiato  il  titolo. 

Eppure  l'antico  biografo  di  Villano,  citato  dal  Ciaconio, 
dice  il  cardinale  Villano  "  natione  Pisanus  ex  familia  Caie- 
tana  „,  al  modo  stesso  che  l'Ughelli  dice  "  de  Caietanis 
pervetustae  ac  nobilissimae  familiae  Pisanae  „  Villano  ar- 
civescovo. E  il  Gams,  là  dove  rammenta,  nella  Series  epi- 
scoporum,  Villano  arcivescovo  di  Pisa,  lo  saluta  anche  col 
titolo  di  cardinale.  E  se  il  cardinale  Villano  non  fosse  la 
stessa  persona  che  l'arcivescovo,  non  s'avrebbe  di  lui  altra 
notizia  che  la  sua  sottoscrizione  in  una  mezza  dozzina  di 
bolle  fra  il  1145  e  il  1146. 

Confesso  che  non  m'è  riuscito  finora  di  trarmi  da  que- 
st'impaccio; a  ogni  modo  mi  par  quasi  certo  che  il  giullare, 
con  quel  verso 

(,'a  non  fue  questo  villano 

volesse  alludere  al  nome  del  vescovo,  e  credesse  di  spiffe- 
rare chi  sa  che  bella  arguzia,  annunziando  che  l'illustre 
prelato,  s'era  Villano  di  nome,  tale  non  era  di  fatto. 


')  Cfr.  Pertz,  MGH,  XIX,  245  sgg.,  433  e  pss. 
*)  Cfr.  Jaffé,  1.  e,  II,  p.  20. 


140  G.    A.    CESAREO 

Villano  Gaetani  fu  arcivescovo  di  Pisa  3al  1146  al  1175. 

Ragguagliando  con  questo  lasso  di  tempo  i  vescovati  di 
Grimoaldo  dal  1151  (o  forse  prima)  al  1157,  e  di  Galgano 
dal  1150  al  1171,  se  ne  deduce  che  la  sirventesca  del  giul- 
lare toscano  non  potè  esser  composta  se  non  fra  il  1150 
e  il  1157. 

Per  altro  già  noi  segnalammo  la  luce  che  si  sprigiona 
dal  verso 

peroe  vene  da  Lornano, 

ove  bisogna  intendere  che  il  prelato  viaggiav^a  per  recarsi 
a  diventare  sovrano 

de  tutto  regno  cristiano, 

secondo  il  suo  poeta:  si  recava,  parrebbe,  a  un  conclave. 
Tra  il  1151  e  il  1157  due  conclavi  si  succedettero  :  quello 
per  la  morte  d'Eugenio  III  nel  1153  e  quello  per  la  morte 
d'Adriano  IV  nel  1154.  In  entrambe  queste  occasioni  può 
esser  nata  la  sirventesca  se  l'arcivescovo  era  pur  cardi- 
nale ;  ma  forse  meglio  nella  prima  che  nella  seconda,  quando 
il  V.  7  vada  ristorato  (lo  sospettò  il  Monaci  2)  e  a  me  par 
verisimile) 

el  papa  Ugenio  1  volle  a  lato: 

dove  il  giullare,  rammentando  la  dimestichezza  del  vescovo 
col  papa  testé  defunto  (e  ch'era,  si  noti,  di  Montemagno 
nel  Pisano),  s'apre  la  via  a  presagirgliene  la  successione. 
Se  poi  si  riuscisse  a  provare  che  Villano  arcivescovo 
non  fu  il  cardinale  Villano,  bisognerà  intendere  che  il  giul- 
lare, cólto  l'uno  0  l'altro  a  mezzo  un  viaggio  da  Pisa  a 
Roma  per  la  via  di  Lornano  (entrambi  al  nome  si  rivelan 
toscani)  insinuasse,  per  amore  di  quel  famoso  cavallo,  che 


')  Cfr.  1)  primo  documento  su  Ubaldo,  successore  di  Villano,  pub- 
blicato   dal  Jafké,  1.  e,  297  11  ajDrile  1176. 
2)  Cfr.  Rendiconti  dei  Lincei,  1812,  IV,  p.  65. 


LA   SIRVENTESCA   d'uN   GIULLARE  TOSCANO  141 

quegli  ne  sarebbe  tornato  cardinale  di  certo,  giacché  i  due 
santi  dell'ordine  benedettino  l'avean  destinato  al  soglio  di 
Pietro  ;  o  che  questi,  ch'era  già  cardinale,  vi  sarebbe  creato 
papa:  ciò  sempre  fra  il  1150  e  il  1157. 

Due  soli  luoghi  rimangon  congetturali,  benché  tutt' altro 
che  improbabili,  secondo  la  nostra  esposizione.  Perché  il 
giullare  potesse  diro  del  vescovo  (vv.  13-15): 

san  Benedetto  e  san  Germano 
1  destinoe  d'esser  sovrano 
de  tutto  regno  cristiano, 

occorreva  che  questi  fosse  un  frate  della  regola  benedettina, 
la  quale  vantava  patroni  qua'  due  nobili  santi.  Ora  noi  non 
possiamo  documentare  ch'ei  fosse  di  quella  regola;  ma 
nulla  ci  vieta  d'ammetterlo  :  allora  appunto  era  stato  papa 
Eugenio  III,  conterraneo  di  Villano  e  dell'ordine  di  S.  Be- 
nedetto. 

Anche  i  dati  ci  mancano  per  accertare  la  verità  di  quel 
passo  (vv.  16-17): 

peroe  vene  da  Lornano 
del  paradis'  [del]iciano. 

Deliciano^  che  a  me,  come  al  Nevati,  pare  di  scorgere 
nell'ombra  lacunosa  del  testo,  conviene  mirabilmente  a  un 
paese  lieto  ed  ameno:  paradiso  deliziano  o  deliciano  gli  an- 
tichi scrivevano  per  paradiso  terrestre.  Così  Franco  Sacchetti 
nelle  Rime:  "  Che  pare  il  paradiso  deliciano  „;  così  nel- 
\' Introduzione  alla  virtii  di  Bono  Giamboni,  VI:  "  perché 
avete  perduto  il  paradiso  deliziano  „  ;  così  altrove.  Ma  noi 
non  sappiamo  dare  per  certo  che  il  cardinale  arcivescovo  si 
recasse  a  Roma  passando  per  Lornano.  Non  sarebbe  già  da 
farne  le  meraviglie  :  se,  puta  caso,  il  giullare  avesse  detto 
la  sua  cantafera  in  Siena  (e  anche  al  Monaci  quello  parve 
un  dialetto  della  Toscana  meridionale),  il  cardinale  Villano, 
per  venire  da  Pisa  a  Siena  e  muover  poi  verso  Roma, 
avrebbe  per   l'appunto   dovuto  attraversare    Lornano.  Ma 


142  G.   A.   CESAREO 

potrebb'essere  che  lì  si  contenga  un'allusione  piìi  signifi- 
cativa, la  quale,  in  cosi  rare  notizie  rimasteci  di  quel  pre- 
lato, ora  come  ora  ci  sfugge. 

A  questo  punto,  del  resto,  il  senso,  il  pretesto  e  l'età 
della  composizione,  tutto  dee  parere  più  chiaro.  Morto 
papa  Eugenio  III,  nativo  di  Montemagno  nel  Pisano,  Villano 
Gaetani,  cardinale  arcivescovo  di  Pisa  e  appartenuto  alla 
sua  cancelleria,  si  parte  di  Pisa  alla  volta  di  Roma  per  en- 
trare in  conclave.  Prende  la  via  di  terra,  si  ferma  un  poco  a 
Lornano  in  Val  d'Elsa  e  giunge^  mettiamo,  a  Siena.  Qui  son 
convenuti  altri  vescovi  di  Toscana,  fra  i  quali  forse  quel  di 
Volterra,  e  forse  alcuno  di  fuorivia.  Con  un  di  codesti  vescovi, 
forse  con  quel  di  Volterra,  è  un  giullare;  il  quale,  profit- 
tando dell'opportunità,  dà  di  piglio  alla  vivuola  o  alla  rota, 
e  si  propone  di  lodare  l'ospite  illustre,  anche  per  buscarsi, 
se  gli  riesce,  la  mancia  d'un  cavallo.  E  principia  col  salu- 
tare l'eroe  della  festa,  il  vescovo  sennato,  luce  del  clero, 
più  dotto  che  filosofo  e  che  Catone;  e  rammenta  com'egli 
fosse  il  consigliere  e  l'amico  del  papa  morto  ("  el  papa 
Ugenio  1  volle  a  lato  per  suo  drudo  più  privato  „),  ond'avea 
migliorata  e  accresciuta  la  sua  diocesi.  Dopo  questo,  il 
giullare  allude  alla  dignità  cardinalizia  del  vescovo  ;  e 
perché  forse  ignora  quale  papa  l'elesse,  se  ne  sta  su  le 
generali  :  "  L'apostolico  romano  konsacrollo  in  Laterano  „  ; 
poi,  sapendo  che  il  vescovo  è  della  regola  benedettina,  in- 
sinua che  i  due  protettori  dell'ordine,  S.  Benedetto  e  S.  Ger- 
mano, lo  destinarono  al  soglio  di  Pietro.  —  E  appunto 
per  questo,  soggiunge,  oggi  vien  da  Lornano,  del  para- 
diso terrestre  di  Siena.  —  Era  un  complimento  alla  terra 
che  l'ospitava.  In  buon  punto  l'arguto  cantastorie  si  ri- 
corda il  nome  del  vescovo,  e  con  un'alzata  d'ingegno,  av- 
verte come  questi,  Villano  di  nome,  non  sia  tale  di  fatto  ; 
anzi  è  il  più  nobile  e  generoso  signore  {marchiscianó)  che 
mai  fosse  al  mondo.  E  qui  la  stoccata  giullaresca:  —  se 
mi  dà  cavai  balzano,  lo  mostrerò  al  signor  mio,  a  Gal- 
gano, vescovo  della  città  di  Volterra  — . 


LA   SIRVENTESCA    d'uN   GIULLARE   TOSCANO  143 

E  come  nulla  è  stimato  tanto  efficace  alle  buone  opere, 
quanto  l'esempio,  così  racconta  il  giullare  d'un  caso  occor- 
sogli alla  corte  d'un  altro  prelato,  Grimoaldo  o  Grimal- 
desco,  com'egli  lo  chiama,  vescovo  d'Osimo.  Prima  ne  de- 
scrive il  fasto  : 

cento  cavaler  à  a  desco: 

di  nun  tempo  (=  di  niun  tempo)  non  ri[n]cre8Cono, 

an(,n  pla^^ono  e  abelliscono  ; 

dopo  ne  tesse  le  lodi: 

Ne  latino  ne  tedesco, 
ne  lonbardo  ne  francesco, 
suo  mellior  tenon  vestisco, 
tant'è  di  bontade  fresco, 

dove,  leggendo  il  terzo  verso  alquanto  diversamente  dal 
Monaci  e  dal  Mussafia,  io  tengo  vestisco  per  un  sostantivo 
da  veste  foggiato  sul  gusto  di  Grimaldesco,  latinesco,  nutia- 
resco,  e  intendo  :  —  ne  latino,  ne  tedesco,  ne  lombardo,  ne 
francese,  tengon  veste,  vale  a  dire  aspetto  o  sembiante  o 
decoro,  miglior  della  sua:  tanto  egli  ha  cera  d'uomo  dab- 
bene. —  La  parola  "  veste  „  con  tale  significazione  è  fre- 
quente nei  nostri  scrittori.  Andando  avanti  nella  sua  espo- 
sizione racconta: 

A  llu'  me[nan  barb]aresco 
corridor  cavai  pultresco; 

vale  a  dire:  gli  recano  un  poliedro  di  Barberia;  e  a  quella 
vista  esultan  gli  arcieri  ("  li  arcador  ne  vann'  a  tresco  „), 
sperando  che  il  cavallo  sia  dato  a  qualcuno  di  loro.  Ma 
del  loro  gaudio  sbigottisce  invece  il  giullare,  che  teme  di 
non  averlo  :  quando,  a  una  richiesta  di  lui,  la  quale  è  age- 
vole indovinare,  il  vescovo 

rispos'e  disse  latinesco: 
stenettietti  nutiaresco. 


1  U  G.    A.    CESAREO 

Quest'ultimo  verso  non  è  troppo  limpido.  Si  capisce  che 
il  cantastorie,  volendo  imitare  il  "  latinesco  „  del  vescovo, 
ci  diede  quello  stenettietti  (se  pure  fu  trascritto  bene)  che 
non  si  sa  come  interpretare.   La  proposta  del  Monaci 

sten'  e  tietti  nutiaresco, 

la  quale  anche  s'aiuta  d'uno  stene  del  trovatore  Inghilfredi, 
è  iinora  la  piìi  ragionevole  ^)  :  soltanto  in  quel  verso  non 
iscorgerei  alcuna  ironia,  come  non  ve  la  scorse  il  Mussafia  ; 
e  intenderei  senz'altro  che  il  vescovo  regalasse  il  poliedro, 
dicendo  bonariamente  al  giullare:  —  Tieni  (=  stené)  e 
tienti  allegro  (=  tietti  nutiaresco).  Per  la  qual  cosa  il  giul- 
lare protesta  ch'ei  non  ismetterà  mai  di  benedire  quel  buon 
signore,  finché  gli  duri  la  vita.  E  qui  la  sirventesca,  che 
sicuramente  sarà  stata  chi  sa  quanto  lunga,  rimane  inter- 
rotta sul  meglio. 

Ma  quel  Grimaldesco,  quel  Grimaldo  o  Grimoaldo  ve- 
scovo d'Osimo,  chi  era,  che  cosa  faceva,  perché  teneva 
una  corte  tanto  magnifica?  Eh,  l'avremmo  voluto  sapere 
anche  noi;  e  abbiamo  frugato  per  levarci  la  curiosità:  non 
siamo  venuti  a  capo  di  nulla  ^). 

')  Rendiconti  dei  Lincei,  1892,  1.  e,  p.  340. 

*)  Qui  son  costretto  d'appiccicare  una  nota,  su  le  bozze  di  stampa, 
a  questa  mia  interpretazione,  esposta  agli  studenti  dell'Università  di 
Palermo  nell'anno  scolastico  1899-900,  e  buttata  giù  per  gli  Studj  di 
filologia  romanza  nel  dicembre  del  1900.  Qualcuno  ha  creduto  trat- 
tarsi invece  di  quel  Grunaldesco,  che  fu  vescovo  di  Jesi  nel  1197,  il 
quale  anche  sarebbe  il  vescovo  senato  che  viene  da  Lornano.  E  Lor- 
nano  fu  pure,  fino  al  1249,  un  castello  della  diocesi  di  Camerino 
(ToERACA,  Su  la  pia  antica  poesia  toscana,  nella  Rivista  d' Italia, 
1901,  fase.  2°,  p.  229  sgg.)-  Ma  non  risulta  punto  ne  poco  che  quel 
Grunaldesco  (non  Grimaldo,  ne  Grimaldesco)  vescovo  di  Jesi,  venisse 
dal  castello  di  Lornano  di  Camerino,  o  ch'ei  fosse  stato  famigliare  di 
alcun  pontefice,  o  che  avesse  avuto  desiderio,  modo,  speranza  di  dive- 
nire sovrano  "  de  tutto  regno  cristiano  „.  Senza  dire  che,  come  s'è 
visto,  il  vescovo  della  prima  lassa  o  tirata,  e  quello  della  terza,  *  lo 
vescovo  Grimaldesco  , ,  così  d'improvviso  tirato  in  ballo  a  mo'  di  di- 
gressione, non  posson  essere  assolutamente  la  persona  medesima. 


LA   SmVENTESCA   d'uN   GIULLARE   TOSCANO  1^5 

Le  cronaclie  finquì  conosciute  non  recan  di  lui  fuorché 
il  nomo;  su  la  sua  riverita  persona  non  s'banno  notizie 
né  documenti:  colpa,  forse,  del  suo  vescovato  di  forse 
-<di  sei  anni  e  del  suo  naturale  troppo  benigno.  Se  non 
foce  altro  che  regalar  cavalli  ai  giullari,  siamo  giusti, 
non  era  poi  necessario  che  la  storia  tramandasse  il  grido 
delle  sue  gesta  ai  più  lontani  nepoti.  La  qual  cosa  non 
vuol  mica  dire  che  il  giullare  beneficato  non  avesse  a  te- 
nerlo per  uno  de'  più  munifici  vescovi  del  tempo  suo. 

Or  se  la  nostra  esposizione  è  attendibile  (e  niun  parti- 
colare filologico  0  storico  le  fa  contro  di  certo),  noi  sa- 
remmo riusciti  a  provare:  1"  che  la  sirventesca  è  tutta 
in  lode  d'un  solo  vescovo  di  passaggio  nel  luogo  dov'era 
accorso  il  giullare  ;  2"  che  colui  fu  Villano  Gaetani,  arcive- 
scovo di  Pisa  e  forse  pur  cardinale,  il  quale  si  recava, 
attraversando  la  diocesi  di  Siena,  nella  città  di  Roma  per 
un  conclave  ;  3'*  che  ciò  accadde  probabilissimamente  alla 
morte  d'Eugenio  III,  del  quale  Villano  era  stato  conter- 
raneo, famigliare  e  fautore;  4^  che  dunque  la  cantilena 
toscana  fu  composta  nel  1153  o  nel  1154,  e,  a  ogni  modo, 
non  più  tardi  del  1157;  5"  che  il  vescovo  di  Volterra,  forse 
andato  incontro  al  cardinale  e  presente  alla  festa,  fu  Gal- 
gano Inghirami,  mentre  il  Grimaldesco,  rammentato  per 
incidenza,  fu  Grimoaldo  vescovo  d'Osimo. 

E  questo  componimento,  insieme  con  la  testimonianza  della 
costituzione  normanna  ^)  e  col  Ritmo  cassinese,  rivela  an- 
cora una  volta  l'esistenza  d'una  poesia  popolesca  in  vol- 
gare per  tutta  Italia  avanti  l'imperatore  Federigo  di  Svevia; 
la  qual  cosa  rende  sempre  più  verisimile  la  nostra  antica 
opinione  :  che  la  poesia  d'arte  fra  noi  non  nascesse  per  vo- 
lontà dell'  imperatore ,  ma  si  sviluppasse  liberamente  a 
grado  a  grado  co'  poeti  di  popolo,  e  dall'imperatore  poi 
fosse  stata   soltanto  raccolta  e  onorata  nell'aula  siciliana. 

G.  A.  Cesareo. 

')  Cesareo,  Le  origini  della  poesia  lirica  in  Italia,  1899,  p.  31. 
Studj  di  filologia  ronìanza,  IX.  10 


DANS  QUEL  SENS  EN  FRANGE  ET  EN  ITALIE 

LE  BOUCHER 

EST-IL   LE   TUEUR    DE    "  BOUCS  „  ? 


Dans  les  Mcinoires  de  la  Société  de  linguìstique  de  Paris, 
XI,  126  ss.,  M,  Théodore  Reinach  a  appole  l'attention  sui'  la 
difficulté,  r  impossibilité  selon  lui,  sémasiologique,  de  tirer 
boucher  (prov.  hocliier)  de  houc  (prov.  hoc)  à  l'aide  d'un  sens 
primitif  "  tueur  de  boucs  ,,  :  "  Le  bouc,  écrit-il,  a  de  tout 
temps  été,  en  France,  un  animai  assez  rare,  peu  comestible, 
dont  ou  n'entretient  guère  que  le  nombre  nécessaire  pour 
saillir  les  clièvres.  Il  est  bien  question  parfois  de  boucs 
chàtrés  à  quatre  ans,  qui  jouent  un  róle  dans  l'alinienta- 
tion;  mais  ils  portent  un  noni  particulier,  menoun  ^),  N'est-il 
pas  surprenant,  dès  lors,  que  le  tueur  de  boucs  ait  été  un 
personnage  assez  connu,  assez  occupò  pour  que  son  noni 
ait  fini  par  devenir  synonyme  de  tueur  de  botali  en  ge- 
neral? Or,  cette  extension  de  sens  est  réalisée  dès  le 
XP  siècle  :  un  règlement  de  Fan  1022,  cité  par  Ducango, 
est  intitulé  De  jure  hucceriorum  et,  chose  curieuse,  panni 
les    animaux    énumérés    comme   devant   une  redevance  à 


')  Il  s'agit  de  pays  de  langue  proven9ale. 


DANS  QUEL  SENS  EN  FRANGE  ET  EN  ITAME  LE  BOUCHER  ETG.    147 

l'abatage,  ne  figure  précisémont  pas  le  bouc!  „  C'est  fort 
bien  :  pourtant,  le  parallelismo  de  l'italien  beccaio,  heccaro 
forino  sur  hocco,  que  M.  Keinach  n'ignore  pas  d'ailJeurs, 
doit  bieu  ótre  tenu  pour  concluant.  Aiissi  M.  Reinacli  s'est-il 
fait  un  devoir  de  s'informer  aiiprès  des  romanistes  pour 
savoir  coniment  ils  résolvent  la  difficulte'.  Et  voici  le  re- 
sultai de  sa  petite  enquète  :  "  On  pourrait  re'pondre  à  cette 
ol)jet'tion  ^)  en  pretendant,  cornine  le  fait  A.  Darmesteter, 
que  le  misérable  peuple  des  campagnes  au  moyen  àge  était 
reellement  réduit  à  se  nourrir  de  la  chair  coriace  et  mal 
odorante  du  bouc,  ou  eucore,  comme  me  le  propose  M.  Gaston 
Paris,  en  adniettant  quo  le  mot  hoc  ait  désigné  également  la 
eliòvre  et  le  chevreau  ;  mais  je  ne  connais  aucun  texte  qu'on 
puisse  invoqner  à  l'appui  de  l'une  ou  l'autre  hypothèse. 
D'une  part,  la  femelle  du  bouc  se  dit  chèvre  ou  hiqiie,  son 
petit,  chevreau,  hiquet,  boquet.  „  Evidemment,  M.  Reinach 
u'est  pas  satisfait  de  ces  essais  d'explication,  et  il  a  bien 
raison.  Tout  au  plus,  l'hypothèse  de  M.  G.  Paris  est-elle 
capable  d'emporter  le  suffrago  de  tei  ou  tei  romaniste,  qui 
pourra  prétendre  quo  "  le  bouc  „,  le  mot  étant  entendu 
d'une  manière  generale,  à  la  fa^on  des  naturalistes  par 
exemplo,  designo  l'espèce  et  signifie*tout  à  la  fois  le  bouc, 
la  chèvre  et  le  chevreau,  que  le  "  tueur  de  bouc  „  (je  mets 
il  dessein  le  mot  au  singulier)  faisait  à  l'origine  le  com- 
uierce  de  tout  sujet  de  l'espèce  caprine  et  qu'à  cette 
espèce  peut-ètre  se  limitait  son  négoce.  Mais  tout  cela,  on 
le  sent  bien,  est  fort  conjectural,  et  memo,  disons-le,  iii- 
vraisemblablo,  respèce  bouc  n'étant  pas  en  definitive  une 
espèce  fondamentale  de  l'alimentation. 

Au  lieu  do  chorcher  à  trouver  du  sens  do  "  tueur  de 
l)oucs  ^,  ([ui  est  assuré  par  l'ital.  beccaio,  uno  explication 
plausible,  M.  Keinach  s'est  engagé  sur  une  piste  fàcheuse. 
Il  est  touibè  sur  *hucularius,   "  le  tueur  de  huciilae  „,  ou 


')  Celle  qui  vient  d'ètre  transente  plus  haut. 


148  P.   MARCHOT 

de  génisses.  Ce  n'ost  pas  avoir  la  main  heureuse.  Le 
boucher  est  à  tout  le  moins  aussi  peu  le  tueur  de  génisses 
que  le  tueur  de  boucs,  si  l'on  prend  ce  dernier  mot  au  sens 
d'animaux  miiles,  adultes  et  propres  à  la  reproduction.  La 
génisse  est  sur  le  point  de  devenir  un  animai  de  rapport, 
elle  peut  faire  à  son  possesseur  un  veau  qui  sera  de  profit  et 
elle  lui  fournira  du  lait.  Ce  n'est  rien  moins  qu'un  animai 
de  boucherie.  Sa  chair  du  reste  ne  vaut  ni  celle  de  la  vache, 
ni  celle  du  ba?uf,  ou  méme  du  taureau:  le  consommateur 
trouve,  en  la  dégustant,  que  ce  n'est  plus  du  "  veau  „  et  que  ce 
n'est  pas  non  plus  du  "  bceuf  „.  Disons  aussi,  en  passant,  que 
l'on  ne  pourrait  songer  davantage  à  buculus,  bouvillon,  lequel 
désigne  un  jeune  sujet,  qui  va  étrc  susceptible  de  rendre  des 
Services  comme  bète  de  trait,  que  l'on  ne  penserait  en  tout 
cas  jamais  à  utiliser  comme  animai  de  boucherie,  avant 
qu'il  n'ait  atteint  son  maximum  de  croissance  et  de  poids, 
en  d'autres  termes  qu'il  ne  soit  devenu  un  "  boeuf  „.  Tuer 
sa  génisse  ou  son  bouvillon  serait  pour  le  paysan  manger 
son  blé  en  herbe.  Mais  la  phonétique  (à  laquelle  il  faut  tou- 
jours  en  revenir)  est  encore  ce  qui  permet  de  faire  à  bu- 
cuLARius  l'objection  decisive.  M.  Reinach  est  obligé  de 
poser  un  *buccularius  avec  deux  e  d'après  le  bas-latin 
BuccuLA.  Or  BUccuLA  est  après  tout  une  graphie  de  la  basse 
epoque,  c'est  une  incorrection,  une  fante  d'orthographe  en 
somme,  dépourvue  de  toute  espèce  d'importance.  Ensuite, 
M.  Reinach  est  obligé  d'admettre  que  les  sujets  parlants 
sentaient  ce  *buccularius  comme  un  derive  de  diminutif, 
et  qu'ils  ont  trouvé  convenable  de  lui  substituer  un  derive 
tire  d'un  primitif  faussementreconstitué:  *bucca,*buccarius. 
Que  do  complications!  Et  pourquoialors  nulle  part  dans  toute 
la  Franco  trace  de  *buccularius,  la  première  forme  en  date? 
Sans  compter  que  l'impossible  *bucculakius  serait  devenu 
déjà  en  lat.  vulg.  *bucclarius  et  comme  tei  aurait  été  per(,'u 
difficilement  comme  derive  d'un  diminutif.  Mais  écoutons 
M.  Reinach.  Aussi  bien,  ce  qu'il  dit  ne  manque  pas  à  l'occasion 
d'une    certaine    gaité:    "  Bucul    ARiusn'est    pas  mort  non 


DANS   QUEL   SENS   EN   FRANGE   ET   EN    ITALIE    LE   BOUCHER   E  l'C         149 

plus  ').  quoiqu'il  ait  bien  cliangé  en  route.  Il  est  vrui  que 
do  BucuLAiiius,  lUTCLAEius  ii'aurait  janiais  pu  naitre  directe- 
nient  que  heugUer  ou  buglier,  qui  est  inconnu,  à  moins  qu'il 
Il  ait  survécu  dans  le  noni  propre  Bouf/Ié.  Mais  à  une  cer- 
taine  epoque  ce  mot  parait  avoir  redoublé  le  e  en  abré- 
geant  le  ii:  e' est  un  plu'iiouiène  de  compensation  encore 
mal  étudié,  aiu[uel  la  langue  fran(,'aise  doit  des  doublets 
intéressants.  Ainsi  cupa  "  cuve  „  et  cuppa  "  coupé  „.  Buc- 
cuLARius,  ainsi  orthographié,  se  lit  dans  des  glossaires 
allemands  du  XVP  siècle  avec  la  traduction  Olisinnr 
(:r=  Oehsner).  Dans  buccularius  l'instinct  populaire  sentait 
un  diiiiinutif,  sans  se  rappeler  que  le  primitif  était  bovem, 
quoique  celui-ci  eùt  survécu.  Le  jour  oìi  l'on  a  voulu  ra- 
mener  le  diminutif  à  une  forme  plus  siinple,  on  s'est  in- 
spirò, par  une  fausse  analogie,  des  mots  vaccarius,  por- 
I  \Rius  (oìi  le  r  appartieni  an  radicai),  et  l'on  a  créé  de 
toutes  pièces  buccarius.  Gomme  ce  mot  se  confondait  pour 
ra?il  et  pour  l'oreille  avec  buccarius  "  le  tueur  de  bucci  „ 
(de  boucs)  -),  du  confluent,  si  je  puis  dire ,  de  ces  deux 
BuccARiT.  serait  né  notre  mot  boucher,  sur  lequel  l'italien 
a  ensuite  "  calqué  „  beccaio.  „  Je  crains  bien  que  les  rai- 
sonnements  de  M.  Reinach  ne  convainquent  personne,  j'en- 
tends  des  romanistes,  Je  ne  voudrais  pas  surtout  déparer 
par  un  commentaire  le  trait  de  la  fin:  F  ital.  beccaio 
"  calqiu'  „  sur  le  fr.  boucher,  compris  comme  vonant  de 
bone.  Les  Italiens,  avant  de  créer  leur  beccaio,  prennent 
soin  de  s'informer  comment  les  clioses  se  sont  passées  en 
Franco,  ils  apprennent  qu'on  y  dit  boucher,  lequel  ne  peut 
naturellement  se  dériver  que  de  bone,  et  ils  forgent  leur 
mot!   Mais  passons    et  revenons  à  notre  sens   de    "  tueur 


')  Pas  plus  qin'  KijcuLAUE,  (l'oìi  M.  Rt'inach  juge  à  propos  de  tirer 
bi  ugler. 

*)  Alors  il  3'  avait  donc  des  gens,  cxer^ant  ce  métier:  en  ce  cas,  on 
ne  voit  pas  la  necessitò  de  recourir  à  la  création  de  *bucculauius, 
la  question  est  résolue. 


150  P.  MARCHOT 

de  boucs  „,  étrange  assurément.  mais  pourtant  assuré  par 
l'italien.  Il  y  a  peut-étre  moyeu  de  l'expliquer. 

Le  bouc  n'est  pas  un  animai  qu'on  cliàtre  pour  l'élever, 
l'ongraisser  et  ensuite  le  tuer,  comme  on  i'ait  par  exemple 
du  petit  taureau,  du  jeune  porc,  du  jeune  belier.  On  ne  le 
garde  que  pour  la  saillie  des  chèvres,  comme  reproducteur, 
pour  la  conservation  de  l'espèce.  C'est  déjà  dire  l'effroyable 
hécatombe  qu'on  fait  forcément  des  jeunes  sujets  màles. 
Car  enfin  il  nait  naturellement  autant,  ou  ìi  peu  près  au- 
tant,  de  petits  chevreaux  màles  que  de  petites  chevrettes. 
Or,  qu'est-ce  qu'un  jeune  chevreau  male,  sinon  un  bouc, 
et  qu'est-ce  qu'une  jeune  clievrette,  si  ce  n'est  une  chèvre? 
Car,  si  on  le  considero  du  point  de  vue  du  sexe,  dès 
l'instant  oìi  il  a  ouvert  ses  yeux  à  la  lumière,  le  petit 
chevreau  est  ou  un  bouc  ou  une  chèvre,  tout  comme  le 
petit  porc  est  verrat  ou  truie,  le  petit  agneau  bélier  ou 
brebis,  le  petit  veau  taureau  ou  génisse,  et  le  jeune  poulain 
étalon  ou  cavale. 

Le  boucher  n'est  donc,  dans  le  principe,  que  le  tueur  des 
tout  jeunes  boucs  qui  viennent  de  naìtre,  les  femolles 
étant,  règie  generale,  conservées  pour  fournir  du  lait  et 
pour  reproduiro.  On  sait  que  dans  beaucoup  de  pays  la  chair 
du  petit  chevreau  est  regardée  comme  particùlièrement  de- 
licate, do  memo  que  celle  du  petit  cochon  de  lait  ^). 

Le  boucher  n'est  donc,  en  definitive,  quo  le  maiselier  qui 
tient  et  débite  la  chair  delicate  des  houcs,  j'entends  des 
tout  jeunes  boucs.  Mais  pourquoi  les  maiseliers  qui  tenaient 
cet  article,  cette  spécialité  ')  auraient-ils  abandonné  leur  noni 

')  Le  statut  de  Pontoise  de  1404  dit  en  parlant  des  bouchers  : 
"  Tous  boucqs  et  chèvres,  se  ilz  ne  sont  de  lait,  ne  se  doivent 
vendre  ,  (Gite  par  M.  Reinach,  p.  127  note). 

^)  Aux  bouchers  tenant  cette  spécialité  les  statnts  de  Montpellier 
de  1204  intcrdisent  la  vente  de  la  viande  de  niouton  en  general, 
pour  empt'cher  la  frauda,  soit  que  le  "  chevreau  „  fiìt  considéré 
corame  supérieur  ài'"  agneau  ,,  ou  1'  "  agneau  ,  au  "  chevreau  ,  : 
"  Ni  ci  raazel  de  bocaria  sia  veududa  carn  de  feda  ,  (Gite  par 
.Meli  inach,  p.  128,  n.  2). 


DANS  QUEL  SENS  EN  FRANGE  ET  EN  ITALIE  LE  BOUCHER  ETC.    151 

antique  et  traditionnel  pour  on  preiuire  un  nouveau?  Af- 
faire do  modo  ot  de  suobisme  sans  doute;  c'était  peut-étre 
aussi  une  fagon  de  reclame.  Ne  voyons-nous  pas  l'ancien 
barbier  devonir  au  XVIV  siede  le  perruquier,  de  nos  jours  le 
coiffeur  *),  et  mème  dans  les  pays  de  langue  allemande  le 
frìseur  {\)\  l'antique  "  sueur  „  de  venir  le  corc?o)2m'er,  l'ar- 
tisan  en  cuir  de  Cordone,  et  de  nos  jours  le  bottier,  le 
chaussi'ur;  le  menuisier  remplacé  par  Vébéniste;  le  tavernier 
par  le  cabaretier,  puis  le  cafetier;  l'aubergiste  par  Vhòtelier; 
le  boutiquier  par  le  commercant  ;  l'apothicaire  par  le  p1ia7'- 
mncien;  le  lunetier  par  Vopticien;  l'ompaillour  par  le  ned u- 
ralisU'-,  le  quoux  par  le  cuisinier;  c'est-à-dire  l'initió  à  l'art 
de  cuisine,  de  nos  jours  par  le  chef  (des  gens  de  ser- 
vice),  etc?  On  pourrait  allonger  cotte  liste.  Pour  ótre  édifié 
à  ce  sujet,  on  n'a  qu'à  ouvrir  le  bottiu  ou  se  promener 
dans  une  rue  de  grande  ville  en  lisant  les  enseignes. 

Le  galicien  pour  "  boucher  „  a  buxeo,  c'est  le  mot  em- 
prunte'  au  fran9ais  assez  tardivement,  quand  ì'r  était  déjà 
tombée.  Celui-ci  aussi  sans  doute  a  étc  motivò  par  la  mode: 
c'est  ainsi  qu'on  commence  à  trouver  dans  certaines  grandes 
villes  de  langue  frangaise  tediar  ou  liair-elresser.  Quant  à 
l'ancien  espagnol  huchin,  bejchin,  boepiin,  au  catalan  butxi, 
boxti,  au  german.  bocho,  bochero  ^),  qui  veulent  dire  tous 
"  bourreau  „,  ils  n'ont  absolument  rien  à  faire  avec  le  fran- 
(;ais  boucher. 

N'oublions  pas  une  dernière  preuve  de  l'étymologie 
boucher  <bouc  fournie  par  M.  Reinach  lui-méme:  "  M.  Paul 
Meyer,  dit-il,  me  cite  ce  vers  tiro  du  roman  de  Vespasien: 

Et  aovrent  et  fendènt  coni  le  bone  fet  bochior  ^)  ,. 


')  Peut-ótre  aiiroiis-nous  bientòt  le  posticheur,  celui  qui  tient  les 
postiches. 

')  Baist,  ZtAchr.  de  Gr(>ber,  V,  239.  Le  dictionnaire  de  Korting 
(1403)  attribue  erroiiément  à  l'ancien  espagnol  le  sens  de  "  bouclier  „. 

^)  Sans  doute  une  faute  pour  bochiers. 


152  P.  MARCHOT 

Postscriptum. 

Au  sujet  du  galicien  buxco,  j'ai  consulte,  quand  ce  petit         ; 
article  était  déjìi  redige,  M.  lo  professeur  Baist,   leqiiel   a  ', 

eu  la  complaisance  de  m'écrire  ce  qui  suit  (je  traduis  de 
l'allemand):  "  Buxeo,  carnicero,  el  quo  mata  las  reses  y 
reparte  la  carne  ò  la  vende.  Cuvoiro  Piiìol,  Diccion.  (/al- 
lego, donne  ce  mot  comme  vivant  et  son  indication  n'est 
pas  suspecte.  C'est  sans  conteste  un  emprunt,  -eo  n'existant  i 
pas  dans  des  nomina  agentis;  sa  forme  et  son  sens  le  sé-  mi 
parent  de  hochero  bochin.  Le  mot  ne  se  rencontre  pas  en 
proven9al  d'une  fa^on  sùre  après  le  XP  siècle,  on  ne  peut 
penser  qu'au  fran9ais  à  cause  de  ts  >  s  et  de  l'amuissement 
de  Vr  finale.  L' emprunt  n'est  donc  pas  ajitérieur  au 
XVP  siècle,  il  est  singulièrement  isole  et  tardif,  mais  à 
expliquer  par  l'influence  continuo  du  passage  de  pèlerins 
dans  un  pays  qui,  en  dehors  de  la  route  suivie  par  les 
pèlerinages,  n'a  pas  possedè  d'industrie  (geschaftsleben) 
bourgeoise  „.  L'explication  de  M.  Baist  est  évidemment  la 
benne. 

Paul  Marchot. 


PROPOSTE  Dì  CORREZIONI  ED  OSSERVAZIONI 
Al  TESTI  PROVENZALI  DEL  MANOSCRITTO 
CAMPORL 

Mi  si  affacciarono  alla  mente  queste  proposte  qnasi  tutte 
allorch'ebbi  a  scorrere  lo  bozze  del  Bertoni  per  licenziarle 
alla  stampa  apprestatane  pel  fascicolo  precedente  di  questa 
Rivista.  Quelle  che  qui  pubblico  avrei  voluto  meglio  me- 
ditare ed  altre  tentaine;  ma  l'agio  e  il  tempo  mi  manca- 
rono e  mi  mancano.  Le  dò  quindi  fuori  così  come  sono, 
considerando  che  almeno  in  qualche  caso  esse  varranno  ad 
agevolare  l'opera  d'altri  che  intenda  a  restituir,  tutti  o  in 
parte,  essi  testi  nella  loro  genuina  lezione. 


I,  II,  2.  1.  no'  n;  4.  coiT.  q'enlre  gens'ì  —  iv,  1.  corr.  qe  Ja  vi  [engati], 
secondo  8ug<?eriscono  il  senso  e  il  riscontro  di  un  verso  di  Raimon 
lordan  in  Appel,  Prot\  Lied,  aus  Pur.  Handschr.,  p.  286  .  .  .  servirai  de 
bon  cor  A  tal  doinna  qxe  no  cuz  quem  enjan  ;  2.  Poiché  garnitz  è  già 
in  posizion  di  rima  alla  st.  ii,  2,  sarà  qui  da  leggere  :  garitz'ì  Cfr.  guerir 
coir  identico  valore  presso  lo  stesso  C.  in  II,  vii,  4;  e  qui  il  senso 
sarebbe:  "  Questa  non  penso  già  che  m'inganni,  [anche]  se  io  non 
sia  da  lei  guarito  „  ;  6.  qei  =  quid?  Cfr.  R.  lordan,  in  Appel,  op.  cit. 
p.  283:  e  per  quey?  (in  posizion  di  rima).  —  v,  3.  corr.  enrequitz'ì 
(cfr.  il  n.  II,  V,  4);  4.  corr.  e  lai  serai  eu  Va  coman?  Cfr.  lo  stesso 
Cercamon,  in  Quant  Taiirn  doussa,  v.  38:  Lo  dia  quem  pres  a  coman 
(presso  Appel,  Chresth.,  p.  53).  Per  l'antitesi  tra  il  lai  di  questo  e  il  sui 
del  precedente  verso  non  sarà  inopportuno  citare  a  riscontro  II,  vii,  4. 

II,  I,  3.  corr.  M[u]et7[Z].  —  ii,  2.  corr.  laissarai'i  —  iii,  7.  corr.  pne'i 
—  IV,  1.  (che  veramente  dev'esser  2).  die]  corr.  dir;  4  (5).  Piuttosto 
che  il  fui,  proposto  dal  Bertoni,  sarà  da  supplire:  [ce\la,  o  [«]  la, 
colla  risultanza  d'un  costrutto  ellittico  che  non  avrebbe  nulla  d'inve- 
rosimile? —  V,  4.  corr.  enrequir. 


154  CESAHE    DE    LOLLIS 

IH,  I,  6-7.  Leggi:  Q'cn  non  ni  joi  ni  non  Vadcs  (1"  ps.  ind.  pres.  di 
adesar),  Ni  de  sa  compaigmi  nom  lait  —  n,  4.  Jonitz  e  faig[z]  fraing 
e  dechai]  Cfr.  Bonifiiei  Calvo  in  Afpel,  Cltr.  p.  79,  vv.  51-2:  Qi<c 
SOS  vaìenz pretz  nos  fraingnha  Nis  dcchaja  ...  —  iii,  3.  corr.  d ruderi' un; 
6.  corr.  Qi  [a]  gìazi  fcr  (non  volendo  fermarsi  a  fai  =  fa,  fabbrica, 
che  pure  non  stride  troppo  nel  testo,  o  a  un  gìazi  aec.  alla  dipen- 
denza di  ferir  che  ricorderebbe  il  legittimo  colp  ferir,)  a  glazi  cs 
Feritz  d'eis  lo  seu  colp  mortauì  S'avrebbe  così  la  traduzione  dell'evan- 
geleo  :  "  qui  gladio  ferit,  gladio  perit  „.  Cfr.  a  ogni  modo,  pel  sostanziale 
riscontro,  quel  che  all'identico  proposito  si  legge  sotto  il  nome  di 
Marcabru  e  Peire  d'Alvoruhe  in  Mahn,  Gedichte,  221,  st.  5*;  e  Canz.  A, 
n.  1,  st.  S*.  —  VII,  3.  corr,  genzor;  6,  Ve  una  sillaba  di  più,  e  manca 
atfatto  il  senso.  Corr.? —  vm,  1.  corr.  diguas  e  leggi  la  ves;  3.  corr. 
mortz. 

IV,  II,  1.  corr.  Remazitt;  3.  leggi:  7irn*;7/«,  nome  proprio,  pel  quale 
cfr.  Chans.  d.  la  Croisade  des  Alb.,  v.  3926;  4.  leggi:  s'a  longu[s  ieu\ 
sai  estati,  e  cfr.  iii,  4,  dove  ritorna  la  frase  :  s'a  lonjas.  —  iii,  6.  leg- 
gendo, col  ms.,  qe  niolt  per  fon  genia  sa  fis,  potrebbe  star  qui  il  per, 
nonostante  la  sua  attiguità  al  verbo,  a  rinforzar  l'avverbio  quanti- 
tativo che  lo  precede?  (cfr.  Diez,  Gr?  771).  —  iv,  4.  leggi:  fel 
liam.  —  v,  2.  corr.  panbre;  5.  corr.  q'al  ver  afìc  =  al  giudizio 
finale;  ed  è  frase  che  non  appar  qui  la  pi'ima  volta,  quantunque  non 
ne  tengan  conto  ne  Raynouard,  Le.v.  Rom.,  m,  321  ;  ne  Levy,  Stipplem. 
Worterb.,  I,  26.  Cfr.  Marcabruno  in  Canz.  A.  cit.,  n.  57,  vv.  16-18  :  Al 
ver  afte,  Segon  la  penedenssa,  N'auran  perdo.  E,  ibid.  n.  59,  vv.  1  seg. 
Seigner  n' Andric,  Al  ver  afte,  Mout  etz  d'aver  secos  e  plans.  E 
Guillem  de  Saint  Leidier  {Il  Canz.  A,  n.  375,  v.  40:  Visqnerieit  pois 
entroc'  al  t>er  afìc.  —  vi,  3.  corr.  fer  ros  dea  esser  et  esqiu.  I  due 
aggettivi  van  spesso  insieme,  come  provan  gli  esempi  di  Marcabru 
{Il  Canz.  A,  ii.  74,  vv.  21-2):  A,  eiiin  fon  tant  fer  ni  esqin  Q'estrains 
qises  en  aiitrui  nini)  di  Saill  de  Scola  (in  Lex.  Rom.,  in,  191  ^):  Anceis 
nies  esquive  fera,  e  di  Giraldo  di  Boriieill  (in  Canz.  A.  cit.,  n.  24, 
vv.  9-10):  Tant  m'es  esquira  e  fera  La  perda  ti  dans  ;  6.  n'Anfos  sarà 
Alfonso  (liordano  di  Tolosa,  che  appunto  insieme  col  conte  (ìnglielmo 
dì  Poitiers  ricorda  anche  Marcabruno  {Il  Canz.  A.,  n.  66,  vv.  25-26, 
e   cfr.    n.   73,  vv.    37-38).   —  vii,    1.   Corr.    France[i]s  ;   2.    corr.  dea  ; 


PROPOSTE   DI   CORREZIONI   ECC.  155 

2-3.  Loggi:  ...io  reis  Cui  \el]  laisset  la  terra  el  creis.  Qvn  creis  axrh 
valore  di  sost.  ooiraccozionc  di  "  prole  „,  notata  dal  Levv,  op.  cit.,  1, 
405,  col.  1",  s.  il  n.  2;  e  si  riferirà  ad  Eleonora  d'Aquitania,  che 
suo  padre  (ìuglielmo  X,  morto  il  9  aprile  1137  in  Saut'Jacopo  di 
Compostella  (cfr.  st.  ix ,  vv.  5-6  :  Saint  Jacme  memhreus  del  baro 
Qc  devant  vos  Jai  jìelegris),  designava  nel  proprio  testa- 
mento sposa  al  figliuolo  del  re-  di  Francia.  Poiché  essa  recava  in 
dote  Aquitania  e  Poitou,  bene  a  ragione  e  con  lodevole  concisione 
dice  il  poeta  che  Guglielmo  lasciò  al  re  di  Fi-ancia  "  i  proprj  dominj 
e  la  propria  prole  ,;  6.  corr.  Serraz[e^is,  dove  -eis,  ch'è  da  -enus,  è  ben 
piìi  singolare  che  nei  casi  notati  dall'ERDMANNSDORFB'KR,  Reimivorterhuch 
der  Trobadors,  Berlin,  1897,  p.  9.  —  vm,  4.  L.  dese.  —  ix.  2.  L.  n'  Eblo, 
t'  vi  si  tratterà  di  Ebolo  II  di  Ventadorn;  4.  de  pain\  corr.  d'Espainh'; 
che  quelli  di  Spagna  saran  chiamati  anch'essi  a  piangere  il  conte, 
perch'egli  morì  in  terra  loro. 

II. 

I,  I,  2.  louuer]  corr.  lo  riu?  (cfr.  Quan  lo  r  i  u  s  de  la  fontana 
S'esclarzis,  presso  Stimminq,  Der  Troubadour  laufre  Radei,  p.  45).  — 
II,  1.  Siiìirei]  corr.  faire'i  —  in,  5.  corr.  l'enclauza.  —  v,  4-5.  ...  ver 
Li  dirai  q'atitressi  menta.  Comunque  s'abbia  a  itìtendere  il  passo,  ben 
ricorda,  al  suono,  l'altro  pur  di  Rndello:  Ane  noni  dix  ver  ni  nom 
menti  (in  ediz.  cit.  p.  54). 

III. 

I,  I,  5.  trop  sarà  1*  ps.  sing.  pres.  ind.  di  trobar.  —  ii,  1-3.  Qe 
scienza  jauzionda  M^apres  c'al  fsoleilh  declin  Laxft  lo  jorn  e  l'osf  al 
inatin.  Di  questi  due  proverbi:  loda  il  giorno  al  cader  del  sole,  e: 
loda  l'ospite  (oste  V)  al  mattino,  non  è  traccia  in  Cnyrim,  Sprichicorter  ecc. 
Marburg,  1888.  Ma  evidente  è  il  significato  del  primo,  a  cui  oH're  liei 
riscontro  lo  stesso  Marcabru,  scrivendo  altrove  (//  Canz.  A,  71,  vv.  17-18)  : 
Lo  sol.'i  al  maitin  soleilla  Kl  nivols  al  veftpre  muoilla)  e  non  troppo 
oscuro  quello  del  secondo,  che  riceve  a  ogni  modo  luce  dal  passo 
seguente  deWensenhnmen  di  n'Arnaut  Guilhem  de  Marsan  (presso 
Appel,  Chi:,  p.  165):  An.9  c'al  manjar  siatz,  Los  ajatz  doctrinatz 
[i  domestici],    Que   tot    can  obs  aura  Ajan  [gl'invitati]   tro    l'endema; 


i56  CESARE   DE   LOLLIS 

Candelas  e  ho  ri  Ajan  ivo  lo  mati.  —  ii,  5.  Ni  contra  musai  no 
mus].  Cioè,  forse:  uè  perda  tempo  con  ehi  vuol  penlei'ue.  E  proprio 
l'opposto  par  elle  voglia  dire,  in  linguaggio  consimile,  là  dove  serive 
(Il  Cam.  A,  n.  68,  v.  32):  Lo  musatge  ai  rendili  musan.  —  iii,  1-2.  Cai- 
la  uolenza  recoinda  A  semhlan  del  floc  marin]  corr.  redonda  (cfr. 
redounda  in  Mistral,  s.  v.)  ?  o  sarà  da  pensare  a  un  r  e  e  u  n  d  i  a  r  e 
rampollato  dal  recundre  che  lo  stesso  Mistral  allega  s.  v.  col  valore 
di  *  résonner  „?  11  senso  sarebbe,  correggendo  flot  (v.  ancora  Mistral, 
s.  V.):  "  che  viltà  moi-mora  alla  maniera  del  fiotto  marino  „,  e  ben 
s'accorderebbe  con  quel  che  subito  segue  intorno  alla  maldicenza 
dei  vicini:  "  per  il  che  io  accarezzo  il  mio  vicino,  e  non  vuo'  che 
abbia  a  susurrar  sul  mio  conto  cose  onde  mi  venga  il  nomignolo 
di  barbagianni  „;  3.  . . .  segnìioriii  ino  iiezin]  Quanto  al  rispetto  do- 
vuto al  cattivo  vicino,  cfr.  lo  stesso  Marcabru  nel  Canz.  A,  n.  54, 
vv.  13-16  :  Sorenz  de  pan  e  de  vi  Noiris  ries  honi  mal  vezi,  E  sii  tengiies 
de  mal  aire  Segiirs  es  de  mal  inaiti  ;  4  banda]  bandir,  nel  senso  di 
mormorare  „  manca  al  Lex.  Boni.,  ma  è  in  Levy,  Supplement- 
Worterb.  s.  v.,  e  col  preciso  valore  che  ha  qui  occorre  in  altro  passo 
di  Marcabruno:  CHI  qiie  per  marit  nois  fìza  Voi  c'oni  de  Ueis  parie  e 
bonda  (FI  Canz.  A  cit.,  n.  70,  vv.  22-3);  5.  caiis]  cioè,  barbagianni, 
manca  al  Lex.  Rom.  (cfr.  II,  392  '  e  II,  9  *)  uel  senso  traslato  e  bur- 
lesco di  "  marito  di  donna  infedele  „,  che  ha  il  fr.  cocu  (a.  fr.  coiis, 
cfr.  LiTTRK,  s.  cocu);  ma  è  accertabile  col  riscontro  del  provenzale 
odierno  (cfr.  Mistral,  s.  cougiiiéu).  —  iv,  1.  iauzionda]  h  già  in  po- 
sizion  di  rima  nella  st.  ii,  v.  1.  Corr.  dunque:  sazionda  =  satolla 
(cfr.  suzion  presso  il  medesimo  Marcabru,  in  Mahn,  Gedichte,  n.  199,  v.  3); 
4.  leggi  :  Q'evejos'e  dizironda;  5.  receuen]  corr.  reven.  —  v,  2-3.  ...c'a 
plen  camin  'Segon  ja  li  rie  san  train.  Intendi  :  "  che  in  piena  strada, 
cioè,  coram  popiilo,  i  potenti  proseguono  il  lor  modo  di  rivere  „.  Cfr.  lo 
stesso  Marcabru,  in  Canz.  A,  n.  74,  vv.  23-5  :  Mas  aras  s'en  san 
esbatidit  Si  qel  camin  descobertiu  Van  assegurat  e  plevit.  Si  potrebbe 
anche  pensare  ad  accordar  son  con  malvestatz  del  v.  2,  e  ne  verrebbe 
fuori  un  parlar  più  immaginoso;  ma  seguir  son  train  mi  suona  proprio 
come  il  fr.  alter  son  train,  e  il  valore  che  in  tale  interpretazione  è 
dato  a  train  è  in  qualche  modo  confermato  dall'uso  che  altrove  ne  fa 
lo  stesso  Marcabru:  (//  Canz.  A,  n.  54,  vv.  41-2)  An  lo  tondres  contrai 


PROPOSTE   DI   CORREZIONI   ECC.  157 

raire,  Marcabrus,  d'aquel  trahi.  —  vi,  2.  hosin]  dovrebbe  valor  qui  : 
rumore,  t'i^aeasso,  scandalo  (cfr.  Levy,  s.  hozinar,  I,  160);  3.  baboin] 
Non  si  anniderà  qui,  malamente  svisato,  il  bedoin  che  altra  volta 
occorre  presso  Marcabru  (cfr.  Bartsch,  Chr.*,  56,  3)  e  del  quale  non 
si  riuscì  a  determinare  il  valore  (cfr.  Stichel,  Beitriige  zar  Lexico- 
graphie  dea  <(Uprorenz(discJu'n  Verbions,  Marburg,  1890,  p.  21)?  Par- 
rebbe essere  il  soggetto  deìVaprionda  (profonda,  in  senso  osceno)  del 
verso  seguente;  5.  Leggi:  s'en gratis  =  se  ne  dispiaccia.  —  vii,  1.  clcnt 
segondit].  È  quella  che  in  un  componimento  tutto  marcabruniano 
attribuito  a  Peire  d'Alvernhe  (ma  cfr.  Zenker,  Die  Lieder  Peires 
von  Auvergne,  in  Roman.  Forsch.  XII,  653,  sgg.),  chiama  la  "  contra- 
ehiave  ,  :  Mas  ciìl  per  cui  hom  la  destreing  Port'al  braier  la  con- 
traclau  (cfr.  Il  Cam.  A,  n.  1,  vv.  11-12).  Ma  lo  stesso  Marcabruno 
altrove  (ibid.  n.  68,  vv.  34-5):  Tans  n'i  vei  dels  contraclaviers, 
Greti  sai  remanra  conz  entiers;  3.  porta  capei  corniti  conin]  Di 
"  cappello  „  è  questione  in  un  altro  passo  di  Marcabru,  dove  pure, 
come  qui,  è  questione  di  "  corna  ,  (cfr.  Levy,  s.  cornudel,  I,  372)  ;  ma 
esso  non  può  far  luce  su  questo,  dove  il  senso,  all'ingrosso,  è  chiaro, 
e  ben  si  conferma  l'esistenza  di  un  agg.  conin  da  con  =  ciinniis,  quasi 
dubbiosa  ancor  presso  il  Levy,  I,  369,  s.  corin,  quantunque  già  attestata 
da  altra  poesia  dello  stesso  trovatore  (cfr.  E  Canz.  A,  n.  54,  vv.  39-40): 
. .  .  un  no'n  vei  estraire  Moillerat  del  joc  coni.  —  viii,  3.  corr.  mo'h,  e 
intendi  tutto  questo  verso  col  seguente:  "  e  poiché  alcuno  per  mia 
opera  non  ne  desiste,  quel  che  non  fa  l'uno,  faccia  pur  liberamente 
l'altro  „.  11  "  tondere  ,  sta  qui  a  rincarar  l'azione  espressa  già  nel 
"  pelare  , ,  mentre  per  solito  si  mandan  piuttosto  insieme  *  radere  „ 
e  "  tondere  „.  Cfr.  Stimming,  Bertrun  de  Boni  *,  p.  277,  n.  al  v.  9  di 
n.  28;  e  il  mio  Sordello  di  Goito,  p.  250,  n.  al  v.  6  di  u.  Ili;  e  più 
opportunamente  ancora  lo  stesso  Marcabru,  in  Canz.  A,  n.  54,  vv.  39-41  : 
E  puois  un  no'n  rei  estraire,  Moillerat,  del  joc  coni,  An  lo  tondres 
contrai  raire;  5.  e  retierc  contra  ratis]  Qualunque  cosa  sia  venere 
(1»  ps.  ind.  pres.  di  revertir,  con  -e  da  -t  Ti  cui  precede  /•?)  raus, 
bisillabo  come  qui,  occorre  altra  volta  in  Marcabru  {Il  Canz.  A,  n.  66, 
vv.  40-1):  El  tertz  sahtis  Eis  de  rahus,  dove  parrebbe  aver  valore  di 
"canneto,,  non  remoto  da  quello  che  gli  attribuisce  Raynouard, 
Lex.  Rom.,  V,  49*.  Ma  non  sarà  superfluo,  in  tanta  incertezza,  alle- 


158  CESARE   DE   LOLLIS 

gare  a  riscontro,  se  non  altro  per  la  identità  materiale  ilclle  voci, 
il  passo  di  Raimbaut  d'Aurenga  presso  Appel,  Poésies  prov.  iiu'd. 
tirées  des  tnss.  d'Italie,  in  Rev.  des  langues  romanes,  XL,  410:  Bics 
hotn  torna  tosi  en  raus  Can  sufre  c'om  se  inerat>ill,  Qe  .  .  .  ,  dove 
I'Appel,  p.  411,  annota:  "  raits,  substautif  wr&a^  de  rausar,  v.  fr.  reusar, 
manque  dans  Raynouard  „  e  traduce  :  "  Un  homme  riclie  ne  doit 
point  soutFrir  qu'aucun  reproclie  fonde  soit  répandu  contre  sa  maison  „ 
—  IX,  1.  Corr.  Quii  vostre  domnei[s]  sahronda,  e  intendi:  "  che  il 
vostro  donneare  tlilaga  tutt'intorno  „.  Nel  Lex.  Rem.,  IV,  372  *,  è  notato 
solo  sobrondar;  ma  sabranda,  3*  ps.  sg.  ind.,  come  qui,  reca  il  Canz.  A 
in  altro  componimento  di  Marcabru  (n.  70,  v.  10;  secondo  C  però, 
in  Mahn,  Ged.  805,  sobronda);  e  sabrounda  reca  il  Mistkal  accanto  a 
subrounda  e  sabrounda  (s.  sabrounda).  2-3.  Leggi:  E  sembla  joc  azenin 
E  de  loc  en.  loe  ris  canin:  "  e  sembra  gioco  asinino,  e,  a  tratti,  riso 
canino  „.  Scrivendo  questi  versi  dovè  Marcabruno  aver  presente  la 
favola  dell'asino  che  volle,  a  mo'  del  cane,  far  delle  smancerie  al 
padrone;  che  ad  essa  favola  allude  altrove,  allo  stesso  proposito  dei 
"  moillerat  „  donneatori  {Il  Canz.  A,  81,  vv.  55-57):  Semblan  fant  del 
ase  cortes  Cab  son  seignor  cuidet  burdir,  C'ar  lo  rie  trepar  ab  sos  ches. 
Cfr.  anche  la  poesia  ivi  attribuita  a  Pietro  d'Alvernia,  sotto  il  n.  1, 
ai  vv.  13-16:  Viluns  cortes  eis  de  son  sen  E  moillerat  dompnejador ;  E 
Vases  cainjet  eissamen  Quand  vii  lebrier  ab  son  seignor.  —  x,  1-4.  Da 
questi  versi  di  tornata,  nei  quali  s'alhide  a  un'imminente  crociata, 
anche  questo  componimento  si  lascia  ricondurre,  come  i  più  di  Mar- 
cabruno, al  1147  circa  (cfr.  Mkvkr,  in  Romania,  Yl,  119  sgg.). 

lY. 

1,  I,  3.  E  las  tetinas  daras  ses  tot...]  il  B.  aggiunse  in  nota:  "  eud- 
bait  (V)  con  l  che  par  cancellato  „.  Forse  sarà  da  ri])ristinare  einharc, 
poiché  occorre  una  rima  in  -are,  essendo  lo  schema  e  le  rime  di 
queste  due  stanze  identici  a  quelli  della  canz.  di  Arnaldo  Daniello: 
Sim  fos  amors  e  del  drventese  dello  stesso  Bertrando:  Non  puosc 
mudar.  E  sarà  da  intendere  "  poppe  dure  (daras  tetinas  già  scrisse 
Bertrando  in  Bassa,  tant  creis,  v.  16;  ediz.  Stimming  ',  p.  203),  senza 
alcun  intoppo  „,  cioè  ben  lisce.  —  ii,  1,  pelarja]  1,  pel  arja  =  pelle 
arida?  (cfr.  se  non  Vatarja  del  v.  1  di  st.  i,  che  potrà  esser  da  *ad- 


PROPOSTE    DI    CORREZIONI    ECC.  159 

:rdiiir(\  il  Lerga  =  Léridìi,  di  Guglielmo  di  l^M-gadan,  presso  MilA, 
Los  Troi\  en  Esp.  ',  p.  317,  ii.''  18).  Singolare,  a  ogni  modo,  che  questo 
pelarja  minaeci  di  dar  da  fare  alla  critica  quanto  il  capelaja  dello 
stesso    trovatore    in    Bclh    in'es   quan  rei   camjar  ;     3.    enuart]  Corr.  ? 

'ceorre  una  terminazione  -are. 

Il,  I,  8.  Per  la  forma  duneha  e  per  la  combinazione  duscha  qiie  cfr. 
Li:vY,  Suppl.-  ìVtb.  I,  291'.  —  II,  2.  L.  davall'e  vai,  e  cfr.  Mistral, 
Tresor,  dov  e  notato  darala  col  valore  di  "  dévaler  ,,  "  descendre  „; 
4.  corr.  mentagut.  —  iii,  1.  noill  in  posizione  di  rima  è  già  al  v.  1 
di  st.  1  ;  5.  eeizinai]  corr.  aizinat  ?  e  interpreta  "  sono  alloggiati  „  ? 
(per  so  aizinar  con  tal  valore  cfr.  Bartsch,  Chi:*,  Gloss.,  e  Levt  , 
Suppl. -Wtb.  s.  aizinar).  E  il  passo  si  riconnetterebbe  forse  a  quel  che 
precede,  correggendo:  [on]  Ogiers,  Raols  de  Cainhrai,  \\  Rolantz  *, 
ab  sa  vertiit  (?)  ||  et  Olitners  son  aizinat,  ||  Estotz  ecc.  ;  6.  estols]  Sarà 
VEstoHtz,  eroe  carolingio,  ricordato  anche  da  G.  de  Cabreira  (cfr.  Mila, 
Los  Troradores  ^,  p.  277,  e  Birch-Hirschfeld,  Ueber  die  den  proven- 
zali.'ichen  Troubaudoars  bekannten  epischen  Stoffe,  p.  73).  E  forse  ba- 
8terel.>l)e  correggere  in  Estotz,  forma  che  quel  nome  eroico  pare  as- 
'  sumesse  nell'onomastica  provenzale  (cfr.  V Estotz  de  Linars  mentovato 
a4  V.  81^2  della  Crociata  contro  gli  Albigesi,  ediz.  Mevkii)     nos  ristain] 

■  >rr.  rou  'ì'risfain'^  —  iv,  2.  Mancan  due  sillabe.  Ma  la  seconda  parte 
del  verso  mi  parreblie  assicurata  in:  a  Bocianvai,  equivalente  a  un 
a  Roncesvau,  con  la  terminazione  così  svisata  a  cagion  di  rima.  E 
poiché  nel  precedente  verso  Lérida  e  Verneuil  parrebbero  denotar 
termini  estremi  in  direzione  di  sud  e  nord,  è  proliabile  che  nella 
prima  parte  del  v.  2  s'annidi  un  nome  di  luogo  che  rispetto  a  Roncis- 
valle  rappresenti  il  termine  opposto  in  direzione  di  est.  Alle  Alpi 
non  penserei,  che  sino  ad  esse  par  non  si  spingesse  volentieri  la  to- 
poiiiima.4ica  dei  trovatori  provenzali;  4-5.  Corr.  portava,  e  cfr.  lo 
stesso  B.  de  Boni  in  Mon  chant  fenisc  (ediz.  Stimmino  ',  p.  176):  Que 
tot:  lo  mons  vos  avia  elescut  Pel  melhor  rei  que  ano  portes  escut.  — 
v,  4.  corr.  i  auria[n].  —  vi,  1.  funi]  corr.  farà'?;  2.  hai]  corr.  ac'f; 
3.  Per  eschai  sost.,  col  valor  di  "  parte,  porzione  che  tocca  in  sorte  , 
rfr.  Lkvy,  Suppl.  -  1(76.  I,  137,  s.  escach;  5.  si]  corr.  so'ì;  6.  corr. 
'Sc[i]cn;  7.  Dividi:  ntcni'a'i 


160  CESARK    DE   LOLLIS 


I,  I,  3.  L.  non.  —  in,  1.  L.  meillur'en.  —  iv,  6.  corr Blanr  (ri- 
conlati  anche  nella  canz.  No  ningrada,  dove  A  oftre  anzi  la  miglior 
lozione  Blac)  e  Conian  el  Ros;  e  ct'r.  la  menzione  simultanea  di  Comain 
e  Jilac  in  Villkhaudouix,  Conquéte,  ediz.  Natalis  de  Wailly,  p.  259; 
7.  corr.  El  Ture  ci  pajan  ci  Pcrsan.  —  vi,  4.  Almassors,  con  valor 
di  titolo,  occorre  anche  in  Raimou  Vidal,  Abrill  issi'  e,  presso  Mila, 
p.  345.  —  VII,  3.  L.  Miles  de  Burbcin,  eh'  è  poi  il  Miles  (Milone)  // 
Braibans  così  spesso  ricordato  da  Villkharuouix,  op.  cit.,  e  cfr.  l'indice 
in  fondo  al  volume  per  le  varie  forme  in  cui    tal  nome   vi  occorre. 

VI. 

I,  I,  5.  corr.  nat  san  =  son  nato,  con  perfetta  antitesi  al  natz  fon 
di  st.  XI,  V.  6.  —  II,  5.  corr.  cavai.  —  vi,  2.  corr.  nostra  ?  —  vii,  3. 
gel]  corr.  ges'i  II  senso  dell'insieme  parrebbe  voler  essere:  "  lo  ac- 
cusai, e  non  davvero  a  torto,  di  tradimento  „.  —  viii,  3.  corr.  de 
faitz  non  i  ac  nien. 

II,  I,  2.  corr.  Gauseran  (cfr.  st.  v,  v.  5).  E  certo  lo  stesso  men- 
tovato nella  biografia  provenzale  di  Peire  Vidal  (cfr.  Chabaneau, 
Biogr.  p.  65),  non  che  in  un  sirventese  di  B.  de  Born  e  relativa  razo 
(cfr.  Stimming  ^  pp.  86,  88,  e  167).  Figura  anche  in  atti  relativi  a 
cose  di  Catalogna  dal  1191  al  1209  (cfr.  Colección  de  docuinentos  inéditos 
del  archivo  de  la  corona  de  Aragón,  Vili,  pp.  87,  89,  108);  4.  Pel 
visconte  Arnaldo  de  Castelbo,  alleato  di  Ponce  de  Cabrerà  (cfr.  st.  iv, 
V.  6),  v.  la  biografia  provenzale  di  G.  de  Bergadan  (Chab.  p.  98), 
VHist.  gén.  de  Languedoc,  VI,  198,  248,  e  Mila,  Los  Trovadores  en 
Espana  ^,  p.  289.  —  ii,  1.  corr.  dieii[s]  . .  .lo'ì  ;  3.  corr.  nol'i;  6.  le- 
ni ett.  —  III,  5.  corr.  li'n  valran.  —  iv,  4. /m]  cfr.  Lex.  Ro)n.,Y,  444, 
s.  ne;  5.  eu]  corr.  cn  ;  6.  Per  Ponce  de  Cabrerà  e  i  rapporti  ch'ebbe 
con  lui  il  Bergadan,  cfr.  Mila  ^,  p.  289.  —  v,  2.  Poig  Vet-d]  In  un 
atto  dato  ad  Acrimonte  nel  max'zo  1209,  publil.  in  Colección  de  doc. 
incd.  del  Archiro  de  la  Corona  de  Aragón,  Vili,  108,  trovo  le  firme 
di  un  P.  de  Podioriridi  e  un  G.  de  Podioviridi  (un  Arnaldiis  de  Po- 
dioriridi  figura  inatto  dell'agosto  1180,  ibid.,  p.  63)  che   bastano  ad 


PROPOSTE  DI   CORREZIONI   ECC.  161 

attestare  l'esistenza  di  un  tal  nome  di  luogo  nella  toponomastica  ca- 
talana. —  Ivi  trovo  pure  notato  un  Guillelmus  de  Cerveillone  (e  a  p.  34, 
in  atto  del  1162  figura  un  Ugo  de  Cerviliotie)  che  fa  riscontro  al  Cer- 
villoti  di  n"  III,  st.  V,  V.  2,  e  un  Berenguer  de  Petramola  chu  ci  ac- 
certa la  genuinità  del  Petramola  di  questo  stesso  n°  II,  a  st.  v,  v.  7 
(un  senescalcns  Bernardus  de  Perumola  occorre  in  atto  del  1208;  ibid. 
p.  111).  —  VI,  1.  Ponz  Ugz]  Certo:  Ugo  Pons  de  Mataplana;  e  cfr. 
oltre  il  pianto  dello  stesso  Bergadàn,  presso  Mila  *,  314-315,  la  nota 
dello  stesso  Mila,  op.  cit.  a  pp.  286-7;  3.  far]  corr,  fai;  7.  castellon] 
Nessun  nome  di  luogo  più  comune  di  questo.  Ma  non  sarà  superfluo 
rUevar  la  firma  di  un  Johannes  de  Colonia  capellanus  de  Castilione  in  atto 
del  giugno  1174;  Colección  oìi.yvol.  cit.,  p.  54.  —  vii,  1.  Cartoon']  Del 
visconte  di  Gardena  è  parola  nel  componimento  che  segue,  st.  1, 
V.  5.  Ma  sarà  egli  il  Raimón  Fole  proditoriamente  ucciso  dal  Berga- 
dàn nel  1174?  (cfr.  Mila  ^  p.  288). 

Ili,  I,  8.  corr.  cobrat,  se  broli  che  segue  è,  come  pare,  nome  di 
luogo  ;  9.  Guillem  Baimon]  Un  Guillelmus  Raimundi,  dapifer,  occorre 
in  un  atto  dell'aprile  1147  e  in  altro  del  luglio  1168  (cfr.  Colección  cit., 
voi.  cit.,  pp.  29  e  41);  10.  corr.  busch'en.  —  ii,  2.  Fra  tsing  e  qom  {=  com) 
suppl.  [per  valen]'h,  6.  corr.  anta;  7.  corr.  Bu[e]f.  —  m,  9.  L.  Vaterra. 
-^  IV,  S.  Berrd\  Nome  di  luogo  che  il  Bergadàn  mentova  anche  al- 
trove (cfr.  Talans  m'es  pres,  v.  24  ;  in  Mila  *,  p.  312)  ;  7.  corr.  cor- 
neilV  ;  8.  corr.  corbs  dreit[z]'i;  9.  corr.  el  lignei  ferra.  —  v,  1.  Ge- 
lida] Nome  di  luogo  che  occorre  anche  presso  Olivieri  il  Templare  ; 
cfr.  Mila  2,  p.  382,  e  p.  380,  n. 

yn. 

I,  i,  6.  Leggi:  q'enmanentis ;  8.  corr.  d'enoi  o  d'enueg.  —  ii,  5. 
corr.  clama,  invece  del  chamja  proposto  dal  Bertoni?  —  iv,  1.  corr. 
a  mes  \toi]  son...;  2.  corr.  creja;  4.  dolran]  corr.  tolranì;  5.  qe7i] 
corr.  qe  en;     7.  semble]  corr.  sebre. 

vin. 

I,  i,  4.  corr.  E  la  plus  avol  vos  a  me  g.;  5.  corr.  s'otn  a  si  dons 
l}orta[mas]  fin' amanza;  8.  leggi:  q'aqi.  —  ii,  5.  corr.  Vamei  eu  mais'ì 
E,  con  quel  che  precede,  il  senso  sarebbe  :  "  io  l'amo  più,  il  dieci  per 

Studj  di  filologia  romanza,  IX.  11 


162  CESARE   DE    LOLLIS 

uno,  ohe  mai  l'amassi  ,.  —  in,  8.  Supplisci:    Venjantz   \i  vensd\.    — 

IV,  3.  corr.  major  ;     5.  corr.  que  quim  ;     8.  corr.  Ja  [a]  Deu...  creenza.  — 

V,  6.  corr.  jagut;  7.  corr.  vencut.  —  vi,  2.  vetz.  vale  qui  "  vezzo  „, 
"  costume  „,  "  abitudine  „  (cfr.  Lex.  Rom.  V,  531  ');  5.  tant\  corr. 
aital'i',     6.  corr.  perdut;     7.  corr.  agut. 

II,  III,  1.  mi]  corr.  ni;     4.  corr.  Sitot.  —  vi,  1.  suppl.  [Ai]  Deus... 
Ili,  I,  4.  L.  trai  fe'i;       6.  corr.    sii;       8.   suppl.    qant   [eu]    viurai; 

10.  corr.  don  me.  —  ir,  3.  suppl.  [eu]  vos  ;  8.  ira]  corr.  ere  ?  —  in,  4. 
corr.  Xon  puesc  far  ìnon.  —  iv,  5.  ui]  corr-  ni;  7.  corr.  qeu.  —  v, 
3.  soppr.  e;     4:.  li.  larges'. 

IV,  i,  2.  L.  ame;     3.  corr.  cum;     5.  corr.  cum...  s'es  [es]pres...;     6.  L. 

me  te.  —  ii,  6.  corr.  noill.  —  ni,  2.  atan]  corr.  tan.  —  iv,  1.  suppl 

grieu  [m'es];  e  per  la  costruzione  grieu  m'es  car  cfr.  Guiraut  de  Bor- 
nelh,  presso  Kolsen,  G.  von  B.,  p.  86,  vv.  57-8;  6.  iois  uir]  corr,  loil 
tur.  —  V,  1.  L.   s'er;       2.  Un    punto   ammirativo  dopo    chauzimen; 

8.  Dividi  :  tan  ha  ? 

IX. 

I,  II,  3.  corr.  ...  hem pogratz. —  in,  4.  si  uos]  corr.  sius;     5.  L.  qu'ome'ì; 
7.  corr.    non'ì  —  iv,    1.    Interpungi:  avez.  Per  qe?;     6.  corr.  tant[z]; 

9.  L.  notiqam.  —  v,  4.  L.    m' i  ante    (3*  ps.    cong.  pres.  di   amenar); 

5.  corr.  eu[s].  —  vi,  1.  se]  corr.  ò«?  Mi  par  che  il  senso  lo  richieda, 
quantunque  già  ricorra  coll'identico  valore  avverbiale  a  st.  in,  v.  1. 

X. 

I,  I,  5.  Interpungi:  ,tan  nom  pes  ni  m'albir;     6.  uos]  corr.  vas.  — 

11.  2.  Interpungi  :  e,  qim  sona,  non  enten  son  lengatge  ;  e  cfr.  Folchetto 
di  Marsiglia  (Baetsch,  Chr.,'"  col.  121,  31  sgg.):  Qu'om  me  parla, 
maintas  vetz  s' esdeve,     Qu'eu  no  sai  que,     Em  saluda  qu'eu  non  aug  re  ; 

6.  Interpungi  e  corr.:  p>0''>'ti'^  m'  en  ai?  eu  non.  Qu''  auzit  ai  dire.  — 
IV,  3.  uisatge]  corr.  usatge;     6.  qieu  la]  corr.  q'  ieul. 

XI. 

I,  III,  3.  eìianz  e  qui  1'^  ps.  ind.    pres.  di  enanzar.    —   iv,    6.   corr. 
cors  {=  corpus)?  cfr.  il  v.  3  della  stessa  stanza.  —  v,  7.  L.  j^erdos. 

II,  ni,  8.  corr.  destreign  el.  —  iv,  3.  L.  qom  (=  quomodo)  s'eu  ten[c]; 
5.  L.  a  faire;     6.  L.  m'  atalen. 


PROPOSTE   DI   CORREZIONI   ECC.  163 

XII. 

I,  I,  2.  corr.  en  azir;     6.  corr.  s'  e[syau2Ìs.  —  ii,  4.  corr.  domn''  egals; 

5.  ben]  corr.  bes  ;     7.  iious]  corr.  vos.  —  iii,  3.  qcds]  corr.  gal. 

XIII. 

I,  III,  2.  L.  ama  on;  6.  corr.  que  a  niaint  s'esdeve'ì  1 .  h.  Brahnanz 
—  IV,  1.   corr.    coinda  e;        6.  qe  ve]  corr.  qe  [el]  ve. 

II,  I,  1.  corr.  .  . .  major  . .  .  chaitius;  3.  L. . .  Badocs.  —  ii,  1.  hrui\ 
corr.  brius;  7.  L.  laisera.  —  iii,  1.  corr.  Francis]  cavalier[s]  .  . .  nomi- 
natiu[s];  2.  Questo  verso  è  il  primo  d'una  ben  nota  canzone  di  Ram- 
baldo  di  Vaqueiras  {Grundr.,  392,  28);  3.  corr.  larc[s\  e  metenz  e  creis- 
senz.  —  IV,  1-7.  Correggerei  e  interpungerei  così:  lam  dizias,  Badocs, 
can  sias  {=  quando  si  fosse)  viu[s]  (vivo,  s'intenda,  come  anima  stac- 
cata dal  corpo  morto)  ||  Lo  qals  primer[s]  mori{^s]  ges  de  nos  dos  |)  Tornes 
a  l'autre.  Aitai  tengr'  ieu  a  vos  |j  .  Coissi  vos  pot  mortz  ni  al  retener,  \  ) 
Qe  no  sonest,  qan  vos  vi  en  sognian'i  II  laus  soner'  eu.  Er  ai  dig  un 
fati  gran.  ||  Amics,  ben  sai  qe  no'n  avetz  poder.  Il  penultimo  verso  po- 
trebbe anche  voler  suonare:  la  eus  soner\  eu  crei.  Dig  un  fail  gran? 
0  anche:  Ja.;s  soner'  eu;  crei  eu  dig  u.  f.  g. 

XIV. 

I,  I,  1.  fui]  corr.  sui;  2.  cfr.  il  verso  dal  Klein,  Der  Troubadour 
Blacassetz,  p.  12,  lasciato  fuori  come  spurio  nella  st.  1*  del  n.  VI  :  jE7 
gcrram  piai,  ses  jamais  en    trengar  (corr.  treugar)  ;      4.  corr.   ric[s]  ; 

6.  L.  qeren;  10.  Non  intendo;  ma  noto  che  sia  3"  ps.  sg.  cong.  ricompare 
a  st.  IV,  V.  5.  —  II,  2.  corr.  re[n]gatz;  3.  bruis,  pi.  di  bruit,  pel  quale 
in  questa  forma  e  con  questo  valore  di  "  mischia  „  cfr.  Levt,  Suppl.  - 
Worterb.  I,  170.  Per  la  somiglianza  poi  con  questo  e  il  precedente 
verso  cfr.  i  vv.  22-3  dell'altra  poesia  già  citata  di  Blacasset,  ediz.  cit.: 
Bel  in'  es  qu'  ieu  veja  en  un  bel  camp  rengatz  Els  es  ili  nos,  per  tal 
bruii  ajostatz;  4.  corr.  lanzos,  e  cfr.  il  lanso  che  il  cod.  R  offre  nella 
epistola  in  -o  di  Rambaldo  di  Vaqueiras,  in  un  dei  due  versi  coi 
quali  risponde  al  19°  della  ediz.  Schultz,  Die  Briefe  des  Trobadors 
B.  de  V.,  p.  49  (nella  notazione  delle  varianti).   A  proposito  di   che 

Shidi  di  filologia  romanza,  IX.  \v 


164  CESARE   DE   LOLLIS 

cfr.  anche  Crkscini,  Ramhaut  de  Vaqiieirus  et  le  Marquis  Boniface  de 
Monferrat,  (estr.  dalle  Annales  du  Midi),  p.  28  n.;  5-10.  Leggi  e  in- 
terpungi :  .  . .  e  si  eu  temia  ||  En  aitai  envazimen  ||  Intrar,  ges  cel 
qi  ab  sen  \\  Creis  son  pretz  emperial  ||  Nom  valgues,  qe  sohreval,  \\ 
S'  ieu  per  moti  grat  noi  valia.  —  iii,  2.  cocha  ha  qui  il  valor  di 
"  mischia  „  che  manca  affatto  nel  Lex.  Rom.  e  dal  Levt,  Suppl.- 
Wibuch,  I,  271,  gli  è  attribuito  solo  nella  combinazione  cocha  f erida. 
Ma  cocha  da  se  rasenta  quel  significato  già  presso  Bertran  de  Born 
(cfr.  ediz.  Stimming  S  n°  2,  v.  48)  la  cui  maniera  questa  poesia  ricorda 
assai   da   vicino  (cfr.  Klein,   op.  cit.,  p.  12);     10.  corr.  tengues  <{=  si 

tenesse) tot   (indeclinabile;    cfr.    Mkyer-Lubke,    Gr.  der   rom. 

Spr.  in,  169).  Non  troppo  ardita  correzione  sarebbe  del  resto:  a  sa 
via.  —  IV,  4.  corr.  s' el;     5.  Interpungi:  temen,  tem  (1*  ps.  ind.  pres.). 

—  V,  4.  corr.  vostre  noìi  ;     8.  corr.  fermai  ? 

n,  I,  3.  corr.  pos  moti  cor  me  renovella"^;  6.  nec]  corr.  ne^?;  8.  corr. 
nom  . . .  m'amjyar  ...  —  ii,  1.  Soppr.  et;  2.  L.  enchapdeìla,  quantunque 
encapdellar  non  sia  notato  ne  dal  Ratnouard,  ne  dal  Levy  ;  5.  capdel 
sembra  esser  più  col  valor  di  "  signoria  „  "  dominio  ,,  non  notato 
ne  dal  Ratnouard,  ne  dal  Levy;  7.  corr.  d[e]  autr'  amor;  iv,  7.  nom] 
corr.  com?  —  v,  2.  corr.  q[e]  a  l.  plaja.  —  vi,  2.  1.  qar  m'a;  3.  corr. 
q'en'?;  4.  volvenz  par  qui  avere  il  valore  del  solito  camjanz;  5.  L. 
m'  embri'  en,  e  per  embriar  ondeggiante  tra  le  accezioni  di  '  accre- 
scere ,,  e  "  avvantaggiare  ,,  cfr.  Levy,  I,  361-363;     7.  corr.  e  gaugz'i 

—  vii,  1.  L.  s'enpren'ì 

XT. 

I,  II,  4.  rtm]  corr.  on;  h.  corr.  no,  se  pure  in  quell'-s  non  si  voglia 
sentire  l'uso  pleonastico  del  pronome  riflessivo  con  valore  di  dativus 
commodi;  piata]  corr. p>lainha  ;  8.  Albaigna,  nome  di  luogo.  Cfr.  P.  Vidal: 
...tart  vetrai  Orgo  |j  Nil  rial  Castel  d'Albanha.  —  iir,  2.  corr.  marinier  ; 
5.  corr.  breg'  et  estragna.  —  iv,  5.  Per  bagadels  che  qui  denota  evi- 
dentemente una  specie  di  moneta,  e  manca  così  in  Raynouard,  Lex. 
come  in  Levy,  Sappi.  -  Wtb.,  cfr.  Diez,  Etym.  Worterb.  s.  *  bagatella  „; 
7.  jaug]  corr.  jac'i  o  sarà  da  correggere  in  jauc  e  mandare  in  compa- 
gnia di  fauc,  vane  che  occorre  nel  verso  seguente,  estauc'i;  8.  corr. 
compaignier  e  comjmgna,  per  cui  v.   Levy,   I,   301.   Ma   il   senso?   — ■ 


PROPOSTE  DI  CORREZIONI  ECC.  165 

V,  6.  corr.  q'eì  col  e  car'  esmol  (=  exmolliet)  quantunque  non  trovi  at- 
testato in  nessun  luogo  un  esmollar,  e  nel  Rimario  del  Donato  pro- 
venzale (ediz.  Stesctel,  p.  54)  appena  trovi  la  mal  sicura  indicazione  : 
■  tnolhz,  mélhz  .i.  perfundas  umectews  ,. 

XVI. 

I,  II,  10.  Supplisci  :  iemor  ?  —  ni,  5.  corr.  qu'ill.  —  iv,  6.  La  forma 
dolgatz  invece  di  delgatz  è  legittima.  Cfr.  Appel,  Chr.,  Gloss.  s.  del- 
cad;  e  Levt,  p.  62;     10.  corr.  sa  ricor.  —  v,  2.  plazens\  corr.? 

XVII. 

I,  I,  1.  Suppl.  eu  tra  vos  e  ai;  2.  corr.  sen;  3.  corr.  entre  qe  son] 
corr.  vos?  o,  lasciandolo  inalterato,  corr.  aues  in  vos  e  intendi  conqes 
per  "  conquistaste  „  (2°  ps.  pf.  ind,  pi.)?;  4.  L.  af  adesa?  Ma  un 
sost.  adesa  da  mandar  col  verbo  adesar  (cfr.  Lex.  Rom.  II,  25^)  non  si 
lascia  altrimenti  accertare  ;  6.  loroesa}  È  già  al  v.  2.  Sostituisci  dun- 
que: gaieza  o  fermeza  o  nobleza;  7.  suppl.  [eu]  davanti  a  prec; 
8.  soppr.  e;  9.  soppr.  e  dav.  a  plazens  e  suppliscilo  dav.  a  valens.  — 
u,  2.  qa]  corr.  qe;  5.  corr.  ìnal[s].  —  in.  1.  aten  vuol  essere  in  fin 
di  verso;  2.  L.  vos  gen?;  —  iv,  2.  cor  chiude  il  verso;  3.  cor 
vorrà  anche  qui  chiudere  il  verso?  —  viii,  1.  iois  e]  corr.  sol?;  2.  non] 
corr.  mon. 

XIX. 

I,  II,  5.  L.  m'afara  =  m'avvampa,  e  cfr.  Levt,  Suppl. -Wth.  I,  64, 
8.  anfara;  6.  L.  m'amana,  e  intendi:  amore  me  lo  (il  male)  amman- 
nisce.  —  III,  6.  Tarar  =  glisser,  chanceler,  è  notato  in  Gloss.  Occ.  s.  v.  ; 
e  cfr.  Appel,  Prov.  Ined.  aus  Par.  Hss.  p.  331:  E  a  tots  bons  compii- 
ments  \\  E  valor  qu'eii  re  nos  vara.  —  v,  1.  corr.  trefans  ;  5.  corr.  qe  [e]u; 
7.  corr.  soteirana.  —  vi,  1.  L.  m' agrana,  e  agranar,  non  registrato 
nfe  dal  RocHEGUDE,  ne  dal  Ratxouard,  ne  dal  Levt,  sarà  lo  stesso  che 
granar.  —  vii,  2.  corr.  iìn[s]. 

XX. 

I,  I,  2.  corr.  fessoti;     6.  corr.  no  e  viam  ;     8.  qaissim]  corr.  cossiin  ?  ; 
•  9.  corr.  farà  ?  Circa  faire  a  che    seguito  dall'inf.    vale  :  esser   d'uopo 


166  CESARE   DE   LOLLIS 

cfr,  DiEz,  Gr.  ''  937,  e  Stimming,  B.  de  Born  \  p.   289,    n.    al   v.    39, 

—  II,  1.  suppl.  \deu\  tra  qi  e  languir;  2.  corr,  niarrit[z\;  5.  L.  enar- 
dir;  6.  corr.  priin' ;  9.  corr. ^oc.  —  in,  1.  plus]  coxx.'pus;  Hizó\\j.vi 
zo;  2.  Punto  interrogativo  dopo  grazir  ;  3.  Punto  fermo  dopo  tion  ; 
8.  Punto  fermo  dopo  grazirai,  e  interrogativo  dopo  perqe.  —  iv,  4. 
galiardor]  corr.  hailidor,  in  rispondenza  al  haillir  del  v.  9  e  al  bail- 
litz  del  v.  1  di  st.  v?;  5.  corr.  ser.  —  v,  1.  L.  soil\  2.  L.  éls  oils; 
3.  hon{\  corr.  han;      tróbador~\  corr.  rohador;     4.  corr.  e  seti  {o'.sai?) 

qes'an  jurat ?  Ovvero,  poiché  la   lezione  di  per  è  data   come  mal 

sicura  dal  B.,  corr.  e  seti  qe  an  jurat  de  m.  de.  ?;  5.  corr.  donc,  voilVo 
fio,  coveti  [me  los]  h.  —  vi,  5.  d'onrat  ;     9.  corr.  vostra. 

II,  I,  4.  Suppl.  [e]  fra  dir  e  mal;  6.  Per  captengn,  col  valore  che 
ha  qui,  cfr.  Levy,  Sujjpl.  -  Wth.  I,  207  *  ;  9.  corr.  teitig.  —  ii,  6.  e  fas\ 
corr.  en  far  son'ì  —  in,  5.  corr.  vii  e  ratnpotiador,  e  cfr.  Stichel,  Bei- 
tràge  zur  Lexicographie  des  altprovetizal.  Verhutiis,  p.  68,  s.  rampotiar. 

—  IV,  5.  corr.  q'el  [volc]  deseritar  ;  6.  L.  Barut  =  Beirut  ;  e  per 
questa  forma  del  nome,  e  per  l'allusione  storica,  cfr.  Levy,  Cruilhem 
Figiieira,  p.  54,  v.  44,  e  nota  relativa  apag.  97  ;  10.  Mancan  due  sil- 
labe. Suppl.  [del  tot]  tra  fon  e  cotitraire'ì  —  v,  3.  corr.  passat; 
5.  soppr.  et.  —  vii,  10.  L.  a  tnescap. 

XXI. 

I,  II,  4.  Suppl.  tres[aur];  6.  corr.  qis  ha?  —  in,  7.  Correggerei  torti, 
e  interpreterei:  "  tal  mette  in  non  cale  buona  opportunità  d'amore 
novellamente  conquiso,  che  quella,  anziché  rinnovarglisi,  gli  cessa  „ . 
Per  ahans    col    valore    di  "  piuttosto  „  cfr.  Levy,  Suppl.-Wtb.,  I,  3'. 

—  IV,  2.  Per  dolgat  cfr.  sopra  sotto  il  n°  XVI,  iv,  6;  3.  corr.  dura- 
rial[s];  4.  corr.  ni  m'en  tornava  n.  l.  p.?;  5.  corr.  maniava;  7.  corr. 
duraria  l'anz.  —  v,  6.  corr.  ni  desvestit  ab  san  tti.?  —  vi,  1.  corr. 
aii[t]r'  aver  ;  2-3.  Qui  è  molta  confusione  ;  tanto  pivi  che  manca  un 
verso,  quello  che  veramente  dovrebb'essere  il  secondo  della  stanza, 
e  al  quale  è  probabile  appartenesse,  in  posizion  di  rima,  il  perdas 
(in  origine,  forse,  un  percas?)  malamente  intrusosi  in  quel  che  qui 
si  denota  come  verso  3  e  che  in  origine  dovè  esser  quarto  ;  2.  sui 
acoill]  corr.  ser  vuoili?;  5.  L.  me  cel  (1*  ps.  ind.  pres.  di  celar).  — 
vili,    1.  fai{\    corr.  fenh;       2.   L.  de  s'ainor  ras,  e  cfr.  pel  modo  del- 


PROPOSTE  DI  CORREZIONI  ECC.  i67 

l'espressione,  Raimon   de    Miraval,    presso   Bartsch,  Chr.  *,  152,  10  : 
Qu'a  pane  de  Joì  no  m'an  ras;     3.  corr.  mourai. 

XXII. 

I,  u,  4.  dese.  —  in,  B.  ntil]  corr.  nil;  6.  plaides  m.a.nca,  al  Lex.  Rom. 
ma  è  notato  nel  Glossaire,  s.  v. ,  col  valore ,  affatto  conveniente  a 
questo  passo,  di  *  contraire  „,  "  opposant  ,,  "  adversaire  „;  8.  j^ere] 
corr.  pere,  1*  ps.  ind.  pres.  di  perdre;  e  cfr.  per  l'uscita  in  -e,  Stim- 
MDiG,  B.  de  Born^,  p.  279,  n.  al  v.  11  di  n.  29;     10.  seu]  corr.  s'en. 

—  IV,  1.  siu's]  corr.  sisì  ;     9.  nen]  corr.  en;     10.  tormen]  corr.  torn'en. 

—  V,  4.  apres]  L.  a  prez;     7.  L.  mala;       11.  amoi's]  corr.  amor. 

II,  II,  1.  nei\  corr.  n'ai.  —  iv,  5.  L.  ia  us  {=  unus);  6.  corr.  c'auzis.  — 
V,  3.  sa  per  gaire]  corr.  sap  gaire?  Ma  si  noti  che  gaire  occorre  in 
posizion  di  rima  anche  al  v.  3  di  st.  vii.  —  vi,  8.  corr.  t'o[«]^  o 
vol[h];  4.  L.  ab  me  s  n'  an;  6.  corr.  aqi  vo[i]l  (o:  vol[h]).  —  vii, 
6.  corr.  e  qan  s'empren  a  t'enreqir. 

XXV. 

I,  i,  6.  corr.  troban.  —  ii,  1.  corr.  Li  croi  baro;  ma  osserva  che  los 
con  valor  di  nominativo  occorre  di  nuovo  al  v.  5  di  questa  stessa  st.  ; 
5.  los'\  corr.  li;  6.  corr.  collector;  7.  ers]  corr.  {h\ers\  crezanza]  corr. 
crezensa.  —  in,  6.  corr.  ancessor;  7.  corr.  rende[tz]...  fat[t]...  —  iv,  2. 
lum]  corr.  Vuns;  3.  qil]  corr.  cil'ì...  tenguessam]  corr.  tenguessan; 
4.  fei]  corr.  e  feu  seti  sagramen  e  [ses]  pUvensa  ;  5.  corr.  C'a  mal  rie 
home'i;  aìdor]  Sarà  la  stessa  cosa  che  Vaitor  (aiutatore)  registrato  nel 
Glossaire?  ma  con  quale  preciso  valore?;  7.  taignienza  col  valore 
fondamentale  di  "  ciò  che  ad  alcuno  si  spetta  „  non  è  nei  lessici. 

Tenzoni. 
I. 

Ili,  2.  ni]  corr.  mi;  8.  eden\  corr.  e  de.  —  iv,  3.  corr.  qe  Fiori, 
el  ten...  Per  la  forma  Fiori  cfr.  BrECH-HiKscHFELD,  Ueber  die  den  pro- 
venzalischen  Troubadours  bekannten  epischen  Stoffe,  p.  32;  8.  corr. 
e  'n  Guillem[s].  —  v,  6.  corr.  eus.  —  vi,  8.  corr.  Folc[s].  —  ix,  2.  corr. 
segnar;     3.  corr.  q' e[s]. 


168  CESARE   DE   LOLLIS 


II. 


I,  1.  corr.  Jaufrez[et];  3.  Per  gradaletz  non  registrato  nel  Lex.  Rom. 
cfr.  Appel,  Chr.,  Glos.,s.  grazalet;  4.  Manca  una  sillaba.  Suppl.  e  tra 
abelis  e  a?  —  li.  5.  ne  laii\  Il  senso  è  :  *  ne  esse  a  me  „.  Ma  la  mi- 
sura del  verso  non  comporta  un  ni  elas,  dove  l' iato  sarebbe  inevi- 
tabile (cfr.  Pleines,  Hiat  und  Elision  im  Provenzalischen,  p.  67);  né  mi 
par  probabile  un  caso  d'elisione  :  n'  elas.  L.  ni  'las,  e  cfr.  Bernart 
Marti,  presso  Appel,  Prov.  Ined.  aus  Par.  Hss.,  p.  30,  v.  23  :  ni  'stribotì 

ni. 

IT,  4.  busnart]  Lo  stesso  che  husart  =  fr.  buse,  busart  (Ratn.  II, 
272:  s.  huzac).  Nome  di  un  falcone  di  razza  inferiore,  par  che  poi  pas- 
sasse a  significar  "  sciocco  „;  come  attestano  gli  esempi  che  dall'ant. 
fr.  allega  lo  stesso  Raynouard,  e  quel  che  del  provenzale  huzoc,  sino- 
nimo di  husart  allega  il  Levy,  Suppl.-Wtb.  I,  175^.  Ma  cfr.  anche 
GoDEFROY,  Dictionnaire,  dove  si  han  le  forme,  più  vicine  alla  nostra, 
huisnart,  huinard,  biiignart,  colla  traduzione:    "  niais  „,    "  imbécile  „. 

IV. 

I,  4.  Mancan  due  sillabe.  Suppl.  [vos  o]  tra  ben  e  sabretz?  —  ii,  5. 
corr.  gai[s]  dig[z]  ;  7.  Suppl.  [eus]  davanti  a  gardatz.  —  iii,  8.  corr. 
paor[s].  — IV,  1.  C'è  una  sillaba  di  più.  Soppr. ^e?'?  —  v,  3.  L.  qem. 

V. 

II,  4.  lar]  corr.  l'aver  "i;  8.  L.  Vavia.  —  in.  6.  corr.  envia,  forma  che 
manca  nel  Lex.  Rom,  e  nel  Suppl.-  Wtb.  del  Levy,  ma  è  attestata  dal 
Gloss.;  7.  mais]  corr.  inai;  8.  corr.  si.  —  rv,  1-2.  Mi  son  poco  chiari. 
Ma  sospetto  che  beus  vada  corretto  in  bes,  e  noto  che  jojos  occorre 
già  in  posizion  di  rima  al  v.  4  di  st.  I;     7.  corr.  major. 

VI. 

I,  3.  Suppl.  [amis];  4.  corr.  /'«[t]r[e]  sa[s];  7.  L.  q'enver.—  ii,  1.  Car  des] 
L.  Cardos  ;  3.  L.  perqe  fos  a  ;  4.  corr.  faria  ?;  8.  per  qam]  corr.  que  am. 
—  Ili,  3.  corr.  jorn{s].  —  iv,  1.  qe{n)\  corr.  q'eu.  —  v,  5.  podoti]  corr. 
pot  on;  6.  sor  =  "  sopra  „,  manca  in  Lex.  Rom.,  ed  è  dall' Appel, 
nel  Glossario  alla  Chr.,  messa  sul  conto   di  testi   non  schiettamente 


PROPOSTE   DI   CORHEZIONI  ECC. 


169 


provenzali;  7.  ses  plag]  corr.  sim platz  qil .. .  partimen.  —  vi,  3.  corr. 
lo[s]  ;  4.  Suppl.  es  lauzatz  o  es  pojatz  o  es  prezatz  ?  ;  5-6.  de  gran  cor 
"  sehr  geme  ,,  nota  il  Levt,  Suppl.-Wtb.  I,  358';  e  se  come  a  me  par 
di  fiutare,  gaug  entier,  che  andrebbe  quindi  ridotto  a  caso  retto,  è 
il  soggetto  di  pot,  neir  ultima  parola  del  v.  5  s'anniderà  un  sost. 
terminante  in  -ansa  piuttostochè  una  forma  verbale  di  3"  ps.  ind.  pres. 
Ma  quale  ?  Nessun  lessico  registra  un  sostantivo  eslansa,  che  io  però 
quasi  ravviserei  in  un  verso  di  Gaucelm  Faidit  variamente  interpre- 
tato dallo  Chabanead,  Varia  Frovincialia,  p.  26,  v.  47,  e  n.  8,  e  dal 
Le^-y,  Suppl.-Wtb.  I,  232'.  Non  sarà  ivi  da  leggere:  El  laiss'a  (e 
ancor  meglio  :  Eslaiss'a)  tot'  eslanza  V  arm'  e  lo  cor,  Vaur  e  l'aryen  ; 
e  da  intendere  :  Caccia  via  da  se  a  tutto  slancio  (cioè  :  coli'  impeto 
della  disperazione)  l'anima  e  il  cuore  ecc.?  Ma  anche  quando  mi  si 
desse  per  certo  questo  eslansa  sost.,  non  saprei  come  incastonarlo 
nel  verso  della  presente  tenzone. 

VII. 

I,  10.  qe]  Suppl.  qe['l  moti]'ì —  ii,  3.  qeistas]  corr.  jiitgar'ì;  6.  iois] 
corr.  joi',  7.  fos\  corr.  fo?  —  ni,  5.  né]  corr.  no;  10.  corr.  nul[s\  majer 
jois.  —  IV,  5.  nel]  corr.  noi;     6.  meizo]  corr.   maizo. 

YIII. 

I,  1.  corr.  cossius  vai;  6.  an]  corr.  an[z],  e  1.  e 'n  dechai;  8.  el] 
corr.  e\i\l.  —  ii,  6.  ho  o]  corr.  oc,  e  1.  s'  i  trai.  —  ni,  1.  corr.  Gui, 
'Is  sieus;  8.  sagai]  corr.  Algai,  e  intomo  ai  famosi  banditi  così 
chiamati  cfr.  Bertran  de  Bom,  2,  ediz.  Stimming  S  v.  53  ;  la  relativa 
razos,  ibid.  p.  107,  e  la  nota  dello  stesso  Stimming,  a  p.  233.  — 
IV,  6.  non]  corr.  [a]noti'i  — v,  3.  e]  corr.  [e]H.  —  vi,  1.  voi  mai]  corr.  i 
lolgra  mai;     3.  Inserisci  *  tra  non  e  metrai. 

IX. 

i,  8.  corr.  tot{z]  mos  comandanien[z]  ;  9.  corr.  monegue[s].  —  ii,  4. 
refugat]  corr.  refudat,  se  pur  non  sia  risultanza  di  una  contaminazione 
con  FUGAHE  agevolata  dall'altra  forma  refuidar  che  registrano  e  il  Lex. 
Rom.,  e  il  Glossaire.  Quest'ultimo  poi  registra  refiii  colla  doppia  acce- 
zione di  *  refuge  ,  e  "  refus  „;     6.  foni]  corr.  fai;     ufana  col  valore  che 


170  CESARE   DE   LOLLIS 

qui  si  richiede  non  è  notato  nel  Lex.  Rom.;  si  però  nel  Glossario  della 
Chr.  dell' Appel,  dov'è  anche  reso   per  "  Schaustellunpf  „  "  Pracht  ,  ; 

7.  corr.  pro[s]  dom7ia[s]  conoiscen[z];  8.  corr.  fai  Jiotn  e  ric[s]  conduit[z] 
e  gen[z\'ì;  9.  Proporrei  di  correggere:  Per  q'aitan  amor{s^nos  a  dat, 
e  d'interpretare:  perchè  tanto  amore  ci  ha  commesso.  Per  accezioni 
di  dar  non  remote  da  questa  che  qui  si  adotta  cfr.  Levy,  Suppl.-  Wtb. 

8.  dar.  —  III.  2.  L.  mais  a  d.;  3.  corr.  autr''  ochaizon  ;  8.  domentz  in 
luogo  di  dementre  manca  nel  Lex.  Rom.,  ma  è  notato  dal  Rochegude, 
Gloss.,  e  dal  Baetsch,  Chr.,  Gloss.,  s.  domens.  Ma  senza  riscontro  è  per 
me  l'uso  assoluto  che  qui  se  ne  fa  nel  significato  di:  "  frattanto  „.  — 
IV,  1.  bìizat,  in  questa  forma  diversa  dall'altra  già  precedentemente 
rilevata  (cfr.  Tenz.  Ili,  st.  iv,  v.  4  e  nota  relativa)  manca  nel  Lex.  Rom., 
ma  è  notata  nel  Suppl.-  Wtb.  del  Levy,  ai  cui  due  esempj  s'aggiunga 
il  terzo,  di  Marcabru  in  Canz.  A.,  n°  60,  v.  41  ;  2.  et]  corr.  ni  ?  —  iv, 
5.  bazana]  Interpreta?  Il  basan  notato  dal  Levy,  I,  130^,  con  un  unico 
esempio  di  Marcabru,  ha  piuttosto  l'aria  d' essere  un  sostantivo  ; 
8.  corr.  d'avoìs]  9.  barai,  col  significato  che  qui  gli  converrà  di 
"  modo  di  fare  „  "  tratto  „,  ovvero  "  stato  „,  "  condizione  „,  non  è 
registrato  né  nel  Lex.  Rom.,  ne  nel  Suppl.-Wtb.  Ma  il  Godefeoy  as- 
segna alla  voce  barate,  oltre  ai  significati  di  "  désordre  „,  "  confusion  „, 
"  tapage  „,  comuni  a  barai,  quelli  di  "  éclat  „,  "  étalage  „,  "  élégance 
recherchée  ,. 

Cesare  de  Lollis. 


BULLETTINO  BIBLIOGRAFICO 


RECENSIONI 


Comedia  de  Calisto  y  Melibea  (unico  testo  autentico  de  la  "  Celestma  ,) 
reimpresión  publicada  por  R.  Follché-Delbosc.  —  Barcelona-Ma- 
drid, 1900. 

Il  signor  Foulehé-Delbosc,  indefesso  cultore  degli  studii  spagnuoli, 
ci  dà  in  un  elegante  volumetto  della  sua  Bìbliotheca  Hispanica  una 
ristampa  della  Comedia  de  Calisto  y  Melibea,  opera  famosa  del  sec.  XV, 
secondo  l'edizione  che  ne  fu  fatta  a  Siviglia  nel  1501.  Questa  ristampa 
l'  motivata  e  commentata  in  un  articolo  pubblicato  dallo  stesso  au- 
tore nella  Revue  Hispanique  (1900,  pagg.  28-80). 

Numerose  sono  le  edizioni  della  Comedia  de  Calisto  y  Melibea  chia- 
mata anche  Tragicomedia  de  Calisto  y  Melibea,  oppure  Celestina.  Il 
sig.  F.-D.  le  divide  in  cinque  gruppi. 

11  primo  gruppo  lo  forma  Veditio  princeps  tuttora  sconosciuta. 

Il  secondo  comprende  l'opera  in  sedici  atti  aumentata  di  argomenti 
al  principio  di  ogni  atto.  Di  questa  edizione,  stampata,  forse,  da 
Fadrique  da  Basilea  (Federico  Biel)  a  Burgos  nel  1499,  si  conosce  un 
unico  esemplare  privo  del  titolo  e  che  sinora  non  si  è  potuto  stu- 
diare a  lungo.  È  descritto  nei  cataloghi  delle  vendite  Heber,  de  So- 
leinne,  Taylor,  Seillière.  Nel  1895  ne  era  proprietario  il  libraio 
Quaritch  che  ne  chiedeva  il  buon  prezzo  di  cento  quarantacinque 
libbre  sterline.  Salva  e  gli  altri  bibliografi  che  si  sono  occupati  del- 
l'argomento considerarono  l'edizione  creduta  del  1499  come  Veditio 
princeps.  Brunet  nella  quinta  edizione  del  suo  Manuel  du  libraire  dice  : 

Si  la  date  de  l'exemplaire  décrit  était  exacte,  c§  serait  là  l'édition 

la  plus  ancienne.  Il  a  été  acquis  au  prix  de  2  liv.  2  sh.  pour 
"  M.  de  Soleinne,  et  depuis  payé  409  frs.  à  la  vente  de  cet  amateur. 

*  Toutefois  il  fut    constate    alors  que  le  dernier   feuillet   portant   la 

*  marque  (reportée)  de   l'imprimeur,  avec   la  date  1499,  était   d'une 
impression  moderne  imitant  d'anciens  caractères,  mais  sur  un  papier 

"  dont  les  vergeures   laissaient  apercevoir   la  date   de  1795,  preuve 
"  trop  certaine  d'une  fraude    qui   probablement  avait   déjà   été    re- 

*  connue  à  la  vente  Heber,    ce   qui   aura   empèché   les  enchères   de 
"  s'élever  „  (voi.  I,  col.  1715-1716). 


172  BULLKTTINO   BIBLIOGRAFICO 

Il  terzo  gruppo  lo  forma  l'unico  esemplare  dell'edizione  di  Siviglia 
(1501),  che  trovasi  nella  Biblioteca  Nazionale  di  Parigi  e  che  viene 
scrupolosamente  riprodotto  nel  volumetto  della  Bibliotheca  Hispa^iica. 
Contiene  la  Comedia  de  Calisto  y  Melibea,  in  sedici  atti,  cogli  argo- 
menti, colla  lettera  dell'autore  ad  un  amico  e  coi  versi  acrostici.  Alla 
fine  sono  stampate  le  ottave  di  Alonso  di  Proaza  corrector  de  la 
impresión. 

Il  quarto  gruppo  aggiunge  all'opera  un  pròlogo,  cinque  atti  nuovi 
e  tre  ottave  alla  fine  (Siviglia,  1502). 

Nel  quinto  ed  ultimo  gruppo  la  comedia  è  aumentata  di  un  atto 
nuovo. 

11  F.-D.  osserva  che  nell'edizione  del  1501  si  leggono  dopo  il  titolo 
le  seguenti  parole  :  con  sus  argumentos  nuevamente  anadidos.  Secondo 
lui  queste  parole  sarebbero  la  copia  esatta  di  quelle  che  si  trova- 
vano sul  titolo  perduto  dell'esemplare  Heber  e  così  crede  dimostrata 
l'esistenza  di  una  edizione  senza  argomenti  e  quindi  anteriore  a  quella 
del  (?)  1499.  Per  appoggiare  questa  sua  ipotesi  F.-D.  invoca  la  testi- 
monianza del  pròlogo  dell'edizione  in  venti  atti  del  1502,  ove  è  detto: 
"  aun  los  impresores  han  dado  sus  punturas,  poniendo  nibricas  o  su- 
"  marios  al  principio  de  cada  acto,  narrando  en  breve  lo  que  dentro 
"  contenia:  una  cosa  bien  escusada,  segun  lo  que  los  antiguos  escri- 
"  tores  usaron  „. 

A  noi  non  sembra  con  ciò  dimostrata  l'esistenza  di  una  edizione 
anteriore  a  quella  detta  del  1499  e  che  non  avesse  argomenti.  Di 
fatti,  se  l'Autore  nel  prologo  dell'edizione  in  venti  atti  del  1502  dice 
che  gli  stampatori  aggiunsero  delle  rubriche,  questo  può  benissimo  rife- 
rirsi a  tutti  coloro  che  stamparono  la  comedia,  ossia  allo  stampatore 
del  1501  ed  a  quello  dell'esemplare  Heber.  È  come  se  l'Autore 
avesse  detto  :  io  nel  mio  manoscritto  non  scrissi  gli  argomenti,  ma 
gli  stampatori,  seguendo  una  vecchia  abitudine,  ve  li  hanno  aggiunti. 

Il  signor  F.-D.  fa  dell'edizione  sivigliana  del  1501  il  tipo  del  terzo 
gruppo,  perchè  non  crede  possibile  che  la  lettera  dell'autore  ad  un 
amico  ed  i  versi  acrostici  abbino  potuto  figurare  sul  verso  del  foglio 
che  manca  al  primo  quaderno  dell'esemplare  Heber. 

È  certo  che  il  solo  verso  del  foglio  I  non  sarebbe  bastato  per  con- 
tenere la  lettera,  l'argomento  generale  ed  i  versi  acrostici.  Ma  quel 
che  non  poteva  figurare  sul  solo  verso,  poteva  bensì  occupare  il  foglio 
tutto  intero. 

11  carattere,  come  l'osserva  l'Autore  in  una  nota,  poteva  essere 
pili  piccolo  che  nel  resto  del  volume.  E  poi  non  vi  è  ragione  di  cre- 
dere che  il  recto  del  primo  foglio  sia  stato  occupato  da  una  incisione 
giacche  ne  troviamo  una  sul  fol.  a  ij.  Non  sappiamo  se  veramente 
possa  attribuirsi  l'esemplare  Heber  a  Federico  Biel,  ma  se  lui  fu  lo 


RECENSIONI  173 

stampatore  di  questa  edizione  della  Comedia  de  Calisto  y  Melibea  si 
può  ammettere  che  la  stampò  senza  portada  come  accadde  col  Libro 
de  Ics  Santos  Angeles  (1490)  del  Ximenez  *).  L'ultimo  quaderno  del- 
l'esemplare Heber  è  di  soli  quattro  fogli,  e  di  questi  l' ultimo  fu 
rifatto.  Non  è  quindi  impossibile  che  si  potessero  leggere,  in  fine  di 
im  esemplare  completo  dell'edizione  del  (?)  1499,  le  ottave  al  lettore 
di  Alonso  de  Proaza  corrector  de  la  impresión. 

Discorrendo  così  vogliamo  indicare  "soltanto  che  a  noi  non  pare 
provata  l'esistenza  di  una  edizione  anteriore  a  quella  dell'esemplare 
di  Heber.  E  crediamo  pure  che,  sino  a  che  non  salti  fuori  un  esem- 
plare intatto,  fratello  di  quello  della  collezione  Heber,  non  si  potrà 
affermare  che  ci  sia  una  differenza  fra  l'edizione  creduta  del  1499  e 
quella  del  1501. 

Vediamo  ora  quali  sono  le  ipotesi  del  F.-D.  intorno  all'autore 
della  Comedia  de  Calisto  ij  Melibea.  Egli  crede  che  i  sedici  atti  del- 
l'edizione da  lui  riprodotta  siano  di  un  autore,  ed  i  cinque  atti  nuovi 
aggiunti  nell'edizione  del  1502  di  un  abile  imitatore  dello  stile  del 
primo  autore. 

Secondo  il  F.-D.,  la  lettera  dell'autore  ad  un  amico  come  anche  i 
versi  acrostici  possono  attribuirsi  a  Alonso  de  Proaza.  Questa  attri- 
buzione ci  sembra  fondata.  Crediamo  pure,  con  F.-D.,  che  il  nome 
del  bachiller  Fernando  de  Eojas  nascido  en  la  pnebla  de  Montalvan, 
messo  avanti  nei  versi  acrostici  e  creduto  sinora,  sulla  unica  loro 
fede,  il  nome  dell'autore  della  Comedta  sia  una  pura  invenzione.  Ma 
giacche  siamo  in  piena  ipotesi  perchè  fermarci  a  mezza  strada? 

Pare  verosimile  che  Alonso  de  Proaza  sia  stato  l'inventore  del 
bachiller  Fernando  de  Rojas,  così  si  spiegherebbe  che  lui  solo  abbia 
conosciuto  il  nome  di  questo  bachiller,  del  quale  si  sa  solamente  ciò 
che  lui  ne  dice.  E  perchè  non  sarebbe  stato  questo  Alonso  de  Proaza 
il  vero  autore  della  Celestina,  della  lettera,  del  prologo,  e  della 
continuazione,  che,  malgrado  le  ingeniose  osservazioni  del  F.-D.,  se- 
guitiamo a  credere  opera  di  uno  stesso  autore.  Del  Proaza  sappiamo 
che  fu  poeta,  giacché  sette  poesie  di  lui  figurano  nel  canzoniere  ge- 
nerale di  Hernando  del  Castillo;  Nicolas  Antonio  parla  di  lui  (B*. 
H*.  N*.  I,  pag.  42)  ed  il  F.-D.,  che,  in  una  nota,  raccatta  tutto  ciò 
che  si  sa  di  lui,  cita  il  principio  di  due  preguntas  di  H.  del  Castillo 
che  lo  chiama  :  . . .  vos  que  soys  prima  de  los  inventores  e  Discreto 
prudente  en  metros  y  prosa. 

Il  signor  F.-D.  giudica  la  Comedia  de  Calisto  y  Melibea  in  sedici  atti 
più  perfetta  di  quella  in  vent'un  atti,  egli  dice  che  Vadicionador  ne 


')  Mendez-Hidalgo.  Tipografia  Espanola,  pag.  134. 


174  BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO 

ha  distrutto  rarmonia  e  che  insistendo  su  certi  momenti  dell'azione 
ha  sciupato  in  molte  parti  l'efifetto  prodotto  dalla  lettura  della  Co- 
media  nella  sua  prima  forma.  Su  tutti  questi  punti  ha  ragione  l'edi- 
tore del  testo  del  1501,  ma  ciò  non  basta  per  negare  che  l'autore 
stesso  della  commedia  in  sedici  atti  non  l'abbia  rifatta  in  vent'uno. 
Molti  scrittori  antichi  e  moderni  commisero  tali  errori  di  gusto.  Per 
aggradare  al  publico  l' adicionador  ha  intercalato,  fra  l'atto  XIV 
e  l'atto  XX,  cinque  atti  nuovi  facendo  dei  primitivi  atti  XV  e  XVI 
gli  atti  XX  e  XXI.  Il  perchè  ce  lo  palesa  nel  prologo,  ove  scrive 
che,  ascoltando  le  discussioni  suscitate  dall'opera  sua,  conobbe  il 
desiderio  della  maggioranza  dei  lettori  :  "  Asi  que ,  viendo  estas 
'  coiitiendas,  estos  disonos  y  varios  juicios,  mire  adonde  la  mayor 
"  parte  acostaba,  y  halle  que  querian  que  se  alargase  en  el  proceso 
"  de  su  deleite  destos  amantes,  sobre  lo  cual  fui  muy  importunado  ; 
"  de  manera  que  acordé,  aunque  contra  mi  voluntad,  meter  segunda 
"  vez  la  piuma  en  tan  estraiia  labor  y  tan  ajena  de  mi  facultad, 
"  hurtando   algunos   ratos  à  mi   principal    estudio,    con    otras  horas 

destinadas  para  recreacion,  puesto  que  no  han  de  faltar  nuevos  de- 
"  tractores  à  la  nueva  adicion  „. 

Il  F.-D.  osserva  che  la  maggior  parte  delle  aggiunte  sono  ampli- 
ficazioni, accumulazioni  di  proverbi  e  di  aforismi  popolari,  nota  pic- 
cole modificazioni  nei  caratteri  dei  personaggi  e  specialmente  in 
quello  di  Melibea  che  esce  dalle  mani  àolV adicionador  un  poco  vol- 
garizzata. 

Ma  lo  stesso  F.-D.  riconosce  l'unità  dello  stile  che  è  tale  da  non 
permetterci  di  ammettere  due  autori  distinti.  L'opera  ha  perduto 
gran  parte  del  suo  merito  artistico  e  letterario  nella  trasformazione, 
questo  è  certo.  La  commedia  in  sedici  atti,  tale  e  quale  la  ristampa  il 
F.-D.,  è,  innegabilmente,  fatta  di  getto,  ma  ciò  non  impedisce  che  il 
rifacimento  non  sia  opera  della  stessa  penna. 

L'autore  della  Comedia  de  Calisto  y  Melibea  narra  nella  sua  lettera 
ad  un  amico  che  egli  trovò  il  primo  atto  del  lavoro  scritto  da  un 
antiguo  autor  e  che  avendolo  letto  e  trovandolo  buono  fece  suo  l'ar- 
gomento e  si  mise  a  finire  l'opera. 

Questa  storia  viene  considerata  dai  critici  come  uno  stratagemma 
usato  dall'autore  per  nascondersi  meglio.  Il  F.-D.  pure  considera 
y antiguo  autor  come  una  mera  invenzione.  È  certo  che  se  si  dovesse 
ammettere  che  il  Mena,  il  Gota  od  un  altro  abbino  scritto  il  primo 
atto  di  questa  commedia,  bisognerebbe  riconoscere  che  il  vero  autore, 
per  adattarlo  ai  seguenti,  l'avesse  rifatto  completamente  sino  a  scan- 
cellare affatto  l'impronta  àeW antiguo  autor. 

L'articolo  del  F.-D.  è  accompagnato  di  nove  appendici  dedicate 
allo   studio    delle  varie  edizioni,  vere   o   supposte,    della  commedia. 


RECENSIONI  175 

come  pure  allo  spoglio  dei  passi  dell'edizione  del  1501  che  non  si 
ritrovano  nelle  edizioni  in  ventun'atti,  e  allo  spoglio  delle  modifica- 
zioni fatte  dsdV adìcionador  al  testo  primitivo.  Questa  parte  del  lavoro 
del  F.-D.  sarà  apprezzata  da  tutti  i  bibliografi. 

Alla  fine  delle  sue  Observations  sur  la  "  Célestine  „,  il  nuovo  editore 
della  commedia  dice  :  "  Les  conclusions  de  la  présente  étude  peuvent 

se  formuler  comme  suit: 

*  Les  seize  actes  de   la   Comedia  de   Calisto  tj  Melibea   sont  d'un 

seul  auteur.  —  Cet  auteur  est  inconnu.  —  Il  est  reste  entièrement 

*  étranger  aus  additions  successives  que  son  oeuvre  a  subies  „. 
Abbiamo  detto  come  e  perchè  accettiamo  le  due  prime  conclusioni 

del  dotto  critico  francese,  ma  in  quanto  all'ultimo  punto  il  F.-D.  non 
ci  ha  convinti. 

Tutti  gli  amici  delle  cose  di  Spagna  saranno  grati  al  F.-D.  di 
avere  risuscitato  l'interesse  degli  studiosi  per  la  Celestina,  e  di  averci 
dato,  di  questo  capolavoro  della  letteratura  castigliana,  una  edizione 
purificaia  che  ci  rende  l'opera  nella  sua  prima  e  più  bella  forma. 
Egli  ha  fatto  vera  la  parola  del  Moratin  che  diceva:  "  Un  hombre 
"  inteligente  haria  desaparecer  los  defectos  de  la  Celestina,  sin  anadir 

*  por  su  parte  una  silaba  al  texto  „  ').  Mario  Schiff. 

Dante' s  references  to  ^sop  by  Kenneth  McKenzie  —  Boston,  Giun  and 
Comp.,  1900. 

Il  profossore  Kenneth  McKenzie  ha  pubblicato  quest'opuscolo  (estratto 
dalla  Diciassettesima  relazione  annuale  della  Società  dantesca  di  Cam- 
bridge, Mass.),  nel  quale  prendendo  le  mosse  dalla  favola  del  gallo  e  la 
margherita,  alla  quale  si  allude  nel  Convito,  IV,  30,  e  da  quella  del 
topo  e  della  rana,  accennata  nelì'Inf.,  XXIII,  4-9,  intende  a  determinare 
la  raccolta  o  le  raccolte  di  favole  esopiche  che  Dante  ebbe  per  le  mani. 

E  la  sua  conclusione  è  che  a  Dante  furon  familiari  le  due  rac- 
colte medievali  del  cosiddetto  Romulus,  in  prosa,  e  l'altra,  in  distici, 
che  poi  dall'edizione  del  1610  fu  detta  dell'Anonimo  di  Neveleto.  Salvo 
però  ad  aver  Dante  preferito,  nel  primo  dei  due  passi  citati,  la  pa- 
rola abbastanza  rara  "  margarita  „,  offertagli  da  Romulus,  e  che  in 
più  luoghi  del  divino  poema  gli  ricorre  sotto  la  penna  per  influsso 
del  testo  della  volgata  :  "  neque  mittatis  margaritas  vestras  ante 
porcos  „  (Matt.  VII,  6). 


*)  Il  professore  K.  Haebler  di  Dresda,  oggidì  il  primo  conoscitore 
di  storia  della  tipografia  in  Ispagna,  mi  scrive  che  ha  potuto  final- 
mente ottenere  dalla  casa  Quaritch  una  fotografia  del  famoso  esem- 
plare Heber.  Egli  ha  riconosciuto  che  i  caratteri  di  questo  libro  ap- 
partengono a  Federico  Biel. 


176  BULLETTINO    BIBMOGRAFICO 

Nell'altra  raccolta  di  favole  esopiane.  dovuta  a  Marie  de  France,  si 
legge  :  "  una  chiara  gemma  ,  ;  o  per  ciò  pare  infondato  all'A.  il  so- 
spetto di  Pagot  Toynbee  che  Dante,  nel  passo  del  Convito,  ne  sentisse 
l'influsso.  Ma  non  sarà  forse  fuor  di  proposito  ricordare  il  "  cara 
gioia  „  dantesco  del  Farad.,  IX,  37  e  X,  71.  Cesark  de  Lollis. 


NOTIZIE 


Studi  latini.  —  F.  Lora  ha  pul)l>licato  un  Saggio  sintattico-compa- 
rativo  su  S.  Gerolamo,  S.  Agostino,  S.  Ambrogio,  come  contributo  allo 
studio  delle  lingue  neolatine  (Padova,  Gallini,  1900).  Su  Venantms 
Fortunatus,  considerato  quale  poeta  d'occasione,  ha  una  notevolissima 
memoria  Guglielmo  Meyer  di  Spira,  edita  nelle  Ahhandlungen  della 
R.  Soc.  di  Gottinga,  N.  Sez.,  voi.  IV,  fase.  5.  G.  Mari  ha  dato  in  luce, 
nelle  Romanische  Forachungeìt  del  Vollmoller,  voi.  Xlll.  la  Poetria 
magistri  Johannis  anglici  de  arte  lirosayca,  metrica  et  rithmica,  ora  per 
la  prima  volta  restituita  nella  sua  integrità. 

Lingua  romana.  —  Nei  Rendiconti  del  R.  Istit.  Lombardo  di  se.  e 
lett.  a.  1900,  il  Novati,  prendendo  a  esaminare  la  Vita  di  S.  Mom- 
moleno,  che  solevasi  citare,  dal  De  Reiticnberg  in  poi,  come  la  più  an- 
tica testimonianza  ove  si  parli  di  lingua  romana  in  contrapposizione 
del  latino  grammaticale,  revoca  in  dubbio  la  molta  antichità  attri- 
buita a  quella  vita  e  fa  rilevare  che  ad  ogni  modo  il  passo  tante 
volte  citato  suona  ben  diversamente  nel  testo  autentico  di  quella 
Vita.  Gf.  Crescini  in  Atti  del  R.  Istit.  Veneto  di  se.  lett.  ed  arti, 
a.  1900-1901,  p.  443  e  segg.,  e  G.  Paris  in  Romania,  XXIX,  638. 

Negli  stessi  Rendiconti  poi  il  Novati  richiama  l'attenzione  sopra 
un  passo  di  una  lettera  di  S.  Colomba  (a.  613),  ove  si  avrebbe  una 
allusione  al  volgare  d'Italia.  Cf.  sulla  questione  G.  Paris  in  Romania, 
XXIX,  638,  e  Crescini,  Atti  del  R.  Ist.  Veneto,  1900-1901.  p.  444  e  segg. 

Volgare  j)reletterario.  —  V.  De  Bartholoma?is  ha  iniziato,  nell'^r- 
chivio  dell'Ascoli,  una  serie  di  Contributi  alla  conoscenza  de' dialetti 
dell'Italia  meridionale,  s])Og\ìiindo  gli  elementi  volgari  che  s'incontrano 
nel'Codex  diplomaticus  cavensis ',  una  raccolta  che  comprende  poco 
meno  che  duemila  pergamene  originali  dall'a.  792  al  1064.  11  lavoro, 
condotto  con  pieno  possesso  e  sicurezza  di  metodo,  desta  vivo  desi- 
derio che  l'A.  continui  presto  l'opera  passando  all'esame  degli  altri 
cartularj  di  quella  interessantissima  regione. 

Anche  il  prof.  G.  Suster,  nella  rivist-.c  Tridentum  del  1900,  ha  pub- 
blicato uno  spoglio  degli  elementi  volgari  da  lui  osservati  nelle  carte 
latine  di  Valsugana  Bassa  ;  ma  i  documenti  da  lui  spogliati  non  sono 
più  antichi  dei  sec.  Xllt  e  XIV,  e  la  indipendenza  con  cui  egli  pro- 
cede rispetto  al  metodo,  è  cagione  che  le  sue  conclusioni  non  risul- 
tino sempre  abbastanza  assodate. 


NOTIZIE  177 

Studi  d'italiano.  —  La  casa  editrice  E.  Loescher  ha  pubblicato  una 
edizione  italiana  della  Italienische  Grammatik  del  Meyer-Liibke.  Questa 
edizione  si  avvantaggia  sulla  tedesca  per  esservi  tenuto  conto  di  tutti 
i  progressi  della  scienza  dal  1894  in  poi  ;  ma  sottostà  ad  essa  in  quanto 
che  vi  fu  soppressa  tutta  la  parte  che  riguardava  i  dialetti  non  to- 
scani. Il  lavoro  fu  eseguito  da  due  allievi  del  M.  L.,  i  dottori  Matteo 
Bartoli  e  Giacomo  Braun,  del  primo  dei  quali  i  lettori  degli  Studi 
conoscono  già  un  buon  saggio  critico  pubblicato  nel  precedente  volume. 

A  Berlino,  presso  l'editore  B.  Behr,  ha  veduto  la  luce  un  diziona- 
rietto tascabile  del  dott.  Sabersky,  inteso  unicamente  a  istruire  i 
tedeschi  sulla  retta  accentuazione  delle  parole  e  sulla  qualità  delle 
vocali  accentate  nella  pronunzia  dell'italiano. 

Letteratura  predantesca.  —  Mentre  in  questo  stesso  fascicolo  esce  un 
nuovo  inedito  latino  di  Bonvesin  di  Riva,  la  Società  filologica  romana 
ha  cominciata  la  pubblicazione  dei  due  poemi  volgari  pure  inediti 
del  medesimo  autore,  il  Libro  delle  tre  Scritture  e  il  Volgare  delle 
Vanità  a  cura  di  Vincenzo  De  Bartholomseis,  dei  quali  erasi  dato  in 
questi  Studi  un  preannunzio  (Vili,  635);  ed  Emilio  Teza  ha  esumato, 
negli  Atti  e  Meni,,  della  R.  Accad.  di  Padova,  voi.  XVI,  p.  311  e  segg., 
un  curioso  rifacimento  in  prosa  dell'altro  poemetto  bonvesiniano  Le 
cinquanta  cortesie  da  tavola,  tratto  da  un  raro  incunabolo  s.  a.  stam- 
pato a  Milano. 

Nella  Flegrea  del  giugno  1900  R.  Ortiz  scrive  alcune  pagine  sulle 
poesie  261-268  del  Cod.  Vat.  3793  attribuite  a  Ciacco  dell' Anguillara. 

Negli  Studi  di  letter.  ital.,  voi.  Ili,  N.  Zingarelli  pubblica  uno  studio 
sui  Trattati  di  Albertano  da  Brescia  in  dialetto  veneziano  e  ne  dà  al- 
cuni saggi  arricchiti  di  un'accurata  analisi  grammaticale. 

Studi  danteschi.  —  Fra  le  molte  pubblicazioni  segnaliamo  :  il  bel- 
lissimo volume  di  Francesco  D'Ovidio,  Studii  sulla  Divina  Commedia, 
Palermo,  Sandron,  1901,  ove  l'A.  ha  riunito  molti  suoi  scritti  dan- 
teschi usciti  di  già  in  vari  periodici  e  che  qui  ricompaiono  quasi 
tutti  più  0  meno  rimaneggiati,  arricchiti  di  appendici  e  accompa- 
gnati da  scritti  nuovi;  il  volume  di  Angelo  De  Gubematis,  Su  le  orme 
di  Dante,  Roma,  1901,  che  compendia  tutto  un  corso  di  lezioni  fatte 
dall'eminente  catedratico  su  Dante  nella  Università  di  Roma  ;  le  due 
note  di  Michele  Scherillo,  Il  nome  della  Beatrice  amata  da  Dante  (in 
Bendic.  dell'Istit.  Lomb.  a.  1901)  e  Matelda  svelata  (in  Riv.  d'Italia, 
nov.  1900);  gli  articoli  del  D'Ovidio  e  del  Parodi  Sulla  epistola  a 
Cangrande,  editi  il  primo  nella  Riv.  d' Balia,  settembre  1900,  il  secondo 
nel  Bullett.  d.  Soc.  Dant.  Ital.,  voi.  Vili;  la  memoria  di  Gino  Chia- 
rini, Dante  e  una  visione  inglese  del  trecento,  edito  nella  Biv.  d'Balia, 
marzo  1901.  Ved.  anche  qui  appresso  in  Misceli.  D'Ancona. 

Miscellanea  D'Ancona.  —  Dal  bel  volume  che  antichi  scolari  ed 
amici  hanno  dedicato  ad  Alessandro  D'Ancona,  festeggiandosi  il  qua- 
rantesimo anniversario  del  suo  insegnamento,  notiamo  :  C.  Frati,  Un 
Codice  autografo  di  Bernardo  Bembo  ;  G.  Paris,  La  source  italienne  de 
la  "  Courtisane  amoureuse  „  de  la  Fontaine;  P.  Rajna,  Una  questione 
d'amore;  F.  D'Ovidio,  Ancor  dello  zeta  in  rima;  G.  Mazzoni,  Se  possa 
il  Fiore  essere  di  Dante  Alighieri  ;  L.  Biadene,  La  rima  nella  canzone 
italiana  dei  secoli  XIII  e  XIV;  F.  No  vati,  Sopra  un'antica  storia  lom- 
barda di  Sant'Antonio  di   Vienna. 


178  BULLETTINO  BIBLIOGRAFICO 

Miscellanea  Ascoli.  —  Già  annunziammo  (Vili,  636)  la  preparazione 
di  quest'altra  raccolta  destinata  a  festeggiare  il  giubileo  scientifico 
di  Graziadio  Ascoli  ;  qui  richiamiamo  l'attenzione  su  gli  scritti  ivi 
pubblicati  che  più  direttamente  interessano  la  filologia  romanza: 
P.  Rajna,  La  lingua  cortigiana;  C.  Nigra,  Il  dialetto  di  Viverone; 
P.  G.  Goidanich,  Intorno  al  dialetto  di  Campobasso  ;  C.  Salvioni,  Eti- 
mologie; L.  Biadene,  Note  etimologiche;  G.  Paris,  "  Ficatum  ,  en  roman; 
E.  G.  Parodi,  U  tipo  italiano  aliare,  aleggia;  E.  Gorra,  L'alba  bilingue; 
V.  Crescini,  Dell'antico  frammento  epico  bellunese;  J.  Cornu,  Estoria 
Troyùa  acabada  era  de  1411  annos  (1373). 

Dialetti  italiani.  —  Siciliano  :  R.  La  Rosa,  inizia  una  serie  di  Saggi  di 
morfologia  siciliana  con  un  fascicolo  sui  sostantivi  (Noto,  Zammit,  1901). 
—  Abruzzese  :  G.  Finamore,  ha  pubblicato  una  bella  serie  di  Proverbi 
abruzzesi  nelle  Rom.  Forschungen  del  Vollmoller,  t.  XI;  V.  Ranalli, 
in  occasione  di  nozze,  ha  dato  in  luce  un  manipolo  di  Poesie  in  dia- 
letto di  Città  S.  Angelo  (prov.  di  Teramo);  L.  Anelli  ha  cominciato  a 
pubblicare  un  Vocabolario  Vastese,  Vasto,  tip.  Anelli,  1891  ;  la  stampa 
n'è  giunta,  colla  lettera  C,  alla  pag.  90,  e  a  lavoro  compiuto  ne  ri- 
parleremo. —  Veneto:  Il  dott.  U.  Levi,  allievo  del  prof.  Crescini,  sotto 
il  titolo  /  monumenti  più  antichi  del  dialetto  di  Chioggia,  Venezia,  Vi- 
sentini,  1901,  dà  il  testo  di  tre  antiche  mariegole  chioggiote  e  ne 
illustra  la  grammatica  e  il  lessico.  —  Triestino  :  Il  dott.  G.  Vidossich 
rvQÌÌ'Archeogr.  Triestino  di  quest'anno  ha  cominciato  a  pubblicare  al- 
cuni Studi  std  dialetto  triestino  che  promettono  assai  bene  del  giovane 
autore.  —  Ladino  :  Sulle  Germanische  Bestandtheile  des  ratoroman. 
(surselv.)  Wortschatzes  il  dott.  P.  Genelin  pubblica  uno  studio  nel 
Programma  del  Ginnasio  d'Innsbruck  per  l'a.  1899-1900. 

Topoìiomastica.  —  E.  G.  Bonner,  La  toponomastica  italiana  negli  an- 
tichi scrittori  tedeschi,  Palermo,  1900  ;  D.  Olivieri,  Nomi  di  popoli  e 
di  santi  nella  toponomastica  veneta,  Venezia,  1901;  ma  sopratutto  in- 
teressanti le  Noterelle  di  topon.  lombarda  che  Carlo  Salvioni  vien  pub- 
blicando nel  Bollett.  star.  d.  Svizzera  italiana  (1890,  '99,  '900),  e,  del 
medesimo,  Dei  nomi  locali  levantinesi  in  -éngo  (ivi,  1899);  inoltre, 
C.  Avogaro,  Appunti  di  toponomastica  Veronese,  Verona,  1901  ;  G.  Cro- 
cioni.  La  topoìiomastica  di  Velletri,  Roma,  1901. 

Studi  francesi.  —  P.  Marchot,  della  Università  di  Friburgo  in  Sviz- 
zera, ha  cominciato  a  pubblicare  una  Petite  phonétique  du  fran^ais 
prélittéraire  (VI-X  sec),  trattando  in  questa  prima  puntata  del  vo- 
calismo (Fribourg,  Weith,  1901).  M.  Wilmotte,  della  Università  di 
Liegi,  ha  comunicato  al  Congresso  di  Storia  comparata  tenuto  a  Pa- 
rigi l'anno  scorso,  una  interessante  nota  su  l'éUment  comique  dans  le 
théàtre  religieux  (Macon,  Protat,  1901).  Sotto  il  titolo  Pohnes  et 
légendes  du  moyen  àge  G.  Paris  ha  riunito,  rendendole  così  accessibili 
a  tutti,  sette  delle  sue  memorie  già  pubblicate  in  efiemeridi  diverse. 
Sono:  La  Chanson  de  Roland  et  les  Nibelungen;  Huon  de  Bordeaux; 
Aucassin  et  Nicolette;  Tristan  et  Iseut;  Saint  Josaphat;  les  sept  In- 
fants  de  Lara  ;  la  "  Romance  mauresque  „  des  Orientala.  A  G.  Paris, 
dobbiamo  ancora  un  bel  volume  su  Francois  Villon,  inserito  nella 
collana  dei  Grands  écrivains  francais. 

Studi  provenzali.  —  N.  Zingarelli,  negli  Annales  du  Midi,  t.  XIII, 
dà  il  testo  da  lui  ricostituito  criticamente  del  Romans  de  San   Tra- 


NOTIZIE  179 

feìne.  Altra  edizione  critica  è  quella  che  P.  Savi-Lopez  ha  comu- 
nicata alla  Accademia  Reale  di  Napoli,  voi.  XXI,  della  Novella  pro- 
venzale del  pappagallo  di  Arnaut  de  Carcasses,  premettendovi  un'ampia 
introduzione  storico-letteraria  e  soggiungendovi  osservazioni  gramma- 
ticali, di  versificazione,  ecc. 

Studj  spagnoli  e  portoghesi.  —  11  prof.  F.  Hanssen,  del  quale  già 
annunziammo  alcune  pubblicazioni  di  antico  spagnolo  (Vili,  172),  ha 
messo  in  luce  altre  monografie  che  tutte  recano  nuovi  e  pregevoli  con- 
tributi alla  storia  della  lingua  in  Ispagna  durante  il  medioevo.  Nei 
Verhandlungen  des  Deutschen  Wissenschaftlicìien  Vereins  di  Santiago  de 
Chile,  1897:  Das  Possessivpronomen  in  den  altspanischen  Dialekten; 
1898:  Ueber  die  altspanischen  Priiterita  von  typus  ovq  pude;  1900:  Zur 
spanischen  und  portugiesischen  Metrik.  Negli  Anales  de  la  Universitad 
di  Santiago  de  Chile,  1897:  Miscelànea  de  versificacion  castellana; 
1898  :  Sobre  los  pronombres  posestvos  de  los  antiguos  dialectos  castellanns  ; 
1899:   Un  ymno  de  Juan  Ruiz;  1900:  Notas  a  la  prosodia   castellana. 

La  signora  Carolina  Michàelis  de  Vasconcellos,  che  nel  1896  iniziò 
la  pubblicazione  delle  sue  preziose  Postille  (Randglossen)  al  canzo- 
niere antico  portoghese  (v.  Zeitschr.  f.  rom.  Phil.,  XX,  fase.  2,  conti- 
nuazione in  XXV,  fase.  2),  ultimamente  ha  messo  mano  anche  a  una 
nuova  edizione  del  Cancioneiro  da  Ajuda  (già  edito  prima  da  lord 
Stuart,  poi  dal  Barone  de  Varnhagen),  e  contemporaneamente  verrà 
pubblicando  nella  Revista  Lusitana  gli  studi  da  lei  fatti  per  illustrare 
quell'insigne  monumento.  Intanto,  come  saggio  di  tali  studi,  ha  dato 
in  luce  nella  detta  rivista,  voi.  VI,  una  memoria  sui  Lais  de  Bre- 
tanha,  nella  quale,  investigando  la  provenienza  dei  cinque  lais  lirici 
trovati  nel  Canzoniere  già  Colocci-Brancuti,  ne  trae  occasione  per 
fare  un  bellissimo  '  excursus  '  anche  su  altre  questioni  che  concernono 
la  storia  della  primitiva  letteratura  ispano-portoghese. 

Nei  Fac^imili  di  antichi  mss.  jper  uso  delle  scuole  di  filol.  neolatina 
fu  già  segnalato  un  codice  Vaticano,  finora  unico,  contenente  un'an- 
tica redazione  castigliana  del  romanzo  in  prosa  di  Tristano.  A  pre- 
pararne una  edizione  ora  si  è  volta  la  signorina  Laura  Filippini,  stu- 
dente di  lettere  nella  Università  di  Roma. 


GIUNTE  E  CORREZIONI 

Nel  voi.  Vili,  p.  504,  di  questi  StudJ,  parlando  della  correzione 
antan  per  a  Tan  in  un  verso  di  Lanfranco  Cigala,  mancai  di  notare 
che  essa  era  stata  proposta,  quantunque  dubitativamente,  anche  dal 
prof.  Crescini  nel  suo  bel  Manualetto  provenzale,  p.  143.  Riparo  qui 
la  involontaria  omissione,  solo  aggiungendo  che,  forse  non  sarei  ca- 
duto in  quella  svista,  se  non  mi  ci  avessero  un  po'  spinto  le  parole 
che,  tornando  sul  Tan,  l'autore  stesso  aveva  scritte  in  fine  del  volume 
(Glossario,  p.  251).  F.  (4uerri. 


180  BULLETTINO  BIBLIOGRAFICO 

Per  l'articolo  '  Carmina  de  mensibus  ',  pubblicato  in  questo  stesso 
fascicolo,  il  prof.  Biadene  manda  le  seguenti  correzioni  : 

Pag.  5  n.  Per  mera  dimenticanza  non  è  fatta  menzione  del  Dic- 
tionnaire  de  Varchitectiire  del  Viollet-le-Duc,  sebbene  assai  noto  e  ci- 
tato in  più  d'uno  degli  scritti  indicati  nella  stessa  nota.  Si  veda 
specialmente  il  t.  IX  (an.  1868),  pag.  551. —  Pag.  6n  1.  19:  anzi  corr. 
anche  —  Pag.  9  1.  1  :  dipinte  corr.  disegnate  —  Pag.  lOn  1.  14  da 
basso:  1866  corr.  1896  —  Pag.  15,  n.  1,  1.  3.  Si  tolgano  le  parole  che 
seguono  a  Parte  1.  —  Pag.  16,  n.  2,  1.  2.  Nelle  pagg.  17-39  è  com- 
preso soltanto  il  testo  della  dissertazione  dell'Uhland,  mentre  le  note 
stanno  nelle  pagg.  40-51.  —  Pag.  18,  1.  8:  siffatte  corr.  consimili  — 
Pag.  20  1.  7  :  lo  corr.  io  —  Pag.  23  1.  4  :  né  corr.  né  —  Pag.  40, 1.  2 
da  basso:  fuit  ma  fuit  corr.  fuit  ma  fuit  —  Pag.  41,  1.  8:  virgola  dopo 
giusta.  —  Pag.  43.  Il  prof.  Della  Giovanna  crede  veramente  che  petitos 
derivi  da  pes.  Egli  giustamente  osserva  che  nel  lombardo  si  ha  il  dimi- 
nutivo x>escitt  '  piedini  '  (e  non  sarebbe  dovuto  sfuggire  neanche  a  me 
che  è  registrato  nel  Cherubini),  che  doveva  scriversi  pegit  o  pecit,  e 
poteva  quindi  facilmente  latinizzarsi  nel  caso  accusativo  in  pecitos. 
Questo  poi  per  la  facile  confusione  del  t  col  e  negli  antichi  mano- 
scritti sarebbe  stato  erroneamente  trascritto  per  petitos.  —  Pag.  52 
1.  3,  virgola  dopo  trattare.  —  Pag.  55n  1.  13  :  169  corr.  S  1,  169  e  1.  18: 
1099  corr.  S  II,  171  —  Pag.  60,  v.  96.  Il  prof.  Mussafia  proporrebbe 
di  leggere  :  maturas  fruges  ego  ;  sum,  iani  florida  vitis.  Basterebbe 
quindi  una  semplice  virgola  in  fine  del  v.  95.  Così  sembra  ora  anche 
a  me  che  convenga  leggere,  come  fa  il  codice,  il  primo  emistichio  ; 
inchinerei  invece  a  mutare  il  sum  in  tum,  tralasciando  la  virgola 
dopo  di  esso.  —  Pag.  105,  1.  6  :  ddicici  corr.  ddodici 


Tipografia  VINCENZO  BONA  -  Via  Ospedale,  3,  Tonnu 


ETUDES 

sur  le  tliéàtre  comique  fraii(;ais  dn  moyon  àge 

et  sur  le  role  de  la  noiivelle 
(laiis  Ics  farces  et  dans  les  comédies. 


Avant-propos. 

L'étude  *)  que  j'ai  le  plaisir  de  présenter  aux  lecteurs  de 
catte  Revue  a  pour  but  de  déterminer  les  rapports  existant 
depuis  le  moyen  àge  —  et  c'est  le  moyen  àge  que  j'examine 
surtout  —  entre  la  nouvelle  et  le  théàtre  comique.  La  farce 
du  XV^  et  du  XVI*  siècle  n'est,  dans  la  plupart  des  cas, 
qu'un  fabliau  mis  cn  action,  l'action  étant  assez  simple,  pour 
qu'un  fabliau  puisse  suffire  à  remplir  la  farce  tout  entière. 
Le  procède  de  ceux  qui,  de  nos  jours,  tirent  leurs  drames 
de  quelque  roman,  tout  en  étant  plus  compliqué,  demeure 
identique  pour  la  méthode. 


•)  Cette  étude  devait  paraìtre  en  France  lorsque  la  Direction  des 
Studi  eut  l'obligeance  de  lui  accorder  son  hospitalité.  C'est  là,  outre 
le  sujet,  la  raison  qui  m'a  pous?é  à  la  rediger  en  fran9ais. 

SludJ  di  Jìlolotjin  romama,  IX.  12 


182  PIKRRE  TOLUO 

Le  public  du  moyen  age  n'était  guère  exigeant.  On  se  con- 
tentait  de  peu  de  personnages  et  de  peu  d'idées,  lorsqu'on  ne 
tombait  pas  dans  l'excès  conlraire  et  qu'on  prétendait,  dans 
les  mysières,  des  centaines  d'acteurs  et  l'histoii-e  tout  entière 
de  la  religion  et  de  l'humanité.  Et  ici  encore,  dans  les  mys- 
tères,  on  ne  faisait  qiie  raettre  en  action  des  contes  d'un 
autre  genre,  les  rècits  renfermés  dans  l' ancien  et  dans  le 
nouveau  Testament  ou  les  légendes  des  sainls.  Dans  la  sira- 
plicité  inhérant  au  théàtre  comique,  un  valet  ofTrant  ses  ser- 
vices,  un  moine  débitant  un  sermon  bouffon,  parodie  d'une 
impiété  inconsciente  du  eulte  catholique,  une  fille  étalant  son 
impudence ,  sufflsaient  pour  égayer  le  public  et  pour  en 
exciler  les  rires.  On  riait  de  peu  de  chose,  mais  on  riait  à 
peu  près  de  ce  que  l'on  rit  de  nos  jours,  des  tours  des  fripons, 
du  ridicule  attaché  au  mariage,  des  espiègleries  des  femmes 
ou  des  infractions  au  célibat  de  la  part  des  gens  d'óglise.  La 
différence  entro  les  rires  des  deux  époques  consiste  plutót 
dans  la  mesure  et  dans  la  forme  extérieure  que  dans  la  subs- 
tance.  Mais  on  riait  alors,  plus  qu'on  ne  le  fait  de  nos  jours, 
des  raisères  de  l'humanité  souffrante,  des  violences  de  la  force 
brute  et  l'on  voyait  sans  fremir  un  mari  battant  sa  femme  à 
sang  ou  punissant,  de  la  manière  la  plus  cruelle,  un  amou- 
reux  surpris  sur  le  fait.  Aujourd'hui,  dans  ces  situations,  le 
sérieux  du  drame  remplace  le  burlesque  de  la  farce. 

Entre  les  fabliaux  et  les  farces  il  n'y  a  donc  d'autre  diffé- 
rence que  celle  inhérant  au  genre.  De  coté  et  d'autre  les 
mèmes  personnages  et  les  mèmes  sujets:  des  prèlres  et  des 
moines  débauchés,  des  femelles  en  rut  plutót  que  des  femmes 
passionnées,  des  maris  d'une  sottise  débordante,  des  fripons 
jouant  des  tours  de  passe-passe  et  des  valets  idiots  ou  intéressés. 
On  rit  de  tout  le  monde,  mais  les  moqués  ont  droit  à  la 
revanche  et  le  dupeur  dupé  renferme  tonte  la  moralité  de 
cette  sorte  de  productions.  Lorsqu'on   volt  ces  personnages 


ÉTBDES   sua   LE   T„É.T„E   C„.„«„E   P„..CUS   DU   ,,OVE.-,    .GÈ         133 

parallro  sur  la  scène.  o„  n'a  qu'à  Ics  «rouper  cn  deux  calhé- 
gor,es  i,e„  distinctes,  les  sols  et  les  r„sé,les  trompé.  et  les 
trompeurs;  les  plus  forts  triomphent  et  les  faibles  sont  raillés 
sans  miséricorde.  ""iianies, 

Les  farces  continuent  partant  l'oeuvre  des  anciens  conteurs 
juste  au  mcnent  où  les  fabliau,  disparaissent,  pour  toujours: 
Cel  e  succession  est  à  peu  près  immediate,  mais  cela  ne  si- 
8n,fie  po,„t  que  les  aulours  coraigues  aient  puisé  directement 

sion  est  pluiot  la  conséquence  nécessaire  de  ndentité  da  but 

cet  TT'  '"   '""""'  ''  aes  farces  se  proposaient, 
cest.à.d^e  damuser  le  public  par  fexamen  comique  de  la 
oc,e.e  de  leur  temps  et  par  ,a  reprod.c.ion  de  ces  su  e.^ 
m  depuis  les  epo,„es  les  plus  reculées,  ont  forme  le   ond 
.nepu,sab  e  de  la   tradition   populaire.  Il  y  a   un  axiome  en 
mathemat,ques  qui  dit:  deux  quantités  ou  deux  corps  sont 
semb  a  les  entre  eux,  lorsqu'ils  ressemblent  à  un   troisième 
Les  fabhaux  et  les  pièces  comigues  se  ressemblent  parce  qu'ils 
na,ssent  au  sein  du  peuple,  parce  que  ce  sont  deux  rivières 
jam,ssant  d'une  mème  source,  ,„i  ne  cesse  de  couler  méme 
de  nos  jours,  parce  qu'ils  ne  font  que  répéter  ce  que  ce 
tro,s,ème  elemen,  le  FolMore.  leur  avait  suggóré  à  peu  prè 
ae  Ja  meme  manière. 

forme' m^'  '™  """•"  '''  '"''''  P"'""^'^»^  '■^«'"™"'  ""« 
f  .me  mteraire  servant  de  modèle  aux  écrivains  qui  suivent 

et  lon  comprendra  comment,   par  exemple.  des  auteurs  de 

larces  a.ent  pu   s'inspirer   directement  au   Decameron   du 

ces  Z,r  "'f  '"""'''  '  '^  '™^'"-™  P°P"'-™-  Toulefois 
ces  nsp,rat<ons  d.rectes  ne  sont  pas  fréquentes  aux  XV'  et 
XVI  siecles  et  nous  verrons  des  sujets  de  farces,  vivant  de 
venilteT  "  "  ""'''  "'  ^«^'---"—ux  anciens  nou- 
La  nouvelle  est  un  palrimoine  comraun  à  tout  le  monde; 


184  PIEBRE  TOLDO 

elle  vit  de  memo  sur  les  bords  du  Gange,  de  la  Seine  et  du 
Tibre,  elle  vit  partout  où  il  y  a  des  hommes,  qui  souffrent, 
qui  aiment  et  qui  rient  et  marque  les  voj'ages  merveilleux 
de  la  pensée  à  une  epoque,  où  toute  autre  communication  à 
de  grandes  distances  paraissait  interdite.  G'est  pour  cela  que 
la  préexistence  d'un  certain  sujet  chez  un  auteur  d'une  na- 
tionalité  quelconque  ne  signifie  point,  au  moins  dans  la  plu- 
part  des  cas,  une  dépendance  directe  desécrivains  postérieurs. 
Sacchetti,  par  exemple,  a  conte  en  Italie  des  aventures  que 
des  nouvellistes  d'une  epoque  successive  chez  nous  ou  au 
delà  des  Alpes  paraissent  avoir  reproduìtes  et  l'on  sait  que 
Sacchetti  a  demeuré  pour  longtemps  inconnu  à  la  France 
aussi  bien  qu'à  l'Italie.  Ce  n'est  donc  que  fort  rarement  qu'on 
peut  déterminer,  avec  précision,  la  source  d'un  conte  ou 
d'une  farce;  sa  préexistence  chez  un  auteur  plus  ou  moins 
inconnu  ne  servant  qu'à  déterminer  corament  à  une  cerlaine 
epoque  ce  sujet  circulait  déjà  de  pays  en  pays.  Meme  pour 
des  écrivains  devenus  populaires,  il  y  a  parfois  des  exceptions 
à  faire,  car  le  folldoriste  entend  répéter  dans  les  veillées 
d'hiver  des  contes,  qui  ont  regu  depuis  longtemps,  une  forme 
littéraire,  mais  les  bonnes  gens  qui  les  débitent  ignorent  l'exis- 
tence  de  ces  versions  écrites  et  se  bornent  à  redire  ce  que 
leurs  aìeux  leur  ont  transmis  de  bouche  en  bouche. 

La  nouvelle  a  précède  la  farce.  Il  est  vrai  qu'on  compte 
quelques  pièces  comiques  contemporaines  des  fabliaux,  ce  qui  a 
fait  supposer  à  certains  criliques  qu'il  s'agit  là  de  débris,  attes- 
tant  une  floraison  très  ricbe  et  très  ancienne  de  ce  genre  litté- 
raire. Mais  il  faut  se  garder  de  toute  sorte  d'exagération.  Le 
jeu  de  la  feuillée  et  d'autres  pièces  semblables  ont  une  physio- 
nomie  particulière  et  se  distinguent  nettement  des  farces  des 
XV^  et  XVI^  siècles.  Leur  sujet  n'est  jamais  tire  des  nouvelles, 
ce  qui  s'explique  par  leur  coexistence  et  tout  porte  à  croire 
que  s'il  y  avait  eu  une  production  remarquable  de  ces  pièces 


ÈTUDES  SUR  LE  THÉATRE  CO.MIQCE  FRANr.VlS  DU  MOVKN  AGE    1S5 

comiques.  elles  auraient  dù  parvenir  àia  postérité  ainsi  que 
les  fabhaux  ou  les  mystères.  L'empreinte  populaire  est  tou- 
jours  une  garanlie  de  longue  vie. 

Dès  le  comraencement  du  XVIP  siede,  l'inspiration  que  les 
comedies  tirent  de  la  nouvelle  se  présente  sous  un    autre 
aspect.  Nous  n'avons  plus  affaire  à  des  auteurs  prirnitifs  em- 
pruntant  leurs  sujets  à  la  tradition  populaire.  Ges  sujets' sont 
desormais  bien  connus  par  tout  le  monde  et  les   contes  du 
Boccace  ou  les  facéties  du  Pogge,  imprimés  et  reliés,  ornent 
les  bibhothèques  des  gens  de  lettres  de  lous  les  pays    Rien 
de  plus  naturel  que  de  supposer  que  Molière,  ami  et  contem- 
porain   de  La   Fontaine,  les   ait  étudiés  et  qu'il  en   ait   tire 
quelques  inspirations.  Mais  que   ces   inspirations  sont  diffé- 
rentes  de  celles  du  siede  précédenti  Là  le  sujet  est  tout  et 
le  fabliau  se  transforrae  en  farce,  par  un  simple  changement 
du  recit  en  dialogue.  Ghez  Molière,  au  contraire,  aussi  bien 
que  chez  la  plupart  des  écrivains  qui  l'ont  suivi,  la  nouvelle 
-  comme  nous  le  verrons  plus  tard  -  n'est  qu'un  épisode 
quon  exploile  seuleraent  pour  en  tirer  quelques  scènes  plai- 
santes  et  les  pièces  du  grand   écrivain   ne  perdraient,   sans 
ces  accessoires,  que  quelques  étincelles  de  leur  gaieté.  Peu 
a  peu  i'influence  de  la   nouvdle  se    rétrédt   et  tend  à  dis- 
paraìtre,  mais   en  pldn  XIX«  siede  De   Musset  est  là  pour 
nous  téraoigner  quelle  n'est  pas  encore  tout  à  fait   éteinte. 
Ghez   lui   l'inspiration  présente   encore  d'autres  différences. 
Sa  méthode  n'est  pas  celle  des  écrivains   de  farces,  ni    non 
plus  cdle  du  pére  de  la  comédie  frangaise.  Nous  verrons  que 
plusieurs  de  ses   pièces  reproduisent  des  contes  du  Boccace 
ou  de  Bandelle,  mais  ces  contes  ne  sont  que  des   prétextes 
pour  qae  le  poète  développe  là-dessus  ses  aimables  fantaisies, 
pour  qu'il  répande  à  pldnes  mains  le   lyrisme  remplissant 
son  àme  et  cet  esprit  brillant,  airaable  et  parfois  paradoxal, 
auquel  on  reconnaìt  son  genie  et  sa  patrie. 


186  PIERRE  TOLDO 

Aucun  critique  n  a  étudié,  que  je  sache,  dans  leur  ensemble 
les  rapports  existant  entre  les  nouvelles  et  le  théàtre  comique, 
et  les  sources  qui  ont  é(é  indiquées,  pour  les  farces  du  moyen 
àge,  laissent  à  peine  entrevoir  l'état  de  la  question  *).  Il  faut 
toutefois  rendre  homraage  aux  recherches  diligentes,  mais 
dans  un  autre  ordre  d'idées,  de  M""  Petit  de  Julleville,  dont 
les  études  sur  la  comédie  et  surtout  le  répertoù^e  du  théàtre 
comique  me  dispensent,  dans  la  plupart  des  cas,  d'indiquer 
les  recueils  renfermant  les  farces  en  question.  Je  reconnais 
aussi  de  bon  gre  que  les  essais  de  MM.  Émile  Picot  et  Chris- 
tophe Nyrop  ont  frayé,  d'une  manière  on  ne  pourrait  plus 
satisfaisante,  le  chemin  que  je  vais  parcourir  et  s'il  y  avait 
plusieurs  pièces  comiques,  annotées  et  expliquées  si  diligem- 
ment  que  celles  de  leur  recueil,  ce  serait  de  la  peine  inutile, 
au  moins  sous  un  certain  rapport,  de  revenir  sur  un  tei  sujet. 

')  Dans  son  intéressante  étude  sur  les  FaUiaux  {p.  385),  M''  Bédier 
résumé  l'état  de  la  question,  en  rapportant  le  jugement  de  M""  Le  Clerc, 
qui  croit  que  la  farce  continue  IVeuvre  des  fabliaus,  et  celui  tout  à 
fait  oppose  de  M''  Petit  de  Julleville.  "  Si  la  farce,  dit  M''  de  Julle- 
ville, était  ainsi  sortie  du  fabliau  tout  entière,  il  y  aurait  plus  de 
ressemblance  entre  les  sujets  traités  dans  l'un  et  l'autre  genre.  Nous 
avons  conserve  quelques  centaines  de  fabliaux;  nous  ne  possédons  pas 
moins  de  cent  cinquante  farces;  si  la  farce  n'était  qu'un  fabliau  mé- 
tamorphosé,  quarante  ou  cinquante  farces  reproduiraient,  sous  la 
forme  dialoguée,  le  récit  d'autant  de  fabliaux.  Or  il  n'en  est  pas  du 
tout  ainsi.  Les  rapprochements  de  sujets  sont  très  rares  d'un  genre 
à  l'autre,  et  ces  quelques  rapprochements  n'empécheront  pas  qu'on 
puisse  affirmer  que,  si  la  farce  hérite  de  l'esprit  narquois  et  de  l'hu- 
meur  libre  du  fabliau,  elle  est  néanmoins  tout  à  fait  indépendante 
et  dispose  d'un  fond  comique  en  grande  partie  originai  et  propre  à 
elle  „.  Les  résultats  de  mes  recherches  sont  bien  loin  de  confirraer 
en  tout  et  partput  l'opinion  de  M''  Petit  De  Julleville.  Ce  que  M""  Bédier 
ajoute  sur  un  fond  commun  d'inspiration  populaire,  pour  les  deux 
genres,  me  paraìt  plus  conforme  à  la  vérité,  bien  que  l'on  ne  doive 
pas  exclure,  comme  il  le  fait_d'une  manière  si  tranchante,  l'influence 
directe  exercée  sur  la  farce  d'un  coté  par  les  fabliaux  et  de  l'autre 
par  les  nouvelles. 


ÈTUDES  SUR  LE  THÈATRE  COMIQUE  FRAXCAIS  DU  MOYEN  AGE    187 


Ancien  théàtre.  —  Lutte  de 


ruses. 


La  ruse  du  renard  de  l'epopèe,  ruse  qui  ne  regarde  pas 
do  près  aux  moj-ens,  pourvu  que  l'adversaire  soit  bafouó  et 
vaincu,  voilà  ce  qui  triomphe  surtout  dans  ce  théàtre,  où  le 
faible  n'excite  que  les  rires.  Le  faible,  avons-nous  dit,  n'a  droit 
à  la  sympathie  des  auteurs  des  farces  que  dans  le  cas  où  il 
sache  prendre  sa  revanche,  se  moquant  de  son  moqueur  et 
li  y  a  dans  cette  maxime  si  souvent  répétée  — à  trompeur 
trompeur  et  demi  -  tonte  la  moralité,  dont  cette  epoque 
paraissait  capable.  On  ne  doit  partant  pas  se  raoquer  des 
autres,  de  peur  qu'on  ne  se  moque  de  nous,  mais  si  nous 
sommes  à  memo  d'avoir  toujours  le  dessus,  tout  tour  est  bon 
et  tout  scrupule  doit  étre  banni.  G'est  là  la  morale  des  valets 
«ies  comédies  des  siècles  suivants. 

Nous  avons  dono  affaire  à  deux  sortes  de  frompeurs:  ceux 
qui  trompent  parco  que  c'est  là  leur  caractère  et  leur  ma- 
nière de  vivrò  et  ceux  qui  ont  recours  à  la  ruse  pour  re- 
pousser   celle  d'autrui.  Une  troisième  catégorie,  dont  nous 
allons  nous  occuper  ensuite,  pourrait  étre  formée  par  les 
tours  que  les  femmes  jouent  à  leurs  maris  et  ici  encore  c'est 
l'opposition  de  la  faiblesse  intelligente  et  adroite,  à  la  force 
brutale  à  laquelle  on  a   impose  le   nom   de   droit   conjugal. 
Outre  cette  distinction  generale,  il  y  en  a  une  autre  fondée 
sur  la  portée  memo  de  ces  ruses  et  l'on  peut  séparer,  d'une 
manière   assez   nette,   les   simples   plaisanteries   des  fripon- 
neries  proprement  dites,  bien  que   souvent   les   plaisanteries 
elles-mémes  soient  faites,  dans  un  but  interesse. 

La  farce  Le  cousturier,  Esopei  le  Gentilhomme  et  la  cham- 
brière  nous  offre  un  specimen  assez  agréable  de  ce  premier 
genre;  une  plaisanterie,  qui  est  en  mémetemps  une  vengeance. 


188  PIERRE  TOLDO 

Le  personnage  principal  de  ces  pièces  comiques,  un  person- 
nage  chargé  de  résoudre  les  situations  les  plus  compliquées, 
de  décider  sans  appel  et  d'amuser  un  public,  pas  plus  difficile 
certainement  quo  celui,  qui  s'extasie  de  nos  jours  aux  grands 
coups  de  la  famille  de  Guignol,  c'est  ce  bàton  honoré  d'une 
foule  d'adjectifs  et  d'applications  variés,  bàton  despote  et  ven- 
geur  du  droit  *).  Le  bàton,  dans  la  farce  du  cousiurier,  dit  le 
dernier  mot,  et  —  ce  qui  lui  arrive  fort  souvent  —  conclut 
la  pièce,  à  peu  près  corame  l'agnition  résolvant  toule  sorte 
d'intrigue  du  théàtre  latin  et  de  celui  de  la  Renaissance. 

Les  deux  personnages  principaux,  le  couturier  et  Esopet,  ne 
sont  pas  —  on  le  reconnaìt  de  prirae  abord  —  de  tròs  bons 
amis.  Le  couturier  menace  à  tout  moment  et  sans  raisons 
plausibles  d'  «  empoigner  un  baston  rond  »,  désolé  et  aigri 
surtout  par  l'appétit  formidable  de  son  gargon. 

Est  tant  feriant  et  tant  gourmaut 
Qu'il  mangeroit  plus  qu'un  alemant; 
En  son  habit  ne  peult  tourner 
Tant  est  gras. 

Mais  on  va  voir  que  ce  n'est  pas  lui  qui  l' engraisse.  En 
effet  une  chambrière,  jouissant  de  la  protection  de  son  maitre, 
protection  qui  n'est  pas  due  certainement  à  l'éclat  de  ses 
vertus,  se  présente  au  tailleur  pour  ordonner  un  habit  à  la 
mode,  et  apporte  une  perdrix  et  un  cliapon,  afin  que  le 
travail  marche  plus  rapideraent.  Le  maitre  couturier  est 
prie  d'en  faire  part  à  Esopet,  mais  le  rusé  compère,  pour 
éviter  ce  partage,  déclare  que  son  apprenti  ne  mange  jamais 
de  poulets,  ni  de  perdrix,  ce  qui  n'est  pas  sans  étonner  la 
jeune  filie.  Cet  aniefactum  explique  et  nous  prépare  à  la 

*)  Le  nom  de  Martin  baston,  qu'on  lui  applique  si  souvent,  se  trouve 
déjà  dans  le  roman  du  Renart.  Cfr.  Romania,  1880,  p.  127.  Note  de 
M^  Delboulle. 


ÈTUDES   SUR   LE   THÉATRE   COMIQUE   FRANCAIS   DU   MOYEN   AGE         189 

vengeance  d'Esopet.  La  charabrière  questionne  le  gargon  sur 
les  mets  qu'il  préfère;  celui-ci  l'interroge  à  son  tour,  on  s'ex- 
plique,  on  se  fàche;  enfìu  le  tour  du  maitre  est  révélé  à 
l'apprenti.  Esopet  alors  congoit  une  invention  assez  bizarre. 
Le  couturier,  déclare-t-il,  n'est  pas  toujours  si  tranquille  qu'il 
en  a  l'air.  De  temps  en  temps  une  sorte  de  diable  s'empare 
de  lui  et  le  rend  si  méchant,  qu'il  se  jette  sur  les  personnes 
qui  r  entourent  et  qu'il  tuerait  certainement ,  si  on  ne  le 
raettait  pas  aussitót  dans  l'impossibilité  de  nuire.  Pour  le  domp- 
ter,  si  l'on  veut  se  fier  à  son  expérience,  il  n'y  a  rien  de 
plus  sur  que  de  le  garroter  et  de  lui  donner  de  bons  coups 
de  bàton,  prenant  garde  au  moment  où  cette  sorte  de  folie 
s'empare  de  lui  et  qui  est  indiqué,  par  le  branleraent  de  sa 
lète  et  les  mouvements  qu'il  fait  d'un  coté  et  d'autre,  comme 
s'il  cherchait  quelque  chose.  Le  gentilhomme,  maitre  de  la 
charabrière,  et  celle-ci  écoutent  attentivement  l'élrange  récit, 
et  déclarent  qu'ils  vont  bien  se  tenir  sur  leurs  gardes  et  se 
défendre  de  la  manière  indiquée.  Et  la  ruse  a  plein  effet.  Le 
tailleur,  à  la  présence  de  ses  clients,  pour  chercher  les  ci- 
seaux  et  le  drap,  s'agite,  se  baisse,  furète  partout,  ce  qui 
parait  à  lout  le  monde  une  marque  certaine  de  sa  folie.  On 
se  jette  sur  lui,  on  le  frappe  à  coups  redoublós,  le  tailleur 
crie  et  s'étonne,  aux  coups  suivent  les  explications  et  la  ruse 
de  l'apprenti  parait  au  jour.  Le  maitre  voudrait  bien  se  fà- 
cher,  mais  Esopet  lui  rappelle  le  tour  des  perdrix,  et  le  tail- 
leur bon  gre  mal  gre  doit  reconnaitre  la  légitimité  du  tour  dont 
il  est  la  victime.  Tout  cela  est  exposé  avec  assez  de  gaietó  ;  la 
ruse  est  évidemment  trop  simple  pour  remplir  la  scène  et  les 
faits  se  succèdent,  au  gre  de  l'auteur,  avec  une  rapidité  en- 
fantine.  mais  malgré  tout  cela,  ou  comprend  qu'il  y  avait  là 
de  quei  amuser  des  spectateurs  simples  et  na'ifs.  Les  coups  et 
les  horionsont  toujours  produit  un  grand  effet,  sur  les  scènes 
populaires. 


190  PIERRE  TOLDO 

La  source  de  cette  farce,  que  je  ne  trouve  indiquée  nulle 
part,  est  pourtant  dans  la  tradition  populaire  du  moyen  àge,  qui 
nous  a  été  transmise,  par  le  fabliau  Du  tailleur  du  Rai  et  de 
sonsergent  *).  II  y  avait  jadis,  nous  conte  lauteur  inconnu,  un 
roi,  qui  avait  un  tailleur,  dont  le  défaut  principal  était  celui 
de  l'avarice  et  de  la  gourmandise.  Un  jour  le  chamberlain  du 
roi  lui  fìt  présent  d'une  certaine  quantité  de  miei,  le  priant 
d'en  faire  part  à  son  valet.  Mais  le  tailleur  déclare  que  son 
valet  ne  mange  jamais  de  miei,  et  pour  cela  il  le  mango  tout 
Seul,  se  moquant  de  tous  les  deux.  Le  valet,  ayant  appris 
le  tour  qu'on  venait  de  lui  jouer,  se  présente  au  chamberlain 
et  lui  expose  comment  le  tailleur  «  par  lunaisons 

A  en  la  teste  estordisons, 
Le  sens  part  et  devient  desvez; 
Se  il  n'est  erranment  liez, 
Celui  que  encontrer  porrà, 
Jamais  de  pain  ne  mangerà.  „ 

Pour   s'apercevoir   de   son  accès,    ajoute-t-il,  on  n'aura  qu'à 
prendre  garde: 

Quant  il  gardera  9a  et  là. 
La  terre  entor  lui  batra. 
Et  de  son  siege  leverà, 
Son  eschamel  degetera. 

La  ruse  du  valet  obtient  le  résultat  que  nous  venons  de 
constater  dans  la  farce.  lei  il  y  a  de  mème  la  recherche  des 
ciseaux  et  le  tailleur  bien  garrotte  apprend  le  tour  qu'on  lui 
a  joué,  sous  les  coups,  qui  pleuvent  de  tous  les  cótés.  A  trom- 
peur  trompeur  et  demi. 

Colte   maxime  inspire  encore  une  autre  farce  ^),  celle  des 


')  Cfr.  Fabliaux  et  contes,  etc,  édit.  Barbazan,  1808,  IP  voi. 
=)  Cfr.  Frère  Farfait,  II«  voi. 


ÈTUDES  SUR  LE  THÈATRE  COMIQUE  FRANl.:AIS  DU  MOYEN  AGE    i9i 

deux  savetiers,  ou  pour  mieux  dire  du  pauvre,  du  riche  et 
du  juge.  Plusieurs  sujets  ont  concouru  à  la  formation  de 
cette  pièce.  Le  savetier  pauvre  et  sans  souci,  se  présentant 
sur  la  scène,  pour  chanter  son  bonheur  et  excitant  par  là 
l'envie  du  riche,  ennuyó  et  troublé  au  milieu  de  ses  biens, 
est  une  vieille  connaissance  de  ceux  qui  étudient  les  nou- 
velles.  On  retrouve  cette  apologie  de  la  vie  simple  et  mo- 
deste dans  les  «  Gommentarii  in  dictis  et  factis  Alphonsi 
regis  »  du  Piccolomini  et  de  là,  après  plusieurs  pérégrina- 
tions,  elle  arrive  aux  Joijeux  Devis  attribués  à  Bonaventure 
Des  Périers  et  au  charmant  récit  de  La  Fontaine*).  Le  riche 
de  la  farce  se  réveille,  lui  aussi,  de  son  pénible  sommeil, 
entendant  les  chansons  de  son  voisin  : 

Le  riche.     Voicy  chose  non  pareille  : 

Dequoy  j'ouys  oncques  parler; 
Car  je  voy  mon  voysin  chanter 
Tonte  jour,  et  si  n'a  que  rire. 

Et  il  pense  de  mèrae  que  son  successeur  de  le  raettre  sur  le 
tróne  en  lui  offrant  une  somme  éblouissante.  La  manière,  dont 
il  s'y  prend  et  le  résultat  qui  s'ensuit  n'ont  toutefois  rien  à  voir 
à  la  conclusion  morale  de  La  Fontaine.  Le  pauvre  savetier  de  la 
farce  a  beau  se  moquer  des  richesses,  en  s'écriant  que  «  c'est 
coramencement  de  toute  peine  »  ;  il  les  désire,  les  prétend  et 
ce  qui  constitue  la  différence  des  deux  récits  c'est  que  lorsqu'il 
les  possedè,  il  ne  souhaite  plus  de  s'en  séparer.  D'ailleurs  le 
riche  n'est  nullement  généreux.  Il  offre,  il  est  vrai,  au  sa- 
vetier la  somme  de  cent  écus,  le  mème  chiffre  des   autres 


*)  Nouv.  XIX:  "  Du  savetier  Blondeau  qui  ne  fut  oncq  en  sa  vie 
melaucholié  que  deus  fois  et  comment  il  y  pourveut  et  de  son  épi- 
taphe  „.  Voyez  ce  que  j'en  dis  à  p.  139  de  mon  Contributo  allo  studio 
della  novella  francese,  ecc.  (Rome,  Loescher ,  1895)  et  mon  étude  sur 
Le  savetier  et  le  financier  de  La  Fontaine  (Rome,  1894). 


192  PIERRE  TOLDO 

banquiers,  mais  cet  offre  n"a  d'autre  but  que  celui  de  se 
moquer  du  malheureux  et  il  a  médité  d'avance  comment  il 
pourra  ravoir  son  argent.  Il  persuade  dono  au  cordonnier  de 
sadresser  directement  à  Dieu,  car  le  bon  Dieu  écoute  ceux. 
qui  le  prient  avec  foi.  Le  savetier  se  rend  aussitót  dans  le 
tempie,  où  le  riche  la  précède,  se  cachant  derrière  lautel, 
et  prie  le  Seigneur  de  lui  vouloir  donner  des  gages  de  sa 
protection,  en  lui  paraissant  sous  la  forme  d'une  pluie  d'or. 
Le  riche  répond  de  la  part  de  Dieu: 

Demande,  je  te  octroyray 

Mais  que  ce  soit  juste  demande. 

Le  savetier  déclare  qu'il  veut  avoir  cent  ècus,  l'un  sur 
l'autre,  sans  rabattre  pas  mème  un  Hard;  Dieu,  ou  pour 
mieux  dire  celui  qui  en  usurpe  la  place  trouve  que  la  somme 
est  quelque  peu  exagérée  et  il  commence  à  craindre,  pour 
la  restitution.  Enfìn  Targent  est  donne,  le  pauvre  homme 
devient  heureux  et  le  riche  doit  penser  à  recouvrer  son  bien. 
Mais  il  a  beau  déclarer  au  savetier  que  les  cent  écus  lui 
appartiennent  et  qu'il  vient  de  lui  jouer  une  farce;  le  save- 
tier fait  la  sourde  oreille,  il  a  entendu  Dieu  lui  répondre  et 
c'est  à  lui  Seul  qu'il  est  redevable  dece  qu'il  vient  de  recevoir. 
Alors  le  riche  se  volt  contraint  d'avoir  recours  à  la  justice, 
mais  le  savetier  ne  saurait  se  présenter  au  juge,  sans  avoir 
un  manteau  assez  propre.  Vollà  donc  le  riche  obligé,  pour 
atteindre  son  but,  de  lui  prèler  aussi  le  manteau,  ce  qui  devient 
un  autre  sujet  de  rire,  parce  que  le  juge  déclare  au  riche 
qu'il  doit  se  faire  rendre  de  Dieu  ce  qu'il  a  prète  en  son 
nora  et  que  le  manteau  mème  appartient,  de  bon  droit,  au 
savetier. 

Pour  des  intrigants,  qui  làchent  de  tromper  quelqu'un  en 
empruntant  Taspect  ou  la  place  d'une  divinité  et  parlant  en 
son  nom,  je  n'ai  qu'à  renvoyer  au  commontaire  de  Landau  tou- 


ÉTUDES  SUR   LE  THIJATRE  COMIQUE   FRANCAIS   DU   MOYEN   AGE        193 

chant  la  nouvelle  célèbre  du  Décaméroìi  ').  Meme  dans  le 
Novellino  du  Masuccio  il  y  a  de  ces  tours  de  passe-passe  (p.  1, 
nouv.  8=;  p.  2,  nouv.  XX""),  dont  M'  Landau  n'a  pas  eu  con- 
naissance,  ainsi  que  de  l'a venture  des  Facétieuses  nuits  du 
Straparole  (1°  nuit,  fable  P),  où  Cassandria  emprunte,  dans 
une  église,  les  traits  et  le  langage  d'un  saint.  Dans  les  Cent 
nouvelles  nouvelles  (nouv.  XIV)  l'inspiration  du  Decameron 
(IV,  2)  est  directe.  L'hermite  trompeur  se  feint  un  ange  pour 
persuader  une  mère  fort  crèdule  à  lui  céder  sa  fille  ^).  Je 
rappelle  aussi  le  conte  de  Morlini  :  «  de  monacho  qui  in  mona- 
sterio  divi  Laurentii  seraphici  Francisci  vitam  repraesentabat  » 
et  l'autre  du  mème  écrivain  «  de  patricio  qui,  ut  matronam 
falleret,  Ghristum  aemulatus  est  ^)  ». 

Tour  ce  qui  est  du  manteau  prète  au  débiteur,  afin  qu'il 
puisse  se  présenter  au  juge,  je  n'ai  qu'à  citer  une  des  nou- 
velles des  Porretane  (nouv.  XX)  de  Sabadino  degli  Arienti, 
dont  la  ressemblance  est  frappante,  dans  tous  ses  détails  et 
qui  est  là  pour  témoigner  la  préexistance  de  cette  plaisan- 
terie,  dans  les  traditions  populaires.  Le  créancier  reste  moqné 
de  la  mème  manière  et  le  juge  se  range  du  coté  du  débiteur. 

Les  farces  touchant  le  célèbre  Pathelin,  présentent  à  leur 
tour  une  sèrie  de  ruses,  dont  on  retrouve  maints  exeraples, 
dans  les  nouvelles  de  cette  epoque. 

Il  y  a  tout  d'abord  l'a  venture  bien  connue  de  Maistre  Pierre 
Pathelin  avec  le  drapier  Guillaume,  où  l'on  retrouve  encore 
et  jusqu'à  un  certain  point  l'application  du  proverbe:  à  trom- 


^)  Landau,  Die  Quellen  des  Decameron,  édit.  1869,  -p.  90  sgg.;  Decani., 
IV,  2. 

*)  Masuccio,  Novellino,  t.  I,  N.  XI;  Fortini,  Novella  di  Raffaello, 
2"  nuit;  Malespini  d'après  les  C.  N.  iS\(N.  LXXX)  et  dans  le  Folklore, 
Le  frère  Peintre  des    Contes   Poitevins  [Kriiptadia,  III,  pp.  2ol-234). 

')  Édit.  Elz.,  1855. 


194  PIERRE  TOLDO 

peur,  trompeur  et  demi.  Le  tour  dont  le  drapier  resto  la  vic- 
tirae  est  vengé  par  la  ruse  du  berger;  il  y  a  mème  un  doublé 
tour,  cclui  du  drap  volé,  par  la  fiction  d'un  accès  de  folle 
polyglotte  et  la  IcQon  de  Tavocat  à  son  client,  toujours  au 
préjudice  du  drapier,  consistant  elle  aussi  dans  une  autre 
sorte  de  folle,  un  hée  idiot  pour  toute  rèponse  aux  questions 
du  juge.  Mais  la  vengeance  du  Me,  dont  le  berger  paie  aussi 
son  avocat,  et  qui  parait  l'application  d'un  autre  proverbe 
italien:  elusa  il  giuoco,  non  Vinsegni,  ne  donne  aucune  joie 
au  marchant  trompé,  qui  peut-ètre  l'ignore,  pour  toujours. 
La  tutte  est  engagée  plutót  entre  deux  fripons  et  le  drapier 
reste,  au  bout  des  comptes,  la  victime  de  l'un  aussi  bien  que 
de  l'autre.  Cette  historiette,  qui  a  donne  à  l'ancien  tbéàtre 
francais  un  charmant  chef-d'ceuvre,  devait  préexister,  depuis 
longtemps,  dans  les  traditions  populaires  de  la  France  et  de 
l'Italie.  W  Finamore  vient  de  la  retrouver  encore  vivante,  de 
nos  jours,  dans  l'Italie  du  midi  *)•  G'est  La  storije  de  lu  pazze, 
l'histoire  du  fou.  Un  paysan  est  accuse  d'avoir  volé  un  cochon. 
Son  avocat  lui  conseille  de  se  feindre  fou,  pour  eluder  les 
questions  du  juge,  mais  il  doit  se  repentir  ensuite  de  la  legon 
donnée,  car  le  paysan  emploie  la  mème  ruse,  pour  ne  pas  le 
payer.  On  connalt  la  nouvelle  du  Parabosco  *)  où  il  est  question 
d'un  certain  Thomas,  qui  a  promis  à  un  notaire  vingt-cinq 
ducats,  pourvu  qu'il  le  tire  d'affaire,  devant  le  juge.  La  ruse 
apprise  sert  de  prétexte  au  paysan  pour  ne  pas  tenir  sa  parole 
et  le  notaire  reste  berne.  Le  mème  récit  de  Pathelin  est  ré- 


*)  Cfr.  Tradizioni  popol.  ahruzz.,  Nouv.  P,  Lanciano,  1892. 

')  Diporti,  Giorn.  I,  Nouv.  VIIL  Voyez,  pour  d'autres  sujets  puisés 
à  la  mème  source,  Makciiesi,  Per  la  storia  della  novella  italiana  nel 
sec.  XVIf,  Rome,  1897,  p.  86.  Le  critique  italien  oublie  toutefois  de 
citer  la  farce  de  Pathelin  et  d'aiitres  rédactious.  Yoyez,  pour  le  Pa- 
rabosco, l'oeuvre  de  Bianchini  (Yenise,  1899). 


ÉTUDES  SUR  LE  THKATRE  COMIQUE  FRANCAIS  DU  MOYEN  AGE    195 

pélé  par  Ludovic  Domenichi  dans  ses  Facéiies  (ed.  de  Venise 
1590,  p.  209)  et  il  va  sans  dire  que  l'auteur  italien  pouvait, 
dans  ce  cas,  s'inspirer  directement  à  l'oeuvre  frangaise,  mais 
il  pouvait  s'inspirer  aussi  à  la  tradition  orale  de  son  pays, 
d'autant  plus  que,  lout  en  étant  question  d'un  avocat  et  d'un 
berger,  il  ne  s'agit  plus  d'un  marchand  de  draps,  mais  d'une 
amende,  pour  n'avoir  pas  payé  les  droits  d'octroi,  et  que  le 
bèe  est  remplacé  par  des  sifflements.  Enfin  la  mèrae  aventure 
du  berger  et  de  l'avocat  avec  la  plaisanterie  de  la  folle  si- 
mulée,  réapparait  dans  les  contes  du  Vacalerio  *). 

En  Italie  la  ruse  de  Pathelin  eut  aussi  l'honneur  de  briller 
sur  la  scène.  Grazzini,  mieux  connu  sous  le  nom  de  Lasca,  en 
fit  le  sujet  de  son  Arzigogolo.  Get  Arzigogolo  ou  intrigue 
est  le  nom  d'un  paysan,  qui  pour  empècher  la  validité  d'une 
vente,  d'après  le  conseil  de  son  avocat  Alessio,  se  feint  fou  et 
répond  aux  demandes  du  juge  par  un  éternel  sfT- 

Le  Juge.  Approche-toi  de  moi.  Comment  t'appelles-tu? 

Le  Paysan.  Sff. 

Le  Juge.  Quel  est  ton  village? 

Le  Paysan,  Sfi. 

et  ce  sff"  continue  assez  longtemps  et  se  répète  lorsque  Ser 
Alessio  demande  d'ètre  payé.  La  ressemblance  entre  la  pièce 
francaise  et  l'italienne  est  evidente,  bien  qu'il  y  ait  assez  de 
diflérences  de  détails,  pour  mettre  en  doute  la  dépendance 
directe  de  V Arzigogolo  de  Pathelin. 
Voici  ce  qu'il  y  a  de  plus  ressemblant: 

Ser  Alessio.  Voistu,  Arzigogolo,  à  quoi  servent  mes  conseils?  tu 
recouvres  tes  boeufs,  ce  dont  j'ai  beaucoup  de  plaisir;  maintenant  je 
te  prie,  en  homme  de  bien,  de  me  donner  les  deux  écus  que  tu  m'as 
promis. 


^)  Voyez  Marchesi,  page  citée. 


196 


PIERRE  TOl.DO 


Le  Paysan.  SfF. 

Ser  Alessio.  Ah!  ah!  tu  me  fais  lire;  tu  fes  moqué  assez  bien  de 
ce  bonhomme  de  juge,  et  tu  as  joué  ton  ròle  à  merveiUe;  mais  à 
présent  il  ne  s'agit  plus  de  siffler.  Quand  comptes-tu  me  payer? 

Le  Paysan.  SfF. 

Ser  Alessio.  Q'a  suffit.  La  chose  commence  à  m'embÈter.  Donne-moi 
mes  deux  écus. 
Le  Patjsan.  SflF. 

Dans  les  comparaisons  que  nous  venons  d'indiquer,  on  trouve 
aussi  quelques  exemples  de  la  folie  slmuiée  de  Pathelin,  exem- 
ples  qu'on  pourrait  muitiplier  sans  trop  de  peine.  L'hypothèse 
de  la  préexistence  de  ce  sujet,  dans  les  contes  populaires,  ne 
saurait  donc  étre  écartée,  mais,  comme  les  rédactions  citées 
sont  toutes  postérieures  à  la  farce  frangaise,  l'hypelhèse  ne 
peut  se  transformer  en  affìrmation  positive. 

Ces  doutes  n'ont  pas  lieu  pour  ce  nouveau  Pathelin,  dont 
rin5=piration  est  tirée  en  partie  du   Pathelin  classique,  et  en 
partie  aussi  d'un  conte  traditionnel.  Le  Pathelin  classique  sert 
de  modèle  au  nouveau,  dans  la  ruse  employée  par   l'avocai 
a  fin  de  vaincre  la  méfiance  du  pelletier.  Celui-ci  est,  à  son 
tour,  une  copie  evidente  du  Drapier  célèbre  et  la  ruse  que 
l'avocat  emploie  à  son  égard  est  toujours  fondèe  sur  la  flat- 
terie  et  sur  les  protestations  d'une  ancienne  amitié.  G'est  là 
la  raéthode  dont  se  servirà  plus  tard  Don  Juan  de  Molière 
avec  M'  Dimanche.  Gette  connaissance  du  coeur  humain,  tou- 
jours ouvert  à  la  louange,  prète  un  certain  charme  au  dèbut 
de  ce  nouveau  essai  sur  l'avocat  illustre,  désormais  passe  en 
proverbe.  Malheureusement  il  s'agit  d'un  charme  d'emprunt, 
qui  ne  sufflt  pas  toujours  à  cacher  plusieurs  faiblesses  de  style 
et  de  pensée. 

Ainsi  que  le  corbeau  de  la  fable,  le  pelletier  laisse  tomber 
son  fromage,  ou  pour  étre  plus  exact,  livre  sa  marchandise 
à  Pathelin,  qui  doit  s'en  servir   pour   la   garniture  du  drap 


ÈTUDES   SUR   LE   TUÉaTRE   COMIQUE   I'RAN(.:aIS   DU   MOYEN   AGE         197 

volé  à  l'autre  marchand.  G'est  ainsi  qu'un  voi  complète  l'autre, 
de  méme  que  les  deux  pièces  se  complètent  entre  elles. 
L'avocat  déclare  toutefois  que  ce  n'est  pas  pour  lui  qu'il  a 
fait  cette  acquisition.  Le  cure  auquel  elle  est  destinée  va  payer 
tout  cela,  sans  marchander  et  sans  se  faire  tirer  l'oreille;  il 
sufflt  de  se  rendre  à  l'église  et  d'attendre  qu'il  ait  fini  ses 
fonctions  religieuses.  A  l'église,  ils  trouvent  en  effet  un  prétre, 
dont  Pathelin  s'approche,  pour  le  prier  de  vouloir  bien  con- 
fesser  le  pelletier,  lui  promettant  une  douzaine  de  messes, 
l'argent  tout  comptant,  bien  entendu,  selon  sa  coutume.  Mais 
il  faut  que  le  ben  prètre  prenne  garde  au  naturel  de  son 
pénitent  : 

Il  est  d'une  complexion 
Aucunesfois  bien  fantasticque, 
Et  souvent  quant  le  ver  le  picque, 
Devient  comme  tout  insensé 

Cette  déclaration  nous  fait  deviner  l'issue  de  la  ruse,  com- 
pliquée  par  Tinvitation  que  Pathelin  adresse  au  prètre  de 
vouloir  bien  dinar  avec  lui,  dans  un  certain  lieu,  qu'il  lui 
indique.  Le  marchand,  appelé  après  quelque  temps  par  le 
confesseur,  s'avance  aussitòt,  dans  la  persuasion  d'elre  payé 
et  réquivoque  continue  longtemps  entre  le  prètre  qui  deraande 
les  péchés  du  jeune  homme  et  celui-ci  qui  demande,  à  son 
tour,  son  argent.  Cette  équivoque  si  prolongée  perd  peu  à  peu 
de  son  naturel  et  l'explication  se  fait  attendre  trop  longtemps, 
pour  qu'elle  puisse  résoudre  logiquement  une  situation  douée 
de  la  possibilité  comique. 

On  a  recherché  la  source  de  cette  donnée  du  Nouveau 
Pathelin,  dans  les  Repues  franches  de  Villon,  là  où  il  s'agit 
de  «  La  manière  comment  ils  eurent  du  poisson  ».  On  sait  que 
selon  le  récit  de  ce  poète,  noyant  son  genie  dans  la  débauché, 
il  se  serait  rendu   lui-mème   coupable   d'un   tour   pareli,  au 

StwìJ  di  filoloiia  romnmn,  IX.  13 


198  PIERRE  TOLDO 

préjudice  d'un  marchand  de  poissons.  Ce  marchand  est  payé 
de  la  mème  monnaie,  par  le  Penancier  de  Notre-Dame,  qui, 
à  cause  de  l'équivoque  enlre  despecher  (expédier)  et  depecher 
(confesser)  croit  avoir  affaire  à  un  fou. 

Ce  récit  était  toutefois  bien  connu  en  Franca  et  en  Italie, 
avant  l'oeuvre  de  Villon.  Sabadino  degli  Adenti,  dans  ses 
Porretaìie  (nouv.  X^),  nous  conte  l'histoire  d'un  certain  Pirone, 
qui  a  la  raauvaise  inspiration  de  vendre  son  bois  à  un  in- 
trigant.  Ce  filou  feint  vouloir  le  payer  sur  l'inslant  et  le  méne 
chez  un  prètre,  auquel  il  conte  cette  histoire  de  la  confession 
et  de  la  folle,  que  nous  venons  d'entendre.  Pirone  cru  en- 
diablé  a  beau  demander  son  argent;  on  le  traite  de  fou,  on 
le  garrotte,  on  lui  tire  mème  du  sang.  Et  avant  Sabadino  degli 
Arienti  ce  conte  avait  défrayé  en  France  la  muse  de  Gortebarbe, 
qui  en  fit  le  sujet  de  son  fabliau  si  connu,  les  Trois  aveuglea 
de  Compiengne.  lei  un  clerc  s'écrie  qu'il  a  donne  un  besani 
d'or  à  l'un  des  trois  aveugles,  mais  il  ne  donne  en  efifet  rien 
à  personne.  Les  malheureux,  se  fiant  à  sa  parole,  se  rendent 
dans  un  cabaret,  oìi  ils  font  bombance  avec  cette  aumóne  sì 
généreuse,  mais,  au  moment  de  payer,  après  une  longue 
dispute,  ils  doivent  se  persuader,  qu'on  leur  a  joué  un  mauvais 
tour.  Le  clerc  alors  intervieni  de  nouveau  et  déclare  au  trai- 
teur  qu'il  va  le  faire  payer  par  le  cure  et  se  hàte  en  mème 
temps  de  donner  avis  à  ce  cure  qu'il  aura  affaire  à  un  enragé. 
Le  bon  prètre  exorcise  Tbóte,  qui  proteste  et  déclare  qu'il 
n'est  venu  là,  que  pour  recouvrer  son  argent  et  fon  a  bien 
de  la  peine  à  éclaircir  ce  quiproquo,  considerò  par  la  mo- 
rale de  ce  temps,  comme  une  simple  plaisanterie.  Plus  tard 
Morlini  en  transporla  la  scène  en  Espagne:  «  De  bispano  qui 
decepit  rusticuin  monacbumque  Garmelitanum  »,  et  la  trom- 
perie,  dont  le  paysan  doit  se  plaindre,  est  celle  des  poulets, 
qui  lui  sont  volés,  de  la  mème  manière.  Straparole  ne  manque 
pas  d'ajouter  d'autres  traits  à  ce  récit  si  attrayant  (13*  nuit, 


ÉTUDKS  SUR  LE  THÉATRE  COMIQUE  KRANCAIS  DU  MOYEN  AGE    199 

XI"  fable),  se  répétant  ensuite  bien  des  fois  encore  d'un  coté 
et  de  l'autre  des  Alpes.  La  troisième  pièce  touchant  Pathelin, 
le  Testament  de  Pathelin,  où  le  héros  de  la  trilogie  laisse 
en  mourant  à  son  confesseur  quelque  chose  de  bien  intime 
de  sa  femme  et  fait  d'autres  legs  buiiesques,  n'est  pas  sans 
rappeler  Li  dis  de  la  vescie  a  prestre  *)  répété  dans  le  Pa- 
rangon  des  nouvelles  et  ailleurs  *)  et  tous  les  testaments  bur- 
lesques  de  l'epoque,  y  compris  ceux  de  Villon. 

Une  autre  parade  imitée  de  Patbelin  et  qui  reconnaìt  les 
mèmes  sources  est  celle  qui  raet  en  scène  Le  chaulderonniery 
le  savetier  et  le  tavernier.  Les  deux  premiers  se  rendent  au 
cabaret,  où  ils  boivent  tout  leur  soùl,  sans  avoir  de  quoi 
payer.  Le  tavernier  est  obligé,  fante  de  mieux,  de  leur  faire 
crédit,  jusqu'au  jour  suivant,  où  le  chaudronnier  s'habille  en 
femme  et  le  savetier  se  feint  enragé.  Tous  les  deux  font  un 
tapage  endiablé  et  le  savetier,  après  avoir  débite,  comme  son 
modèle,  un  torrent  de  sottises,  profitant  de  son  delire,  frappe 
le  tavernier,  qui  se  sauve  et  renonce  à  se  faire  payer. 

Dans  les  farces  du  poète  piéraontais  Aliene,  dont  l'inspiration 
frangaise  a  été  constatée  depuis  longtemps  ^),  il  y  a  un  souvenir 
de  toutes  ces  ruses,  notamment  dans  celle  de  Nìcolao  Spranga, 
où  une  personne  trompée,  par  un  de  ses  amis,  se  venge  de 
lui  d'une  manière  plaisante  et  appartenant  au  genre  citò. 

La  ruse  intelligente  et  dans  le  but  louable  de  vaincre  la  vio- 
lence  d'un  méchant,  anime  une  autre  farce  frangaise,  portant 
pour*tilre  Farce  nouvelle  du  musnier  et  du  gentilhomme  à 
quatì^e  personnages:  VaWé,  le  meunier,  le  genlilhomme  et  le 
page  *).  Le  gentilhomme,  croyant  l'abbé  fort  riche,  veut  lui  em- 

')  Reciieil  Montaiglon,  IIP  voi. 

')  Voyez  les  notes  à  ce  fabliau,  dans  le  Recueil  cité. 
^)  Cfr.  Bruno  Cotronei,  Le  farse  di  Aliane,  ecc.,  Reggio  Calabria,  1889. 
*)  Pour  les  farces,  dont  je  n'indique  pas  l'édition,  voyez  le  Réper- 
ioire  cité  de  M'  Petit  de  Julleville. 


200  PIERRE  TOLDO 

prunter  trois  cents  écus,  qui  lui  doivent  servir  pour  «  festoyer... 
caresnie  prenant  ».  L'abbé  refuse,  le  gentilhomme  a  recours 
aux  menaces,  enfin  bien  persuade  d'avoir  gain  de  cause,  le 
gentilhomme  consent  de  délivrer  l'abbé  de  son  prèt  force, 
pourvu  qu'il  réponde  à  trois  questions:  où  est  le  centra  du 
monde,  ce  que  le  gentilhomme  vaut  et  ce  qu'il  pense,  dans 
ce  moment.  L'abbé  fort  embarrassé  de  ces  trois  énigmes,  appelle 
à  son  secours  le  meunier,  dont  il  a  eu  auparavant  l'occasion 
d'admirer  la  finesse.  Le  meunier  se  déguise  en  abbé,  se  pré- 
sente au  gentilhomme  et  répond  aux  trois  questions  de  la 
manière  suivante:  «  Le  centre  du  monde  est  dans  ce  point-là; 
si  vous  ne  le  croyez  pas,  mesurez-le.  Votre  valeur  ne  saurait 
dépasser  vingt-neuf  deniers,  vu  que  Jésus-Christ  a  été  vendu 
pour  trente.  Vous  pensez  que  je  suis  l'abbé;  Eh  bien!  vous 
vous  trompez.  Je  suis  le  meunier  ».  Le  gentilhomme,  loin  de 
se  fàcher,  reconnaìt  et  admire  la  finesse  du  meunier,  qui 
sauve,  par  ce  moyen,  les  biens  de  son  client. 

Le  fond,  a-t-on  dit,  est  la  mise  en  scène  d'un  conte  de 
YOrlandino  de  Théophile  Folengo  •),  mais  le  conte  passa  bientót 
en  France,  car  nous  le  retrouvons  dans  le  Grand  Parangon 
de  Troyes  (nouv.  XL*).  «  D'ung  seigneur  qui  par  force  vouioit 
avoir  la  terre  d'ung  abbé  s'il  ne  lui  donnoit  responce  de  trois 
choses  qu'il  demandoit;  laquelle  il  fit  par  le  moyen  de  son 
mounier  ».  Avant  le  Grand  Parangon,  avant  Orlandino,  ce 
conte  était,  d'ailleurs,  fort  bien  connu  en  Italie.  On  le  retrouve 
chez  un  ancien  écrivain  de  la  Péninsule,  Franco  Sacchetti 
(nouv.  IV),  où  le  seigneur  est  censé  ètre  Messer  Bernabò 
seigneur  de  Milan  et  il  est  encore  vivant  de  nos  jours,  dans 
la  tradition  populaire  ^).  Les  questions  du  seigneur  ne  sont  pas 


')  Cfr.  Hist.  lift,  de  la  France,  XXTV,  p.  363. 

')  Voyez  une  nouv.  de  Jehan  Mansel,  rapportée  par  M.  Mabille  dans 
ses  notes  à  l'édit.  du  Grand  Parangon.  Cfr.  aussi  Liebeecht  {Got.  gel. 


ÉTUDES  SUR  LE  THÈATRE  COMIQUE  FRANCAIS  DU  MOYEN  AGE    201 

toujours  les  memes,  mais  on  les  retrouve  toutes  les  trois  ré- 
pétées  par  l'un  ou  par  l'autre  de  ces  conteurs.  Dans  le  Grand 
Parangon  elles  sont  réunies:  «  Combien  je  vaulx,  où  est  le 
milieu  du  monde  et  ce  que  je  pense  »,  et  les  réponses  soni 
aussi  identiques  Ser  Giovanni,  dans  son  Pecorone,  attribue 
l'aventure  au  docteur  A-lano  (VI,   1). 

Un  conte  italien,  au  moins  dans  sa  première  redaction, 
parait  inspirer  de  mème  la  Farce  du  paste  et  de  la  tarte, 
telle  qu'on  la  lit  dans  le  recueil  de  Viollet  Le  Due  (IP  voi.). 
Deux  Coqutns  s'accordent  pour  tromper  et  voler  un  pàtissier. 
Ils  se  trouvent  dans  le  dénouement  le  plus  absolu,  au  moins 
si  l'on  veut  les  juger  d'après  le  début  de  l'action  : 

Le  premier.  Ouyche. 
Le  second.  Qu'as-tu? 
Le  premier.  Si  froyt  que  tremble, 

Et  si  n'ay  tissu  ne  fiUé. 
Le  second.  Sainct  Jehan,  nous  sommes  bien  ensemble,  Ouyche. 
Le  premier.  Qu'as-tu? 
Le  second.  Si  froyt  que  tremble. 

Il  faut  donc  se  décider,  Trapper  aux  portes  et  demander 
l'aumóne.  Le  premier  se  présente  chez  le  pàtissier,  où  il  sur- 
prend  un  dialogue  entre  celui-ci  et  sa  femme,  ce  qui  devient 
pour  lui  la  clef  de  l'intrigue.  Le  pàtissier  ordonne  à  sa  femme 
de  ne  donner  un  pàté  magnifique,  qu'il  vient  d'apprèter,  dans 
le  but  de  s'en  régaler  avec  ses  amis,  qu'à  celui,  qui  aura 
«  enseigne  certaine  »,  c'est-à-dire  qui,  pour  se  faire  reconnaìlre, 
la  prendra  par  la  raain.  Le  Goquin  n'a  pas  besoin  d'en  en- 
tendre  davantage.  Il  se  rend  aussitót  chez  son  camarade,  qui 


Anzeigen,  1871,  pp.  663-664),  la  IIP  nouvelle  des  Paralipomeni  à  la 
Nov.  milan.  de  M.  Imbriani  (Bologna,  1872),  El  Coeugh,  la  nouv.  sicil. 
L'Abbati  senza  x>inseri  {Race.  Pitré,  II,  p.  323)  et  ce  que  j'en  dis  dans 
mon  Contributo  allo  studio  della  Novella,  ecc.,  p.  102  sgg. 


202  PIERRE  TOLDO 

se  charge  de  jouer  le  róle  du  gargon  envoyé  par  le  mari  et 
de  soutirer  ainsi  le  pàté.  L'autre  coquin  veut  jouer,  à  son  tour, 
de  ruse.  Il  se  rend  de  nouveau  chez  le  pàtissier  pour  lui 
voler  une  tarte,  mais  celui-ci,  qui  étant  revenu  à  la  maison  a 
entendu  ce  qui  s'est  passe  pendant  son  absence,  et  qui  fait  par 
conséquent  trotter  Martin-bàton  sur  le  dos  de  sa  femme,  à  la  vue 
du  filou  s'emporte,  le  saisit  à  la  gorge  et  veut  l'obliger  de  rendre 
ce  qu'il  a  volé.  Le  filou,  pour  se  tirer  d'affaire,  déclare  qu'il 
enverra  à  sa  place  son  camarade,  le  véritable  auteur  du  voi, 
ce  qu'il  fait,  faisant  accroire  à  ce  dernier,  qu'il  n'a  qu'à  se 
presentar,  pour  recevoir  la  tarte.  Il  va  sans  dire  que  la 
tarte  se  transforme  en  coups  et  en  horions;  le  compagnon 
se  fàche,  revient  cbez  son  camarade,  mais  la  vue  du  pàté 
volé  fait  évanouir  aussitót  ses  propos  de  vengeance. 

Dans  l'analyse  que  j'ai  donnée  ailleurs  ')  de  la  comédie  La 
Tasse  de  Claude  Bonet,  écrivain  qui  composa  des  pièces  pour 
le  théàtre  classique  aussi  bien  que  pour  celui  de  la  Renais- 
sance, je  crois  avoir  démontré  qu'un  conte  semblabie  vivali 
déjà  depuis  longtemps  en  Italie.  On  le  retrouve  chez  Franco 
Sacchetti  (nouv.  GGXI),  chez  Masuccio  {Novellino,  nouv.  XVIP)  • 
et  ensuite  en  France,  dans  les  Comptes  du  monde  adventu- 
reux  (nouv.  XXIV^).  Il  est  toujours  question  d'un  ou  de  deux 
fripons,  qui  se  présentent  à  une  dame,  pendant  l'absence  de 
son  mari,  et  trouvent  le  moyen  de  se  faire  donner  quelque 
chose,  qu'elle  aurait  dù  consigner  à  un  messager  inconnu. 
Le  mari  revient  à  la  maison  et  s'en  prend  à  sa  femme,  d'une 
manière  grossière.  Le  fripon,  qui  n'a  pas  commis  le  premier 
voi,  tàche  pour  se  faire  honneur  d'en  commettre  un  autre, 
toujours,   dans   la   mème  maison,  mais  ici  l'intrigue  varie  et 


')  Cfr.  Revne  d'hist.   lift,   de  la  France:  La  Comédie  frangaise  de  la 
Renaissance  (1899,  pp.  594-601). 


ÉTUDiS  SUR  LE  théatre  comique  francais  du  moyen  age   203 

dans  la  Tasse,  le  second  filou  n'est  pas,  par  exemple,  si  mal- 
heureux  qu'il  l'est  dans  notre  farce. 

La  diffèrence  subslanlielle  consiste  en  ce  que  dans  tous 
ces  contes  et,  dans  la  Tasse  aussi,  il  est  question,  comme  ce 
nom  r  indique,  d'une  coupé  ou  tasse  de  quelque  valeur  et 
dans  la  seconde  tromperie  on  en  veut  à  un  poisson  ou  à  des 
pordrix.  Mais  ce  sont  des  variations  de  détail,  qui  ne  modi- 
fient  pas  trop  le  sujet  general  de  la  pièce,  dont  le  caractère 
est  évidemment  populaire,  de  mème  qne  tout  ce  qui  se  rap- 
porte  au  triomphe  de  la  ruse  et  aux  tours  des  frìpons.  Les 
conteurs  ont  oubliè,  dans  ce  cas,  la  revanche,  tandis  que 
l'auteur  de  la  farce  est  reste  fidèle  à  ce  proverbe  sì  souvent 
répété:  A  trompeur,  trompeur  et  demi.  Que  les  maris  et  les 
amoureux  de  ce  théatre  y  prennent  garde.  Ils  seront  fort 
souvent  payés  de  la  mème  monnaie. 


Contre  le  mariage. 

Meme  en  laissant  de  coté  certains  malheurs,  dont  nous 
allons  nous  occuper  sous  peu  et  qui  défrayent  le  théatre 
ancien  plus  encore  que  le  moderne,  la  femme  est  toujours 
considérée,  à  cette  epoque,  comme  une  source  de  soucis  et 
de  misères,  pour  celui  qui  a  eu  la  mauvaise  inspiration  d'en 
fa  ire  sa  compagne.  J'emploie  le  mot  compagne,  bien  que  ce 
mot  renferme  une  conception  de  la  femme  et  de  ses  droits 
à  laquelle  le  moyen  àge  était  bien  loin  de  s'inspirer,  le  mari 
étant  alors  considerò  comme  un  maitre  absoiu,  devant  qui  la 
femme  aurait  dù  courber  toujours  le  front,  dans  une  obéissance 
aveugle  et  muette.  Contre  cette  superiorità  du  sexe  fort,   le 


204  PIERRE  TOI.DO 

sexe  faible  luttait,  cependant,  de  toutes  ses  forces  ;  c'était  uno 
bataille  domestique  et  obstinée  livrèe  par  la  ruse  et  par  la 
finesse,  l'ancien  duel  que  nous  venons  de  voir,  dans  un  autre 
champ,  de  la  force  et  de  la  ruse.  La  femme  avait  bien  sou- 
vent  le  dessus,  quitte  toutefois  à  expier  son  opiniàtreté  et  ses 
rébellions,  sous  les  coups  de  son  maitre. 

Dans  une  foule  de  compositions  poétiques  le  mariage  s'an- 
nonce  de  loin,  corame  un  malheur  :  la  Conienance  des  femmes, 
VEpttre  des  femmes,  VEvangile  des  femmes,  le  Blastange 
des  femmes,  le  Bldme  des  femmes,  le  Bien  des  femmes  et 
surtout  dans  ces  Quinze  joies  du  mariage,  qui  eurent  un 
succès  si  extraordinaire,  et  dont  les  imitations,  on  ne  pourrait 
plus  nombreuses,  témoignent  des  sentiments  de  l'epoque. 

Au  théàtre  Ics  «  sermons  joyeux  des  maux  de  mariage  » 
abondent.  Dans  le  «  Nouveau  et  joyeux  sermon  contenant  le 
menage  et  la  charge  de  mariage,  pour  jouer  à  une  nopce  », 
déclaration  qui  peut  paraitre  une  simple  plaisanterie,  l'auteur 
s'empresse  de  dire  que: 

On  ne  doit  pas  tenir  a  sage 
Celuy  qui  vient  a  mariage, 
Car  tout  homme  qui  se  marie 
Ne  peut  faire  plus  grand  folie 


Et  lei  suit  une  longue  énumération  de  tout  ce  qu'il  faut 
au  mariage.  On  doit  tout  d'abord  se  charger  de  l'installation 
des  meubles,  des  vivres,  des  domestiques,  ce  qui  amène  néces- 
sairement  une  foule  d'enuuis  et  de  dépenses.  On  a  ensuite 
affaire  à  l'épouse,  dont  le  caractère  acariàtre,  la  sensualité 
qu'on  ne  saurait  assouvir,  la  passion  pour  le  luxe  et  pour 
la  toilette,  vont  causer  bien  de  la  peine  à  son  malheureux 
mari.  Il  aura  beau  avoir  recours  au  bàton:  la  femme  se  mo- 
quera  de  lui,  pis  encore  qu'auparavant  et  tout  le  monde  lui 
donnera  tort: 


ÉTUDES  SUR  LE  THEATRE  COMIQUE  FRANCAIS  DU  MOYEN  AGE    205 

Les  uns  diront  qu'il  est  jalou, 
Les  autrcs  diront  qu'il  est  fou  '). 

M""  Picot  a  rapproché  de  ce  monologue  plusieurs  composi- 
tions,  dans  le  mème  goùt.  Rappelons  en  passant  :  Le  dii  de 
menage,  VOustillement  au  villain,  le  Ditte  des  choses  qui 
faillent  en  menage  et  en  mariage,  la  Complaincte  du 
nouveau  mat-ié  et  l'on  n'a  qu'à  ouvrir  au  hasard  le  Recueil 
de  M'  de  Montaiglon  *)  pour  constaler  le  grand  succès  de  cette 
sorte  de  plaisanteries  et  d'invectives. 

On  y  peut  lire  les  neuf  legons  des  Ténèbres  du  mariage 
rappelant  de  près  les  Quinze  joies,  la  Complaincte  du  nou- 
veau marie  et  le  Sermoni  nouveau  et  fori  joyeux,  auquel 
est  contenu  tous  les  maulx  que  Chomme  a  en  mariage  et 
dont  le  début  a  une  solemnité  burlesque  : 

Matrimonie,  matrimonia 
Mala  producunt  omnia. 

La  conclusion  de  la  première  partie  de  ce  Sermon  est, 
m,ore  solito,  d'un  pessimisme  outré: 

Et  pour  condurre  en  brief  langaige, 
Tout  l'argent  de  son  mariage 
Prendra  vollée  et  e'en  courra  ; 
Mais  sa  femme  demourera. 

Dans  la  Loyaulté  des  femmes,  on  recherche  tout  ce  qui  est 
impossible  ou  absurde  pour  conclure  que  c'est  seulement 
lorsqu'on  verrà  ces  choses  s'accomplir  que  «  verrez-vous  en 


*)  Cfr.  Nouveau  recueil  de  farces  frangaises  des  XV^  et  XVP  siècles,  etc, 
par  Émile  Picot  et  Cristophe  Nyrop,  Paris,  1880.  Voyez  surtout  l'in- 
troduction,  p.  lxix. 

*)  Recueil  de  poésies  fran^aises  des  XV^  et  XVB  etc,  par  M.  Ana- 
tole de  Montaiglon,  Bibl.  Elz. 


2nfi  PIERRE  TOLDO 

ferame  loyaiilté  »  et  dans  Le  danger  de  se  marier,  n'ayant 
ancun  caractère  dramatique,  l'auteur  invoque  pour  la  mil- 
liòme  fois  des  exemples  bibliques  et  historiques  à  l'appui  de 
son  blàme  de  la  femme.  Ailleurs,  dans  les  Secretz  et  loìx  de 
Mariage,  Jehan  d'Ivry,  sous  le  nom  de  secrétaire  des  Dames, 
répète  plusieurs  pointes  satiriques  des  Quinze  joies  et  dans 
le  Sermon  joyeux  de  la  patience  des  femmes  óbstìnèes 
cantre  leurs  maris,  on  nous  fait  assister  à  l'accueil  que 
font  les  femmes  à  leurs  malheureux  corapagnons,  lorsqu'ils 
reviennent  du  cabaret. 

Parfois  cette  critique  des  femmes  et  du  mariage  prend  la 
forme  d'un  débat,  où  il  a  aussi  des  champions  favorables  au 
beau  sexe.  Le  Déhat  du  marie  et  du  non  marie  développe 
une  de  ces  disputes  si  chères  au  moyen  àge  et  à  la  Renais- 
sance. Le  marie  persuade  son  ami  qu'il  a  tort  de  blàmer 
les  femmes  et  lui  conseille  de  se  raarier.  Dans  le  Mono- 
logue  fort  joyeulx  auquel  sont  introduictz  deux  Advocatz 
et  ung  Juge,  devani  lequel  est  plaidoyé  le  bien  et  le  mal 
des  Dames,  un  seul  acteur  devait  se  charger,  à  l'aide  de  dé- 
guisements,  de  remplir  trois  róles  différents,  colui  d'accusa- 
teur  des  dames,  celui  de  leur  défenseur  et  colui  encore  de 
juge.  Ailleurs,  dans  le  Dèbat  de  VHomme  et  de  la  Femme^ 
par  frère  Guillaume  Alexis,  on  fait  une  longue  énumération 
pour  et  contro  le  beau  sexe: 

L'homme.    Adam  jadis,  le  premier  pere. 

Par  femme  encourut  mort  amère, 

Qui  très  mal  le  Consilia. 

Bien  eureux  est  qui  rien  n'y  a. 
La  femme.  Jhesus  de  femme  vierge  et  mère 

Fut  fait  homme,  c'est  chose  clère; 

Aussi  nous  reconsilia  : 

Malheureux  est  qui  rien  n'y  a. 

De   part  et  d'autre   on   cite   les  femmes  illustres  ou  me- 


ÉTUDES  SUR  LE  THÈATRE  COMIQUE  FRANCAIS  DU  MOYEN  AGE    207 

chantes,  qui  ont  honoré  ou  déshonoré  le  sexe,  aussi  bien 
que  les  hommes,  qui  en  ont  étó  la  dupe,  savoir  David,  Sa- 
lomon, Virgile,  Hector,  Samson,  etc.  L'Homrae  a  beau  se 
plaindre  des  vices  de  ses  adversaires  «  cauteleuses,  feintes  et 
fardées  »  ;  la  Femme  réplique  : 

De  bones  femmes  treuve-on  maintes, 
Qui  ont  esté  chastes  et  sainctes, 
Et  dont  nulle  ne  desvya. 

Les  saints,  les  guerriers,  les  rois  ne  naissent-ils  pas  d'une 
femme?  les  grands  crimes,  meurtres,  incendies,  vols,  etc,  ne 
sont-ils  pas  exécutós,  en  general,  par  les  représentants  du 
sexe  masculin? 

Cayn  tua  Abel  son  frère; 
Judas  aussi  Ruben,  son  pere; 
Neron  a  fait  sa  mère  ouvrir, 
Les  Juifs  Jesuschrist  mourir 


Les  deux  séries  des  exemples  cités  tour  à  tour  pour  et 
contre  les  femmes,  les  argumentations  différentes  et  ce  mé- 
lange étrange  de  paganisme  et  de  christianisme,  Hercule, 
Orphée,  Démophon,  Virgile,  mis  à  coté  de  Salomon,  Samson 
et  Jesus  Ghrist,  tout  cela  est  emprunté  au  Roman  de  la  Rose, 
au  Grand  Mathéolus,  etc,  et  forme  partie  de  cette  lutte  assez 
vive  et  acérée  où  l'on  trouve  d'un  coté  le  Blason  des  faulces 
amours,  la  Pipèe  du  dieu  d'amour,  Villon,  Roger  de  Gol- 
lerye,  les  Controverses  des  sexes  masculin  et  féminin  de 
Gratien  du  Pont,  etc,  et  de  l'autre  le  Champion  des  Dames 
de  Martin  Frane,  le  Triomphe  de  la  citè  des  Dames  de  Chris- 
tine de  Pisan,  le  Miroir  des  Dames,  la  Vray-disant  Advo- 
cate  des  Dames,  le  Giroufflier  aulx  dames  et  ainsi  de  suite. 
Sous  ce  rapport  le  théàtre  n'est  donc  que  l'écho  d'un  débat 
commencé  ailleurs,  et  plusieurs  de  ces  compositions  ont  seu- 


208  PIERRE  TOLDO 

lement  une  apparence  draraalique.  Les  genres  différents  se 
mèlent  et  se  confondent  dans  cette  querelle  à  peu  près  corame 
certains  organismes  oìi  l'on  ne  saurait  déterminer  au  juste 
où  l'animai  finit  et  oìi  la  piante  ou  le  rocher  commencent. 
Il  faut  toutefois  reconnaìtre  que  le  théàtre  est,  dans  la  plupart 
des  cas,  défavorable  aux  femmes,  de  sorte  que  dans  cette 
querelle  les  auteurs  draraatiques  se  rangent  le  plus  souvent 
du  coté  des  accusateurs,  répétant  à  l'ennui  les  mèmes  griefs, 
appuyés  des  mèmes  exemples.  L'esprit  comique  ayant  pour 
but  la  critique,  plutót  que  la  louange,  la  plaisanterie  plutót 
que  le  raisonnement  froid  et  impartial,  ne  saurait  negliger 
une  source  si  importante  du  rire.  lei,  comme  dans  les  fa- 
bliaux,  il  faut  bien  plaisanter  sur  les  faiblesses  humaines  et 
de  tout  temps  et  à  toute  epoque  la  nouvelle  et  la  comédie 
populaire  se  sont  égayées  à  ces  tirades  soi-disant  satiriques, 
dont  il  ne  faut  pourtant  par  exagérer  la  portée. 

Dans  plusieurs  pièces  dramatiques,  qui  n'ont  pas  toutefois 
le  but  de  combattre  directement  les  femmes,  lorsque  le  dis- 
cours  tombe  sur  elles,  il  faut  bien  s'attendre  à  des  attaques 
de  ce  genre.  Le  Sermon  joyeux  et  de  grande  value  *)  est 
adressé  à  «  tous  les  foulx  qui  sont  dessoubz  la  nue  »  et  le 
sermonneur,  après  avoir  parie  de  cette  respectable  confrérie, 
qui  compte  des  adeptes  dans  tous  les  rangs,  dans  tous  les  pays 
et  dans  tous  les  àges,  fous  «  lours,  habilles,  privez,  estranges, 
sages  >,  s'en  prend  aux  jaloux  : 

Helas!  povres  sotz  malostrus, 
N'estes-vous  pas  bien  folles  testes 
De  vouloir  garder  telles  bestes? 
Note  les  ditz  et  retien-les 
Que  dit  le  saige  Socrates  : 
In  animalibus  bis  foratis  in  viscerihus  bassis,  non  est  adhibenda  fides. 


')  Cfr.  Beciieil   Viollet  Le  Due,  IP  voi. 


ÈTUDES  SUR    LE   THEATRE   COMIQUE   FRANCAIS  DU   MOTEN  AGE        200 

A  quoi  bon  se  creuser  le  cerveau  pour  dompter  ces  étres 
d'autant  plus  forts  qu'ils  paraissent  faibles? 

Car,  si  tu  estoys  aussi  eaige 
Que  Salomon,  si  elle  a  couraige 
De  mal  faire,  (ja)  ne  se  gardera 
Pour  toy,  mais  fa9on  trouvera 
De  parvenir  à  son  dessein. 

La  consultation  célèbre  de  Panurge  est  dans  l'esprit  du 
XVP  siècle,  seuleraent  les  maris  du  théàtre  de  cette  epoque 
ont  le  tort  de  demander  des  conseils,  après  que  le  mariage 
a  été  célèbre.  Le  conseil  au  nouveau  marie  est  une  farce 
très  simple  et  son  auteur  avait  sans  doute  quelque  connais- 
sance  du  chef-d'ceuvre  de  Rabelais  *).  Le  héros  de  la  pièce 
se  présente  sur  la  scène,  pour  demander  «  conseil  de  bouche 
et  d'escript  »  aux  «  clercz  »  sur  la  manière  d'éviter  les  mal- 
heurs  du  mariage. 

Le  Docteur  le  re^oit  assez  bien,  d'autant  plus  quelejeune 
homme  n'oublie  pas  de  récompenser  la  science,  qu'il  va  étaler 
pour  lui  : 

Quatre  escus  d'or  pour  vostre  peine, 

mais  son  cas  est  très  grave.  La  femme  n'a  que  dix-huit  ans, 
àge  trop  tendre,  pour  que  le  mari  puisse  éviter  «  le  perii... 
d'estre  »  ce  que  vous  savez.  Toutefois,  avec  beaucoup  de  pru- 
dence,  il  se  peut  qu'  il  puisse  sauver  son  front.  Ce  doni  il  faut 
qu'il  soit  bien  doué  c'est  la  patience,  ensuite  il  doit  lui  ètre 
fidèle: 

Aussi  l'Evangile  le  dit, 

Que  ceulx  qui  de  glayve  ferront 

Pour  certain  de  glayve  mourront, 

')  La  première  édition  de  cette  pièce  (cfr.  ed.  Le  Due,  P  voi.)  est 
de  1547. 


210  PIERRE  TOLDO 

et  en  troisiòrae  lieu  il  lo  prie  de  ferraer  les  yeux,  coùle  que 
coùte,  s'il  veut  garder  la  paix  domestique.  Quoi  qu'il  arri  ve, 
et  quoi  qu'elle  fasse,  il  faut  bien  que  le  mari  paraisse  toujours 
persuade  de  la  vertu  de  sa  femme,  sans  oublier  loutefois  le 
bàton  : 

amour  sans  crainte  ne  vault  rien. 

D'ailleurs  celui  qui  a  accepté  le  joug  nuptial  est  sur  au 
moins  de   tenir  un  jour  un  rang  honoré  parmi  les  martyrs: 

Tu  seras  homme  plus  martyr 

Que  sainct  Laurens  qu'on  fit  rostir. 

L'esprit  de  cette  farce  est  lourd  et  on  a  de  la  peine  aujour- 
d'hui  à  comprendre  comment  des  pièces  pareilles  pouvaient 
égayer  nos  aieux.  Mais  la  consultation  du  mariage  amusera 
encore  le  public  du  XVIP  siècle  écoutant  George  Dandin. 

Dans  une  autre  vieille  pièce  comique.  Le  pèlerinage  du  ma- 
riage *),  imitée  par  Claude  Mermet,  dans  LepèlerHn,  lapèlerine 
et  deux  peiits  enfants,  on  volt  une  vieille  pèlerine,  qui  par- 
court  avec  deux  enfants  la  route,  conduisant  au  mariage. 
Mais  un  pòlerin,  que  l'àge  a  rendu  méfìant,  tàche  de  les  dé- 
tourner  de  leur  but,  ce  qui  donne  lieu  à  un  débat  pour  et 
contre  le  mariage,  oìi  Fon  trouve  des  argumentations  de  cette 
force  :  «  Le  mariage  —  dit  un  jeune  homme  —  a  été  établi  par 
Dieu  et  ce  sacreraent,  sur  la  terre,  lient  lieu  de  paradis  ter- 
restre ».  Et  le  vieillard:  «Si  Dieu  l'estime  de  la  sorte,  pourquoi 
ne  s'est-il  pas  marie?!  »  L'idée  du  mariage  de  Dieu  est,  sans 
doute,  plus  originale  que  les  litanies  burlesques  qu'on  chante 
ensuite: 

Sancta  Fachessa  ne  fasches  poinct  nobis. 

Sancta  Grondina  ne  touches  nobis 

Sancta  Jalousia  recules  de  nobis 

*)  Cfr.  édit.  Leroux  De  Lincy  et  Fran9.  Michel,  Recueil  de  farces,  etc, 
Paris,  1837. 


ÉTUDES  SUR   LE   THÈATRE   COMIQUE   FRANCAIS   DU   MOYEN   AGE        211 

renfermant  la  longue  énumération  dos  défauts  des  femmes  et 
des  maria. 

Nous  avons  aussi,  et  toujours  dans  le  mème  goùt,  les  dia- 
logues,  n'ayant  pas  pourtant  un  caraclère  dramatique,  sur  les 
joies  et  sur  les  peines  de  l'amour  indépendamment  du  ma- 
riage.  On  n'a  qu'à  lire  les  Dèbats  du  jeune  et  du  vieulx 
aìnoureux,  le  Dèbat  du  vieti  et  du  jeune,  etc.  *)  et  la  farce 
<Ju  Vieil  amour eux  et  du  jeune  amoureux  *),  où  le  vieillard, 
à  sun  mépris  pour  les  folies  de  la  jeunesse,  ajoute  les  louanges 
de  la  chasteté,  selon  la  conception  chrétienne. 

Le  caractère  du  débat,  c'est-à-dire  de  la  réplique  directe 
où  l'on  se  borne  à  afìlrmer  ou  à  nier,  en  opposant  aux  cri- 
tiques  des  louanges  sans  qu'il  y  ait  de  véritable  dispute,  peut 
étre  expliqué  facilement  en  citant  au  hasard  quelques  vers 
de  ce  dialogue  : 

Le  vieti.  Femmes  nous  font  bestes 
Et  rompre  les  testes 
Par  cris  et  tempestes. 
Et  tousiours  sont  prestes 
Nous  estre  uuysanteB. 
Le  jeune.  Femmes  sont  segretes 
En  amour  discretea 
Doulces  mygnonnetes 
Et  tant  bien  parlantes 

Parfois  les  disputes  d'amour  n'ont  pas  ce  fond  pessimiste 
€t  renferment  plutót  un  autre  genre  de  questions  fort  à  la 
mode  au  raoyen  àge,  et  dont  la  farce  des  deux  amoureux 
de  Cléraent  Marot  nous  présente  un  exemple  célèbre.  Mais  il 
faut  le  dire  tout  de  suite,  ce  nom  de  farce  est  fort  mal  ap- 


*)  Cfr.  Anciennes  poésies  frang.,  citées,  t.  VII,  p.  211;  t.  IX,  p.  216, 
')  Cfr.  édit.  citée  Leroux  De  Lincy  et  Franf.  Michel. 


212  PIERRE  TOLDO 

pljqué  à  cette  composilion,  qui  n'a  pas  memo  un  vérilable 
caractère  dramatique.  Marot  veut  démonlrer  les  joies  d'un 
amour  assez  chaste,  visant  au  mariage  et  l'apparition  de  la 
jeune  fille,  dans  l'église,  «  le  propre  jour  de  Pasques  »,  cet 
amour  naissant  dans  un  nuage  parfumé  d'encens,  rappelle  de 
près  le  sonnet  du  Pétrarque: 

Era  il  giorno  che  al  sol  si  scoloraro 

Le  nom  de  farce  ne  me  parait  pas  non  plus  convenir  à 
une  pièce  non  moins  célèbre  de  Marguerite  de  Navarre,  Les 
deva;  filles,  les  deux  femmes  et  la  veuve,  et  à  une  autre 
portant  pour  litre  Les  mal  contentes,  où  il  est  question  de 
ce  sentiraent  qui  pousse  les  femmes  aussi  bien  que  les  hommes 
à  se  plaindre  toujours  de  leur  état. 

Dans  les  nouvelles  de  Tépcque,  on  lit  souventd'autres  genres 
de  débats,  se  rapportant  à  l'idèe  de  la  sensualilé  outrée  du  beau 
sexe.  Des  jeunc  s  femmes  se  plaignent  de  n'avoir  pas  trouvé 
dans  le  mariage  assez  de  joies;  d'autres  accusent  ouvertement 
leurs  maris  d'impuissance.  On  a  recours  aux  parents  de  la 
mariée  ou  à  un  juge,  qui  donne  des  sentences  plus  ou  moins 
comiques.  Cette  insatiabilité  de  la  femme  forme  aussi  le  fond  de 
plusieurs  fabliaux,  qui  reconnaissent  come  type  l'histoire  de  la 
Dame  qui  averne  demandoUpour  Morel  sa  provende  avoir  *). 
On  a  beau  vanter  sa  vigueur  et  sa  jeunesse;  on  n'en  a  jamais 
assez  pour  assouvir  une  femme,  témoin  ce  qui  arriva  au 
Valet  aux  douze  femmes  *),  qui  ne  put  suflire  à  une  seule. 
Un  pauvre  chevalier,  qui  a  le  malheur  d'ètre  faible  dans  les 


')  Cfr.  édit.  Barbazan,  808,  IV'  voi.  Voyez  aussi:  "  De  la  demoisele 
qui  ne  pooit  oir  parler  de  f...  ,  [Recueil  Montaiglon,  III,  p.  65).  "  La 
Pucele  qui  abevra  le  polain;  Porcelet  etc.  ,  (ibid.). 

')  Barbazan,  IIP  voi. 


ETUDES  SUK  LE  THÉATUE  COMIQUE  KUANCAIS  bV    MOYEN  AGE    213 

combats  d'amour,  est  honni  par  la  dame  du  Sentier  baitu  '). 
Prenez   les  contes   du    Poggio  (XLII)  et  vous  y  verrez  l'his- 
toire  de  la  jeune  mariée,  se  plaignant  fort  à  tort  devant  ses 
parents  du  peu  de  vigueur  de  son  mari.  Dans  les  Ceni  nou- 
velles  nouvelles  (86«)  le  débat  a  lieu  à  la  présence  d'un  juge 
et  la  nouvelle  mariée  est  appuyée  dans  ses  réclamations  par 
sa  mère,  qui  a  des  raisons  personnelles,  pour  bien  comprendrfj 
la  déception  de  sa  fille.  Ce  récit  est  reproduit  dans  le  Grand 
Parangon  (175«):  «  D'un  homme  de  Rouen,  qui  print  en  ma- 
riage  une  gente  et  jeune  fille  de  l'eage  de  XV  ans  ou  environ, 
lesquels  la  mère  de  la  fille  cuida  bien   faire  desmarier   par 
monseigneur  l'officiai  de  Rouen  et  de  la  sentence  que  le  dit 
oflicial  en  donna,  après  les  parties  par  luy  ouyes  ». 

Le  réve  des  jeunes  filles  est  pour  les  auteurs  des  fabliaux 
et  des  farces,  un  mari  bien  dispos  et  gaillard  et  l'on  aurait 
beaucoup  de  tort  d'ajouter   foi   à   leur   chasteté   d'eraprunt. 
Écoutez  le  récit  d'une  damoisele  qui  onques  pour  ne  lui  ne 
se  volt  marier,  mais  volt  voler  en  Vair,  et  de  celle  qui  ne 
pooit  oir  parler  de  f......  prenez  tous  les  contes  d'Italie  et  de 

France,  reproduisant  la  méme  donnée  et  vous  verrez  que 
c'est  là  une  opinion  bien  répandue,  au  moins  chez  les  yens 
en  belle  humeur. 

On  comprend  donc  la  cure  ordonnée  par  Frère  Philibert, 
dans  la  farce  indiquée  par  ce  nom,  à  la  jeune  fille  malade, 

Qu'elle  converse 
Avec  le  genre  masculin, 

et  c'est  là  aussi  l'ordonnance  de  Molière.  Si  l'ignorance  pra- 
tique  des  joies  de  l'amour  peut  servir  de  contrainte  aux 
jeunes  filles,  on  comprend  l'entraìnement  à  la  sensualité  des 


*)  Montaiglon,  III*-  voi.,  p.  75. 

StudJ  di  filolofjia  romanza ,  IX.  ■,. 

14 


214  PltKKE  TOLUU 

femmes  mariées.  C'est  là  encore  le  sujet  de  maintes  farces, 
mettant  en  action  le  fond  et  parfois  les  sujets  des  nouvelles 
que  nous  venons  d'indiquer  rapidement. 

Dans  une  farce  bien  connue  de  Gringore  '),  nous  avons 
affaire  à  un  conte  appartenant  à  ce  groupe  de  la  fera  me 
mal-mariée.  Raoullet  Ployart  a  eu  le  tort  d'épouser  une  de- 
moiselle  trop  jeune  et  trop  vive  pour  lui  et  qui  domande  à 
deux  personnages  allégoriques,  Fair  e  et  Dire,  ce  qu'elle  n'a 
pu  trouver  dans  son  ménage.  Il  s'ensuit  une  sorte  de  procès 
devant  le  seigneur  du  village,  qui  donne  gain  de  cause  à  la 
femme,  se  fondant  sur  une  équivoque,  le  labourage  de  la  terre, 
ce  qui  forme  aussi  le  sujet  d'un  conte  populaire  reproduit 
par  D'Ouville^).  La  farce  des  femines  qui  demandeni  les 
arrèrages  de  leurs  maris  et  les  font  obliger  par  nisi,  re- 
produit la  mèrae  donnée.  lei  une  femme  mécontente  de  son 
mari  le  fait  ajourner  devant  le  juge,  demandant  les  arrèrages 
de  cinq  années.  La  parodie  des  formes  judiciaires  réjouit  ces 
scènes  très  vulgaires. 

Enfin  les  plaintes  de  la  jeune  mariée  que  le  Poggio,  Tauteur 
des  Ceni  nouvelles  nouvelles,  et  d'autres  encore  nous  ont  fait 
entendre  tout  à  l'heure,  se  répètent  dans  la  farce  du  nouveau 
marie  qui  ne  peult  fournir  à  Vappoinctement  de  sa  femme. 
Celle-ci  vient  se  plaindre  à  ses  parents  des  déceptions  qu'elle 
essuie  dans  son  ménage  : 

Vous  m'avez  la  plus  mal  pourveue 
Que  jamais  fille  89auroit  estre. 

Son  pére  tàche  en  vain  de  l'apaiser;  à  son  àge  il  éprouve 
un  sens  de  compassion  pour  les  faiblesses  de  certains  maris. 


')  Édit.  D'Héricault  et  De  Montaiglon,  1858,  I"  voi. 
^)  Cfr.  G.  B.  Maeciiesi,  Fer    la    storia    della  novella  italiana  nel  se- 
colo XVII,  Roma,  1897,  p.  114. 


ÉTUDES  SUR  LE  THÉATRE  COMIQUE  FRANCAIS  DU  MOYEN  AGE    215 

mais  sa  mère  interpelle  vivement  son  beau-fils,  qui  ne  trouve 
d'autre  moyen,  pour  so  tirer  d'afTaire,  que  de  démontrer 
de  visu,  que  sa  femme  et  sa  belle-mère  ont  tous  les  torts  du 
monde.  On  reconnaìt  la  validité  de  ses  bonnes  raisons  et  la 
mère  finit  par  éprouver  comme  un  sens  d'envie  à  l'égard  de 
sa  fille.  Prend  garde,  dit-elle  à  son  mari,  de  ne  me  pas  donner 
de  pareils  sujets  de  plainte.  Je  m  en  plaindrais  encore  plus 
haut  qu'elle.  G'est  une  école,  on  le  voit,  d'une  moralité  édi- 
fiante. 

Ges  pauvres  maris  cherchent  donc  tous  les  moyens  pos- 
sibles  pour  rajeunir.  Il  y  a  par  exemple  le  villain  d'une 
farce,  publiée  par  M""  Émile  Picot  *),  qui  se  met  en  route 
pour  retrouver  la  fontaine  de  Jouvence.  Sa  femme  lui  a  dit 
très  clairement  qu'elle  n'en  veut  plus  de  lui: 

Mais  advisez  le  beau  maintien, 
(Et)  quel  faulx  villain  engroignés! 
Par  Dieu!  il  est  plus  refroignés 
Que  n'est  ung  cinge  de  trante  ans. 
Et,  par  Dieu!  Je  pers  bien  mon  temps 
Avec  ung  villain  malheureux. 

Mais  le  vilain  a  beau  demander  des  nouvelles  de  cette 
source  merveilleuse  célébròe  par  les  poèmes  et  par  les  lé- 
gendes  populaires  du  moyen  age.  Un  peintre  qu'il  rencontre 
et  avec  lequel  il  entre  en  conversation,  lui  propose  à  son 
tour  de  le  rajeunir  gràce  à  son  art  merveilleux: 

Se  vous  en  voullés  rien  despendre, 
Je  vous  feray,  sans  plus  attendre, 
Venir  en  l'easre  de  trante  ans. 


*)  Farce  inèdite  du  XVF  siede,  publiée  d'après  un  manuscrit  des 
Archives  de  la  Nièvre  par  Émile  Picot.  Paris,  Ledere,  1900  (Extraitdu 
Bulletin  du  Bibliophile) . 


216  PIERHE  TOLDO 

Le  peintre  lui  barbouille  le  visage  de  son  pinceau,  lui 
extorque  de  l'argent  et  l'envoie  chez  sa  femme,  qui  lui  fait 
un  accueil  auquel  le  bonhomme  ne  s'attendait  point: 

Ha!  villain,  allez  vous  laver! 
Que  le  grant  diable  vous  emporte! 
A  peu  que  je  n'ay  esté  morte 
De  peur  que  m'avés  fait  avoir. 

Un  autre  groupe  de  ces  farces  répète  à  l'ennui  l'allégorie 
fort  facile  à  comprendre  des  femmes  qui  font  escurer  leurs 
chaulderons  et  qui  trouve  son  modèle  dans  le  fabliau  Do 
maignen  qui  f...  la  dame  ^).  Il  est  question  toujours  de  l'ha- 
bileté  des  chaudronniers,  des  serruriers  et  d'autres  gens  pa- 
reils  à  pourvoir  aux  besoins  des  femmes,  plaisanterie  suggérée 
par  leur  métier.  Dans  la  farce  citée,  on  assiste  à  un  dialogue 
entre  deux  femmes,  se  plaignant,  avec  une  modestie  qu'on 
ne  saurait  assez  louer,  des  jeùnes  auxquels  leurs  maris  les 
condamnent.  Mais  elles  iront  chercher  ailleurs,  ce  qu'elles  ne 
trouvent  pas  dans  leur  ménage.  Le  ciel,  s'écrie  l'une  d'elles , 

Pourquoi  nous  a-il  icy  rais, 
Se  n'est  pour  oeuvre  de  nature? 
Et  puis  c'est  la  loy  de  droicture 
Faire  plaisir  les  uns  aux  autres. 

Le  maignen  passe,  en  répétant  son  cri  et  les  deux  danìes 
s'empressent  de  le  mener  à  leurs  maisons. 

On  peut  comprendre  dans  ce  groupe  certains  métiers,  don- 
nani  lieu  à  ime  équivoque  du  mème  genre,  tei  que  le  ramon- 
neur  de  cheminèes%  qui  sait  «  ramoner  la  cheminée  hault 


')  Recueil  Montaiglon,  V  voi. 

')  Voyez  Recueil  de  poésies  frang.  des  XF*  et  XVP  siècles  par  M.  De 
Montaiglon,  P'  voi.,  Sermons, 


ÉTUDES  SUR  LE  THÉATRE  COMIQUE  FRANgAIS  DU  MOYEN  AGE    217 

et  bas  »,  et  qui  avoue  daus  son  sermon  que,  malgré  ses  efforts, 
il  n'est  pas  à  raème  de  contenter  tout  le  monde  féminin,  qui 
a  recours  à  lui.  Dans  une  troisiòrae  farce  *),  portant  le  raème 
titre,  mais  à  quatre  personnages,  le  ramoneur,  qui  vieillit, 
est  berne  par  les  femmes  et  par  son  valet.  Gelui-ci,  dans  la 
fleur  de  l'àge,  pense  de  le  remplacer  en  tout  et  partout,  mais 
le  vieil  ouvrier  ne  se  décourage  point  et  pousse  encore  son 
cri  afifaibli  : 

Ramonnez  vos  cheminées, 
Jeunes  femmes,  ramonnez. 

Remarquons,  en  passant,  qu'il  y  a,  dans  cette  pièce,  un 
souvenir  évident  d'une  des  pages  les  plus  enjouées  de  l'oeuvre 
de  Rabelais,  là  où  le  moine  répond,  par  monosyllabes,  à  toutes 
les  questions  qu'on  lui  adresse  : 

Le  varlet.   Qui  vous  diroit  à  voix  basse: 

Prens  dix  escus  en  ma  tasse, 

Qu'en  diriez-vous? 
Le  ramonneur.  Rien. 

Le  varlet.   Ou  de  vuyder  une  tasse 

Et  humer  la  souppe  grasse, 

Vous  le  feriez? 
Le  ramonneur.  Bien. 

Le  varlet.   Et  vous  fussent  assignées 

A  dormir  grans  matinées, 

Quel  estat,  quel? 
Le  ramonneur.  Bon. 

Le  varlet.  Mais  pour  housser  cheminées, 

Là  où  vertus  sont  minées. 

Il  ne  vous  en  chault. 
Le  ramonneur.  Non. 


*)    Recueil   Viollet  le   Due,    U®  voi.;  Rabelais,  Pantagruel,   V   livre, 
eh.  XXVIII. 


218  PIERRE  TOLDO 

L  equivoque  du  maignen  et  du  ramonneur  est  répétée 
dans  une  farce  italienne  d'Alione  d'Asti  *),  le  Lanternero,  où 
nous  voyons  deux  femmes  se  plaignant  de  leurs  maris  et  le 
lanternero  qui  se  charge  d'arranger  leurs  lanternes. 

Dans  cet  état  de  choses,  il  arrive  que  les  maris  font  souvent 
de  necessitò  vertu  et  ne  pouvant  assouvir  les  passions  ardentes 
de  leurs  femmes,  ferraent  un  oeil  et  mème  tous  les  deux, 
pourvu  qu'ils  aient  au  moins  la  paix  dans  leur  ménage.  Tel 
est  le  sens  de  la  farce  moralisée,  où  l'on  met  en  scène  deux 
hommes  et  leurs  deux  femmes,  dont  fune  a  inaile  teste  et 
Vanire  est  iendre  de  e...,  sorte  de  débat  entro  Colin,  dont  la 
femme  est  vertueuse  mais  acariàtre,  et  Mathieu  qui  a  trouvé 
en  Jeanne  une  compagne  charmante  pour  tout  le  monde  et 
pour  lui  aussi.  Mathieu  déclare  à  son  ami  qu'il  ne  veut  rien 
savoir  de  la  conduite  de  sa  femme: 

Que  dyable  ay-je  affaire 

De  cercher  ce  qui  m'est  contraire 

Et  ce  que  ne  vouldroys  (point)  trouver?... 

La  bonne  à  battre  s'empire, 

Et  la  maulvaise  en  devient  pire. 

Il  vaut  donc  mieux  se  fier  à  sa  moitié  et  bien  que  le  banquet 
que  celle-ci  lui  offre  ait  une  provenance  suspecte,  il  se  con- 
tente très  philosophiquement  de  la  déclaration  que  Jeanne  lui 
fait  de  l'avoir  payé  «  en  beau  contant  ». 

Jeunes  fìlles,  mariées  et  veuves,  toutes  sont  dominées  par 
une  sensualité  pathologique  et  l'esprit  de  la  legende  de  la 
matrone  d'Éphèse,  née  dans  la  plus  haute  antiquité,  revit 
dans  les  contes  et  dans  le  théàtre  du  moyen  àge.  Nous  la  re- 
verrons  sous  peu  elle-mème  en  action. 

M  (Euvre  citée. 


ÉTUDES   SUR   LE   THKATRE   COMIQUE   FRAN'CAIS  DU   MOYEN  AGE        219 


L'autoritó  du  mari. 

A  l'epoque  où  les  farces  commencent,  cette  liitte  est  déjà 
fort  ancienne.  G'est  le  débat  entra  les  deux  sexes,  avec  des 
conciliations  individuelles  plus  nombreuses  qu'avouées.  L'idéal 
féminin  du  moyen  ago,  avons-nous  dit,  c'est  la  femme  qui  obéit 
et  qui  souffre  en  silence;  celle  qui  veut  dominer  à  la  maison, 
ayant  le  sentiraent  de  sa  personnalité,  doit  se  considérer 
corame  une  rebelle,  que  la  force  masculine  contraindra  à 
Tobéissance.  Malheur  au  mari  qui  n'est  pas  un  homme  à  poi- 
gne  !  Il  sera  flétri  de  ridicule,  plus  encore  que  celui  qui 
ignore  que  l'araoureux  róde  autour  de  sa  maison;  sa  faiblesse 
n'est  pas  une  affaire  individuelle,  elle  tourne  au  préjudice  de 
tout  son  sexe  et  il  faut  bien  que  quelqu'un  se  charge  d'en 
revendiquer  les  droits.  G'est  le  cas  du  fabliau  de  la  male 
dame,  alias  de  la  dame  qui  fu  escoillièe,  dame  acariàtre, 
orgueilleuse,  devant  qui  le  mari  baisse  toujours  la  tète.  Un 
certain  comte  se  prend  d'amour  pour  leur  fìUe  et  pour 
l'avoir,  il  doit  s'accorder  avec  le  pére,  qui  feindra  de  la  lui 
refuser.  G'est  le  seul  moyen  pour  l'emporter  sur  l'esprit  de 
contradiction  de  la  mère.  Mais  le  comte  n'est  pas  homme  à 
se  résigner  à  la  supréraatie  férainine,  ainsi  que  son  beau-père. 
Il  va  se  charger  de  la  vengeance  de  son  sexe  et  après  avoir 
réduit  à  l'obéissance  sa  femme,  il  fait  subir  à  sa  belle-mère 
une  opération  simulée,  qui  doit  la  guérir,  pour  toujours,  de 
ses  velléités  de  domination.  Parfois  c'est  le  mari  lui-méme, 
qui,  après  avoir  enduro  tonte  sorte  de  violations  de  son  auto- 
rifé,  secoue  le  joug  et  déclare  qu'il  n'y  a  d'autre  maitre  à  la 
maison  que  lui.  Demandez  à  Hugues  Piaucele  quel  est  le 
moyen  employé  par  sire  Hain  contre  daw,e  Anieuse  : 


220  PIERRE  TOLDO 

Hues  Piaucele  qui  trova 
Cest  fablel,  par  roson  prova 
Que  cil  qui  a  fame  rubeste 
Est  garnis  de  mauvese  teste. 

Sire  Hain  met  ses  braies  au  milieu  de  la  cour  : 

Et  qui  conquerre  les  porrà 

Par  bone  reson  mousterra 

Qu'il  est  sire  et  dame  du  nostre. 

Dame  Anieuse  se  présente  au  combat  armée  de  griffes  et 
d'injures,  la  lutte  est  longue  et  envenimée,  mais  la  force  de 
l'homme  finit  par  avoir  le  dessus  sur  la  faiblesse  de  la  femme, 
règie  de  la  nature  physique,  considérée  alors  comme  fonde- 
ment  des  rapports  d'ordre  moral  '). 

Il  en  est  de  mème  de  ce  Bonanno  de  Ser  Benizo,  dont  nous 
parie  Sacchetti  (nouv.GXXXVIIP),  raarchand  pacifique  «trapu 
et  lourdaud  »,  qui  s'arrae  de  pied  en  cap  et  parcourt  sa 
maison,  l'épée  à  la  main,  pour  ranger  à  l'ordre  sa  femme  et 
ses  doraestiques,  meltant,  lui  aussi,  les  culottos  par  terre, 
comme  signe  d'autorité  et  auxquelles  personne  n'oserà  toucher. 
L'expression  frangaise  porter  culottes  et  en  italien  portar 
calzoni  est  encore  très  commune  des  deux  còtés  des  Alpes*). 
Il  y  a  aussi  des  personnages  se  chargeant,  de  bon  gre,  et 
pour  l'amour  de  l'art  et  de  la  gioire,  de  dompter  l'orgueil 
féminin.  Tel  est,  pour  nous  en  tenir  à  Sacchetti,  Fra  Michele 
Porcelli {nouy.  LXXXVP),  qui  voyant  l'humeur  d'une  certaine 


')  Voyez  là-dessus  pour  des  rapprochements,  Bédier,  ouvr.  cité  à  la 
page  428  et  passim. 

^)  La  méme  donnée  se  trouve,  avec  quelques  changements,  dans  une 
des  comédies  de  Nelli,  écrivain  italien  bien  connu  pour  ses  imitations 
de  Molière.  La  pièce,  dont  il  est  ici  question,  porte  pour  titre  La 
moglie  in  calzoni,  mais  c'est  la  femme  qui  a  le  dessus. 


ÉTUDES  SUR  LE  THÉATRE  COMIQUE  FRANgAlS  DU  MOYEN  AGE    221 

femme,  atlend  qu'eiie  soit  veuve  et  l'épouse,  rien  que  pour  lui 
apprendre  coinment  il  faul  obéir.  La  malheureuse  tàche  de  se 
révolter,  mais  elle  a  affaire  à  un  maitre  redoutable,  dispose  à  la 
tuer  et  lui  faisant  subir  un  véritable  martyre.  La  femme  finit 
par  baisser  la  tele,  se  déclarant,  pour  toujours,  vaincue  et  sou- 
mise.  Rien  de  plus  ignoble  quo  cette  sorte  de  luttes,  où  la 
force  brutale  rempv)rte  à  coups  de  poings  et  de  bàton  et  ce 
qui  nous  étonne  le  plus  c'est  de  voir  ces  sentiments  partagés 
par  un  des  esprits  les  plus  éclairés  du  moyen  àge,  Boccace 
lui-mème. 

On  Ut,  en  effet,  dans  une  des  nouvelles  du  Decameron  (IX,  9) 
qu'un  jeune  homme  deraande  conseil  à  Salomon  pour  savoir 
comment  il  pourra  dompter  l'entetement  de  sa  femme.  Le 
grand  Prince,  pour  toute  réponse,  lui  dit  de  se  rendre  à  un 
certain  pont,  le  «  ponte  all'oca  »,  où  l'on  voit  comment  les 
rauletiers  font  marcher  leurs  mulets  à  coups  de  bàton.  Ce  que 
la  Reine  des  jeux  dit  là-dessus  sert  de  commen taire  à  la  doc- 
trine  de  l'écrivain  italien:  «  Si  vous  considérez  attentivement 
l'ordre  des  choses  humaines,  vous  verrez  que  les  femmes  sont 
soumises,  par  la  nature  elle-mème,  à  la  domination  des  hommes, 
de  sorte  qu'elles  doivent  agir  et  vivre  selon  le  plaisir  de  leurs 
maìtres.  Il  faut,  partant,  que  la  femme,  qui  désire  vivre  con- 
solée  et  tranquille,  se  montre  toujours  résignée,  humble  et 
patiente  à  l'ógard  de  son  seigneur...  ». 

G'est  par  l'examen  de  l'imitation  de  cette  nouvelle,  que 
nous  pouvons  voir  ce  que  disent,  là-dessus,  les  auteurs  comi- 
ques  de  l'epoque  et  les  sources  qu  ils  tirent  des  nouvelles. 
Dans  la  farce  du  pont  aux  asgnes,  nous  assistons,  d'abord, 
à  un  débat  entre  le  Mary  et  la  Femme.  Le  premier  ne  veut 
renoncer  d'aucune  manière  à  ses  droits  de  maitre  : 

C'est  la  raison,  tant  que  vivrez, 

Que  de  nous  vous  portez  la  peine 

Femmes  doibvent  couvrir  la  table, 


222  PIERRE  TOLDO 

Mettre  dessus  linge  honorable  ; 
Aux  gens  de  bien,  s'on  les  admeine, 
Monstrer  un  semblant  amyable 

Et  faire  chère  convenable 

Femmes  doibvent  pour  leur  honneur 
Tenir  leurs  barons  en  doulceur 

Mais  la  femme  profeste,  de  toutes  ses  forces  : 

Ce  sera  quand  je  seray  morte 
Doncques  quo  je  t'obeiray. 

Le  mari  trouve  que  ce  serait  probableraent  trop  tard,  et  il 
s'adresse  pour  avoir  un  conseil  là-dessus  non  pas  à  Salomon, 
mais  à  un  certain  Domine  De,  parlant  un  baragouin  italien, 
presque  incompréhensible  et  se  disant  né  en  Calabre.  Sa  ré- 
ponse  est  toujours  celle  du  conseiller  de  Boccace  : 

Vade,  tenés  le  pont  aux  asgnes. 

Le  pont  aux  ànes  présente  le  mème  spectacle  que  celui 
de  l'ole.  Un  boscheron  dompte  un  àne  obstiné  à  grands  coups: 

Trottez,  Nolly,  trottcz,  trottez, 
Vous  avez  trouvé  vostre  maistre. 

Et  afin  que  i'exemple  soit  bien  évident,  il  ajoute: 

Gens  mariez,  notez,  notez; 

Tout  se  explique  en  ceste  lettre. 

Il  va  sans  dire  que  le  mari  tire  profit  de  la  legon  regue 
et  revenu  chez  lui  eraploie  la  méme  méthode,  pour  maìtriser 
sa  femme  : 

Trottez,  vieille,  trottez,  trottez 

Le  sujet  du  conte  de  Boccace  ne  se  retrouve,  au  moins  d'après 
mes  recherches,  que  dans  le  Pecorone  de  Ser  Giovanni  Fio- 
rentino, là  où  Boezio   conseille    Ciucolo   de   se   rendre  «  al 


ÉTUDES  SUR  LE  THÈATRE  COMIQUE  FRANCAIS  DU  MOYEN  AG  E   223 

ponte  a  Sant'Agnolo  »,  dans  le  méme  but  et  avec  la  méme 
application  (J.  V.,  n.  2). 

La  Farce  du  Savetier  reproduit,  de  méme,  l'idée  inspira- 
trice  de  plusieurs  fabliaux  et  des  nonvelles  italiennes,  surtout 
de  celles  de  Sacchetti:  un  homme  se  chargeant  de  dompter 
la  femme  obstinée  d'un  autre  mari.  Le  savetier,  en  question,  a 
commencé  son  apprentissage  chez  lui,  c'est-à-dire  en  réduisant 
sa  propre  ferarae  à  lui  obéir  en  tout  et  partout.  Toujours 
souriante,  elle  s'empresse  de  lui  étre  agréable: 

A!  vous  ne  me  seriez  commander 
Chose  que  pour  vous  je  ne  fise, 

et  bien  qu'il  soit  fort  exigeant,  elle  se  fait  un  plaisir  d'aller 
au  devant  de  ses  désirs.  Il  s'ensuit  que,  malgré  la  misere, 
ce  couple  peut  se  dire  heureux.  On  trouverait,  denosjours, 
ce  mari  fort  egoiste,  mais  selon  les  idées  de  l'epoque  il  était 
le  maitre  idéal  de  la  famille. 

Vis-à-vis  de  lui  ou  voit  un  certain  Jaquet,  pauvre  homme, 
Gomme  son  nom  paraìt  l'indiquer  et  qui  a  eu  le  malheur  d'é- 
pouser  une  femme,  dont  le  nom  de  Proserpine,  redoutable  à 
l'enfer  lui-méme,  indique,  à  son  tour,  le  ròle  qu'elle  joue  dans 
son  ménage.  Jaquet  est  là  tremblant  devant  sa  femme,  qui  le 
regarde  du  haut  de  sa  grandeur  et  ne  lui  permet  pas  méme 
d'exprimer  un  désir.  Le  savetier,  fort  étonné  de  la  sottise  de 
son  voisin,  se  charge  de  ranger  au  devoir  la  terrible  Pro- 
serpine, pourvu  que  Jaquet  la  lui  cède,  pour  quelques  instants. 

L'échange  a  lieu  tout  de  suite  dans  un  cabaret  et  le  bon- 
horame  part,  en  regardant  de  travers  Proserpine  et  son  ami, 
qu'il  croit  désormais  perdu  pour  toujours,  un  vrai  Daniel 
dans  la  fosse  aux  lions. 

Le  savetier  commencé  par  établir  ses  droits  sur  Proserpine: 

Votre  mary  vous  a  donne  à  moy 
Et  je  luy  ay  donne  Marquet 


224  PIERRE  TOLDO 

et  son  ècole  des  fem?nes  s'inspire  direclement  à  la  théorie 
de  Salomon.  Le  savetier  ordonne  à  Proserpine  de  chanter: 
Proserpine  refuse  et  le  savetier  lui  applique  la  première  cor- 
rection  de  manu  ;  après  il  lui  ordonne  de  faire  je  ne  vous 
dirai  pas  quoi:  Proserpine  refuse  de  nouveau,  mais  les  coups 
lui  font,  aussitót,  changer  d'avis.  Enfin  deux  ou  trois  exemples 
sufflsenl. 

Le  savetier  est  évidemment  un  bon  maitre,  ses  leQons  don- 
nent  des  résultats  aussi  satisfaisants  que  rapides,  et  l'écolière, 
loin  de  se  plaindre,  se  déclare  fort  satisfaite. 

Je  me  tiens  la  plus  heureuse 
De  ce  monde. 

L'auteur  a  oublié  de  nous  faire  voir  le  revers  de  la  mé- 
daille,  Marquet  changeant  de  caractère  à  son  tour  et  deve- 
nant,  sous  la  main  de  Jaquet,  aussi  acariàtre  que  Proserpine 
est  douce;  ce  changement  aurait  ajouté  à  la  gaieté  de  la 
pièce. 

Dans  les  Facétieuses  nuits  de  Straparole  (Vili,  2)  on  trouve 
une  source  encore  plus  directe  que  celle  de  la  tradition  popu- 
laire  renfermée  dans  la  nouvelle  de  Sacchetti  :  «  Deux  soldats 
frères  espousent  deux  sceurs;  l'un  flatte  et  caresse  sa  femme, 
laquelle  ne  lui  veut  obéir;  l'autre  menace  la  sienne,  qui  fait 
tout  ce  qu'il  lui  commande  ».  La  vengeance  d'un  mari  sur  la 
ferarae  d'un  autre  forme  aussi  le  sujet  d'un  autre  conte  du 
mème  auteur  (VI,  1). 

Une  farce  bien  plus  connue,  le  Cuvier,  s'inspirant  à  un 
conte,  ou  mieux  encore  à  un  cycle  de  contes  qu'on  a  su  dé- 
terrainer  avec  soin  *),  met  en  scène  un  autre  genre  de  luttes, 


')  Voyez  là-dessus  les  notes  très  intéressantes  de  M.M.  Émile  Picot 
et  Christophe  Nyrop  dans  le  Nourean  recueil  de  farces  franraises  des 
XV^  etXVJe  siàcles,  Paris,  1880,  p.  x  sgg.,  et  une  notice  de  M""  Nyrop, 


ÉTUDES  SUR  LE  THÉATRE  COMIQUE  FRANCAIS  DU  MOYEN  AGE   225 

pour  la  conquéte  du  pouvoir.  Il  y  est  question  d'un  mari 
excessivement  soumis  aux  ordres  de  sa  femrae  et  de  sa  belle- 
mère,  qui  lui  imposent  un  rollet,  c'est-à-dire  une  liste  très 
longue  des  choses,  qu'il  doit  faire,  dans  son  ménage.  Sa 
femme  tombe  dans  le  cuvier  et  crie  au  secours.  Le  mari  qui 
n'a  qu'à  lui  tendre  la  main,  pour  la  sauver,  s'amuse  tranquil- 
lement  à  lire  son  rollet,  pour  voir  si  le  cas  de  tirer  sa  femme 
du  cuvier  y  est  contemplò,  et  comme  il  n'y  trouve  rien  à  ce 
propos,  il  déclare  qu'il  va  la  laisser  noyer.  La  femme,  sur  lo 
point  de  mourir,  cherche  tous  les  moyens  pour  fléchir  son 
mari  ;  sa  mère  le  prie  à  son  tour  ;  enfìn  le  mari  consent,  mais 
sous  condition  que  le  rollet  soit  mis  en  pièces  et  qu'il  de- 
viendra  désormais  le  maitre  chez  lui. 

Jaquinot,  de  méme  que  sire  Hain  du  fabliau,  n'est  pas  d'ail- 
leurs  fort  persuade  que  sa  femme  continuerà  longtemps  à 
lui  obéir:  «  Heureux  seray,  se  (le)  marcile  tient  ». 

Sire  Hain  avait  déjà  dit:  «  Je  ne  sai  se  ce  est  en  foi  ». 

Les  sources  indiquées  par  M.  M.  Picot  et  Nyrop  sont  très 
nombreuses  et  nous  transportent  sur  les  bords  du  Gange. 
Gourou  Paramartant  avait  déjà  eu  une  aventure  pareille 
avec  ses  disciples  ;  un  allemand,  J.  Pauli,  s'en  était  servi  pour 
réjouir  ses  lecteurs  et  Modini  et  Straparola  *)  ne  l'avaient 
non  plus  oubliée. 

Si  je  ne  me  trorape,  les  savants  éditeurs  ont  passe  sous  si- 
lence  la  version  qu'en  donne  Ludovic  Domenichi  dans  ses 
Facèlies  ^).  Cette  version  n'offre  rien  d'important,  car  il  s'agit 


dans  la  Romania  (1882,  p.  412),  La  farce  du  cuvier  et  un  proverhe  nor- 
végien,  où  il  s'agit  de  l'application  inverse  du  rollet,  car  ici  c'est  le 
mari  qui  l'impose  à  sa  femme  et  qui  doit  ensuite  en  invoquer  la 
pitie. 

*)  MoRLiNi,  nouv.  74  ;  Straparola,  XIII,  7. 

')  Ed.  de  Venise,  1590,  p.  252,  V=  livre. 


226  PIE  REE  TOLDO 

tuujours  d'un  conlrat  écrit  entre  un  maitre  et  son  valet.  Les 
ressemblances  de  toutes  ces  rédaclions  indiquent  que  nous 
avons  affaire  à  une  mème  famille  de  nouvelles,  mais  aucune 
ne  révèle  une  filiation  directe,  aucune  ne  renferme  toute  la 
donnée  de  la  farce. 

Le  mème  Domenichi,  que  nous  venons  de  citer  *),  nous  conte 
qu'un  certain  mari,  dont  la  femme  appartenait,  en  tout  et 
partout,  à  la  lignee  de  Proserpine,  jouait  de  la  cornemuse, 
lorsque  celle-ci  s'emportait  et  remplissait  la  maison  de  ses 
cris,  et  cette  nouvelle  avait  été  déjà  contèe  en  France,  par 
Dos  Périers,  si  Des  Périers  en  est  l'auteur,  dans  ses  Joyeux 
Devis  (115*=).  G'est  là  oìi  il  expose  «  la  manière  de  faire  taire 
et  dancer  les  femmes,  lors  que  leur  avertin  les  prend  ».  Le 
madre  compère  «  se  prenoit  à  jouer  d'une  fleute  qu'il  avoit  »• 
et  sa  femme  était  forcéc  de  se  taire,  de  crainle  d'éclater 
de  rage. 

Pogge  (fac.  259^)  et  Des  Périers  (122*)  avaient  conte  aussi 
l'historiette  d'un  tei  qui  se  moque  d'un  autre,  par  des  chan- 
sons,  et  en  Italie  on  emploie  le  verbe  canzonare  dans  le  sens 
de  se  moquer  d'autrui.  Dans  le  folklore  ces  canzonature 
sont  aussi  très  fréquentes. 

G'est  à  cette  donnée  que  s'inspire  la  farce  de  Calbain,  un 
autre  savelier;  mais  ici,  corame  dans  les  autres,  que  nous' 
allons  examiner,  le  mari  doit  enfln  baisser  la  téte.  G'est  la 
revanche  des  femmes.  La  femme  de  Calbain  veut  une  robe 
et  d'autres  cboses  encore.  Son  mari  lui  répond  par  des  chan- 
sons;  elle  crie  et  les  chansons  redoublent;  enfin,  de  guerre 
lasse,  la  femme  garde  le  silence.  Mais  le  'galland  vient  à  son 
secours.  11  lui  conseille  d'endormir  son  mari,  moyennant  un 
narcotique,  et  de  prodter  de  son  assoupissement  pour  lui  voler 


')  Ibid.,  p.  165. 


ÉTUDES  SUR  I.E  THÈaTRE  COMIQUE  FRANCAIS  DU  MOYEN  AGE    227 

sa  bourse.  Lorsque  le  mari  s'éveillera  et,  ne  trouvant  plus 
son  argent,  poussera  les  hauts  cris.  elle  lui  répondra,  à  son 
tour,  par  des  chansons.  Gela  arrive  à  souhait.  Calbain  a  beau 
la  menacer  et  la  flatter  des  noras  les  plus  tendres.  Il  l'appelle 
rri'arnyeile  et  Vamijette  lui  fait  rime  en  violette,  de  sorte 
qu'il  doit  savouer  vaincu  et  la  prier  de  cesser  sa  musique: 

Ha,  taisez-vous  m'amye,  paix,  paix! 
Je  cognois  bien  que  c'est  ma  faulte. 

La  conclusion  est  celle,   que  nous  connaissons  déjà  depuis 
longtemps:  «Tel  trompe  au  loing,  qui  est  trompé  ». 
lei  le  poète  s'amuse  sur  ce  mot  de  trompeur  : 

Trompeurs  sont  de  trompés  trompez; 
Trompant  trompettez  au  fcrompé 
L'homme  est  trompé. 
Adieu,  trompeurs,  adieu,  Messiers, 
Excusez  le  trompeur  et  sa  femme. 

C'est  le  triomphe  de  la  irromperle  dans  un  crescendo  digne 
de  Rossini. 

Le  symbole  des  culottes  représentant  l'autorité  du  mari, 
varie  quelque  peu  dans  la  farce  du  cousturier,  du  chaus- 
setier  et  de  tnaistre  Antitus.  lei  la  coiffe  remplaee  les  cu- 
lottes, cu  pour  raieux  dire  en  représente  le  contraire.  Si  les 
premières  signifìent  le  eomraandement,  la  coiffe  représente  done 
lobéissance.  Les  deux  femmes,  qui,  d'après  le  jugement  de 
maitre  Antitus,  coiftent  leurs'maris,  vengent  madame  Anieuse 
et  les  femmes  de  Sacchetti.  Ges  deux  maris,  aussi  malheureux 
que  niais,  travaillent  sans  relàehe  tandis  que  les  joyeuses 
commères  s'amusent  au  cabaret  et  napportent  à  la  maison 
que  la  poussière  et  la  bone  des  rues.  Les  deux  maris  se  con- 
solent  réciproquement  : 


228  PIERRE  TOLDO 

Cousturier.    Sans  cesse  elle  me  veut  battre. 
Chaussetier.  Si  fait  la  mienne  corame  piastre, 

Et  si  me  mauclit  comme  un  thien 

Qu'el  fust  noyée  en  la  rivière. 
Cousturier.    Sainct  Jean,  il  ne  m'en  chaudroit  guere 

S'ils  estoient  toutcs  deux  noyées. 

Sentimenis  très  louables  et  payés  de  retour  ! 

Monseigneur  Antitus  a  Tair  d"ètre  le  seigneur  du  village 
et  peut-étre  a-t-il  ses  bonnes  raisons,  pour  se  ranger  du  coté 
des  femmes. 

Un  des  défauts  les  plus  sensibles  de  ces  dames  est  celai  de 
l'entéteraent.  On  connait  la  nouvelle  du  Pogge,  touchant  cette 
femme,  qui  mème  sur  le  point  de  se  noyer,  continuait  à  ap- 
peler  son  mari  pouilleux.  Marie  de  France,  dans  ses  Fables 
(II,  379),  avait  déjà  conte  à  peu  près  la  mème  chose  et  le 
fabliau  do  pré  iondu  est  fonde  sur  la  mème  idée. 

Un  paysan'voit  un  pré  et  dit  à  sa  femme:  Voilà  un  pré 
fauché,  et  celle-ci  repartit  aussitòt,  pour  le  seul  plaisir  de 
contredire: 

N'est  pas  fauchiez,  ains  est  tondu. 

Le  paysan  se  fàche,  la  querelle  s'échauffe,  le  mari  frappe» 
la  femme  crie,  mais  malgré  les  coups  qui  pleuvent  sur  son 
dos,  elle  ne  veut  pas  en  démordre: 

Là  ne  pot  de  mot  soner; 
Convint  c'à  ses  doiz  à  montrer 
Qu'il  est  bertodez  et  tonduz. 

G'est  le  cas  de  la  femme  de  Rifflart,  dans  la  farce  YOhsti- 
nation  des  femmes.  Le  mari  voudrait  metlre  une  pie  dans 
la  cage,  qu'il  vient  d'arranger  exprès.  Sa  femme  proteste; 
elle  y  meltra  un  coqu,  jeu  de  mots  d"un  sens  assez  clair. 
Rifflart  menace,  lève  sa  main,  mais  tout  débat  est  inutile.  La 
femme  l'emporte  et  le  mari  achètera  le  coucou. 


ÉTUDES   SUR  LE  THÉATRK   COMUjUE   FRA.NgAIS  DU   MOYEN   AGE        229 

Meme  dans  ce  cas  particulier,  catte  donnée  n'est  pas  in- 
connue  aux  auteurs  des  fabliaux  *). 

L'obstination  de  la  femrae  forme  aussi  le  fond  de  la  farce 
nouvelle  d'un  chauldronnier,  dont  la  source  a  étó  déjà  in- 
diquée^);  mais  c'est  une  obstination  mèlée  d'autres  éléments 
et  qu'on  pourrait  definir  un  pari  plaisant.  La  pièce  s'ouvre 
par  une  violente  querelle  entro  les  deux  ópoux;  le  mari  em- 
poigne  un  bàton,  sa  femme  se  jette  sur  lui  et  la  victoire  cette 
fois  couronne  le  sexe  faible: 

Victoire  et  domination, 

Et  bormet  aux  femmes  soit  donne! 

Le  mari  se  plaint  ensuite  de  ce  qua  sa  femme  ne  sait  se 
lenir  tranquille;  celle-ci  déclare  à  son  tour  qu'elle  va  restar, 
pendant  longtemps,  dans  l'immobilité  la  plus  absolue,  le  mari 
en  fera  de  mèrae  et  colui  qui  bougera  le  premier  aura  perdu 
le  pari.  Les  voilà  tous  les  deux  immobiles,  corame  des  statues. 

Un  chaudronnior  qui  passe  s  etonne  de  ce  spectacle.  Il 
coiffe  le  mari  dun  chaudron,  le  barbouille  de  noir  et  attaché 
à  ses  mains  une  cueillère  et  un  pot,  dont  l'usage  est  facile  à 
deviner.  Pour  la  femme  c'esl  autre  chose.  Elle  est  bien  jolie 
et  le  chaudronnier  s'approche  d'elle,  la  caresse,  la  baise  et 
Dieu  sait  ce  qu'il  en  ferait  si  le  mari  ne  crùt  convenable 
d'intervenir  : 

L'homme.    Le  dyable  te  puist  emporter, 

Truant,  paillart 

La  femme.  Nostre  Dame,  vous  avez  perdu, 

Je  suis  demourée  maistresse. 

Enfin  toute  chose  s'arrange  et  les  deux  époux,  avec  le  chau- 


')  Voyez  là-dessus  Bédier,  Les  fabliaux,  pp.  20-22. 

*)  Voyez  Petit  De  Jllleville,  Répertoire  cité,  sous  ce  titre. 

Stu^j  di  filolofiia  romanza,  IX.  jt 


230  PIERRE  TOLbO 

dronnier,  vont  boire  au  cabaret  le  vin  du  pari,  «  Bedouyne  — 
dit  un  certain  mari  d'un  conte  de  Straparole  à  sa  ferame,  se 
refusant  de  feraier  la  porte  (Vili,  1)  —  je  veux,  faire  un  accord 
avec  toi,  que  le  premier,  qui  parlerà  de  nous  deux,  fermerà 
l'huis  >.  L'accord  est  accepté.  Le  mari  se  tient  debout  sur  un 
banc,  la  ferame  se  conche;  un  valet  qui  passe  s'apergoit  de 
la  chose  et  s'approche  de  la  femme.  Ce  qui  se  passe  ensuite 
ne  présente  avec  la  farce  que  des  différences  de  détails. 

Il  s'ensuit  de  tout  ce  que  nous  venons  de  voir,  que  les 
femraes  et  les  maris  ne  font  bon  ménage,  que  par  exception. 
Leur  désir  le  plus  vif  est  donc  de  modifier,  autant  que  pos- 
sible,  leurs  moitiés  et  les  femmes  surtout  ont  recours  aux  rays- 
tères  de  la  négromancie  pour  transformer  et  surtout  pour 
rajeunir  les  corapagnons  de  leur  vie.  L'eau  qui  rajeunit  ap- 
partient  à  ces  croyances  du  moyen  àge,  dont  le  souvenir  ne 
s'est  pas  encore  effacé,  et  dont  nous  avons  vu  tout-à-l'heure 
un  exemple  dans  la  farce  de  la  fontaine  de  jouvence.  On  re- 
trouve  cette  eau  merveilleuse  mèlée  à  d'autres  moyens  étranges 
pour  rajeunir  dans  les  contes  de  l'orient  de  mème  que  dans  le 
fotk-lore  ')  et  Virgile  lui  aussi  se  serait  dans  ce  but,  selon  la 
legende,  fait  couper  par  morceaux  et  saler.  Malheureusement 
un  incident  quelconque  rompt  le  charme.  G'est  là  ce  que 
la  mythologie  avait  déjà  conte  de  Médée  et  nous  n  avons  qu'à 
renvoyer  aux  savantes  études  de  M.  M.  Graesse,  Simrock  et 
Comparetti,   touchant  ce  sujet  *). 

Rien  donc  de  plus  naturel  que  la  mème  legende  revive 
dans  les  farces,  avec  des  raodifications  plus  ou  moins  sensibles. 

Les  femmes  qui  font  refondre  leur^s  maris,  par  un  fondeur 

')  Voyez  Sinhàsana-dvàtrin^ikà  [Indische  Studien,  t.  XV,  1878,  p.  364); 
E.  CosQuiN,  Contes  populaires  lorrams  {Romania,  1881,  p.  176)  et  Stra- 
parole cité,  par  M.  Cosquin. 

^)  Graesse,  Die  Suge  der  eivig.  lude,  p.  44  ;  Simuock,  Handh.  der  deut- 
schenMyth.,  Il"  édit.,  p.  260;  Compaketti,  Virgilio  nel  Medio  Evo,  p.  156. 


ÉTUDKS  SUR  LE  THKATRE  COMIQUE  KRANCAIS  DU  MOVEN  AGE    231 

qui  exécule  ces  opérations  mcrveilleuses.  n'ont  pas  à  s'en 
rejou.r.  Il  est  vrai  que  Jeannette  a  quelques  raisons,  pour  se 
plamdre  de  son  raariage.  Son  bonhomme  a  beau  énuraérer 
tous  les  biens,  qu"!!  possedè,  et  toutes  les  choses.  qu'il  peut 
lui  donner:  habits,  bijoux,  fétes,  mets  exquis.  etc. 

Son  àge  lui  empèche  de  contenter  sa  femme  en  ce  qu'elle 
aimerait  le  raieux. 

Ha,  m'amye,  qui  ne  peult,  ne  peult 

Celluy  mestier  n'est  pas  science. 

Fernette  a,  à  son  tour,  des  griefs  contre  son  Gollart: 
Tousjours  il  ne  faict  que  grongner; 
Tousjours  ne  cesse  de  tousser, 
Cracher,  niphler,  souffler,  ronfler 

et   Collari,  lorsqu'elle  passe   à  un  sujet  très  délicat  et  facile 
à  deviner,  répond  ainsi  que  son  compère: 

Qui  faict  ce  qu'il  peult  (il)  est  excuse. 

Le  fondeur,  avant  d'entreprendre  cette  opération  assez  dif- 
ficile, tàche  de  persuader  aux  femmes  qu'elles  ont  tort  d  etre 
mécontentes.  Malgré  leurs  imperfections,  ces  maris  sont,  au 
bout  des  comptes,  des  gens  aimables,  soumis  et  patients.  Il  se 
pourrait  aussi  qu'il  arrivai  quelque  raalheur: 

Et  s'il  y  avoit  faute  de  matières, 
En  les  fondant  d'un  cueur  joyeulx, 
Que  pour  ung  homme  en  viennent  deux? 
^''^«^««-  Tant  mieuk  vauldra; 

Mais  qu'ilz  soyent  bons  laboureurs. 
L'un  sera  pour  les  jours  ouvriers, 
Et  l'aultre  pour  les  bonnes  festes. 

La  chaudière  est  chauflee,  les  maris  fondent  lentement  et 
en  sortent  l'un  après  l'autre  rajeunis,  fringants,  mais  changés 
aussi  entièrement  de  caractère.   Leurs  femmes,  qui  s'étaient 


232  PIERRE  TOLDO 

'  réjouies  tout  d'abord  de  cette  transformation,  doivent  se  re- 
pentir  ensuite  de  leur  sottise.  Thibaut  secrie,  le  premier: 

Je  veulx  gouverner  à  mon  tour, 
et  Collart  ajoute: 

Je  vous  garderay  bien  de  rire. 

Bref,  c'est  la  résurrection  du  maitre  absolu,  dans  toutes 
sa  puissance  et  dans  son  inflexibilité  de  tyran  domestique. 

Un  Troqueur  de  maris  est  le  héros  d'une  autre  farce,  où 
l'on  met  en  scène  trois  commères,  qui  voudraient  changer 
leurs  maris,  vieux,  cassés  et  jaloux.  Le  troqueur,  ou  marchand 
de  maris,  présente  plusieurs  spécimens  de  sa  marchandise, 
mais  les  commères  les  refusent  ;  l'un  est  ridicule,  l'autre  un 
monstre  de  laideur,  le  troisième  pis  encore  a  l'air  d'impuissant, 
de  sorte  que  le  troqueur  se  retire,  bien  siìr  qu'il  ne  trou- 
vera  jamais,  dans  sa  boutique,  aucun  article,  qui  puisse  les 
contenter.  La  pièce  a  pour  but  de  déraontrer  l'incontentabilité 
du  beau  sexe  et  en  mème  temps  de  nous  apprendre  que  ce 
que  les  femmes  cherchent  surtout,  c'est  ce  qu'elles  ont  l'air 
de  dédaigner. 

Les  maris  ne  sont  pas  plus  ménagés.  Ils  voudraient,  eux 
aussi,  changer  de  femmes,  mais  à  quoi  bon  ce  changement? 
ajoutent  ces  poètes.  L'une  vaut  l'autre  et  l'on  tombe  souvent  de 
fìèvre  en  cbaud  mal.  Tel  est  le  malheur,  qui  arriva,  par  exeraple, 
à  ce  Marceau,  dont  les  frères  Parfait,  sous  le  titre  la  Farce 
des  femmes  salèes,  nons  content  l'histoire  douloureuse.  lei,  au 
lieu  d'un  vrai  troqueur  ou  d'un  fondeur  tout-puissant,  on  a 
affaire  à  un  véritable  escroc.  Marceau,  le  mari  de  la  pièce, 
a  une  ferame,  dont  le  naturel  trop  doux  lui  paraìt  insuppor- 
table.  Il  s'en  plaint  à  un  de  ses  amis,  se  trouvant  dans  le 
mème  cas,  et  tous  les  deux  s'adressent 

A  maistre  Macé,  lequel  est 
Grand  philosophe. 


ÈTUDES  SUR  LE  THÈATRE  COMIQUE  FRAN'CAIS  DU  MOYEN  AGE   233 

Celui-ci  se  charge  de  saler  les  deux  femmes,  et  dans  ce 
but  il  les  appella  chez  lui  et  les  persuade  à  changer  de  mé- 
thode.  Montrez-vous,  dit-il,  acariàtres  et  battez-les.  G'est  ainsi 
qua  vous  pourrez  vous  venger  du  tort  que  vos  maris,  les 
pauvres  sots.  font  à  votre  douceur.  Les  raaris,  à  l'accueil  de 
leurs  femmes,  trouvent  que  maitre  Macé  a  rais  trop  de  sei 
dans  son  breuvage  et  ils  voudraient  qu'  il  les  adoucìt.  Mais 
le  fripon  s'écrie  qu'  il  est  tard  : 

Lea  douces  je  89ai  bien  saller, 

Mais  touchant  de  dessaller  point, 

de  sorte  que  les  malheureux  baissent  leur  tète  aussi  repentis 
que  les  femmes  du  troqueur. 

Enfin  ces  querelles  entre  les  époux  naissent  souvent  pour 
des  causes  à  la  vérité  pas  trop  sérieuses.  Dans  la  farce  nou- 
velle  et  fort  joyeuse  du  pect,  on  volt  un  certain  Hubert  citer 
sa  femme  devant  un  juge,  pour  la  raison  que  le  titre  indique 
et  ce  sujet  du  dernier  plat  dut  paraìtre  assez  plaisant  à  cette 
epoque,  si  Aliene  d'Asti  crut  convenable  de  le  reproduire  en 
Italie,  sous  le  titre  de  Peron  e  Cheinna  qui  plaidèrent  per 
un  peto.  L'imitation  d'Alione  est  evidente  et  démontre  la 
vulgarité  de  ces  inspirations  et  en  mème  temps  leur  popu- 
larité.  A  tei  public  tei  spectacle  ! 


Maris  trompés. 

L'histoire  en  est  très  longue  et  rien  moins  qu'édifiante. 
Ainsi  que  chez  les  auteurs  des  fabliaux  et  des  nouvelles,  le 
mari  berne  et  trahi  est  tellement  commun  dans  ce  théàtre, 
qu'on  peut  presque  croire  que  mari  et  trompé  ne  sont  que 
des  synonymes.  Toutes  les  ruses  possibles,  tous  les  expédients 
les  plus  étranges  sont  mis  en  ceuvre  pour  duper  la  benne  foi  de 
ces  malheureux  pródestinés.  Le  mari  est,  d'après  une  vieille 


234  PIERRE  TOLDO 

comparaison  qui  regoit  ici  une  application  bien  exacte,  comme 
le  capitaine  d'une  ville  assiégée,  qui  aurait  des  ennemis  au 
dehurs  et  au  dedans,  ennemis  d'autant  plus  tcrribles  qu'ils  se 
présentent  à  lui  le  scurire  sur  les  lèvres  et  la  trahison  dans  le 
coeur.  Il  aura  beau  se  tenir  sur  ses  gardes,  fermer  les  portes, 
défendre  à  sa  compagne  toute  sorte  de  coramunication.  La 
ferame  sortirà  méme  de  la  tour  la  plus  sùve,  eluderà  la  garde 
la  plus  étroite  et  si  le  mari  la  surprend  entro  les  bras  de  son 
rivai,  elle  lui  fermerà  les  yeux,  ou  lui  fera  croire  qu'il  vient 
de  rèver.  Rien  de  plus  absurde  que  de  garder  une  femrae. 
G'est  ainsi  que  nous  trouvons,  dans  les  nouvelles  tout  d'abord 
dans  les  farces  ensuite,  les  tours  les  plus  curieux  et  les  plus 
ridicules.  Le  mari  surprend  sa  femme  avec  son  amoureux,  la 
flétrit  de  coups,  lui  coupé  les  cheveux,  appello  ses  parents, 
mais  la  femme,  par  un  coup  d'audace,  s'est  fait  remplacer  par 
une  de  ses  voisines  et  le  terrible  vengeur  de  la  foi  conjugale 
reste  berne  et  s'avoue  vaincu.  G'est  le  fabliau  des  tresces. 
Ailleurs  au  lieu  d'un  amoureux,  nous  en  avons  deux  ou  trois  à 
la  fois.  La  ruse  féminine  ne  se  laisse  imposer  pas  mème  par  le 
nombre  et  par  l'évidence. 

Elle  ordonne  au  premier  amoureux  de  se  feindre  poursuivi 
par  ses  ennemis  et  le  présente  à  son  bonhomme,  ainsi  qu'un  mal- 
heureux  invoquant  son' ospitante.  G'est  le  fabliau  que  Boccace 
a  rendu  célèbre  dans  l'aventure  de  Lambet^iucczo.  Un  mari  rem- 
place  le  galant,  pour  convaincre  sa  femme  d'adultere.  Gelle-ci 
s'en  apergoit  et  empruntant  l'aspect  de  la  vertu  la  plus  farouche, 
bat  ou  fait  battre  son  maitre.  Voilà  le  mari  cocu,  battu  et 
content  du  chevalier,  de  sa  dame  et  du  clerc.  Dans  lo  Prestre 
Ili  abevete,  celui-ci  fait  accroire  à  un  paysan  que  ce  qu'il  voit 
de  ses  yeux  n'est  qu'une  illusion  diabolique;  dans  le  Vilaìn 
de  Bailleul,  un  autre  paysan  se  laisse  persuader  qu'il  est  mori 
et  se  tient  coi,  tandis  que  le  cure  ombrasse  sa  tendre  moitié. 

Enfin  la  femme,  non  contente  de  se  tirer  d'affaire,  s'amuse  à 

e 


ÉTUDES  SUR  LE  THÉATRE  COMIQUE  FRANCAIS  DU  MOYEN  AGE   235 

la  ruse  pour  faire  parade  de  ses  ressources;  elle  cache  l'amou- 
reux  qu'elle  pourrait  faire  fuir,  et  conte  au  mari,  d'un  air 
goguenard,  tout  ce  qui  se  passe  vraiment  chez  lui.  Le  bon- 
homme  croit  à  un  badinage,  on  n'oserait  lui  center  des  choses 
pareilles;  mais  son  aimable  épouse  insiste.  Elle  lui  demande 
ce  qu'il  va  faire  de  l'amoureux  cache  sous  le  Ut,  et  lorsque 
le  mari  entre  en  fureur  et  met  Tépée  à  la  main,  la  friponne 
part  d'un  éclat  de  rire  et  lui  jette  un  drap  sur  la  tète.  G'est 
le  dit  dou  PliQoyi.  Le  comble  de  ces  plaisanteries  est  atteint 
dans  la  Gageure  des  trois  commères,  fabliau  qui  fit  le  tour 
du  monde  aussi  bien  que  celui  des  hraies  au  cordelier,  ap- 
portées  et  consignées  par  le  mari  en  grande  cérémonie  au 
couvent.  Et  le  fabliau,  parfois  grossier,  se  transforma  dans 
les  aventures  galantes  des  personnages  du  Decameron.  La 
femme  de  Gianni  Lotterighi  lui  fait  accroire  que  l'amant, 
qui  frappe  à  la  porte,  doit  ètre  un  fantóme  et  tous  les  deux 
chantent  une  oraison  pour  l'éloigner  (VI,  1);  Peronella  feint 
que  son  amoureux  achète  un  tonneau  (VI,  2);  une  autre, 
d'après  l'ancien  fabliau  des  iresces,  convaincue  d'adultere,  met 
à  sa  place  une  de  ses  voisines  et  persuade  le  bonhomme  qu'il 
a  rèvé;  enfin  une  dame  ne  sachant  comment  s'y  prendre  pour 
faire  connaìtre  son  amour  à  un  jeune  homme,  prie  son  con- 
fesseur  de  vouloir  le  réprimander  de  ses  assìduités,  et  il  en 
éveille  ainsi  l'attention  (III,  3). 

Toutes  ces  nouvelles,  remaniées  de  mille  fagons,  passant  de 
bouche  en  bouche  et  de  livre  en  livre,  parcourent  la  France, 
ritalie,  le  monde  tout  entier;  on  les  retrouve,  avons-nous  dit, 
sur  les  bords  du  Gange,  de  la  Seine  et  du  Tibre.  Marguerite  de 
Navarre,  elle-méme,  malgré  la  vertu,  rtialgré  son  rang  de  femme 
et  de  princesse,  n'a  pas  oublié  d'en  mettre  un  certain  nombre 
dans  son  Heptaméron,  tout  en  tàchant  de  nous  présenter  quel- 
ques  femmes  de  bien,  résistant  à  la  violence  des  puissants,  ou 
supportant  avec  résignation  l'abandon  de  leurs  maris.  G'est  ainsi 


236  PIERRE  TOLDO 

que  nóus  lisons,  dans  son  oeuvre,  la  «  Subtilité  d'une  femme, 
qui  fit  evader  son  ami  »,  le  «  Subtil  moyen  dont  usoit  un 
grand  prince  pour  jouir  de  la  femme  d'un  avocat  de  Paris  » 
et  d'autres  tours  pareils.  Et  la  charge  ecclésiastique  ne  défend 
pas  à  Poggio  de  gorger  ses  oeuvres  de  ces  contes  saugrenus 
et  libres  ni  à  Bandello  de  nous  faire  rire  par  des  récits,  où  Fon 
apergoit  parfois  des  taches  de  sang. 

Tonte  cette  littérature  entoure,  inspire  et  domine  les  pièces 
comiques  non  seuleraent  du  moyen  àge  et  de  la  Renaissance, 
mais  aussi  celles  des  époques  postérieures.  La  plaisanterie  est 
au  fond  toujours  la  mème.  Le  mari  de  la  farce  devient,  pour 
ainsi  dire,  un  raccourci  de  toutes  les  sottises  humaines  et 
l'actio!!  a  soin  d'insister  sur  les  détails  pornographiques  qu'elle 
peut  bien  présenter  aux  yeux  de  son  public,  tandis  que  les 
nouvellistes  devaient  se  borner  à  en  amuser  les  oreilles.  Le 
triomphe  de  la  ruse  féminine  est  pròne  donc  de  mille  fagons 
et  les  sujets  de  toutes  ces  aventures  sont  toujours  du  ressort 
de  la  littérature  narrative.  La  comédie  postérieure  à  la  Re- 
naissance a  affaire,  au  contraire,  à  des  spectateurs  plus  délicats 
et  ménage  partout  les  convenances.  Au  fond  on  n'est  pas  plus 
chaste,  mais  les  mots  sont  moins  grossiers  et  le  rideau  se 
baisse  à  propos. 

Abordons  cette  revue  par  les  faits  qui  précèdent  les  noces. 
Du  matin  on  pourra  deviner  la  journée.  Les  malheurs  com- 
mencent  donc  le  jour  mème  du  raariage  et  la  condition  la 
plus  commune  pour  un  nouveau  marie  de  ces  farces  c'est 
de  trouver  que  la  jeune  fìUe  qu'il  croyait  vierge  d'àrae  et 
de  corps,  ne  saurait  prétendre.  sous  aucun  titre,  à  la  fìeur 
d'orange.  Il  est  vrai  que  plusieurs  gargons  ont  assez  d'esprit 
pour  éviter  ces  méprises.  Prenez  la  farce  de  Jehan  de  Lagny 
et  de  messire  Jean  et  vous  verrez  que  malgré  tonte  l'élo- 
quence  de  ce  dernier,  Jean  de  Lagny  se  tire  d'affaire  on 
ne  pourrait  raieux.  Trois  jeunes  fìlles  se  plaignent,  au  début 


ÉTUDES  SUR   LE   THÉATRE   COMIQUE   FRANC-AIS  DU   MOYEN   AGE        237 

\«ie  la  pièce,  de  ce  que  Jean  de  Lagny  les  a  trompées  toutes 
les   trois,   en   leur  faisant  accroire,   que   le   mariage  arran- 
gerai t  bientót  leur  situation  équivoque.  Mais  en  trois  comment 
épouser  un  seul   homme?  Jean  de  Lagny,  entouró  par  ces 
belles,  ne  se  perd  pas  de  courage: 

J'ai  promys  et  promais  encore 
Vous  espouser,  je  ne  say  quant 

et  il  ajoute  à  peu  près  comrae  Don  Juan  de  Molière,  qu'il 
épousera  celle-ci  ou  celle-là  lorsqu'il  épousera  les  aulres. 
Traine  devant  le  juge  et  après  avoir  subì  le  requisì toire  de 
l'avocat  des  plaignantes,  il  se  seri  de  l'amour  de  ces  filles 
pour  combattre  l'avocat  lui-mèrae,  l'accusant  d'un  tas  de 
faiblesses  galantes.  Le  juge  lui  donne  gain  de  cause  et  con- 
darane  messire  Jean. 

11  n'en  est  pas  de  mème  de  l'amoureux  de  l'autre  farce. 
La  mere,  la  fìlle,  le  tesmoing,  l'amoureulx  et  Vofìfìcial,  mais 
ici  le  pauvre  gargon  a  affaire  à  une  mère,  dont  l'expérience 
doit  nécessairement  avoir  le  dessus  sur  son  étourderie.  Le 
beau  Colin  a  abusé  de  la  bonne  foi  d'une  jeune  Alle,  qui  s'en 
plaint  à  sa  mère.  Celle-ci  le  ci  te  en  jugement  et  le  juge  a 
l'air  d'un  homme  de  bien,  au  raoins  si  l'on  veut  ajouter  foi 
à  ce  qu'il  dit: 

Celuy  qui  est  droict  maintenant 
Est  prisé  de  Dieu  et  des  hommes. 

On  pourrait  toutefois  avoir  quelque  doute  là-dessus  lorsqu'on 
entend  la  mère  l'avertir  que  le  coupable  «  n'est  pas  un  trop 
grand  seigneur  ».  La  scène  judiciaire  est  fort  plaisante;  la 
mère  interrompi  à  tout  moment  la  fille,  pour  parler  en  son 
nora;  le  témoin  bat  la  campagne  et  le  juge  doit  le  rappeler 
au  sujet  de  la  cause;  tout  est  assez  anime  et  d'après  nature; 
le  seul  dont  le  caractère  n'ait  aucun  relief  c'est  ce  pauvre 


238  PIERRE  TOLDO 

amoureux  traine  à  rhyménée  comrae  à  la  potence.  Tel  est 
le  sujet  de  la  XXV«  des  Cent  nouvelles  nouvelles,  avec  le  mème 
débat  devant  le  juge  *). 

Si  l'on  va  jusqu'à  éprouver  un  certain  sentiment  de  cora- 
passion  pour  le  beau  Colin,  on  doit,  au  contraire,  se  féliciter 
de  la  punition  bien  raéritée  d'un  autre  galant  trop  malin. 
Son  aventure  est  exposée  dans  le  Sei^mon  joyeuLv  d'une; 
fianca  qui  emprunte  ung  pain  sur  la  fournée,  à  radattre 
sur  le  temps  advenir,  et  mes  lecteurs,  habitués  au  langage 
de  ces  écrivains,  n'auront  pas  de  peine  à  comprendre  de 
quel  pain  il  est  question.  Ce  serraon,  comme  tous  les  autres, 
a  un  début  sérieux  et  constitue  la  parodie  des  prédicateurs 
de  réglise.  Le  prècheur  n'a  pas  une  idée  fort  élevée  de  la 
vertu  féminine,  et,  dans  son  pessiraisme,  il  ne  respecte  pas 
mème  le  souvenir  de  sa  mère: 

Il  me  souvient  bien  quand  ma  mère 
Disoit  qu'elle  estoit  prude  femme, 
Mais  qu'il  en  soit,  par  Nostre-Dame 
Je  n'oseroy  de  rien  jurer. 

Un  jeune  homme,  dit-il,  a  profitó  de  l'inexpérience  d'une 
jeune  Alle,  pour  la  séduire.  La  mère  de  celle-ci,  fort  fàchée 
de  l'aventure,  déclare  qu'elle  ne  perraettra  jamais  à  sa  Alle 
d'épouser  un  tei  fripon.  La  pauvrette,  fort  troublée,  conte  à 
son  amoureux  la  déclaration  maternelle,  le  priant  de  défaire 
leur  engagement  et  l'amoureux  trouve  qu'il  y  a  un  remède 
bien  simple  à  tout  cela: 


')  La  farce  du  porteur  d'eau  se  fonde,  elle  aussi,  sur  la  mème  donnée. 
Il  est  question  d'un  gar9on,  qui  a  promis  d'épouser  une  jeune  fille  et 
qui  se  sauve  le  jour  mème  du  mariage,  en  emportant  l'argent  et  les 
cadeaux.  Les  conviés  se  trouvent  contraints  de  payer  le  banquet  et  la 
musique  et  finissent  par  venir  aux  mains.  Rien  n'empèche  de  croire 
qu'il  s'agit  là  d'une  véritable  aventure. 


ÉTUDES   SUR    LE   THEATRE   COMIQUE    KRANCAIS    DU    MOYEN    AGE         239 

L'autre  jour  voua  fustes  dessubz 
A  present  je  seray  dessoubz. 

La  chose  se  passe  comme  il  dit  et  voilà  le  mariage  défait. 
Peu  de  temps  après,  le  beau  gargon  se  marie  à  une  jeune  fìlle 
et  la  première  nuit  de  son  mariage,  il  lui  conte  cette  aven- 
ture.  L'épouse  rit  aux  éclats  et  déclare  qu'il  a  dù  avoir 
affaire  à  une  Alle  bien  sotte,  car  pour  son  compte,  elle  n'a 
jamais  dit  à  sa  mère  ses  petits  secrets  galants: 

Aussi  nostre  gentil  varlet 

Si  me  l'a  fait  plus  de  cent  fois. 

Le  mari  a  beau  se  fàcher,  encore  une  fois:  «  à  trompeur, 
trompeur  et  demy  »  dit  le  sermonneur,  et  c'est  là  la  conclu- 
sion  édifiante  de  la  pièce. 

Il  y  a  ici  le  souvenir  d'un  conte  de  Pogge  et  de  TArienti, 
reproduit  raaintes  fois  en  Italie  et  en  France.  L'aventure  de 
messer  Ludovico  Araldo,  qu'on  lit  dans  les  Porreiane,  est 
tout  à  fait  pareille.  «  Un  jeune  homme  abuse  d'une  jeune  fìlle, 
qu'il  devait  épouser.  La  mère  de  celle-ci  défait  le  mariage. 
Le  jeune  homme  en  épouse  une  autre  et  se  trouve  moqué  » 
(XXX).  La  Repensa  merces,  de  Pogge,  insiste  surlout  sur  la 
seconde  partie  :  «  Aliquid  suspicans  mali,  noctu  rogavit  virum, 
ecquid  ille  sibi  voluisset  risus.  Tergi versantem  detundendo 
compulit,  ut  fabulam  referret,  et  simul  illius  stultitiam  accu- 
saret.  Tum  uxor:  Gontristetur  illam  deus  quae  tam  fuit  amens, 
ut  id  notura  fecisset  matri.  Quid  enim  opus  erat,  ut  mairi 
vestrum  concubitum  referret?  Me  quidem  noster  famulus  am- 
plius  centies  cognovit,  neque  ullum  unquam  verbum  a  me 
innotuit  matri  ».  L'auteur  des  Cent  nouvelles  nouvelles  conte 
à  son  tour:  «  d'ung  compaignon  picart  demourant  à  Brucelles, 
lequel  engrossa  la  fille  de  son  maistre;  et  à  ceste  cause,  print 
cangie  de  haulte  heure  et  vint  en  Plcardie  soy  marier.  Et 
tost  après  son  partement,  la  mere  de  la  fille  s'apperceut  de 


240  PIERRE  TOLDO 

l'encoleure  de  sadicte  fille,  laquelle,  à  quelque  meschief  que 
ce  feust,  confessa  à  sa  mere  le  cas  tei  qu'il  estoit:  et  sa  mere 
la  renvoya  devers  ledit  compaignon  pour  luy  deffaire  ce  qu'il 
lui  avoit  fait.  Et  du  reffuz  que  la  nouvelle  mariée  fist  audit 
compaignon,  et  du  compte  qu'elle  luy  compta;  à  l'occasion 
duquel  d'elle  se  departit  incontinent  et  retourna  à  sa  premiere 
amoureuse  ».  La  conclusion  varie,  mais  le  fond  de  la  plai- 
santerie  demeure  toujours  le  mème  *). 

Le  pauvre  Jolyet  de  la  farce,  qui  porte  son  nom,  doit  at- 
tendre  quelques  jours,  avant  d'apprendre  les  équipées  de  sa 
femme.  Il  a  toutefois  le  bonheur  de  ne  pas  coraprendre  toute 
la  portée  de  sa  mésaventure;  son  esprit  on  ne  pourrait  plus 
borné,  le  fait  rentrer  au  nombre  de  ces  sots,  auxquels  on 
fait  accroire  toute  sorte  d'absurdité.  L'auteur  présente  notre 
personnage  en  pleine  lune  de  miei  ;  il  ombrasse  sa  femme  sur 
la  scène,  il  conte  les  détails  de  ses  amours  et  la  bonne  femme 
affecte  une  certaine  retenue  et  la  pudeur  d'une  nouvelle 
mariée.  Il  n'y  a  en  effet  que  quinze  jours  qu'elle  a  donne  sa 
raain  à  Jolyet;  malheureusement  ces  quinze  jours  ont  suffl 
pour  la  mettre  en  condition  d'avoir  un  enfant  au  bout  du 
mois.  Le  bonhomme  n'a  pas  tort  de  s'en  étonner: 

Et  comment?  Je  suis  affollé 

Qu'en  ung  moys  j'ai  faict  ung  enfant, 

Et  les  aultres  y  mettent  tant. 

Peu  à  peu  toutefois  il  s'épouvante  de  la  fécondité  extra- 
ordinaire  de  sa  compagne.  Si  la  chose  continue  comme  ga.  il 
aura  douze  enfants  par  an,  une  famille  formidable,  sur  les 
bras; 

Ce  seroit,  au  bout  de  six  ans 
Tout  droit  LX  douze  enfans. 
Et  le  gibet  seroit  fournir 
A  les  elever  et  nourrir. 

')  Nouv.  Vili.  Pour  d'autres  versions  voy.  mon  Contributo,  p.  13. 


ÈTUUES  SUR  LE  THÈATRE  COMIQUE  KRANCAIS  DU  MOYEN  AGE    241 

En  prole  à  une  inquiétude  très  vive,  il  se  rend,  avec  sa 
femme,  chez  son  beau-père.  Celle  fecondilo  prodigieuse  n'est 
pas  dans  le  contrai  de  leur  mariage  et  le  beau-père  voudra 
bien  avoir  la  complaisance  de  reprendre  sa  fille.  Tout  d  abord 
celui-ci  ne  comprend  rien  à  l'affaire  et  va  compromettre  sa 
Alle;  mais  celle-ci  intervieni  à  lemps,  donne  des  explications 
à  sa  manière  et  Jolyet  est  rassurè  sur  la  menace  des  soixante- 
douze  enfants. 

Le  beau-père.  Nous  ferons  cest  apointement, 
Mon  fìlz  Jolyet,  par  ainsi 
Que  vous  nourirez  cestuy-cy. 
Mais  s'elle  en  a  ne  deux  ne  troys 

Plus  que  (de)  dix  moys  en  dix  moys 

Je  me  submetz  à  mes  despens 

Los  nourrir  et  (en)  prens  la  charge. 

Jolyet  est  trop  rusé,  pour  se  contenter  d'une  déclaration 
verbale.  Il  oblige  son  beau-père  de  coucher  cela  par  écrit  et 
il  pari  de  là,  bras  dessus  bras  dessous  avec  sa  femme,  qui  le 
flatte  à  propos  de  son  contrai: 

Ha,  que  vous  estes  ung  fin  maistre! 

Dans  les  farces  d'Alione  d'Asti  *),  on  retrouve  la  mème 
donnée.  Sibrina,  l'épouse  de  Nicora,  est  dans  la  situation 
idenlique  de  la  femme  de  Jolyet  et  le  débat  qui  s'ensuit  ne 
varie  que  dans  les  délails.  Mais  le  beau-père  est  remplacó  par 
une  belle-mère  et  Nicora  n'est  pas  si  exigeant  que  Jolyet  et 
se  passe  du  contrai  écrit. 

lei  encore  on  a  affaire  à  la  mise  en  scène  d'une  nouvelle. 
En  effet  dans  les  Novelle  antiche^),  on  conte  qu'un  médecin 


0  Voyez    Bruno    Cotkonei,    Le   farse   di    Aliane,    ecc.,    Reggio   Ca- 
labria, 1889. 

*)  Édit.  Biagi,  Florence,  1880,  pp.  lxxx-83. 


242  PIERRE  TOLDO 

épouse  la  nièce  d'un  archevèque,  qui  au  bout  de  deux  mois 
lui  fait  cadeau  d'un  enfant.  Le  médecin  alors  se  rend  chez 
l'archevèque  et  se  plaint  à  lui  de  la  fecondile  de  sa  femme, 
car  si  elle  continue  de  la  sorte  il  ne  saura  comment  entre- 
tenir  une  Ielle  famille.  L'auteur  ne  dit  pas  ce  que  l'arche- 
vèque rèpondit  au  bonhomme,  mais  la  réponse  est  tout  à  fait 
naturelle  et  facile  à  ajouter.  La  mème  historiette  est  répétée 
dans  les  Cent  nouvelles  nouvelles  (XXIX*)  et  le  mari,  dont 
tout  le  monde  se  moque,  fìnit  par  se  séparer  de  sa  femme. 
On  a  affaire  ensuite  aux  femmes,  se  vengeant  des  jeùnes 
prolongés,  que  leurs  maris  leur  font  endurer.  Telle  est  cette 
dame,  dont  on  parie  dans  la  Farce  nouvelle  des  chambrières, 
et  dont  le  mari  règie  ses  devoirs  coniugaux  sur  les  vigiles 
et  sur  le  cours  des  astres: 

M'amye,  nous  sommes  en  decours; 
Attendre  fault  la  pleine  lune 
Et  le  croissant. 

G'est  là  aussi  le  sujet  d'une  nouvelle  bien  connue  du  Boc- 
cace  (II,  10),  où  il  est  question,  de  mème,  d'un  juge  appre- 
nant  à  sa  femme  un  calendrier  singulier,  qui  n'est  nullement 
à  son  goùt  «  et  il  voulait  la  persuader  de  respecter  les  quatre- 
teraps,  les  vigiles  des  apótres  et  de  beaucoup  d'autres  saints, 
ainsi  que  le  vendredi,  le  samedi,  le  dimancbe  du  Seigneur, 
le  carèrae  et  certains  points  de  la  lune  ».  Ce  sujet  est  exploité 
par  Sercambi,  dans  sa  nouvelle  De  prelato  adultero,  où  le 
vieux  mari  dit  à  sa  femme:  «  Oggi  è  la  festa  di  S.  Patrizio, 
domane  si  digiuna  l'avvento;  l'altro  dì  sono  le  quattro  tem- 
pora »  et  il  passe  en  France,  dans  les  Cent  nouv.  nouvelles 
(86*),  dans  le  Grand  Parangon  (175*),  dans  les  Joyeux  Devis 
(XGV),  dans  les  PlaUantes  nouvelles  (Lyon,  1555)  et  dans  le 
Calendrier  des  vieillards  de  La  Fontaine.  Il  n'y  a  donc  de 
quoi  s'étonner  si  les  femmes,  qui  ont  affaire  à  de  tels  maris, 


ÈTUDES   SUR   LE   THÈaTRE   GOiUQUE   FRANCAIS    DU    MOYEN    AGE        24it 

les  trompent  avec  le  premier  venu.  La  rage  érotique  du  sexe 
ne  saurait  endurer  de  telles  abstinences.  Mais  il  arrive  aussi  que 
les  dames  n'ont  pas  mème  de  ces  circonslances  atténuantes.  La 
femrae  est  vicieuse  et  elle  tromperait  son  mari,  quand  il  serait 
plus  fort  que  le  dieu  Mars,  en  personne.  Le  choix  des  amou- 
reux  est  fait,  d'ailleurs,  le  plus  souvent  au  hasard.  En  general 
on  choisit  un  homme  d'église,  cure  ou  moine,  car  les  reli- 
gieux  sont  des  amoureux  toujours  à  la  disposition  de  leurs 
pénitentes,  frais,  dispos  et  au  surplus  ne  logeant  pas  le  diable 
dans  leur  bourse.  Dans  les  classes  les  plus  élevées,  les  dames 
préfòrent  parfois  des  chevaliers,  mais  c'est  toujours  selon  le 
goùt  ou  selon  le  caprice  individuel,  car  le  débat  entre  celles 
qui  préfèrent  les  clercs  et  celles  qui  aiment  mieux  les  gens 
de  guerre,  est  très  vieux  dans  la  littérature  du  moyen  àge. 
D'ailleurs  avec  ces  femmes  sensuelles  et  capricieuses,  il  faut 
toujours  s'altendre  à  Vheure  du  herger. 

Un  fabliau  inspire  la  Farce  du  Poulier,  à  quatre  person- 
nages,  dont  la  source  que  l'on  a  recherchée  jusqu'à  présent, 
est  au  moins  fort  douteuse.  C'est  l'histoire,  a-t-on  dit,  de 
l'amant  se  cachant  dans  le  poulailler,  telle  qu'on  la  Ut  dans 
le  Decameron  (VII,  6),  dans  les  Facèlies  du  Pogge  (X),  dans 
VHitopadésa,  eie.  *).  Je  crois  que  les  critiques  ont  fait  fausse 
route.  J'avoue,  par  exemple,  que  je  ne  saurais  trouver  en 
quoi  la  farce  ressemble  à  cette  nouvelle  du  Decameron,  où 
il  s'agit  d'un  mari  battu  et  content.  Un  certain  Ludovic,  dit 
Boccace,  s'étant  épris  d'amour  pour  une  dame,  madonna  Be- 
ritola, lui  fait  une  déclaration  ardente,  acceptée  sans  trop  de 
difficulté.  La  dame  donne  rendez-vous  dans  sa  propre  chambre 


•)  Voyez  p.  228  de  l'édit.  de  la  Bibl.  Elz.  Voyez  aussi,  pour  les 
sources  indiquées,  le  Répertoire  de  M""  Petit  de  Julleville  et  Romania 
(1872,  p.  20);  cfr.  aussi  Bédieb,  Les  fabliaiix,  p.  406  e  sgg. 


244  PIERRE  TOLDO 

à  l'amoureux  et  lorsque  le  jeune  hommi;  sVst  approché  du 
lit,  où  madonna  Beritola  repose  à  coté  de  son  mari,  la  brave 
dame,  soit  pour  éprouver  la  valeur  de  Ludovic,  soit  pour  se 
délivrer  de  son  mari,  conte  à  celui-ci  ce  qui  s'est  passe  entre 
elle  et  Ludovic,  en  ajoutant  quo  le  jeune  homme  l'attend  dans 
le  jardin,  où  le  mari  fera  très  bien  de  le  rejoindre.  Le  mari 
se  lève;  Ludovic  délivré  de  toute  contrainte,  passe  quelques 
instants  délicieux  auprès  de  Beritola,  puis,  d'après  le  conseil 
de  sa  maitresse,  se  rcnd  dans  le  jardin,  feint  de  prendre  le 
mari  pour  la  dame  et  l'accueille  à  coups  de  bàton,  comme  si 
sa  déclaration  avait  été  une  ruse,  pour  en  éprouver  la  vertu. 
On  n'a  qu'à  lire  le  sujet  de  la  farce,  pour  voir  disparaìtre 
toute  ressemblance  réelle.  Celle-ci  nous  expose  l'aventure  d'un 
bonhomme  de  mari,  qui  connaìt  bien  les  torts  que  sa  femme 
lui  fait,  mais  qui  n'a  pas  l'autorité  nécessaire  pour  la  con- 
traindre  au  devoir: 

C'est  pityé,  je  n'ay  nul  repos. 

Encore  sy  j'en  tiens  propos 

A  ma  femme,  elle  me  veult  batre. 

Ce  trait  caracléristique  d'un  groupe  de  ces  maris  poltrons 
et  sots  est  confirmé  par  le  dialogue  entre  les  deux  époux. 
Le  bonhomme  voudrait  bien  dire  ce  qui  lui  cause  tant  de 
soucis,  mais  à  peine  prononce-t-il  quelques  mots,  sa  femme 
l'interrompt  brusquement.  Enfln  il  est  obligé  de  se  rendre  au 
marche  pour  y  acheter  des  cochons,  mais  comme  ses  soupgons 
lui  empèchent  de  prendre  une  décision  à  ce  propos,  il  va  et 
revient  continuellement,  ce  qui  fait  enrager  la  femme,  forcée  de 
cacher  son  amoureux,  tout  d'abord  sous  du  linge,  ensuite  dans 
le  poulailler.  Enfin  le  mari  prend  son  coeur  à  deux  mains, 
s'approche  de  la  cachette,  furéte  partout  et  à  la  femme,  qui  le 
questionne  là-dessus,  il  répond  par  un  jaonais  idiot  et  répété 
si  souvent  qu'on  soupgonne  un  accès  de  folle.  La  bonne  femme 


ÉTUDES  SUR  LE  TUEATUE  CO.MIQLE  KUA.NgAIS  ÙV    MOYEN  AGE    245 

se  dispose  méme  à  entreprendre  un  pèlerinage,  pour  qu'il 
reprenne  sa  raison  et  prie,  en  atlendant,  sa  voisine  d'aller 
quérir  de  l'eau  bénite,  pour  l'exorciser.  Mais  le  mari  insiste 
avec  son  jamais  et  découvre  le  mystère.  La  femme  ne  se 
trouble  point;  elle  invente  sur  le  coup  une  historiette,  qu'elle 
débite  avec  beaucoup  d'aplomb  et  que  l'araoureux  a  soin  de 
confirmer  en  tout  et  partout: 

DeuLs  gros  ribauldx,  ses  ennemys, 

Le  cachoyent  a  grans  coup  d'espee, 

La  teste  luy  eusent  coupee 

Sy  ne  l'eust  gaigne  en  courir. 

Et  pour  le  povre  secourir 

Je  l'ay  faict  entrer  en  ce  lieu. 

Le  mari  a  bien  l'air  de  n'y  ajouter  aucune  foi,  mais  prò 
bono  pacis,  il  consent  à  reconnaìtre  que  ses  soupgons  sont 
dénoués  de  tout  fondement,  surtout  lorsque  la  voisine  lui 
donne  un  certain  nombre  de  coups  de  poing.  Il  se  décide 
méme  à  prier  l'amoureux  de  vouloir  bien  lui  rendre  visite 
de  temps  en  temps  et  la  moralité  de  la  pièce  est  renfermée 
dans  ces  derniers  vers: 

Il  n'y  a  homme,  tant  soyt  fin, 
Et  tant  est  la  teste  fine, 
Que  fine  femme  enfin  n'afine. 
Et  pour  oster  nostre  meranclye. 
Une  chanson,  je  vous  en  prye. 

Le  conte  du  Pogge  cité  comme  source  n'a  lui  aussi  aucune 
ressemblance  dircele,  car  ce  n'est  pas  l'amoureux,  qu'on  ren- 
ferme  dans  le  poulailler,  mais  bien  le  mari,  auquel  la  femme 
fait  accroire  qu'il  doit  se  cacher,  s'il  veut  se  soustraire  aux 
poursuites  de  la  justice. 

Les  sources  doivent  partant  se  rechercher  ailleurs.  Il  y  a 
tout  d'abord  l'historiette  du  jeune  homme  poursuivi  par  ses 

Stu)ìj  di  filoloqia  romamiu  IX.  jg 


246  FIEKHE  TOLUO 

ennernis  et  que  la  ferarae  dit  avoir  sauvé.  Ce  vieux  conte,  ré- 
pété  par  plusieurs  écrivains,  forme  partie  aussi  du  Decameron, 
comme  nous  venons  de  Tindiquer  *).  L'aulre  plaisanterie  du 
jamais,  jmnais  du  mari,  qu'on  finit  pour  prendre  pour  un  fou, 
se  trouve  répétée  dans  une  nouvelle  tout  à  fait  ressemblante  à 
notre  farce  et  faisant  partie  du  Moyen  de parvenir  de  Béroalde 
de  Verville  ^).  Comme  ce  Moyen  de  parvenir  n'est  qu'un 
recueil  de  contes  Iraditionnels,  on  n'aura  pas  trop  de  peine  à 
se  convaincredu  caractère  traditionnel  d'un  tei  récit.  D'ailleurs 
tout  lieu  est  bon  pour  les  femmes  des  fabliaux  et  des  nou- 
velles  lorsqu'il  s'agit  de  faire  disparaìtre  leurs  araoureux;  elles 
les  cachent  sous  une  buche,  dans  un  lardier,  dans  un  tonneau, 
dans  une  corbeille,  sous  le  lit,  derrière  la  porte;  il  y  en  a 
mème  une,  qui  le  renferrae  dans  un  étable  à  porcs  et  Tamou- 
reux  se  sauve  en  parlant,  ce  qui  fait  croire  au  mari  qu'il 
a  affaire  à  un  cochon  endiablé.  C'est  là  le  sujet  d'un  conte 
de  Ludovic  Domenichi  (p.  15,  éd.deVenise  1590). 

La  source  de  la  farce  Le  ì)on  payeur  et  le  sergent  boiteux  et 
horgne  a  élé  mieux  déterminée  par  mes  devanciers,  mais  seule- 
ment  en  partie.  C'est  l'histoire  du  mari  borgne,  auquel  la  femme 
ferme  le  bon  oeil,  en  disant  qu'elle  vient  de  songer  qu'il  a  re- 
couvré  entiòrement  la  vue.  Cet  essai  permet  à  l'amoureux  de 
s'evader.  Je  cite  les  rédactions  les  plus  connues,  la  Discipline  de 
Clergie  de  Pierre  Alphonse,  les  Gesta  Romanorum,\e  Violier 
des  histoires  romaines,  le  fabliau  de  la  Mauvaise  femme,  VHi- 
topadèsa  (bibl.  Elz.,  p.  217),  les  Cent  nouvelles  nouvelles  (16«), 
Vneptaìnéron  (I,  6),  Straparole  (V.  nuit  4®),  etc.  Pour  d'autres 


')  Cette  aventure  se  trouve  de  mème  dans  les  Facéties  du  Pogge 
(CCLXVl)  et  elle  avait  été  déjà  exposée  dans  le  Castoiement  d'un  pére  à 
son  fils  (édit.  Barbazan,  IX);  cfr.  Romania,  VII,  1,  et  Bédieu  (ouvr.  cité, 
p.  418).  Pour  d'autres  versions  plus  anciennes  {Hitopadésa,  ^ukasaptati, 
Sindibad,  Gesta  Bomanorum)  voyez  aussi  mon  Contributo,  p.  25. 

O  P.  253,  édit.  citée. 


ÉTUDES  SUR  LE  THKATRE  COMIQUE  FRANgAIS  DU  MOYEN  AGE    247 

rédactions,  je  renvoie  à  mon  Contributo  *).  Mais  celte  aven- 
ture  n'est  pas  la  seule  qu'on  rencontre  dans  la  farce.  Le 
sergent  boiteux  et  borgne,  qui  s  appelle  Lucas,  a  affaire  au 
Bon  Payeur,  qui  ne  veut  pas  payer  une  amende.  Le  sergent 
se  rend  chez  lui,  le  surprend  au  lit  et  déclare  qu'il  ne  le 
quittera  point,  s'il  ne  le  pale.  Le  débiteur  le  prie  d'attendre 
au  moins  qu'il  se  soit  chaussé  et  lorsque  Lucas  le  lui  proraet, 
il  déclare,  qu'il  ne  se  chaussera  jamais  de  sa  vie.  Ameline, 
la  femme  du  sergent,  intervient  et  donne  à  son  mari  le  con- 
seil  d'employer  un  bon  fouet  : 

Faictes  le  devant  luy  claquer, 
Et  puys,  s'il  ne  vous  veult  payer, 
Tailles  luy  chausses  au  long  du  cuyr. 

La  ruse  de  la  femme  donne  un  résultat  fort  satisfaisant. 
Bon  Payeur  fait  honneur  à  son  nom,  en  répétant  la  vieille 
sentence:  «  Tromperye  tousjours  retourne  ».  Get  épisode  se 
lit,  à  peu  près,  dans  les  facéties  de  Ludovic  Domenichi,  à 
pag.  47  de  l'édition  de  Vènise  1590.  Le  débiteur  d'un  juif  prie 
son  créancier  d'attendre  qu'il  finisse  de  faire  sa  barbe.  Le 
juif  consent.  Alors  le  débiteur  ordonne  au  barbier  de  partir; 
il  resterà  avec  la  barbe,  pour  le  reste  de  sa  vie.  On  n'a  pas 
ici  la  revanche  du  créancier,  due  probablement  à  l'auteur  de 
la  farce  et  qui  ne  demandait  certainement  pas  un  grand  effort 
d'imagination. 

Dans  les  farces  citées,  aussi  bien  que  dans  la  plupart  de 
celles  que  nous  allons  voir,  l'accueil  que  la  femme  fait  à 
l'amoureux,  pendant  l'absence  de  son  mari,  est  presque  tou- 
jours  identique.  On  appréte  un  dìner,  auquel  l'amoureux,  s'il  est 
riche  ou  prètre,  contribue,  lui  aussi,  pour  sa  part,  et  tandis 
qu'ils  sont  en  train  de  faire  honneur  aux  poulets  et  aux  vins, 

')  P.  16. 


248 


PIERRE  TOLDO 


le  mari  survient  et  dérange  le  festin.  Ce  banquet  est  suivi, 
en  general,  par  un  bain  et  les  amants  n'ont  pas  toujours  le 
temps  de  faire  leur  toilette  avant  l'arrivée  du  mari.  G'est  là 
le  début  aussi  de  plusieurs  fabliaux: 

Un  l'our  en  sa  chambre  aveuc  li 
Avoit  ung  clerc  cointe  et  joli: 
Si  mangoient  et  si  buvoient, 
Car  viande  et  vin  tant  avoient 
Com  il  lor  vont  à  volente 

chante-t-on  dans  celui  du  Clerc  qui  fu  repus  (terriere  l'escrin^) 
et  dans  le  Vilain  de  Bailleul,  la  femme  pour  recevoir  le 
chapelain: 

Bien  avoit  fet  son  appareil. 
Ja  ert  li  vins  ens  ou  bareil, 
Et  si  avoit  le  chapon  cuit 
Et  li  gastiaus,  si  com  je  cuit, 
Estoit  couvers  d'une  touaille. 

C'est  dans  le  bain  que  le  Prestre  qui  fu  mis  au  lardier 
est  attrapé  après  un  banquet  exquis,  et  c'est  à  la  suite  d'un 
bain  que  Constant  Buhamel  se  moque  des  galants  de  sa 
femme.  Le  banquet  et  le  bain  chaud  et  parfumé  appartiennent 
donc  aux  coutumes  de  l'epoque  et  les  exemples  tirés  des  fa- 
bliaux et  que  l'on  pourrait  multiplier  facilement,  se  retrouvent 
aussi  dans  les  romans  cbevaleresques.  L'ambiant  des  farces, 
aussi  bien  que  celui  des  nouvelles,  représente  donc  la  réalité 
et  sert  mème  à  ce  point  de  vue  à  l'étude  de  la  vie  intime 
de  ce  temps. 

Colin  qui  loue  et  despite  Dieu  en  ung  moment,  à  cause 
de  sa  femme  reproduit  aussi  une  nouvelle  fort  connue,  bien 


')  Montaiglon,  IV«  voi. 


ÉTUDES  SUR   LE  THÉATRE   GOMIQUE   FRANCAIS  DU   MOYEN   AGE        249 

qu'elle  ait  échappé  aux  crìtiques.  Colin  aime  la  bonne  chère 
et  l'oisiveté,  de  sorte  qu'il  laisse  trop  souvent  manquer  le  pain 
à  la  maison.  Sa  femrae,  dans  une  scène  très  enjouée,  tàche 
de  le  corriger  de  ce  vice  et  de  s'emparer  de  sa  bourse,  mais 
le  mari  la  repousse  durement  et  arrète  d'aller  ailleurs,  pour 
vivre  tranquillement,  dans  un  bois  fleuri,  comme  un  berger 
de  VAstrée: 

Je  m'en  voys  autre  part  ouyr 

L'oysellet  par  champs  et  par  boys, 

Ronger  ma  croustre  atout  des  poys 

Et  besoigner  de  mon  mesti  er. 

Ne  noiis  laissons  pas  imposer  par  ces  déclarations  poétiques 
de  Colin.  Le  dernier  vers  exprime  le  dernier  des  soucis  de 
ce  fainéant.  La  pauvre  délaissée  s'assied  sur  une  pierre  et  se 
livre  au  désespoir: 

Hélas!  qua  seray-je,  meschante 
De  dueil  et  desplaisir  meurtrie! 
Plourer  faut  et  que  plus  ne  chante, 
Puisque  j'ai  perdu  ma  partie. 

Un  jeune  homme  très  riche  s'approche  d'elle,  pour  la  con- 
soler. C'est  la  scène  éternelle  de  Tor  qui  tente  la  vertu  aux 
abois,  vainquant  peu  à  peu  une  résistance  qui  paraissait,  de 
prime  abord,  inébranlable.  Elle  compiend  très  bien  la  chute 
qui  l'attend,  mais  comment  faire?  L'affreuse  misere  bat  à  sa 
porte  et  sa  jeunesse  requiert  la  joie  et  l'amour  : 

Prise  suis  d'estoc  et  de  taille; 

S'on  le  scet,  je  seray  infame  (elle  regarde  son  argent) 

J'ay  pour  avoir  meublé  et  vitaille. 

Il  n'est  celle  qu'avoir  n'effame. 

Quelque  teraps  s'écoule  et  la  vieille  maison,  gràce  au  galant, 

se  remplit  peu  à  peu  de  tonte  sorte  de  biens.  Colin,  après  avoir 

parcouru  beaucoup  de  pays,  revient  à  la  maison,  plus  dégue- 

-  nillé  qu'auparavant.  Sa  femme  lui  fait  un  fort  mauvais  accueil. 


250  PIERRE  TOLDO 

A  quoi  bon  ce  gueux,  qu'elle  espérait  ne  revoir  à  jamais?  Mais 
le  mari  de  ces  farces  a  bien  des  droits  que  nous  aurions, 
de  nos  jours,  quelque  peine  à  lui  reconnaìtre.  Il  est  toujours 
le  maitre  de  la  maison,  quand  mème  il  l'aurait  videe  etlaissé 
aux  autres  le  soin  de  la  remplir.  Colin  est  d'ailleurs  d'un 
naturel  doux  et  pacifique,  de  sorte  qu'il  se  borne  à  exprimer 
sa  vive  satisfaction  pour  le  bien-ètre  qui  l'entoure  et  se  con- 
tente d'entendre  sa  ferame  lui  répéter: 

Colin,  de  la  grace  de  Dieu. 
Colin.  E  ce  beau  lict,  ciel  et  cortines, 
Simaises,  potz,  casses,  bassines, 
Dont  vous  est  venu  cest  aveu? 
Femme.  Colin,  de  la  grace  de  Dieu. 

Après  avoir  entendu  plusieurs  fois  ce  refrain,  qui  suit  l'é- 
numération  des  trésors  renfermés  chez  lui,  Colin  est  assailli 
par  une  vive  tendresse  envers  son  excellente  femme,  et  tombe 
à  genoux  pour  remercier  le  bon  Dieu.  Mais  voilà  tout  à  coup, 
paraitre  un  bébé,  d'une  paternité  fort  douteuse.  Le  bonhomme 
s'étonne  et  se  fàche.  Sa  femme  a  beau  lui  répéter  :  «  Colin,  de 
la  grace  de  Dieu  ».  Il  trouve  que  le  Ciel  a  tort  «  De  soy 
mesler   de  tant  de  choses  ». 

Ce  canevas  si  joli,  où  il  y  a,  chose  très  rare  pour  l'epoque, 
un  développement  assez  satisfaisant  de  situations  comiques  et 
une  action  complexe  et  variée,  se  retrouve,  tei  quel,  dans 
la  première  des  facéties  du  Pogge.  Un  pauvre  raatelot,  dit 
l'auteur  italien,  après  cinq  ans  d'absence  s'en  revient  chez 
lui.  Il  retrouve  sa  maison,  qu'il  avait"  laissée  dans  le  dé- 
nouement  le  plus  absolu,  aussi  bien  montée  que  celle  de 
Colin.  Le  matelot  énumère,  de  la  mème  manière,  les  meu- 
bles,  la  vaisselle,  etc,  et  sa  femme  répond  à  toutes  ces  ques- 
tions  que  c'était  là  le  résultat  de  la  miséricorde  de  Dieu.  Le 
raatelot  s'agenouille,  remercie  le  ciel,  mais  la  vue  d'un  enfant 
de  trois  ans  vient  gàter  sa  joie  :  «  la  femme   répondit   qu'il 


ÉTUDES  SUR   LE   THÉATRE   COMIQUE   FRAN'CAIS   DU   MOYEN   AGE        251 

s'agissait  toujours  de  la  gràce  de  Dieu.  «  Alors  le  bonhomrae 
ne  put  dominer  son  emportement.  Je  dois  bien  remercier  le 
Seigneur,  s'écria-t-il,  de  ce  qu'il  ma  voulu  donner  mème  des 
enfants.  Il  me  semble  toutefois  qu'il  prend  trop  de  part  à 
mes  intérèts  ».  Je  ne  connais  aucune  autre  nouvelle,  repro- 
duisant  si  exactement  la  donnée  de  la  farce,  mais  tout  le 
monde  connait  un  autre  récit,  appartenant  à  la  méme  fa- 
mille,  celui  de  l'enfant  qui  fut  remis  au  soleil.  On  le  lit  dans 
les  fabliaux  (Recueil  Montaiglon,  V.  1,  p.  162),  dans  les  Nou- 
velles  de  Sercambi,  De  malitia  mulier'is  adulterae  et  simili 
maliita  viri,  dans  le  Libro  di  novelle  antiche  (Bologne,  nou- 
velle 35"),  etc.  '). 

Le  fabliau  des  braies  au  cordelier,  dont  le  sujet  se  retrou- 
vait  déjà,  à  peu  près,  dans  l'oeuvre  d'Apulée,  reproduit 
maintes  et  raaintes  fois  ensuite  par  Boccace,  Sacchetti,  Sa- 
badino  degli  Arienti,  Poggio,  Modini,  etc.  ^),  inspire  aussi  la 
Farce  nouvelle  de  frère  Guillebert.  Le  mari  est  vieux  et  le 
frère  vient  sur  la  scène  offrir  ses  services  aux  femmes  mal 
mariées,  par  une  sorte  de  sermon  où  la  Bible  et  un  latin  de 
cuisine  servent  de  texteaux  plaisanteries  les  plusoutrées: 

Foullando  in  calihistris, 
Intravit  per  houcham  ventris 
Bidauldus,  purgando  renes. 
Ncble  assistence,  retenez 
Ces  mots  pleins  de  devotion; 
C'est  touchant  l'incamation 
De  l'ymage  de  la  brayette. 

')  Cfr.  là-dessus  Bédier,  ouvr.  cité,  p.  416,  les  notes  à  Tédition 
Montaiglon  (II,  296),  celles  de  M''  Rua.  aux  nouvelles  de  Sercambi  etc, 
et  mes  notes  comparatives  à  la  19°  des  Cent  nouvelles  nouvelles  {Con- 
tributo, p.  17). 

^)  Voyez  mon  Contributo,  p.  120;  Duxlop-Liebrkciit  {Geschichte  der 
Frosadichtung,  pp.  207  et  333)  et  les  notes  de  M"'  Bédier  au  fabliau 
cité  (p.  407,  appendice). 


252  PIERRE  TOLDO 

Que  les  jeunes  fiUes  gardent  le  silence,  et  qu'elles  ne  disent 
rien  à  leiirs  mères  des  baisers  qu'on  leur  dérobe  et  que  les 
femmes  raariées  se  montrent  généreuses  envers  tout  le  monde 
et  surtout  à  l'égard  des  moines. 

C'est  belle  aumosne 
Que  faire  bien  à  gens  d'esglise. 

Une  femme,  qui  est  en  quète  d'un  amoureux,  car  elle  est 
«  mise  es  lacz  d'un  vieillart  »  et  ne  veut  voir  son  «  beau 
corps  pourrir  en  vers  »  accepte,  sans  se  faire  prier,  les  offres 
du  vigoureux  moine.  Gomment  éloigner  le  mari?  Elle  feint 
d'ètre  enceinte  de  «  peu  de  chose  »,  ajounte-t-elle  pour  que  son 
benèt  n'en  soit  pas  trop  fier  et  le  prie  d'aller  au  marche  lui 
acheter  de  «  la  morue  et  du  vin  doulx  ».  Le  mari  sort  et 
Guillebert  en  prend  aussitót  la  place.  Mais  le  moine  n'a  pas 
un  coeur  de  lion.  De  mème  que  la  plupart  de  ces  amoureux, 
surtout  lorsqu'il  s'agitdes  gens  deglise,  il  tremble  au  moindre 
bruit  et  demanda  fort  prudemment: 

Au  moins  y  a-il  point  de  fraulde? 
Je  crains  la  touche,  sur  mon  ame. 

Les  femmes  n'aiment  pas  les  poltrons  et  celle-ci  le  re- 
proche  rudement: 

Pas  n'estes  digne  d'avoir  dame, 
Puisque  vous  estes  si  paoureux. 

Frère  Guillebert  a  toutefois  ses  bonnes  raisons,  pour  se 
tenir  sur  ses  gardes.  Le  mari  revient  au  logis,  pour  prendre 
son  bissac.  La  femme  ressent  une  joie  maligne  à  augmenter 
la  peur  de  son  galaiit: 

Muchez-vous  tost  en  quelque  lieu! 
S'il  vous  trouve,  vous  cstes  frit, 

et  le  frère,  tremblant  de  peur,  invoque  le  ciel  à  son  secours: 


ÉTUDES  SUR  LE  THÉATRE  COMIQUE  FRANCAIS  DU  MOYEN  AGE    253 

Ha,  Pater  noster  et  Ave! 
Vertu  bieu,  je  suis  bien  hoché. 

Il  prie  le  bon  Dieii,  en  latin  et  en  vulgaire,  avec  une  co- 
micité  très  vive  et  fort  naturelle,  qui  rappelle  Panurge  au 
milieu  de  la  tempòte.  Le  mari,  qui  ne  se  doute  de  rien,  fouille 
gà  et  là,  pour  trouver  son  bissac  et  il  finit  par  saisir  le 
hault  de  chaulses  da  moine,  les  quittant  ensuite,  sans  s'aper- 
cevoir  de  sa  méprise.  Mais  la  femme  en  est  au  désespoir. 
Elle  appelle  sa  voisine,  lui  conte  son  malheur  et  celle-ci  lui 
donne  pour  conseil  d'apaiser  la  colere  que  son  mari  devra 
éprouver  en  s'apercevant  de  ce  qu'il  tient  en  raain,  en  lui 
disant:  «  Que  ce  sont  les  brayes  sainct  Frangois  ».  Ges  braies 
ont  une  vertu  merveilleuse  pour  les  femmes  enceintes.  La 
conclusion  est  celle  que  tout  les  monde  connaìt,  d'après  la 
nouvelle  du  Decameron,  et  les  braies  sont  rapportées  au  cou- 
vent  avec  beaucoup  de  céréraonies  : 

boutez-vous  tous  à  genouls 

Affin  que  le  sainct  prie  pour  nous. 

Ce  n'est  pas  la  peine  de  rechercher  les  petites  dififérences, 
qu'il  y  a  entre  les  différentes  versions  de  cette  ruse  fémi- 
nine.  Le  conte  de  Boccace  paraìt  se  rapprocher  davantage 
de  la  donnée  de  la  farce,  qui  peut  d'ailleurs  avoir  été  tirée 
directement  de  la  tradition  orale. 

Un  fabliau  non  moins  connu,  celui  du  chevalìer  qui  fisi  sa 
fame  confesse  (Montaiglon,  VI,  178  et  I,  178),  passe  lui  aussi, 
au  moyen  de  la  tradition  orale,  dans  le  Decameron  (VII,  5) 
et  de  là  dans  les  Ceni  nouv.  noucelles  %  inspire  en  partie, 
à  mon  a  vis,  la  farce  porta  nt  pour  ti  (re  le  Badin,  la  femme  et 


')  Cfr.  pour  d'autres  versions  mon  Contributo,  p.  23,  et  Liebrecht- 
Dunlop  cité,  p.  490.  Voyez  aussi  ce  qu'en  dit  M""  Bédier  (p.  409). 


254  PIERRE  TOLDO 

la  charrìbriere.  Cette  farce  assez  coraplexe  est  une  de  celles 
oìi  les  malheurs  du  mariage  sont  représentés  le  plus  dureraent. 
Le  mari  est  malade,  sa  femrae  lui  souhaite,  à  tout  moment, 
la  mort  et  la  chambrière  rapporte  au  bonhomme  les  prières 
aimables  de  sa  moitié: 

Elle  dit  que  cy  vous  estiez  en  terre 
Que  8on  coeur  seroit  hors  de  serre 
Et  son  corps  hors  d'une  grand'peine. 

Lorsque  la  chambrière,  en  feignant  pleurer,  dit  à  la  dame, 
qiie  son  mari  peut-ètre  est  déjà  mort,  celle-ci  s'écrie  toute 
joyeuse: 

Va,  va,  en  pleures-tu?  je  te  jure 
Par  saìnct  Benoist,  que  si  fut 
Mort  il  y  a  dix  ans  il  m'en 
Fut  de  beaucoup  mieux  qa  cil 

N'est. 

Le  mari  n'est  toutefois  pas  encore  au  nombre  des  trépassés. 
Déguisé  en  prétre,  il  se  rend  chez  sa  moitié  pour  en  décou- 
vrir  lesintrigues  galantes  et  ayant  l'air  de  vouloir  la  consoler, 
il  apprend  ainsi,  que  le  prètre  dont  il  a  emprunté  le  nom  et 
l'aspect,  lui  a  fait  tort  avec  sa  femme.  Il  est  console  aussi 
par  ce  que  celle-ci  dit  à  propos  de  sa  mort: 

S'il  estoit  au  parfond  de  Seine, 
Nous  n'aurions  pas  perdu  un  chou. 

La  différence  substantielle  entre  cette  sorte  de  confession 
et  celle  du  fabliau  consiste  en  ce  que,  dans  le  fabliau,  le  mari 
se  fait  connaitre  et  la  femme  doit  avoir  recours  à  une  autre 
ruse,  pour  lui  faire  accroire  que  tout  ce  qui  sest  passe  n'est 
qu'une  pure  plaisanterie.  Ce  déguisement  de  la  farce  n'est 
d'ailleurs  qu'un  incident  comique,  car  ce  qui  donne  à  la  pièce 
son  cachet  particulier  c'est  la  scène  finale,  le  mari  mourant 


ÉTUDES   SUR    LE    THÉATRE    GOMIQUE    FRANC-US   DU    MOYEN    AGE         255 

assistè  par  cette  perle  de  femme  et  le  delire  du  nialheureux, 
chargeant  sa  moitió  de  toute  sorte  d'injures.  Mais  l'auteur 
déclare  que  le  mari  a  tort.  Il  doit  se  soumettre  à  sa  des- 
tinée  et  la  conclusion  de  cette  situation  repoussanto  et  lu- 
gubre est  toujours  la  mème  des  nouvelles  et  des  farces  : 

Qu'il  n'est  finesse  que  d'une  femme. 

Un  autre  mari  raourant,  dont  la  femme  se  moque,  paraìt 
dans  la  farce  du  Memiierde  qui  le  diable  omporte  l'àme.  Un 
meunier  est  malade  à  mort;  sa  femme  le  maltraite,  l'injurie 
et  se  plaint  de  tous  ses  torts: 

Le  tnunyer.  Or  suis-je  en  piteux  desconfort 
Par  maladie  griefve  et  dure; 
Car,  espoir  je  n'ay  de  confort 
Au  grand  mal  que  mon  coeur  endure. 
La  femme.  Faat-il  pour  ung  peu  de  froidure, 
Tant  de  fatras  mectre  dessus? 

A  quoi  bon  un  mari  sans  vigueur?  Les  femmes  n'aiment 
les  hommes,  que  pour  ce  que  vous  savez  et  il  peut  faire  son 
grand  voyage  tout  de  suite,  car  elle  a  déjà  pourvu  à  ses 
besoins.  Le  mari  tout  d'abord  s'excuse,  ensuite  se  fàche,  mais 
sa  femme  lui  donne  des  bourrades.  Elle  va  lui  faire  pousser 
le  dernier  soupir  à  coups  de  poing  : 

Qui  se  marye, 
Pour  avoir  un  tei  contrepoinct  ? 

Au  moins,  s'écrie  le  malbeureux,  ne  me  laisse  pas  mourir 
comme  un  chien,  souillé  de  tous  mes  péchés;  et  la  femme 
appelle,  pour  leconfesser,  le  prétre,  qui  est  son  amoureux.  Ce 
prètre  est  accueilli  on  ne  pourrait  mieux  et  la  femme  entre 
un  baiser  et  l'autre  lui  explique  qu'elle  l'a  dèrangé: 

Par  ce  que  mourir 
Veult  mon  mary,  dont  j'en  ay  jo^'e. 


236  PIERRE  TOLDO 

Le  mari,  qui  s'apergoit  de  tout  ce  qui  se  passe,  exprime  son 
Tessenti ment,  en  soupirs  et  en  mots  prononcés  à  demi-voix. 
Son  refrain  mélancoiique  «Hélas!  pourquoy  se  marie-on?» 
sert  de  coramentaire  à  la  pièce.  Mais  le  pauvre  homme  n'osa 
révéler  ce  qu'il  pense.  Sa  terrible  compagne  est  là  pour  le 
raenacer  et  pour  le  Trapper.  Elle  l'oblige  de  faire  bon  accueil 
au  prètre,  déguisé  pendant  quelque  temps  en  cousin,  et  le 
prètre  dine  avec  sa  belle  sous  les  yeux  du  mourant.  Getta 
scène,  qui  tourne  au  tragique,  est  interrorapue,  par  un  inter- 
raède  comique,  la  confession  du  mourant,  une  de  ces  con- 
fessions  burlesques,  dont  nous  venons  de  citer  plusieurs  exem- 
ples.  Et  la  conclusion  n  est  pas  moins  enjouée.  Le  diable 
Berith  épie  le  moment  solennel  pour  emporter  l'àme  du  mau- 
nier,  et  bien  que  la  confession  soit  entrecoupée  par  des  in- 
cidents  de  ventre,  Berith  croit  convenable  de  lier  son  sac  à 
la  partie  postérieure  du"  corps  du  malade,  car  c'est  de  là  que 
sortent,  à  ce  qu'il  parait,  les  àmes  des  damnés.  Tout  CL4a 
tourne  à  sa  confusion.  Le  sac  se  reraplit  d'une  matière  rien 
moins  que  spirituelle  et  lorsqu'il  l'ouvre  devant  Sathan,  Lu- 
cifer,  Proserpine  et  Astaroth,  le  palais  du  roi  des  ténèbres  se 
remplit  d'une  puanteur  horrible.  Proserpine,  en  dame  delicate, 
s'en  plaint  vivement  à  son  Seigneur  et  le  roi  des  Enfers  or- 
donne  qu'on  apprète  les  étrivières  pour  le  malheureux  Berith. 
Enfìn  Lucifer,  pour  éviter  désormais  de  pareils  incidents,  or- 
donne  qu'on  ne  regoive  plus,  dans  son  royaurae,  l'àme  d'aucun 
meunier:  «Car  ce  n'est  que  bran  et  ordure». 

Il  y  a  évidemment,  dans  cette  pièce,  une  sorte  de  satire 
aux  meuniers,  auxquels  on  attribuait,  au  moyen  àge  et  on 
leur  attribua  mème  ensuite,  la  famine  et  la  misere.  Le  public 
devait  rire  aux  gros  éclats,  en  entendant  la  sentence  de  Lu- 
cifer, mais  on  devait  rire  plus  encore  de  la  méprise  de  Berith. 
Dans  le  fabliau  dou  pet  au  vilain  de  Rutebeuf,  la  satire  est 
dirigée  contre  les  vilains  en  frenerai: 


ÈTUDKS  SUR  LE  THÈATRE  COMIQUE  FRANCAIS  DU  MOYEN  AGE    257 

Onques  à  Jhesu  Crist  ne  plaise 
Quc  vilainz  ait  herbergerie 
Avec  le  fil  sainte  Marie. 

La  farce  reproduit  à  la  lettre  tous  les  incidents  de  ce  fabliau. 
Les  diables,  dit  Rutebeuf; 

Chapitre  tindrent  lendemain, 
Et  s'accordent  à  cel  acort 
Que  jamais  nus  ame  n'aport, 
Qui  de  vilain  sera  issue 

Mais  tandis  que,  dans  la  farce,  il  est  question  d'exclure  les 
meuniers  seulement  de  l'enfer,  Rutebeuf  est  plus  logique  et  il 
prétend  qu'on  ferme  aux  paysans  aussi  les  portes  du  Paradisi 

Ainsint  s'acorderent  jadis, 

Qu'en  enfer  ne  en  Paradis, 

Ne  puct  vilains  entrer  sans  doute 


On  ne  doit  pas  pourtant  prendrè  au  sérieux  cette  sorte 
d'exclusion.  Dans  les  critiques  des  états,  on  volt  que  les  portes 
du  ciel  se  ferment  à  bien  des  gens  et  d'ailleurs  le  paysan 
saura  gagner  son  paradis,  par  sa  ruse  traditionnelle.  G'est  le 
cas  de  celui  qui  conquisi  Paradis  p«r  plait,  à  la  grande  con- 
fusion  de  Saint  Pierre,  de  Saint  Paul  et  de  Saint  Thomas. 

Et  les  troraperies  des  femmes  continuent.  Fernet  qui  va 
au  vin  est  un  benèt  de  mari,  auquel  sa  femme  s'impose.  Il 
a  beau  avoir  Tceil  au  guet;  madame  Pernet  se  moque  de  lui 
et  l'oblige,  comme  la  femme  du  meunier,  de  faire  bon  accueil 
à  un  cousin  d'emprunt.  D'ailleurs  on  a  su  retrouver  le  coté 
faible  du  bonhomme.  Le  faux  cou'^in  se  donne  des  airs  de 
gentilhomme  et  lui  promet  de  démontrer  qu'il  est  noble,  tout 
autant  que  lui.  Pernet,  fils  d'un  vacher,  est  très  flatté  de  cette 
découverte,  qui  va  lui  faire  tirer  le  chapeau  de  tout  le 
village  : 


258  PIERRE  TOLDO 

Je  ne  craindroy  plus  les  gendarmes 
Cornine  avoys  de  coustume, 
Su,  su,  que  je  m'acoustume, 
A  porter  le  bonnet  sur  l'oreille. 
Et  la  piume  sous  l'apareille 
Tout  à  Tentour  de  mon  bonnet. 

Il  faut  donc  faine  bonne  chère  à  ce  cousin  qui  vient  de  lui 
apporter  les  quartiers  de  sa  noblesse  et  le  mari  regoit  l'ordre 
d'aller  acheter  ce  qu'il  faut  pour  le  banquet.  Fernet  toutefois 
n'est  pas  trop  persuade  du  cousinage.  A  tout  moment  et 
sous  tous  les  prétextes,  il  revient  sur  ses  pas,  pour  voir  ce 
qui  se  passe  chez  lui.  L'amonreux  et  la  femme  endurent,  à 
contre  gre,  cette  méfiance  du  mari,  qui  les  gène,  d'autant 
plus  que  le  banquet  apprèté,  il  a  l'air  de  vouloir  garder  sa 
place.  La  femme  alors  médite  une  ruse: 

Sans  le  batre,  meurtrir  ne  occire, 
Nous  luj  ferons  chauffer  la  ciré, 

et  Fernet  doit  se  renfermer  dans  la  cuisine,  pour  chaufifer 
de  la  ciré,  dont  il  va  composer  une  image  contre  tonte  sorte  de 
raalheurs,  y-compris  bien  entendu  celui  qui  lui  arrive,  pen- 
dant son  absence.  Dans  la  nouvelle  de  Sercambi,  De  pigrUiat 
un  amoureux  envoie,  de  la  mème  manière  et  dans  le  mème 
but,  un  bonhomme  de  mari  dans  la  cave,  mettre  en  perce 
un  tonneau  ;  mais  cette  ruse  de  la  ciré  fondue  je  ne  l'ai  trouvée 
nulle  part. 

Un  autre  mari  est  envoyé  se  proraener  dans  la  farce  d'im 
amoureux,  où  le  bonhomme  Roger  va  consulter  un  raédecin, 
sur  la  prétendue  maladie  de  sa  femme.  L'examen  de  l'urine, 
qui  a  lieu  dans  cette  pièce,  se  retrouve  aussi  fort  souvent  dans 
les  nouvelles  et  répond  aux  habitudes  de  l'epoque.  Dans  la 
comédie  de  l'art  on  voit,  à'  tout  moment,  un  médecin  occupé 
de  cette  besogne  et  la  scène  se  répète  dans  le  théàtre  fran- 
gais   de   la   Renaissance.   Si    Fernet   nous   représente,  d'une 


ÉTUDES   SUR    LE   THÈ.VTRE    COMIQUE    FRANCaIS    DU    MOYEN    AGE         259 

manière  très  vague,  le  Bourgeois  gentilhomme,  George  le 
Veau  nous  rappelle  plus  de  près  les  malheurs  de  George 
Dandin.  George  le  Veau  a  coramis  la  bètise  d  epouser  une 
demoiselle,  issue  d'une  famille  noble  et  orgueilleuse.  La  de- 
raoiselle  méprise  le  bonhomme  et  lui  demande,  à  tout  moment, 
«  qui  es-tu?  ».  Le  mari  se  désespère,  il  est  enragé  de  genealogie 
et  il  va  consulter  le  cure  (lamant  de  sa  femnie)  pour  voir 
si,  par  hasard,  il  ne  tiendrait  lui  aussi  à  une  noble  famille. 
Le  cure  fait  cacher,  par  une  ruse  que  nous  avons  vue  s'ap- 
pliquer  à  d'autres  intrigues,  son  clerc  Ganimède  dans  un  coin 
de  réglise.  Ganimède  joue  le  róle  de  Dieu  et  répond  aux 
questions,  que  le  bonhomme  lui  adresse.  George  recherche 
donc  ses  origines.  Il  est  issu  évidemment  d'Adam  et  d'Ève,  il 
se  peut  que  quelqu'un  des  Patriarques  soit  son  aìeul  direct, 
il  se  flatte  mème  à  un  cerlain  moment  de  descendre  de  Glovis, 
mais  il  ne  se  rappelle  que  trop  que  son  pére  était  savetier 
et  sa  mère  la  Alle  d'un  marchand.  Le  clerc  interrompi  son 
raonologue,  pour  lui  ordonner  d'obéir  en  tout  et  partout  à  sa 
femme  : 

Le  clerc  (faisant  Dieu).  George,  se  avoir  veulx  ma  grace, 
Croire  te  convient,  sans  diftame, 
Tout  tant  que  te  dira  ta  femme, 
Et  obeyr  à  son  vouloir; 
Aussi  tu  feras  ton  debvoir, 
A  ton  cure  la  disme  rendre 
De  ton  bestiai. 

Cela  disant,  il  lui  donne  pour  habit  la  peau  d'un  veau,  sous 
laquelle  il  doit  se  présenter  à  sa  femme.  Celle-ci  feint  de  ne 
pas  le  reconnaìtre:  elle  crie  qu'elle  a  affaire  à  une  métamor- 
phose  infernale  et  appelle  à  son  secours  le  cure  : 

La  femme.  De  l'eau  benoiste,  mon  amy; 

Je  croy  que  je  deviendray  folle. 


260  PIERRE  TOLDO 

Le  Cure.  Ganymfedes,  9a  mon  estolle. 
Le  Clerc.  Tenoris  et  conjurare. 
Le  Cure.  Diabolis  inficare 

Super  nivem  dealbabor. 

Ego  volo,  te  prenabo. 

Que  quiers-tu  en  ceste  maison? 

Le  destin  de  George  est  désormais  arrèté.  Il  est  devenu 
veau  de  disme,  ce  qui,  dans  le  langage  de  l'epoque,  voulait 
signifier  un  pauvre  d'esprit.  On  le  fait  marcher  sur  quatre 
pattes,  on  le  berne,  on  le  repousse  et  la  femme  déclare  qu'elle 
cède  au  cure  cet  animai,  que  le  clerc  aura  soin  de  raener  à 
la  boucherie.  Le  bonhomme,  devenu  tout  à  fait  idiot,  n'ose 
prolester  et  il  prie  seulement  qu'on  lui  donne  à  boire,  avant 
de  le  condaraner  à  la  mort. 

Il  y  a  évidemment,  dans  cette  pièce,  au  milieu  des  plai- 
santeries  ordinaires  à  la  mise  en  scène  des  veaux  des  dismes, 
réjouissant  le  théàtre  de  l'epoque,  l'intention  de  se  moquer 
des  mésalliances.  On  s'en  était  déjà  moqué  dans  plusieurs 
fabliaux,  dans  le  Fabel  d'Aloni,  ce  vilain  riche  qui  «  Fame  avoit 
assez  bele  et  gente  »  et  laquelle  le  trompe,  de  mème  que  celle 
de  George  le  Veau,  avec  le  cure.  On  s'en  était  moqué  dans 
la  Castelaine  de  Saint  Gille,  contrainte  par  son  pére  à  donner 
sa  main  à  un  autre  vilain  et  les  dames  du  moyen  àge  riaient 
dèjà,  depuis  longtemps,  de  l'a venture  de  Berengier  au  Ione  e. 

Ce  sentiment  aristocratique  dut  se  combiner,  dans  l'esprit 
de  l'auteur  de  la  farce,  au  souvenir  de  la  Gageure  des  trois 
commères,  représentant  le  triomphe  de  la  ruse  féminine,  qui 
fait  croire  à  l'horame  tonte  sorte  d  absurdité.  Le  mari  trans- 
forme  par  sa  femme  en  veau  est  un  specimen  non  moins 
étonnant  de  la  bètise  huraaine,  que  le  mari  auquel  on  fait 
accroire  qu'il  est  mort,  ou  qu'il  est  devenu  moine. 

Enfin,  parmi  les  ruses  les  plus  étonnantes  des  femraes,  on 
ne  doit  pas  oublier  celle  qu'on  lit  dans  la  72*  des  Ceni  nou- 


ÈTUDES   SUR   LE   THÉaTUK   CO.MIQUK   FRANC-Als   DU    MOYEN   AGE        2G1 

velles  nouvelles,  reproduite  dans  la  82*  du  Grand  Parangon 
et  dans  la  farce  Le  relraicU  qui  n'est  qu'une  autre  nouvelle  en 
action.  Un  amoureux  visite  une  dame,  pendant  l'absence  de 
son  mari.  Au  moment  où  ils  se  préparent  à  faire  honneur 
au  souper,  le  mari  survient  et  l'amoureux,  faute  de  mieux, 
est  obligé  de  se  réfugier  dans  le  lieu,  qui  donne  le  titre 
à  la  pièce.  Le  mari  soupe  tranquillement  avec  les  mets  que 
le  valet  Guillot,  ce  rusó  compère  dont  nous  ferons  bientót 
la  connaissance,  lui  fait  payer  de  nouveau,  mais  la  tranquillile 
du  mari  n'est  pas  partagèe  par  l'amoureux,  assalili  par  une 
toux  opiniàtre  et  contraint,  pour  la  cacher,  de  raettre  la 
tète  dans  un  trou  fètide.  A.  un  certain  moment  le  mari  est 
obligé  de  se  rendre  lui  aussi  dans  le  lieu,  qui  sert  de  re- 
fuge  au  jeune  homme.  Celui-ci  se  voit  perdu  et  sort  de  là 
accoutré  de  telle  sorte,  que  la  femme  n'a  pas  de  peine  à 
persuader  son  mari,  qu'il  a  affaire  au  diable  en  personne, 
venant  venger  les  injustes  soupgons  de  sa  jalousie.  Le  bon- 
homme  tombe  à  genoux  et  prie  le  ciel  et  le  diable  de  vouloir 
lui  pardonner. 

La  méme  ruse  de  faire  passer  l'amoureux  pour  le  diable 
forme  le  sujet  de  la  Farce  du  Saveiier  et  d'Audette.  Audin, 
le  savetier,  renferme  sa  femme  Audette,  dans  la  maison.  Il 
espère  par  là  d'en  garder  la  vertu.  Mais  Audette  appartient 
à  la  lignee  de  la  femme  du  fabliau  renfermée  dans  la  tour. 
Elle  fait  entrer  le  cure,  son  amoureux,  par  la  fenètre  et  lui 
conseille  de  se  faire  passer  pour  le  diable,  lorsque  le  mari 
reviendra  à  la  maison  et  qu'il  l'enverra  au  diable,  selon  son 
habitude.  La  cbose  se  passe  à  soubait  et  le  mari  regoit  en 
outre  des  coups  de  bàton.  Ce  faux  diable  qu'on  évoque  à 
point  nommé  paraìt  aussi  dans  le  Novellino  de  Masuccio 
(2*  p.,  nouv.  20"),  mais  ce  qu'il  y  a  de  curieux,  dans  cette 
farce,  c'est  de  voir  son  ròle  joué  par  un  prètre. 

Une  autre  dépendance  des  nouvelles  parait  encore  dans  la 

StudJ  (lì  filoìoqia  romanzi.  IX.  17 


2(52  PlEKKE  TOLUO 

farce  à'Ung  mary  jaloux  qui  veult  esprouver  sa  femme,  bien 
qu'ici  la  ruse  bien  connue  de  la  bourgeoise  d'Orléans,  re- 
produite  par  Boccace,  soit  modifiée,  par  le  role  que  le  badin 
yjoue.  Ce  badin  répond  au  nom  de  Golinet.  Il  a  èté  quelque 
temps  à  l'ócole,  sans  en  tirer,  bien  entendu,  aucun  profit,  ce 
qui  ne  l'empèche  pas  de  se  croire  digne  tout  au  moins  d'un 
évèché.  Mais  sa  tante  lui  fait  remarquer  que  les  cbarges 
ecclésiasliques  se  donnent  seuleraent  à  ceux  qui  ont  beau- 
coup  d'argent,  pour  les  acbeter,  de  sorte  qu'en  attendant 
l'occasion  favorable,  il  pourvoira  bien  à  ses  intérèts,  en  cher- 
chant  de  louer  ses  services.  Pendant  ce  dialogue,  le  Mary 
entre.  11  est  fort  soucieux,  car  il  a  pu  s'apercevoir  que  sa 
femme  airae  le  cbapelain  et  il  cache  si  peu  Tétat  de  son 
àme,  que  Golinet  s'en  apergoit  aussitòt,  en  donnant  par  là  une 
preuve  d'esprit,  qui  étonne  le  mari: 

Par  la  foy  de  non  corps,  j'ay  songé 
Que  vous  pensez  ung  coqu  estre. 
Le  Mary.  A  quoy  le  povez-vou8  congnoistre? 
Jamais  je  ne  parlay  à  vous. 

Il  s'ensuit  un  débat  sur  la  manière,  dont  on  peut  garder 
une  femme,  débat  auquel  l'auteur  nous  fait  assister,  avec  une 
ironie  manifeste,  car  il  est  bien  persuade,  d'après  une  longue 
expérience,  qu'il  n'y  a  rien,  qui  puisse  contraindre  une  femme 
à  la  vertu.  Golinet  propose  tout  d'abord  certaines  serrures 
intimes,  bien  connues  au  moyen  àge,  mais  en  attendant,  il 
promet  de  monter  la  garde  et  de  tomber,  le  bàton  à  la  main, 
sur  le  cbapelain,  s'il  ose  pénétrer  chez  la  belle.  Le  mari  pari 
plus  tranquille,  mais  malheureusement  il  rencontre  la  tante 
de  Golinet,  qui  lui  conseille,  s'il  veut  éprouver  la  fidelité  de 
sa  femme,  de  se  déguiser  en  prètre,  de  manière  qu'on  le 
prenne  pour  le  cbapelain,  et  de  se  rendre  ainsi  déguisé  auprès 
de  sa  moitié.  La  bonne  tante  possedè  un  babit  ecclésiastique. 


ÉTUDES  SLR  LE  THEATRE  CO.MIQUE  FRANCAIS  DU  MOYEN  AGE    263 

dont  il  pourra  s'affubler.  Aussitòt  dit,  aussitót  fait,  et  le  mari, 
oubliant  la  commission  donnée  au  badin,  tàche  de  se  rendre 
chez  sa  femme  et  est  regu  à  coups  de  bàton  par  le  gardien 
fidèle.  La  femme  accourue  au  bruit,  s'apercevant  du  tour  qu'on 
veut  lui  jouer,  donne  main  forte  au  badin  et  le  bonhomme 
battu  doit  se  déclarer  content  de  la  vertu  de  sa  dame. 

Enfìn  il  arrive  quelquefois  aussi  que  la  tromperie  de  1  a 
femme  est  causée  par  son  obéissance  trop  aveugle  et  par  une 
équivoque,  où  le  bon  sens  n'a  rien  à  voir.  C'est  le  cas  d'Un 
Curia  qui  trompa  par  finesse  la  femme  d'un  laboureur  % 
reproduisant  un  conte  traditionnel.  Le  mari  ordonne  à  sa  femme 
de  préter  une  chose  quelconque  à  un  de  ses  amis.  Celui-ci, 
profitant  du  sens  figure  de  l'expression,  insiste  pour  que  la 
femme  cède  à  ses  désirs,  et  il  assure  que  c'est  là  ce  que  le 
mari  mème  lui  demande.  La  femme  consulte  son  mari,  qui 
répond  que  oui,  sans  savoir,  au  juste,  de  quoi  il  est  question 
et  n'ayant  pas  par  conséquent  à  se  plaindre  de  ce  qui  lui 
arrive  ensuite.  Ce  conte  se  retrouve  chez  plusieurs  novellieri. 
Je  rappelle  entre  autres  la  nouv.  XXXVP  du  Doni:  «  La  moglie 
d'un  barbiere  per  ordine  del  marito  stesso  presta  la  guaina 
al  compare  ». 

C'est  toujours  sur  une  équivoque,  mais  sans  rapport  direct 
avec  les  nouvelles,  que  se  fonde  l'aventure  d'un  autre  mari 
trompé,  dans  la  Farce  de  la  Cornette  par  Jehan  d'Abon- 
dance.  Le  mari  croit  que  tout  ce  que  ses  neveux  lui  disent 
au  sujet  de  la  raauvaise  conduite  de  sa  femme,  se  rapporte 
à  son  bonnet  et  il  finit  par  les  flanquer  à  la  porte.  Au  mi- 
lieu de  ces  farces,  dont  la  valeur  littéraire  est  fort  sou- 
vent  au  dessous  du  mediocre,  celle  de  la  Cornette  peut 
se  considérer  comrae  un  petit  chef-d'oeuvre.  La  femme  du 
bonhomme  n'a  pas  recours,  comme  ses  pareilles,  aux  injures 


')  Édit.  de  Lyon,  1595. 


264  PIERRE  TOLDO 

pour  avoir  le  dessus.  Loin  de  là  elle  le  cajole,  le  dorlotte; 
elle  est  là  toujours  aux  petits  soins  auprès  de  lui  et  le  bon- 
homme  vieux  et  flatté  dans  son  amour-propre,  croit  receler 
dans  sa  maison  un  véritable  trésor.  Mais  des  femmes,  qui 
vaillent  un  trésor,  il  n'y  en  a  guère  dans  la  littérature  comique 
que  nous  étudions,  car  les  nouvellistes  et  les  auteurs  des  farces 
se  chargent  de  faire  rire  et  non  pas  certaineraent  de  próner 
la  vertu. 


La  revanche  des  maris. 

Il  y  a  tout  d'abord  les  maris  qui  trompent  leurs  femmes. 
Ce  sujet  est,  pour  plusieurs  raisons,  nioins  amusant  que  le 
précédent,  Tinfidélité  de  l'homme  n'ayant  pas  les  suites  fà- 
cheuses  de  l'infidélité  de  la  femme.  L'idée  de  la  foi  réci- 
proque  appartieni  à  la  conscience  moderne;  au  moyen  àge 
la  femme  est  une  sorte  de  propriété,  qu'on  doit  garder  avec 
soin,  le  propriétaire  restant  entièrement  libre  de  son  coté.  Il 
s'ensuil  que  le  ridicule  sattache  aux  gardiens  trompés  et  la 
femme,  n'étant  pas  chargée  de  surveiller  son  mari,  est  à  l'abri 
des  rires  du  monde,  quand  mème  son  seigneur  oublierait  parfois 
ses  devoirs.  Le  mari  malheureux  est  berne,  la  femme  délaissée 
excite  notre  pitie.  C'est  là  le  point  de  vue  des  auteurs  dra- 
matiques  de  tout  àge  et  de  tout  pays.  La  tromperie  de  l'homme 
doit  ètre  partant  fort  plaisante  en  elle-mème,  pour  qu'elle 
paraisse  telle  au  public;  il  faut  surtout  que  dans  la  femme 
trompée  on  envisage  sa  sottise  plutót  que  son  malheur. 

Telle  est  la  situation  de  la  farce  Le  médecìn  et  le  badin. 
La  femme  du  badin  est  en  pèlerinage  et  le  mari,  reste  seul 
à  la  maison,  a  jeté  son  dévolu  sur  la  chambrière.  Il  suffit 
d'entendre    ce  que   la    fiUe  chante,  au  commencement  de  la 


ÉTUDES  SUR  LE  thiìatre  comique  krancais  du  moyen  age      265 

pièce,   pour  comprendre   que   sa   conqiiéte   n'est  rien  moins 
que  difficile  : 

Il  estoit  une  fillete 
Coincto  et  joliete, 
•  Qui  vouloit  scavoir  le  jeu  d'amours. 

Un  jour  qu'elle  estoit  seullete, 
De  Venus  en  sa  chambrette 
Je  luy  en  aprins  cleulx  ou  troys  coups. 
Apres  avoir  sentu  du  cours, 
Elle  m'a  dit,  en  se  riant, 
Les  premiers  coups  m'y  sembloyent  lours, 
Mais  la  fin  m'y  sembloyt  friant. 

La  chambrière  craint,  il  est  vrai,  que  sa  condescendance  pour 
le  badili,  ne  lui  cause  des  ennuis,  mais  le  cadeau  d'un  chaperon 
la  décide  à  jeter  sa  vertu  aux  orties.  L'auteur,  avec  un  excès 
de  pudeur,  dont  il  faut  lui  savoir  bon  gre,  fait  retirer  à  un 
certain  moment  les  deux  amoureux,  ayant  toutefois  soin  de  nous 
expliquer  pourquoi  ils  se  retirent.  La  rapidità  des  évènements 
est  tout  a  fait  élonnante.  On  voit  la  bonne  revenir  peu  de  mo- 
ments  après,  pour  nous  apprendre  qu'elle  se  trouve  enceinte; 
le  badin  se  serre  dans  les  épaules  et  répète  d'un  air  bète 
«  il  est  faict,  il  est  faict  ».  La  femme  du  badin,  Crespinète, 
revient  ensuite  tout  à  coup  de  son  pèlerinago  aggraver  la  si- 
tuation,  bien  que  la  bonne  femme  soit  si  simple,  qu'on  com- 
prend  que  ce  n'est  pas  elle,  qui  dócouvrira  ce  qui  se  passe 
dans  son  ménage.  Le  mari,  après  l'avoir,  dans  son  coeur,  en- 
voyée  à  tous  les  diables,  lui  fait  bon  accueil  et  comme  sa  si- 
tuation  lui  paraìt  fort  delicate,  il  se  décide  d'avoir  recours  à  un 
raédecin,  de  ses  amis.  Le  médecin,  connaissant  le  caractère  de 
Crespinète,  retrouve,  sur  l'instant,  un  expédient  qui  sauve  le 
mari  et  la  bonne.  Il  veut  que  le  badin  se  couche,  comme  s'il 
avait  de  grandes  douleurs  au  ventre,  puis,  d'après  l'examen  de 
ses  urines,  il  déclare  qu'il  est  enceint  et  il  explique  à  Crespinète 


266  PIERRE  TOLDO 

que  c'est  là  la  consèquence  de  la  manière  avec  laquelle  elle 
a,  à  son  retour,  erabrassé  son  mari.  Le  badin  est,  donc,  d'après 
l'avis  du  médecin,  un  homme  perdu,  si  Grespinète  ne  trouve 
pas  une  jeune  fiUe,  qui  se  charge  de  sa  grossesse.  Il  s'ensuit 
que  la  bonnefemme,  poursauver  son  mari,  prie  la  charabrière 
de  vouloir  accepter  une  mission  si  pénible: 

Quant  est  à  moy  de  ma  richesse 
Et  des  biens  que  Dieu  m'a  donnés, 
A  toy  seront  habandonnés. 

La  fiUe,  pour  sauver  les  apparences,  se  fait  prier  quelque 
peu;  enfin  elle  consent  et  Grespinète  a  le  bonheur  de  les 
mettre  au  lit  et  de  monter  la  garde,  pour  que  personne  ne 
les  dérange.  La  conclusion  du  badin  est  fort  édifiante,  mais 
ne  s'accorde  pas  trop  à  la  moralité  de  la  pièce: 

Je  suplys  Jesus  de  sa  grace 
Que  nou8  decepvons  l'anemy 
Qui  est  sy  remply  de  falace; 
Que  nul  ne  pregne  en  lui  ennuy. 

La  source  de  cette  farce  n'est  pas  difficile  à  retrouver.  Il 
y  a,  tout  d'abord,  dans  le  Decameron  (IX,  3),  Galandrino 
auquel  on  fait  accroire  qu'il  est  gres  depuis  quelques  mois 
et  la  raison  que  maitre  Simone  donne  de  ce  cas  assez  rare, 
est  identique  à  celle  que  le  médecin  indique  pour  Grespinète. 
Ensuite,  dans  le  Grand  Parangon  des  nouvelles  nouvelles 
(XXXV),  compose  par  Nicolas  de  Troyes  d'après  la  tradition 
populaire,  on  lit  l'aventure  «  d'une  jeune  femme  à  qui  on  flt 
entendre  qu'elle  avait  engroissé  son  mari  et  comme  il  remist 
son  engroissure  à  sa  chamberière,  laquelle  il  engroissa  par 
le  consentement  de  sa  femme  ».  Le  conte  ne  diffère  de  la 
farce  en  aucun  détail.  Le  mari  est  un  raarchand  qui  se  prend 
d'amour  pour  la  chambrière  et  sa  tendresse  est  payée  de 
retour.  Le  mari,  au  désespoir  pour  les  suites  de  cette  liaison, 
suites  qui  deviennent  de  plus  en  plus  visibles,  se  rend  chez 


ÉTUDES  SUR   LE   THÉATRE   COMIQUE   FRAN'CAIS  DU   MOYEN   AGE        267 

son  cousin,  de  profession  médecin,  et  lui  expose  sa  situation. 
Le  conseil  que  celui-ci  lui  donne,  pour  le  tirer  d'affaire,  c'est 
de  proflter  de  la  niaiserie  de  sa  femme,  et  la  manière  est  iden- 
tique  à  celle  de  son  savant  confrère.  Il  faut,  lui  dit-il  que  vous 
vous  couchiez  «  et  que  faciez  le  malade,  et  ne  plaingniez  rien 
que  les  rains  et  le  ventre  et  me  envoj'ez  vostre  orine  par  vostre 
fomrae  »  et  à  la  .femme  qui  lui  apporto  le  liquide  «  Commenti... 
ceste  eaue,  que  vous  m'avez  cy  apportée  est  d'une  femme  qui 
est  enceinte  d'enfant  ».  C'est  toujours  la  position  gardée  par  la 
femme,  qui  a  cause  Tétat  du  mari  et  la  malheureuse  prie  sa 
chambrière  Jehanne  de  vouloir  bien  lui  rendre  le  mème  ser- 
vice  que  Crespinète  demando  à  la  sienne.  Ce  qu'il  y  a  de 
plus  comique  dans  la  nouvelle  de  Nicolas  de  Troyes,  c'est  la 
résistance  que  le  mari  feint  d'opposer  à  sa  femme,  détail  in- 
téressant  que  l'auteur  de  la  farce  a  eu  le  tort  de  laisser 
de  coté.  Mais  les  ferames  des  fabliaux  et  du  théàtre  comique 
de  cette  epoque  ne  sont  que  fort  rarement  si  niaises.  Nous 
les  avons  vues  trompant  leurs  maris  de  mille  facons  extra- 
ordinaires,  inventant  des  ruses  coup  sur  coup  avec  un  sans- 
gène  étonnant  et  sortant  des  situations  les  plus  pénibles  et 
les  plus  embarrassantes,  le  sourire  sur  les  lèvres  et  d'un 
air  innocent.  Il  n'y  a  que  les  valets  issus  de  l'imitation  du 
théàtre  latin,  qui  soient  capables  de  ces  coups  d'audace.  La 
supériorité  de  la  ruse  féminine  sur  celle  de  l'homme  est 
donc  dùment  établie  dans  la  littérature  populaire  de  ce  temps 
et  pour  un  mari  qui  trompe  sa  femme,  il  y  a  cent  femmes  qui 
trompent  leurs  maris. 

Nous  avons  jusqu'à  présent  envisagé  la  femme  sous  son 
aspect  le  plus  défavorable  ;  il  nous  est  permis  heureuseraent, 
d'étudier,  maintenant,  dans  cette  seconde  partie  de  la  revanche 
des  maris,  la  revanche  des  maris  sur  les  galants,  le  revers 
de  la  médaille  et  de  citer  des  exemples  de  fidélité  et  de  dévoue- 
ment.  Ces  exemples  sont  plus  rares  que  les  précédents,  mais 


268  PIERRE  TOLDO 

il  y  en  a  toutefois  assez,  pour  que  l'on  puisse  assurer  qu'il 
ne  s'agit  pas  là  de  rares  exceptions  à  la  règie  et  que  reslirae 
qu'on  avait  de  la  femrae  au  moyen  àge  n'était  pas  si  mau- 
vaise,  qu'on  le  croit  généraleraent.  Il  y  a  tout  d'abord  la  le- 
gende du  Segretain,  telle  que  nous  la  lisons  en  plusieurs  ré- 
dactions  d'un  mème  fabliau  *).  Ce  sacristain  s'est  épris  de  la 
femme  d'un  homrae  de  bien: 

une  borgoise 
Qui  moult  estoit  preuz  et  cortoise, 

aimant  son  mari  et  sacbant  resister  aux  offres  et  aux  me- 
naces  du  mauvais  moine.  Et  le  mari  n'appartient  pas  à  cette 
engeance,  qui  exploite  la  beante  de  la  femme.  Celle-ci  lui 
raconte  les  poursuites  du  sacristain  avec  un  vif  ressentiment 
et  Guillaume  proteste,  de  toutes  ses  forces: 

Guillaume  l'entent,  si  s'en  rist, 
Et  dit  que  por  tot  le  tresor 
Otemen  ne  Abielor 
Ne  sofferoit-il  que  hom  nez 
Fust  cliaruelment  de  li  privez; 
Mielx  ameroit  querre  son  pain 
Par  le  paia,  morir  de  fain. 

La  bonne  femme  voudrait  bien  se  moquer  des  soupirs  du 
religieux,  mais  il  arrive  que  le  mari  tombe  en  misere  et 
que  le  sacristain  tire  profit  de  cette  occasion,  pour  renou- 
veler  ses  offres.  La  tentation  est  trop  forte  pour  une  fille 
d'Ève.  La  femme,  après  avoir  consulte  son  mari,  accepte  cent 
livres,  que  le  moine  trouve  dans  les 

Boites  et  acmoires 

Et  les  autex  as  sentuaires 

Oli  la  gent  ont  l'ofirande  mise, 


')  Voyez  Barijazan,  Fabliaux,  contes  etc,  V  voi. 


ÈTUDES  SUR  LE  THEATRE  COMIQUE  FRAN'CAIS  DU  MOYEN  AGE    269 

donnant  pour  tout  regu  un  rendez-vous  galani.  Le  sacristain 
s'empresse  de  se  rendre  chez  la  dame,  mais  Guillaume  tombe 
sur  lui  et  le  tue  : 

Si  li  espandi  le  cervel, 
Et  li  Moiues  chai  avant; 
Ainsi  va  fox  sa  mort  querant. 

Laissons  de  còte  les  pérégrinations  de  ce  cadavre  traine 
de  porte  en  porte  et  mis  à  la  place  d'un  cochon  et  laissons 
de  coté  aussi  ce  qu'il  y  a  d'indélicat  du  coté  de  la  femme 
acceptant  cet  argent  et  de  cruel  de  la  part  de  son  mari  tuant 
son  rivai  en  traltre.  La  constatation  que  nous  voulons  faire  c'est 
que  nous  avons  retrouvé  enfin  une  femme  fidèle  à  ses  devoirs: 
pour  la  moralité  du  récit,  on  n  a  qu'à  lire  la  conclusion  de 
Tauteur,  réfléchissant  les  sentiments  de  son  temps,  où  la  tra- 
hison,  la  violence  et  le  meurtre  sont  considérés  commes  de 
simples  plaisanteries. 

Ainsi  ot  Guillaume  son  clroit 
Du  Moine  qui  par  son  avoir 
Guida  sa  fame  decevoir; 
Le  bacon  ot  les  cent  livres. 

Le  fabliau  d'Estowmi,  par  Hugues  Piancele,  renouvelle 
cette  aventure,  mais  ici  on  a  affaire  à  trois  prètres. 

Un  caractère  bien  plus  noble  est  celui  qui  nous  est  repré- 
senté,  par  le  fabliau  de  la  boiirse  pleine  de  sens.  Nous  y 
voyons  une  dame  vertueuse,  gardant  sa  fidélité  à  un  mari 
épris  d'une  courtisane  et  le  ramenant  à  son  amour,  au 
moyen  de  la  soumission  ot  de  la  bonté.  Et  cette  bonté  de 
femme,  s'inspirant  au  dévouement  le  plus  absolu  et  à  l'anéan- 
tissement  de  sa  personnalité,  brille,  d'un  vif  éclat,  dans  la 
legende  de  Griselidis.  Et  avec  Griselidis,  à  qui  le  Boccace  sul 
donner  une  vie  nouvelle,  nous  trouvons,  dans  le  Decameron, 
la  passion  fidèle   et  profonde  de  Lisabetta  et  de  la  princesse 


270  PIERRE  TOLDO 

Gismonda,  la  vertu  conjugale  de  la  marquise  de  Monferratry 
et  de  la  femme  de  Bernabò  de  Génes,  et  les  femmes  acquiè- 
rent  de  nouveaux  charmes  de  vertu  et  de  tendresse,  dans  les 
contes  de  la  reine  de  Navarro.  G'est  dans  VHeptaméron  que 
nous  voyons  paraitre  Pauline  et  son  malheiireux  amant  (XIX*), 
la  fide  Rolandine  (XXP),  cette  pauvre  fille,  préférant  la  mort 
à  la  parte  de  son  honneur  (IP),  l'épouse  pallente,  dont  la  dou- 
ceur  vaine  la  légèreté  de  son  mari  (XXXVIIP),  la  vierge  re- 
poussant  les  tendresses,  les  offres  et  les  menaces  de  son  sei- 
gneur  (XLIP)  et  la  veuve  protégeant  des  bètes  féroces  le  corps 
de  son  époux  coupable  (LXVIP). 

Et  la  galerie  des  femmes  de  bien  pourrait  s'enrichir  d'au- 
tres  portraits  offerts  par  les  auteurs  des  nouvelles,  si  le  fabliau 
de  Constant  Duhamel  ne  nous  rappelàt  au  sujet  de  notre 
étude.  Le  poète  chante  la  beante  de  la  femme  de  Constant, 
non  moins  que  ses  mérites: 

Qui  moult  estoit  cortoise  Dame, 
Et  preus,  et  sage  et  avenant. 

Sa  beante  a,  malheureusement,  pour  effet  d'éveiller  la 
passion  brutale  d'un  prètre,  du  prévót  de  la  ville  et  du  fo- 
restier;  elle  les  repousse  tous  les  trois,  mais  les  fripons  s'ac- 
cordent,  pour  persécuter  sa  famille: 

Tant  que  besoing,  poverté  et  fain 
La  face  venir  à  reclaim. 

Le  prètre  est  l'àme  de  l'intrigue  et  les  pauvres  époux  sont 
bientòt  réduits  aux  abois.  Alors  la  femme,  genie  bienfaisant 
cu  malfaisant,  selon  les  cas,  mais  toujours  maitresse  de  ruses, 
conseille  à  son  mari  une  vengeance  singulière,  vengeance  qui 
n'a  certainement  rien  à  voir  avec  les  moeurs  de  nos  jours,. 
mais  où  le  mari  donne  des  preuves  d'une  vigueur  remarquable 
aussi  bien  que  sa  femme  d'une  patience  et  d'un  désintéres- 
sement  très  rares. 


ÉTUDES  SUR  LE  THÉATRE  COMIQUE  FRAN'CAIS  DU  MOYEN  AGE   271 

La  ruse  de  la  femrae  consiste  à  donner  un  rendez-vous 
galani  aux  trois  compères,  mais  à  Tinsu  l'un  de  l'autre. 

Le  prètre  est  le  premier,  comme  de  droit.  La  femme  l'ac- 
cueille  de  manière  à  lui  faire  espérer  son  bonheur  et  le  prie 
de  se  déshabiller,  pour  le  bain.  Le  prètre  voudrait  profìter 
tout  de  suite  de  son  bonheur,  mais  on  frappe  à  la  porte. 
G'est  le  prévót  qui  arrive,  et  le  prètre,  croyant  avoir  affaire 
au  mari,  tremble  de  peur  et  prie  la  femrae  de  le  cacher 
quelque  part.  Celle-ci  lui  indique  une  cachette  bien  sùre: 

En  cest  tonnel  desoz  cest  van, 
Il  n'i  a  rien  que  piume  mole. 

Le  prévót,  ne  se  doutant  de  rien,  entre  et  veut  embrasser 
à  son  tour  la  belle  dame.  Meme  histoire.  On  le  prie  de  se 
déshabiller,  on  frappe  a  la  porte  et  il  est  contraint,  lui  aussi, 
de  ce  cacher  dans  le  tonneau.  Gomme  il  y  sauté  dedans  à  la 
hàte,  il  tombe  sur  le  corps  du  prètre,  qui  maudit  sa  mau- 
vaise  destinée,  mais  fait  bon  accueil  au  compère.  Celui  qui  a . 
frappé  est  le  forestier,  contraint  de  sauter  lui  aussi  dans  le 
tonneau,  et  d'enfoncer  les  còtes  de  ses  deux  camarades,  lorsqu'il 
entend  l'arrivée  du  mari.  Constant  Duhamel  n'a  pas  à  se 
plaindre  de  la  ruse  de  sa  femme;  il  retrouve  dans  sa  maison 
les  cadeaux  des  trois  galants  et  il  a  là  sous  la  main  ces 
raessieurs,  dont  il  pourra  se  venger  à  son  gre.  Et  la  ven- 
geance  qu'il  accomplit  est  étrange. 

Sa  femme  appelle  l'une  après  lautre,  sous  le  prélexte  du 
bain,  la  femme  au  prètre  et  cellus  plus  légitimes  du  prévót 
et  du  forestier  et  le  mari  fait  à  elles  ce  que  leurs  seigneurs 
voulaient  faire  à  madame  Duhamel. 

Tout  cela  n'est  pas  sans  quelque  résistance,  mais  toute 
résistance  est  vaine,  car  le  bourgeois  est  là,  la  hàche  à  la 
main.  Quant  aux  maris,  toujours  renfermés  dans  le  tonneau, 
ils  se  moquent   l'un  de  l'autre  et  boivent  leur  honte  jusqu'à 


272  PIERRE  TOLDO 

la  dernière  goutte.  Les  trois  dames  bornées  sont  obligées  de 
laisser,  dans  la  maison  du  bourgeois,  leurs  habits,  et  Duliamel 
finit  par  mettre  le  feu  aux  pluraes  du  tonneau,  obligeant  ainsi 
les  trois  compères  de  s'enfuir,  les  plumes  attachées  à  leur 
nudile,  ce  qui  fait  que  les  chiens  les  prennent  pour  du  gibier 
étrange  et  que  tous  les  paysans  se  raettent  à  leurs  trousses. 

Ges  vengeances  sont  assez  communes  chez  les  autres  no- 
vellieri. L'auteur  des  Cent  nouvelles  nouvelles  (IIP)  nous 
expose  celle  d'un  meunier  sur  la  fera  me  d'un  chevalier,  et 
Marguerite  de  Navarre  conte  l'aventure  du  «  roi  de  Naples 
(qui)  abusant  de  la  femme  d'un  gentilhomme,  porle  enfin  lui- 
raème  les  cornes  ».  Dans  le  Moyen  de  parvenir  (p.  257  de 
réd.  Jacob)  un  mari,  se  trouvant  à  bout  d'argent,  s'accorda 
avec  sa  femme,  pour  avoir  le  blé  d'un  certain  cure,  sans  lui 
permetlre,  bien  entendu,  de  tirer  aucun  profit  de  sa  générosilé. 
En  Italie  Poggio,  dans  Talio,  Gintio  delli  Fabrizii,  dans  son 
XVP  proverbe  «  Ghi  non  ha  ventura  non  vada  a  pescar  », 
Straparole  (VI,  1),  Randello  (IV,  2),  Fortiguerri,  dans  son  Ric- 
ciardetto (Gh.  XXX),  et  d'autres  encore  nous  font  voir  cette 
sorte  de  lutto  engagée  entre  les  puissants  et  les  faibles,  en 
appliquant  toujours,  bien  que  sous  une  autre  forme,  le  vieux 
proverbe:  «  à  trompeur,  trompeur  et  demi  ».  Et  le  folk-lore 
répète,  de  nos  jours,  les  mèmes  historiettes  qu'on  retrouve  à 
foison  dans  la  Kruptadia  (IV,  210-213;  11,  Der  verstellie 
Doctor,  etc.)  et  qui  représentent  la  méme  idée,  chez  les 
peuples  les  plus  éloignés. 

Nous  avons  résumé  le  fabliau  de  Constant  Duhamel,  avec 
assez  de  détails,  car  c'est  là  la  source,  plus  ou  moins  directe 
et  inconnue,  de  la  Farce  nouvelle  à  VI  personnages,  savoir 
deulx  Gentilzhommes,  le  7nounyer,  la  meunyere  et  les  deulx 
fernmes  des  deulx  Gentilzhor/imes  abillees  en  Damoiselles. 
Le  héros  de  la  pièce  c'est  le  meunier,  personnage  auquel  on 
attribuait,  avons-nous  dit,  à  cette  epoque  beaucoup  de  finesse 


ÉTUDES   SUR    LE   THÈATRE   COMIQUE    FRANCAIS   DU   MOYEN   AGE        273 

et  de  méchanceté  et  sa  femrae,  la  meunière,  est  digne  en 
tout  et  partout  de  lui.  Les  deux  gentiishommes  ont  un  faible 
pour  la  belle  femme  et  la  poursuivent  de  leurs  offres,  mais 
c'est  de  la  peine  perdue;  cas  étrange,  elle  aimc  son  mari  et 
se  moque  de  tous  ses  amourenx.  Notre  meunier  a  toutefois 
un  procès  sur  les  bras,  qui  peiit  causer  sa  ruine.  Gomme  il 
n'a  pas  l'argent  nécessaire  pour  les  frais  de  justice,  car  :  «  On 
ne  plaide  poinct  sans  argent  »,  il  se  livre  au  désespoir. 

Heureuseraent  la  belle  meunière  relrouve,  dans  son  esprit, 
fertile  en  expédients,  une  ruse  qui  va  leur  procurer  cet 
argent  bèni.  Les  maìtres  de  notre  moulin,  dit-elle  à  son  mari: 

Sont  fort  amoureulx  de  mon  corps. 
Sy  vous  faignyes  aler  dehors 
Envyron  vins  jours  ou  un  moys 
Jamais  un  regnard  prins  au  ny 
Ne  fust  si  peneulx  qu'i  seront. 

Ainsi  que  dans  le  fabliau,  le  mari  accepte  l'offre  de  sa 
femme,  qui  donne  séparément  rendez-vous  aux  deux  gentiis- 
hommes, sous  condition  qu'ils  lui  apportent  beaucoup  d'argent. 
La  somme  est  payée  d'avance  et  le  meunier  fait  tinter  l'argent 
que  sa  femme  lui  donne,  en  s'écriant: 

Su!  su!  j'ay  de  l'or  à  plein  poing. 
Femmes  sont  fines  à  merveilles. 

Les  deux  gentiishommes,  venus  chez  la  belle  meunière, 
ì'un  après  l'autre,  et  interrompus  dans  leur  plaisir,  selon 
la  donnée  du  fabliau,  se  sauvent  dans  le  poulailler.  Le  pou- 
lailler,  abri  bien  connu  pour  les  amants  surpris,  remplace, 
avee  peu  de  différence,  le  tonel  des  trois  compères.  Il  y  a 
en  outre  l'incident  du  banquet,  dont  les  gentilsbommes  font 
les  frais  et  dont  se  réjouissent  le  mari  et  la  femme,  mais 
la  surprise  des   deux  amoureux  de  se  trouver  ensemble  est 


274  PIERRE  TOLDO 

idontique  à  celle  du  cure,  du  prévót  et  du  forestier.  Et  la 
mèrae  identité,  sauf  la  réduction  de  trois  fommes  en  deux, 
se  retrouve  dans  la  troraperie  du  mari,  qui  fait  appeler,  par 
la  meunière,  les  deux  femraes  des  deux  gentilshommes,  et  ac- 
coraplit  sur  elles  sa  vengeance.  Mais  ce  qu'il  y  a  ici  de  plus 
comique  c'est  que  la  résistance  des  deraoiselles  se  réduit  à  bien 
peu  de  chose: 

Les  mounyers  sont  tant  amoureulx! 
Y  n'est  finesse  qui  n'en  sorte, 

et  la  femme  du  prévót  surtout  est  bien  aise  de  Ta venture, 
pourvu  que  le  meunier  garde  le  silence.  C'est  du  fabliau  que 
semble  tirée  la  scène  entre  les  deux  malheureux  renfermés 
dans  le  poulailler,  se  moquant  et  se  confortant  réciproque- 
ment.  Solatium  miseris  etc.  La  conclusion,  au  contraire, 
varie.  Le  mari  de  la  farce  est  plus  prudent  que  celui  de  la 
nouvelle  et  il  sait  éviter  un  scandale  inutile.  Les  gentils- 
hommes sortent  du  poulailler,  font  leur  quittance  et  s'en 
vont  sans  souffler  mot,  tandis  que  le  madre  compère  s'écrie, 
en  riant:  «  à  trompeur,  tromperye  ».  Que  l'on  ajoute  que, 
pour  rendre  sa  pièce  plus  plaisante,  l'écrivain  de  la  farce 
suppose  que  les  deux  galants  tàchent  de  se  tromper  l'un 
Tautre,  en  cachant  leurs  amours. 

Les  noms  comiques  de  monsieur  de  la  Hannetonnière  et  de 
monsieur  de  la  Papillonnière,  révèlent  l'intention  de  l'auteur 
de  se  moquer,  jusqu'à  un  certa  in  point,  de  la  noblesse  de  village. 
Et  c'est  contre  la  noblesse  qu'on  composa  l'autre  farce  Le 
gentilhomme,  Lison,  Naudet,  la  Daìnoyselle,  dont  la  donnée 
est  toujours  la  mème,  bien  que  la  vengeance  du  mari  s'ac- 
complisse  d'une  fagon  differente.  Gette  farce  n'est  pas  sans 
importance  pour  l'histoire  des  moeurs  de  l'epoque  et  elle 
paraìt  aussi  plus  conforme  à  la  réalité  qne  la  précédente.  En 
effet  le  meunier,  aussi  bien  que  son  prédécesseur  du  fabliau, 


ÉTUDES  SUR   LE   THÉATRE   COMIQUE   FRANCAIS   DU   MOYEN  AGE        275 

aura  toujours  à  redouter  la  colere  des  gens  haut  placés,  qu'il 
vient  d'outrager  d'une  manière  si  crucile,  et  il  est  memo  éton- 
nant  qua  deux  ou  trois  hommes  ne  sachent  se  tirer  d'affaire 
contre  un  seul.  lei,  au  contraire,  la  vengeance  est  plutot  le 
fait  de  la  demoiselle  que  de  Naudet,  et  le  gentilhorame  peut,  si 
cela  lui  parait  convenable,  avoir  l'air  de  n'en  rien  savoir.  Le 
gentilhomme  étant  le  seigneur  du  village,  tout  le  monde  lui 
est  soumis  et  le  bonhomme  Naudet  doit  aller  ailleurs,  lorsque 
son  maitre  visite  sa  femme. 

Je  vous  ai  vu,  dit  Naudet  à  Lison,  avec  le  gentilhorame  et 
celle-ci: 

Je  te  prometz,  ma  foy,  s'il  te  ost, 
Qu'il  te  fera  mettre  en  prison. 
Naudet.   Et  je  n'en  parie  pas,  Lison  ; 

C'est  tout  ung  se  vous  estes  sa  mye. 
Da,  pourtant  ne  luy  dictes  mye; 
Il  me  feroit  aussitost  suyre. 
Lison.  Garde-toi  dono  de  le  plus  dire, 

Meschant!  il  nous  faict  tant  de  biens! 

Ce  qui  se  passe  entre  le  gentilhomme  et  sa  femme  n'est 
donc  pas  un  mystère  pour  le  pauvre  Naudet,  obligé  de  faire 
ben  accueil  à  son  seigneur  et  de  promener  son  cheval,  lorsque 
le  gentilhomme  daigne  honorer  sa  maison.  Mais  Naudet  n'est 
pas  si  bonhomme,  qu'il  en  a  l'air.  Trouvant  sous  sa  mairi 
l'habit  de  sun  rivai,  il  s'en  empare  et  se  rend  au  chàteau 
chez  la  demoiselle,  à  qui  il  fait  comprendre,  ayant  l'air  de  ne 
vouloir  rien  dire,  de  quelle  manière  son  seigneur  la  trompe. 

La  demoiselle,  par  un  caprice  mèle  de  sensualité  et  de 
dépit,  provoque  le  paysan  à  la  venger  du  gentilhomme  et 
elle  n'a  pas  à  se  plaindre  des  preuves  que  Naudet  lui  donne 
sur  l'instant  de  sa  vigueur,  car,  après  une  absence  assez  pro- 
longée,  la  demoiselle  revient  avec  lui  sur  la  scène,  pour  dire 
d'un  air  tendre: 


276  PIERRE  TOLDO 

Pleust  à  Dieu  que  (tu)  fusses  monsieur 
Et  que  monsieur  devint  Naudet. 

Le  genlilhomme  comprend  la  venfreance  et  ne  s'eii  fàclie 
pas  trop: 

Le  gentilhomme.  N'en  parlons  plus  et  nons  taison, 
Cecy  est  neufve  nouvelle. 
Naudet.  Ne  venez  plus  naudetiser, 
Je  n'iray  plus  seigneuriser. 

Si  les  femraes  veillent  à  la  défense  de  leurs  araants,  il  ar- 
riva parfois  que  ceux-ci  passent  fort  souvent  le  quart  d'heure 
de  Rabelais.  Au  milieu  du  plaisir  et  de  la  joie,  ils  tressaillent 
au  moindre  bruii  et  quittent  la  table,  le  bain  et  le  lit,  pour 
se  cacher,  tremblants  et  honteux,  dans  les  lieux  les  moins 
propres,  au  grand  danger  detre  découverts,  battus  ou  pis  an- 
core. En  cela  la  farce  est  moins  sevère  que  la  nouvelle;  il 
s'agit  de  faire  rire  et  les  punitions  des  amoureux,  de  méme  que 
certaines  opérations  chirurgicales,  ne  seraient  pas  trop  conve- 
nables  sur  la  scène.  Le  fabliau,  au  contraire,  n'ayant  pas  de 
ces  contraintes,  aime  à  nous  représenter  les  prestre  crua'fìé 
et  mis  en  condition  de  ne  plus  faire  tort  à  aucun  mari,  en 
tirant  la  moralité  que: 

Cest  exemple  nous  monstre  bien 
Que  nus  prestres  por  nule  rien 
Ne  devroit  autrui  fame  avoir. 

Et  le  fabliau  nous  représente  de  mèrae  le  prètre  qid  fu 
mis  au  lardìer,  les  aventures  de  Connebert,  le  Prestre  ieint, 
tandis  que  1  epouvante  de  l'amoureux  forme  le  fond  du  cj'^cle 
des  deuoc  cìiangeors  *). 

')  Voyez  mon  Contributo,  p.  11.  Ces  punitions  des  amoureux  pul- 
lulent  dans  les  nouvelles  italiennes  depuis  le  Boccace,  Sacchetti,  Ma- 
succio,  Poggio,  etc,  jusqu'à  Bandello,  et  inspirent  les  conteurs  fran- 
9ai3  du  XV"  et  du  XVI«  siede. 


KTUDES  SUR    LE   THÈ.VTRE   COMIQUE   FHANCaIS   DU    MOYEN   AGE        277 

Gette  littérature  populaire  rit  de  tout  le  monde,  et  les 
amants  ne  sont  pas  plus  épargnés  que  les  raaris.  Il  sufflt  qua 
l'aventure  soit  amusante,  aussi  les  tromperies  gardent-elles 
des  deux  cotés  une  sorte  d'équilibre  où  les  gens  mariés  et  les 
parasites  du  raariage  peuvent  trouver  également  leur  compie. 


Autres  types  et  snjets  comiques. 
Gens  d'épée  et  gens  d'église. 

On  a  eu  tort  de  déclarer  d'une  manière  trop  absolue,  que 
le  théàtre  du  moyen  àge  ne  présente  que  des  abstractions 
froides  ou  des  symboles  allégoriques.  G'est  là  le  cas  de  cer- 
taines  compositions,  d'un  genre  particulier,  où  Peuple,  No- 
blesse,  Commun,  Chacim,  le  Monde,  le  Te7nps  qui  court  et 
pis  encore  deviennent  des  fantómes  abstraits  et  parlent  et 
agissent  ainsi  que  les  bétes,  les  plantes  et  les  rochers  de  la 
fable. 

Tout  cela  nous  laisse  certainement  froids,  mais  le  public 
alors  s*y  amusait  comme  à  un  jeu  d'esprit,  où  les  plus  fins 
devaient  saisir  la  porlée  des  allusions  et  ces  personnages 
étranges,  le  Peuple,  le  Monde,  etc,  servaient  à  expriraer  ces 
sentiments  des  masses,  dont  les  Grecs  chargeaient  leurs  choeurs. 
Le  tbéàtre  comique  proprement  dit  nous  sait  presentar  parfois 
des  personnages  bien  vivants,  aussi  vivants  au  moins  que  ceux 
de  la  nouvelle.  Le  prètre  qui  supplie  sa  maitresse  de  le 
sauver,  tout  tremblant  de  peur  à  l'arrivée  du  mari,  le  paysan 
se  vengeant  de  ceux  qui  veulent  déshonorer  son  ménage, 
l'homme  domptant  la  ferame,  ou  la  femme  se  moquant  de 
l'homme,   dans  un   duel  de  ruses  plus  ou  moins  spirituelles, 

Studj  di  filologia  romamn,  IX.  jg 


278  PIEHUK  TOLDO 

ne  sont,  proportion  faite  des  temps  et  de  la  puissance  de 
l'art,  moins  conformes  à  la  nature  humaine  que  les  amou- 
reux  et  les  intrigants  du  Ihéàtre  cornique  du  XVII*  siòcle. 
/On  a  remarqué  que  le  caractère  est  reraplacé  par  le  type, 
mais  le  type  étudié  d'après  nature  n'est  au  bout  des  comptes 
qu'une  synthèse  de  caractères  et  je  ne  saurais  retrouver, 
par  exemple,  une  différence  sensible  de  vérisrae  entre  le 
miles  gloriosus  de  la  comédie  latine  et  l'archer  de  la  farce 
frangaise.  Tous  les  deux  représentent  le  soldat  fanfaron,  avec 
cette  exagération  non  seuleraent  permise  mais  parfois  néces- 
saire au  théàtre,  où  il  faut  grossir  les  traits  pour  les  rendre 
visibles,  ainsi  qu'on  donne  des  proportions  colossales  à  une 
statue,  sans  qu'elle  sorte  pour  cela  du  réel.  Le  symbole 
commence  seuleraent  lorsqu'on  s'apergoit  que  ce  personnage 
n'est  plus  qu'un  mannequin  et  que,  tout  en  diminuant  ses 
proportions,  on  ne  saurait  le  retrouver  dans  la  nature. 

Ce  soldat  des  farces  frangaises,  dont  nous  allons  parler,  est 
bien  celui  de  son  epoque  n'a3'^ant  d'autre  but  que  de  piller  les 
villages  et  plus  redoutable  au  pays  qu'il  devrait  défendre, 
qu'aux  enuemis,  qu'il  devrait  combattre.  L'action  de  cespièces,  ì^ 
sans  développement  de  caractères  et  d'intrigues,  simples  ébau- 
ches  à  peu  de  traits,  devait  étre  complétée  par  l'iraagination 
des  spectateurs,  revoyant  là  sur  la  scène  l'archer  qui  avait 
saccagé  leur  étable  ou  leur  poulailler,  caressé  leurs  femmes  et 
fouetté  leurs  épaules.  G'était  une  sorte  de  vengeance  où  l'on 
riait  de  ce  dont  il  aurait  fallu  pleurer,  commentaire  impor- 
tant  aux  moeurs  et  à  l'histoire  politique  du  XV*  siècle. 

Le  miles  gloriosus  de  la  farce  du  moyen  àge  se  présente 
sous  deux  aspects  bien  distincts.  Il  y  a,  tout  d'abord,  l'archer 
appartenant  à  cette  sorte  de  milice  bourgeoise  quo  le  roi 
Louis  XI  avait  suppriraéé  en  1480,  et  dont  le  prototype  porte 
le  nom  bien  connu  et  redoutable  (ì" Archer  de  Baignollet. 
Frangois   P  voulut   rétablir  ce   corps   militaire   et  alors   le 


ÉTUDES  SUR  LE  THÈATRE  COMIQUE  FRANCAIS  DU  MOYEN  AGE   279 

mécontenteraent  populaire  se  flt  entendre  et  protesta,  vers 
1524,  par  le  Frane  Archier  de  Cherré,  de  la  souche  de 
celui  de  Baignollet.  L'autre  groupe  en  veut  à  tous  les  fan- 
farons  en  general,  qu'ils  aient  appartenu  ou  non  à  Tarmée 
et  peint  surtout  les  nobles  de  la  campagne,  dont  les  violences 
n'étaient  pas  moins  redoutables  que  celles  des  soldats  aven- 
turiers. 

Tout  en  s'agissant  d'un  simple  monologue,  le  Frane  Archer 
de  Baignollet  a  óté  jugé,  à  bon  droit,  un  véritable  chef- 
d'oeuvre,  car  il  renferme  plus  d'action  et  de  mouvement,  plus 
de  finesse  d'observation  et  de  coraicité  que  la  plupart  des 
pièces  comiques  à  plusieurs  personnages  de  ce  teraps. 

L'archer  se  présente  «  en  cornant  son  cornet  •»  pour  pro- 
voquer  au  combat  quiconque  ose  se  moquer  de  lui  : 

Par  le  sang  bieu,  je  ne  crains  paige, 
S'il  n'a  point  plus  de  quatorze  ans, 

et  ce  dernier  vers  explique  le  caractère  de  la  plaisanterie. 

On  sait  que  dans  la  comédie  latine  il  y  a  constamment  un 
esclave  ou  un  parasite  chargé  de  faire  comprendre  au  public 
le  véritable  caractère  du  7mles  gloriosus,  caractère  que  l'e- 
xagération  mème  de  ses  vantardises  dévoile  d'ailleurs  d'une 
manière  assez  evidente.  Le  parasite  fait  le  reste.  Il  commente 
tous  ses  discours,  en  présente  le  coté  ridicule  et  oppose  la 
réalité  des  coups  recus,  des  fuites  honteuses  et  de  la  misere 
aux  vols  épiques  de  la  fantaisie  de  son  seigneur. 

Dans  un  monologue,  ce  contraste  entre  la  vantardise  et  la 
vérité  doit  se  retrouver  dans  le  discours  mème  du  héros  ;  ce 
seront  des  confessions  lui  échappant  presque  à  son  insù,  ce 
seront  des  craintes  soudaines,  qu'il  ne  saura  maìtriser,  chan- 
geant  en  tremblements  ses  gestes  héroiques.  L'archer  est 
partant  obligé  de  center  à  la  fois  ses  entreprises  et  de  les 
commenter,   de   se   louer   et  de  se  blàmer,  de  dire  qu'il  est 


230  PIERRE  TOLDO 

bardi  et  de  faire  comprendre  qu'il  est  poltron.  La  vérité  hu- 
maine  n'est  pas  là  certainement,  car  si  l'on  peut  admettre 
que  certaines  pensées  contredisent  au  sens  general  d'un  mo- 
nologue,  cette  contradiction  doit  ètre  rapide,  comrae  un  éclair. 
lei  on  appuie  donc  excessivement. 

Le  frane  areher  eonte,  par  exemple,  avee  trop  de  complai- 
sanee,  l'aventure  qui  lui  arriva  avee  un  certain  anglais  qu'il 
fit  prisonnier  au  siège  d'Alengon  et  dont  il  eut  bien  de  la 
peine  à  se  délivrer.  Tout  à  coup  un  coquericoq  le  fait  tres- 
saiUir.  Ce  coquericoq.  est  le  cri  de  bataiUe,  qui  ebarme  le 
plus  son  oreille: 

Qu'esse  cy?  j'ay  ouy  poullaille, 

et   le  souvenir  des  poules  qu'il  a  glorieusement  poursuivies, 
et  des  poulaiUers,  les  seules  forteresses  qui  aient  cède  à  ses 
assauts,   vient   interronipre,   pour   un   instant,  ses  récits.  Ce 
coquericoq  est  une  révélation  ;  les  gens  de  campagne  qui  écou- 
tent,  sourient  et  comprennent;  il  aura  beau   conter  ensuite 
l'histoire   étonnante  de   ses  batailles,  ces  gens  savent  désor- 
maisaussi  bien  et  mèrae  mieux  que  nous  à  qui  ils  ont  affaire. 
Mais   pour  le  présenter,   dans  son  véritable  aspeet,  il  ne 
sufflt  pas  de  le  montrer  fanfaron  et  voleur,  il  faut  le  mettre  à 
la  présence  d'un  ennerai  ridieule,  d'un  ennemi  qui  sans  parler, 
sans  ehanger  mème  le  raonologue  en  dialogue,  le  terrasse  et 
le  mette  en  fuite.  Et  l'auteur  a  eu  la  main  heureuse  en  re- 
trouvant  ce  dompteur  de  l'orgueil  de  son  béros,  dans  un  épou- 
vantail  à  moineaux,  qui  paraìt  de  loin  à  notre  areber  eomme 
un  bomme   d'armes,  redoutable   et  inflexible  dans  son  mu- 
tisme.   La    peur  s'empare  de  lui  et  le  voilà  prèt  à  faire  bon 
marcbé  de  son  drapeau,  de  son  roi  et  de  son  pays: 

Dea,  je  suis  Breton,  si  vous  l'estes. 

Vive  sainct  Denis  ou  sainct  Tve! 

Ne  m'eu  cbault  qui,  mais  que  je  vive. 


ÉTUDES  SUR  LE  THEATRE  COMIQUE  FRANCAIS  DU  MOYEN  AGE    231 

Le  héros,  qui  nous  a  dit,  avec  tant  de  fierté: 

Je  ne  craignois  que  les  dangiers, 

devient,  dans  cette  scène,   une  créalion  comique  inoubliable. 

L'épitaphe  qu'il  diete  sur  le  tombeau,  qu'il  croit  désormais 

ouvert  pour  lui,  épitaphe  plaisante   ainsi   que   sa  confession 

digne   de   Margulte   et   de   Panurge,   forment  une  diversion 

assez  agréable  et  nous   préparent  à  la  scène  finale,  la  plus 

huraaine   de   toutos,   où   s'apercevant   à   qui   il   a  affaire,  il 

reprend  son  courage  et  (àclie  par  ses  cris  héroìques  d'effacer 

le   souvenir   de   sa  làcheté.  Panurge  après  la  tempéte,  Dom 

Abonde  du  Manzoni  après  la  mort  de  Dom  Rodrigue,  agiront 

de  la^  sorte.   L'archer  s'approche  peu  à  peu  de  l'épouvantail 

tombe,  se  tenant  bien  sur  ses  gardes,  mais  lorsqu'il  voit  que 

ce  n'est  autre  chose  qu'un  mannequin,  tire  l'épée,  lui  donne 

de  grands  coups  et  il  le  passerait,  sans  doute,  de  part  à  part 

s'il  ne  croyait  plus  convenable  de  lui  voler  son  habit.  Le  pol- 

tron  avait  été  bien   peint,  il  fallait  insister  de  nouveau  sur 

le  voleur. 

Le  Frane  Archie/r  de  Cherrè  ')  n'est  qu'une  imitation  de 
celui  de  Baignollet,  et  ce  Piomiier  de  Soeurdres,  que  nous 
ne  connaissons  que  de  nom,  devait  avoir  lui  aussi  les  raémes 
moeurs  et  la  méme  physionomie.  L'arcber  de  Baignollet  entre 
en  scène  au  son  du  cor,  celui  de  Gherré  se  fait  annoncer 
par  les  coups  du  tabourin  ;  l'un  et  l'autre  content  leurs 
aventures,  mais  le  héros  de  Gherré  ne  manque  pas  d'une 
certaine  originante  dans  les  détails: 

Je  porty  moy  tout  seuI  le  fays 
Plus  d'ung  heure  (de)  la  bataille; 
J'en  emorchoia  bien,  ne  vous  chaille, 


')  Cfr.  le  XIIP  voi.  de  l'ouvr.  cité  de  M.  Montaiglon. 


282  PIERRE  TOLDO 

Je  croy,  ung  millier  pour  le  moins, 
Et  passèrent  dessoubz  mes  mains, 

Dont  jamais  n'ouys  mot  sonner 

J'en  embrochoys  sept  en  ma  lance 

Gomme  endoilly  en  une  gaulle 

Et  les  vous  portoys  sur  l'espauUe 

Mais  il  faut  que  le  récit  lui-mème  révèle  ce  qu'il  y  a  de 
faux,  dans  toutes  ces  vantardises,  et  l'archer  nous  conte, 
partant,  comment  il  aurait  crevé  un  celi  à  un  paysan,  qui 
avait  osé  Tassa illir,  s'il  ne  s'était  pas  a pergu  d'avoir  affaire  à 
un  borgne.  Il  ajoute  que  ce  paysan  le  serra  de  près  de  sorte  qu'il 
fut  obligé  de  jouer  des  jambes,  mais  à  ce  point  s'apercevant 
que  le  public  pourrait  faire  ses  réserves  sur  sa  valeur,  il  a 
soin  d'ajouter  une  déclaration,  d"un  comique  achevé: 

Il  s'en  fuyt  et  moy  devant. 

Pour  le  reste  il  est  voleur  aussi  bien  que  son  devancier  et 
il  jouit,   encore   mieux   que  lui,  de  la  faveur  des  tètes  cou- 

ronnées. 

G'est  à  cette  famille  qu'appartient,  au  mème  titre  de  fan- 
faron  et  de  larron,  Phlipot,  le  héros  burlesque  de  la  farce 
des  Trois  galants.  Tout  sot  qu'il  est,  aussitót  qu'on  l'habille 
en  aventurier,  il  se  sent  salsi  de  toute  la  dignité  de  son  rang, 
retrousse  sa  raoustache,  met  la  main  à  l'épée  et  menace  de 
mort  un  feint  paysan,  qui  ne  se  hàte  pas  trop  de  lui  apprèter, 
à  ses  dépens,  un  banquet  soraplueux.  Deux  de  ces  galants 
jouent,  à  leur  tour,  le  ròle  de  soldats  et  le  premier  démontre 
qu'il  a  toutes  les  qualités  requises  pour  un  archer  légitime: 

Sus  vilain,  sus,  ales  au  vin 
Et  qu'on  m'aporte  du  meilleur: 
Et  qu'il  ayt  belle  couleur, 
Ou  je  vous  rompray  la  teste. 


ÉrUDES  SUR  LE  THÉATRE  COMIQUE  FRANCAIS  DU  MOYEN  AGE    283 

Phlipot  fait  ensuite  des  déclarations,  toiichant  sa  valeur.  Je 
vais  vaincre  autant  d'ennemis  que  possible,  s"écrie-t-il,  pourvu: 

que  personne  ne  me  bate, 

En  quelque  lieu  où  je  frape, 

et  il  répète,  en  partie  au  moins,  les  récits  glorieux.  de  ses  pré- 
décesseui's.  On  lui  a  dit  que  les  ennemis  portent,  pour  dis- 
tinctif,  une  croix  verte  et  que  les  soldats  de  son  corps  se 
distinguent,  au  contraire,  par  une  croix:  bianche.  Eh  bien! 
ajoute-t-il,  cousez  sur  mes  épaules  les  deux  croix,  ainsi  au 
moment  du  danger,  je  saurai  me  trouver  toujours  avec  des 
gens  de  mon  parti. 

Le  fabliau  avait  déjà  ri  d'autres  héros  de  la  mème  famille,  des 
paysans  sans  courage,  se  donnant  des  airs  de  chevaliers  et  de 
Berangier  au  long  e...  domptant  son  héro'ique  seigneur.  La  nou- 
velle  italienne  s  y  était  arausée  à  son  tour,  et  au  XIV"  siècle, 
Jean  Sercambi  nous  avait  présente  deux  membres  respectables 
de  cette  classe  d'aventuriers,  en  deux  nouvelles:  De  cattivitate 
slipendiarj  et  De  viltaie.  Il  s'agit  de  deux  soldats  de  ven- 
tura, grands  mangeurs  de  macaronis,  dont  celui  qui  est 
mis  le  plus  en  relief  rèpond  au  nom  burlesque  de  Folaga.  Si 
l'on  veut  prèter  foi  à  ce  qu'il  dit,  les  troupes  ennemies  vont 
tuurner  le  dos,  rien  qu'à  le  voir  paraitre.  Malheureusement, 
les  faits  donnent  bien  tòt  un  dementi  à  ses  rodomontades.  A 
la  téte  de  ses  soldats,  il  marche,  après  un  copieux  repas,  qui 
lui  donne,  tout  d'abord,  beaucoup  d'enthousiasme,  mais  qui 
l'oblige,  peu  de  teraps  après,  de  s'écarter  de  ses  camarades. 
Gomme  il  s'est  conche  sur  l'herbe,  il  arrive  qu'un  ràteau  se 
prend  à  ses  habits.  Tout  tremblant  de  peur,  croyant  avoir 
affaire  à  un  de  ses  ennemis,  il  s'écrie  aussitót,  sans  oser 
nième  tourner  la  tète  :  «  Je  me  rends  prisonnier  avec  tous  mes 
soldats  ».  Le  ràteau  de  Folaga  et  l'épouvantail  de  l'archer  of- 
frent  des  points  de  contact,  et  l'aventurier  Tromba,  du  mème 
écrivain,  appartieni,  lui  aussi,  de  plein  droit  à  cette  famille. 


284  PIERRE  TOLDO 

Les  contes  de  Sercambi,  ainsi  que  d'autres  exemples  qu'on 
pourrait  tirer  en  abondance  des  nouvelles  de  la  France  et  de 
l'Italie  —  Sacchetti  lui  aussi  avait  conte  l'aventure  d'Albert 
(nouv.  XIIP)  Pendant  ses  armes  à  une  branche  de  prunier  — 
démontrent  les  rapports  d'inspiration,  pour  les  types  et  pour 
les  sujets  réunissant,  dans  un  but  comraun,  la  nouvelle  et  la 
farce,  bien  qu'il  n"y  alt  en  tout  cela  que  des  rapports  de  genre. 

L'autre  groupe  de  fanfarons  a  lui  aussi  plusieurs  représen- 
tants  sur  la  scène  frangaise.  Voilà  tout  d'abord  raessieurs  de 
Mallepaye  et  de  Baillevant,  héros  d'une  farce,  attribuée,  sans 
preuves  probantes,  à  Villon,  aussi  gueux  que  fiers,  se  pavanant 
dans  leurs  manteaux  troués  et  se  consolant  réciproquement 
des  malheurs,  qui  les  accablent.  Que  le  siècle  est  corrorapu  ! 
que  le  roi  est  loin  de  connaitre  les  meilleurs  gentilshommes 
de  la  France!  Hélas!  leurs  rentes  soni  désormais  «sur  le 
commun  »  et  la  splendeur  de  leurs  arraoiries  s'est  transformée 
en  «  trois  poulx  rampant  en  abois  »  sur  leurs  chemises. 

Les  seigneurs  de  Mallepaye  et  de  Baillevant  sont  suivis  de 
près  par  deux  autres  seigneurs  non  moins  illustres.  Mar- 
chebeau  et  Galop,  dont  une  autre  farce  célèbre  les  mérites, 
la  valeur  dans  les  combats  et  les  entreprises  galantes.  G'est 
là  un  autre  trait  commun  aux  fanfarons  latins,  italiens  et 
frangais  : 

Marchebeau.  Je  suis  fort  comme  un  Ercules. 

Gaio]).  Et  moy  vaillant  comme  un  Achiles. 
Marchebeau.  Humble  aulx  coups. 

Galop.  Apre  à  la  vitaille 

Mais  aulx  femmes 

Marchebeau.  Bien  combaton. 

Malheureusement,  Amour  et  Convoitise  marchent  ensemble 
et  se  moquent  des  seigneurs  de  plate-bou7^se:  «  Amour  sy  est 
quant  argent  dure  ». 


ÉTUDES  SUR  LE  THÈATRE  COMIQUE  FRANgAIS  DU  MOYEN  AGE    285 

Ailleurs,  de  mème  que  dans  le  thèàtre  latin  et  dans  celui 
de  la  Renaissance  italienne,  nous  trouvons  ce  contraste  que 
nous  venons  d'indiquer  entre  le  fanfaron,  se  vantant  de  ses 
exploits  et  le  valet  les  réduisant  à  leur  juste  valeur.  La  farce 
du  Gaudisseur  qui  se  vante  de  ses  faictz  et  d\ing  sot,  qui 
luy  respond  au  contraire,  nous  présente  un  rodomont,  dont 
les  entreprises  héroiques  l'emportent  sur  celles  de  Pyrgopo- 
linices,  de  Thraso  et  de  Gleomachus  du  thèàtre  de  Plaute  et 
de  Térence.  Il  se  présente  sur  la  scène  «  jeune,  gente,  mignon 
et  gai  »,  plus  fier  que  le  Dieu  Mars,  plus  charmant  que 
Gupidon. 

Le  Gaudisseur.  Quant  sur  ma  teste  ay  ma  salade, 
Pour  à  coup  faire  une  passade 
Homme  n'en  crains  dessus  la  terre. 
Le  Sot.  Voire,  pour  battre  ung  malade, 
Quant  il  a  sa  grande  hallebarde, 
Et  pour  cassar  à  coups  ung  voirre 

Le  Gaudisseur.  Quant  je  me  treuve  en  la  guerre, 
Je  tue,  je  jette  par  terre 
Gomme  fait  le  boucher  ung  veau. 
Le  Sot.  Voire,  à  jouster  contro  ung  voirre, 
Puis  se  laisser  cheoir  par  terre. 
Et  s'endormir  comme  un  pourceau. 

D'ailleurs  le  Gaudisseur  ne  s'offense  pas  du  comraentaire 
que  le  sot  fait  à  tous  ses  discours;  il  a  l'air  mème  de  ne 
pas  l'entendre,  s'adressant,  tous  les  deux,  directement  au 
public.  Il  n'en  est  pas  de  mème  du  Gentil  homme  et  de  son 
page,  petit  dialogue  dramatique,  où  lon  entend  un  débat  très 
vif  entre  ces  deux  personnages.  Le  page  se  moque  bien  de 
la  colere  de  son  maitre,  qui  voudrait  lobliger  au  silence,  et 
malgró  ses  menaces,  il  nous  apprend  que  les  ennemis  tués 
par  son  gentilhomme  ne  sont  que  des  insectes,  dont  il  est 
inutile   de   répéter   le   nom.   Il    nous   apprend  aussi  que  les 


286  PIERRE  TOLDO 

nobles  amis,  dont  son  maitre  fait  tant  de  bruit  et  qu'il  vou- 
drait  faire  passer  pour  des  princes,  ont  fini  sur  la  potence  et 
lours  noms,  monsieur  Le  Croc  et  Happe  Gibet,  sufliseni  pour 
nous  faire  comprendre  au  juste  le  rang  qu'ils  occupaient  dans 
la  société.  Le  gentilhomme  a  beau  déclarer  d'avoir  «  porte 
l'oiseau  »  à  la  chasse;  le  faucon  devient  une  poule  volée,  ainsi 
que  son  train  splendide  se  réduit  à  une  «  chemise  de  louage  ». 
Pour  ce  qui  est  de  ses  aventures  galantes,  le  gentilhomme 
prétend  qu'il  n'a  jamais  eu  d'autre  embarras  que  celui  du 
choix;  et  de  mème  que  le  Tniles  de  Piante,  il  se  plaint  de  ce 
qu'il  est  trop  beau  et  trop  aimé.  Malheureusement  le  page 
se  hàte  de  lui  donner  une  legon  de  modestie: 

Il  est  bien  vray  que  je  vous  vis  pretendre 

En  un  soeir  au  cler  de  la  lune 

De  coucher  avec  quelque  une 

Qui  d'une  main  estojt  manquete 

Et  vous  onga  d'une  pouquete 

La  galande  et  revintes  tout  nu. 

Dans  la  farce  de  V Avantureulx  le  défilé  de  ces  types  con- 
tinue. L'Avantureulx  et  Guillot  le  Maire  représentent  deux. 
nuances  de  la  mème  conception  comique,  les  héros  de  jadis^ 
qui  ont  pris  leur  retraite,  sans  que  Tancienne  valeur  ait  pour 
cela  disparu  de  leurs  coeurs. 

Une  querelle  s'engage  entre  ces  bons  camarades  d'armes, 
pour  une  question  d'intérèt  de  leurs  enfants  et  ils  s'emportent 
et  se  menacent  de  loin,  plus  fiers  que  Roland,  défiant  tout 
lo  peuple  de  Mahomet.  Ils  ont  toutefois  soin  de  garder  une 
distance  convenable  et  lorsque  la  necessitò  de  faire  bonneur 
à  leur  nom  les  pousse  l'un  contre  Tautre,  cette  distance  reste 
toujours  assez  grande,  pour  qu'ils  n'aient  à  craindre  quelque 
mésaventure. 


ÈTUDES  SUR  LE  THÉATUE  COMIQL'E  FRANC-US  DU  MOYEN  AGE    287 

L'Aventtireuìx.  A  !  dea,  dea,  ne  me  frape  pas  ! 

Combien  que  rien  je  ne  vous  crains. 

Gxiillot.  Sang  bieu,  se  g'y  bolte  les  mains, 
Je  m'en  raporte  bien  à  toy; 
Ne  t'aproche  pas  pres  de  moy, 
Sy  tu  veulx  que  je  me  deffende. 

L'Aventureulx.  Vault  y  poinct  mieux  que  je  me  rende? 

Guillot.  Y  vault  mieulx  que  nous  apoincton. 
Colin,  les  coups  sont  dangereulx. 

Enfia  l'aventureulx  se  plaint  de  ce  que  Guillot  ne  le  laisse 
pas  assez  reculer  «  pour  prendre  mieux  sa  visée  »;  il  crie 
«  à  mort,  à  mort  »  et  il  ne  bouge  pas  de  sa  place. 

Si,  dans  cette  farce,  les  pères  forment  le  sujet  de  l'admi- 
ration  de  leurs  enfants,  dans  celle  de  Colin  fìlz  de  Thevot 
le  héros  fait  briller  d'un  vif  éclat  le  nom  de  ses  parents  et 
de  ses  aieux.  Thevot  a  envoyé  à  la  guerre  son  enfant  et  il  ne 
se  sent  oas  d'aise  lorsque  celui-ci  fait  retour  à  la  maison  chargé 
de  lauriers  et  traìnant  à  sa  suite  rien  moins  qu'un  prisonnier 
aulhentique.  Ce  prisonnier  parie  un  baragouin  mystérieux,  ce 
qui  ajoute  ancore  un  nouveau  prix  à  la  conquète.  Malheureu- 
sement  la  joie  du  pére  est  troublée  par  les  devoirs  de  sa 
ebarge  de  maire  et  il  doit  écouter  les  plaintes  d'une  pay- 
sanne,  à  qui  un  soldat  inconnu,  sorte  de  gentUastt'e,  vient  de 
voler  deux  fromages  et  de  tuer  une  poule.  Mais  la  paysanne 
a  su  se  défendre.  Elle  a  battu  l'aventurier  et  l'a  obligé  de 
prendre  la  fuite. 

Thevot,  à  ce  discours,  se  sent  salsi  d'un  sens  vague  d'in- 
quiétude.  Le  sang  n'est  pas  de  l'eau  et  les  souvenirs  de  sa 
jeunesse  héroique  ne  le  laissent  pas  entièrement  tranquille, 
sur  les  exploits  de  son  enfant.  Hélas  !  la  vieille  n'a  pas  de  la 
peine  à  reconnaitre  en  Colin  fils  de  Thevot,  le  voleur  de  ses 
fromages,  et   le  maire   doit  se  hàter  d'en  apaiser  la  colere. 


288  PIERRE  TOLDO 

Quelle  honte  pour  sa  maison,   si  l'on  savait,  dans  le  village, 
que  Colin  a  joué  un  tei  rùle  ! 

Mais  les  dèsillusions  de  Thevot  ne  s'arrètenl  pas  là.  Colin 
revient  sans  cheval  et  saus  arraes;  il  les  a  penius 

Pour  fuir  plus  legerement, 

et  le  prisonnier,  lui-mème,  n'est  qu'un  pèlerin,  qui  a  trouvé 
à  son  goùt  de  voyager  aux  frais  du  jeune  homme.  Pour  le 
coup  Thevot  commence  à  se  fàcher,  mais  sons  fils  l'apaise, 
en  lui  déclarant  qu'il  va  épouser  la  Alle  de  Gaultier  Gar- 
guille  et  qu'il  écrira,  en  attendant,  le  récit  de  ses  batailles. 
Le  Resolu,  monologue  de  Roger  de  Collerye,  est  une  autre 
variété  du  mème  genre,  le  galani  qui  fait  trerabler  les  maris 
et  affoler  les  femmes.  On  n'a  qu'à  Técouter  un  moment,  pour 
comprendre  la  véritable  porlée  de  ses  exploits: 

L'autrier  soir,  mon  oeil  guignoit 
Une  mignonne  fort  humaine 
Qui  contve  moi  se  desdaignoit, 
Ou  à  tout  le  moins  se  faignoit, 
D'une  face  assez  mondaine 
Devant  son  huys  je  me  pourmaine 
Soubz  l'espoir  de  parler  à  elle. 
Son  mari  vient,  qui  se  demaine 
Et  me  dit:  Galani,  qui  vous  meine? 
De  ce  quartier  tirez  de  l'elle. 
Pour  garder  l'honneur  de  la  belle 
Je  n'y  feiz  pas  longue  demeure. 

Dans  la  représentation  de  tous  ces  types,  dont  nous  venons 
de  faire  la  connaissauce,  il  y  a  évidemment  un  but  à  la  fois 
plaìsant  et  satirique  et  cette  satire  des  conditions  sociales 
brille  d'un  éclat  bien  plus  vif,  dans  un  autre  genre  de  pro- 
ductions  comiques,  les  vioralUés,  où  les  états  paraissent  sur 
la  scène  et  font  voir  leurs  vices  et  leurs  abus.  Cesi  là  que 


ÈTUDES  SUR  LE  THÉATRE  COMIQUE  FRANCAIS  DU  MOYEN  AGE   289 

nous  voyons  le  Peuple  essuyanl  sa  lessive,  tandis  que  TÉ- 
glise  et  la  Noblesso  raènent  grand  train  et  se  moquent  de 
sa  misere  ;  c'est  là  que  le  Temps  qui  court  représente  un 
bien  tristo  présent,  qui  n'est  pas  pourtant  meilleur  du  passe, 
quoi  qu'en  disent  les  Gens  nouveaux.  Meme  dans  le  do- 
maine  de  la  farce,  on  entend  parfois,  mais  toujours  avec  plus 
de  retenue,  de  ces  critiques  aux  conditions  sociales.  Rappelons 
en  passant  la  farce  des  Bdtards  de  Canio;,  où  l'on  met  en 
scène  les  maux  causés  par  les  droits  d'aìnesse.  Henri  vieni 
d'hériter  de  son  pere  tout  le  patriraoine  de  sa  famille;  il 
donnera,  pour  tout  bien,  à  ses  frères  une  charge  de  chapelain 
et  celle  de  faiseur  d'allumettes.  La  mère  elle  aussi  est  des- 
héritée  complètement: 

La  mère.  Mes  enfans,  c'est  le  coustumyer 

Qui  est  faict  passe  trois  cens  ans, 
Pour  et  afin  que  les  plus  grans 
Vivent  ensemble  sans  discors. 
La  fiUe.  Il  avoyt  bien  le  deable  au  corps 
Qui  ceste  loy  institua. 
A  l'un  tout  le  bien  il  donna, 
Et  les  aultres  n'ont  rien  tretous. 

Tout  cela  est  assez  bien  dit  plusieurs  siècles  avant  la  Revo- 
lution. 

Nous  nous  sommes  arrgtés  longtemps  dans  la  représentation 
comique  des  gens  de  guerre  et  de  la  noblesse;  il  faut  main- 
tenant  reprendre  notre  chemin,  car  d'autres  sujets  et  d'autres 
types  se  présentent  à  notre  vue.  Maisit^e  Mìmin  nous  a  fait 
connaìtre  les  barbouilleurs  de  latin  et  les  pédants;  nous  avons 
vu  dans  la  farce  de  Naudet  et  du  gentilhomrae,  celui-ci  tourné 
en  ridicule,  et  la  ruse  du  raanant  l'emportant  sur  la  puis- 
sance  du  rang.  En  general  la  farce,  aussi  bien  que  le  fabliau, 
n'en  veut  plus  aux  paysans  qu'aux  gentilshommes  ;  devant  le 
rire   les   rangs  disparaissent  et  les  auteurs,  appartenant,  le 


290  PIERRE  TOLUO 

plus  souvent,  aux  classes  inférieures,  jouant  parfois  leurs 
pièces  devant  le  peuple,  n'auraient  su  se  montrer  excessive- 
ment  aristocrates.  La  grossièreté  du  paysan  devient  donc  une 
source  de  plaisanteries,  aussi  bien  que  l'orgueil  du  noble,  sur- 
tout  lorsque  cet  orgueil  n'est  pas  relevé  par  l'éclat  de  la  ri- 
chesse  ou  de  la  valeur.  Quant  aux  gens  d'église,  il  y  a  une 
distinction  à  faire,  entre  le  théàtre  qui  precèda  la  Réforme  et 
celui  qui  la  suivit. 

Le  fabliau  du  moyen  àge,  lout  en  respectant  le  fond  du 
catholicisme,  s  etait  più  à  représenter  Ics  prètres,  les  raoines 
et  les  religieuses,  sous  un  aspect  fort  défavorable.  Le  con- 
traste évident  entre  les  moeurs  réelles  et  celles  que  le  chris- 
tianisme  iraposait  à  ses  ministres,  entre  la  chasteté,  la  pauvreté 
et  l'abnégation  prònées  de  la  chaire,  exallées  dans  les  vies 
des  saints  et  les  vices  inhèrent  à  la  nature  humaine,  pènétrant 
dans  les  cloìtres  et  dans  les  temples,  devenait  une  source 
continuelle  plutót  de  plaisanteries  railleuses  que  d'une  véri- 
table  satire;  si  Fon  se  moquait  des  moeurs  des  gens  d'église, 
e  etait  parce  qu'il  paraissait  étrange  de  les  voir  tomber  dans 
les  péchés  qu'ils  défendaient  aux  autres,  parce  que  leur  habit 
aurait  dù  leur  prescrire  une  conduite  toujours  exemplaire. 

Le  sentiraent  religieux,  si  vif  au  moyen  àge  et  à  l'aube 
de  la  Renaissance,  présentait  donc  un  aspect  parfois  curieux 
et  contradictoire.  Le  dogme  restait  intact  dans  le  coeur  simple 
des  croyants,  mais  le  eulte,  dans  son  exlériorité,  perdait,  à  la 
suite  d'un  contact  trop  immèdiat  avec  le  peuple,  de  sa  gra- 
vite et  de  son  sérieux.  Les  plaisanteries  se  mèlaient,  dans 
les  mystères,  à  ce  que  la  vie  du  Sauveur,  de  ses  disciples  et 
de  ses  saints  offrait  de  plus  pathétique;  on  avait  contraete 
une  familiarité  excessive  avec  la  noire  coborte  de  Sathan 
aussi  bien  qu'avec  les  hótes  du  Paradis,  et  l'on  s'amusait 
avec  une  impiété  inconsciente  au  récit  du  débat  du  paj'san, 
se  moquant  des  apòtres  et  s'installant,  en  tonte  liberté,  auprès 


ÉTUDES  SUR  LE  THÉATRE  COMIQUE  FRANCAIS  DU  MOYEN  AGE    291 

du  tròne  de  Dieu.  La  lutte  à  coups  de  poings  entre  Saint- 
Pierre  et  un  jongleur  n'offrait  de  rnéme  rien  d'impie  pour 
les  imaginations  et  les  consciences  de  celle  epoque.  Il  s'en- 
suivit  que  les  prières,  elles-mèmes,  se  prèlèrent  au  badinage 
et  sans  comprendre  ce  qu'il  y  avait  au  moins  d'irrévérencieux, 
on  parodia  les  serraons,  les  credo,  les  pater,  la  confession, 
la  bible  et  mèrae  le  martyre  des  saints.  Rappelons  les  mo- 
nologues  burlesques  des  saints,  Sainct  Raisìn,  Sainct  Bil- 
loiiart,  Sainct  Faulcet,  Sainct  Beliìi,  Sainct  Hareng,  Sainct 
Ongnon,  Sainct  Jambon,  madame  Saincte  Andouìlle,  Sainct 
Fì^appe-Cul,  Sainct  Velli,  etc,  et  les  sermons  plaisants, 
dont  celui  de  V Endouille,  compose  vers  1520,  peut  servir  de 
modèle. 

La  separa  tion  enlre  les  représentants  de  l'Église  et  l'Église 
«lle-mème  était  dono  dùment  ótablie  et  Pierre  Gringore  pou- 
vait  tourner  en  ridicule  le  pontife  Jules  II  et  ses  cardinaux, 
sans  froisser  par  là  les  consciences  de  ses  auditeurs.  Les 
plaintes  contro  Rome  et  l'avidité  du  clergé  pullulent  dans 
celle  litlérature  et  l'on  pouvait  dire  là-dessus  librement 
son  avis,  sans  s'exposer  aux  peines  de  l'enfer,  vu  que  les 
Sainls-Pòres,  eux-mèmes,  avaient  dévoilé  et  combattu  tant 
d'abus  et  de  corruptions.  Au  XVp  siècle,  lorsque  le  vent 
de  la  Réforme  commenga  à  souffler,  l'àme  du  peuple  y  était 
déjà  préparée  et  sans  des  considérations  politiques  l'autorité 
du  pontife  aurait  été,  en  France  aussi,  renversée  pour  tou- 
jours.  On  sait  quel  róle  le  théàtre  joua  dans  cette  lutte  et 
l'on  connaìt  toutes  les  pièces  depuis  le  Pape  malade  et  les 
Thèologastres  jusqu'au  voyage  de  frère  Fecisti. 

Dans  le  théàtre  comique,  cette  lutte  entre  le  catholicisme 
et  le  protestantismo  ne  peut  ètre  considérée  que  par  incident 
et  seuleraent  en  ce  qu'elle  contieni  d'allusions  aux  nouvelles 
idées.  Pour  les  temps  qui  précèdent  la  Réforme,  l'esprit  domi- 
nani  les  farces  est  toujours  celui  des  fabliaux  et  la  critique  la 


292  PIERRE  TOLDO 

plus  vive  des  ordres  religieux  ne  dépassc  jainais  le  caractère 
de  celle  de  Rutebeuf  et  de  ses  contemporains.  Le  cure,  le  cha- 
pelain,  le  moine,  qui  trompent  la  bonne  foi  de  tout  le  monde 
et  surtout  des  maris,  faisant  porter  en  procession  les  culottes 
qu'ils  ont  oubliées  dans  les  lits  de  leurs  pénitentes,  tous  ces 
satyres  chargés  d'assouvir  la  luxure  du  sexe  et  qu'on  trouve, 
à  tout  moment,  cachés  sous  la  table,  sous  la  buche,  dans  les 
tonneaux  ou  dans  les  poulaillers,  ne  sont  que  les  bons  reli- 
gieux de  Rutebeuf,  de  Jean  de  Gondé,  de  Guillaume  le  Nor- 
mand,  etc,  peints,  sans  doute,  sous  un  fort  mauvais  jour, 
mais  sans  qu'il  y  ait  aucune  idée  de  rébellion  aux  lois  fon- 
damentales  du  eulte.  La  femme  au  prètre  elle-méme  est  ac- 
ceptée,  par  la  société  de  ce  temps,  sans  trop  de  scandale;  les 
chefs  de  l'église  n'avaient  alors  pas  l'air  de  s'en  apercevoir 
et  c'était  là  au  moins  une  sauvegarde  pour  les  maris. 

On  a  exagéré,  à  mon  avis,  le  sens  de  certaines  invectives,. 
qui  n'avaient  pas  alors  la  portée  qu'elles  auraient  certaine- 
ment  de  nos  jours.  La  critique  la  plus  outrée  de  l'église  ne 
dépasse  jamais  celle  de  Dante  et  ne  vise  qu'aux  ministres 
d*une  religion  acceptée  par  tout  le  monde.  S'il  y  a,  dans  les 
fabliaux,  des  prètres  punis  sévèrement,  il  y  en  a  aussi  de 
ceux  qui  triomphent  et  qui  paraissent  mème  assez  airaables. 
D'un  coté  le  Sacrisiain,  Fr^ère  Denise,  le  cure  de  Constant 
Duhamel,  le  prestre  c'on  porte  ou  celui  que  Guillaume  le 
Normand  nous  présente,  dans  son  conte  du  presire  et  cCAlison. 
De  l'autre  les  religieux  triomphants,  le  cordelier  que  ses  hraies 
rendent  célèbre,  le  prètre  du  Fabel  d'Aboul  et  du  fabliau  du 
prestre  et  de  la  Dame  et  mieux  encore  celui  dont  on  parie 
dans  le  conte  de  la  Veuve: 

En  cele  vile,  si  com  sont  estre, 
Estoit  un  vicaire,  un  prestre, 
Que  fud  prodomme  en  sa  manere, 
Ne  fud  ne  glotu  ne  lechere, 


ÉTUDES  SU'R  LE  THÈATRE  COMIQUE  KRANCAIS  DU  MOYEN  AGE    293 

Bien  ama  Deu  et  seinte  Esglise 
E  bieu  sustint  le  sien  servise  '). 

Quant  à  son  clero  «  fiz  de  chivaler  »  il  paraìt  bien  digne 
de  l'amour  d'une  princesse.  S'il  arrive  qu'on  se  raoque  parfois 
des  gens  d'église,  ceux-ci  ont  aussi  leur  revanche,  témoin  ce 
prètre,  qui  se  venge  fort  plaisamment  des  Deus  ribauoo,  qui 
lui  ont  volé  son  cheval. 

Il  en  est  de  mème  du  róle  que  ces  personnages  jouent  dans 
les  farces.  Frère  Philibert  est  un  médecin  très  aimable,  que 
toutes  les  femmes  voudraient  consultar,  et  il  y  en  a  plusieurs, 
appartenant  à  sa  faraille,  qui  jouissent  de  la  faveur  du  beau 
sexe.  Mais  il  est  parfaitement  inutile  de  demander  à  ces  frères 
et  à  ces  prètres  de  maìtriser  leurs  sens.  S'ils  étaient  vertueux, 
on  ne  les  jouerait  pas  sur  la  scène.  Le  mot  de  prètre  et  d'amou- 
reux  deviennent  partant  des  synonymes.  La  farce  des  brus 
est  là  pour  les  peindre,  dans  leur  vulgarité  d'animaux  en  rut: 

Dieu  noiis  a  mys  dessus  la  terre 
Hommes  roides,  forts  et  puissans, 
Et  de  nos  membres  joyssans 
Gomme  aultres  en  verité, 

s'écrie  l'un  d'eux  en  avouant  ses  fautes  et  en  les  excusant  en 
mème  temps.  Mais  l'accusation  ne  se  borne  pas  à  cela  et  il 
y  a  déjà  l'écbo  des  idées  nouvelles. 

V  Hermite.  Quant  nous  sommes  aulx  bonnes  villes, 
Nous  faisons  les  freres  frapars; 
Mais  aulx  champs  droictz  dessus  liepars 
A  poursuyvir  filles  et  femmes. 
L'autre.  Quant  nous  alons  par  les  maisons 
Nous  sommes  pales  ot  deffaictz, 
En  disant  salmes  et  oraisons 
Pour  ceulx  qui  nous  ont  des  biens  faictz, 

')  Montaiglon,  ouvr.  cité,  fabliau  n°  49. 

Studj  di  filologia  romanzn,  IX.  19 


294  PIERRE  TOLDO 

Mais  aulx  cbamps  sommes  contrefaictz, 
Chantant  chansons  vindicatives 
Avecques  paroles  lascives. 

Mais  quelle  est  après  tout  la  moralité  de  cette  pièce?  Le 
trioniphe  de  l'argent,  car  les  moines  repoussés,  tout  d'abord, 
sont  acceplós  ensuite  par  les  filles,  lorsqu'ils  raettent  la  main 
à  la  bourse:  «  qui  a  argent,  il  a  des  brus  ». 

La  mème  passion  pour  ies  plaisirs  sensuels  enflamrae  les 
religieuses  de  ce  théàtre,  dont  la  représentation  est  bien  vive, 
sans  qu'il  y  ait,  toalefois,  d'autre  but  que  celui  de  plaisanter. 
La  farce  composée  avec  beaucoup  de  verve,  sur  les  aventures 
de  soeur  Fesne,  trouve  son  premier  raodèle  italien  dans  une 
des  nouvelles  du  Decameron  (IX,  2),  où  il  est  question  d'une 
abbesse,  qui  se  lève  à  la  hàte  et  sans  lumière  pour  surprendre 
une  religieuse  accusée  de  coucher  avec  son  amoureux.  Mais 
labbesse,  à  son  tour,  ne  dort  pas  seule  et  elle  met  sur  sa  téte, 
dans  la  confusion  du  moment^  au  lieu  des  voiles  de  chasteté, 
les  culottes  d'un  prétre,  ce  qui  n'est  pas  du  tout  la  mème 
chose.  L'abbesse  surprend  donc  la  sceur  avec  son  amoureux  et 
convoque  le  conseil  des  femmes,  pour  punir  la  coupable;  mais 
celle-ci,  qui  élait  tout  d'abord  très  confuse  et  gardait  le  silence, 
ayant  remarqué  l'étrange  coiffe  de  sa  supérieure,  prend  son 
coeur  à  deux  mains  et  répond  tout  à  coup,  au  milieu  de  l'é- 
tonnement  general:  Madame  l'abbesse,  nouez  votre  coifife. 
L'abbesse,  fort  élonnée  d'une  telle  réponse,  lui  adresse  des 
injures,  mais  la  religieuse  répète  tranquillement  sa  demanda; 
les  autres  soeurs  regardent,  l'abbesse  entre  en  soupgon  et  s  a- 
percevant  du  témoin  importun  de  ses  fautes,  cbange  de  langage, 
pardonne  à  l'imputée  et  concède  à  tout  le  monde  de  chàtier 
sa  cbair,  comme  il  bon  lui  semble.  Ce  conte  avait  déjà  forme 
en  France  le  sujet  du  fabliau  de  la  Nonnete,  et  plus  tard 
l'italien  Morlini  et  ensuite  La  Fontaine  devaient  le  répéter  •). 

^)  Cfr.  Bédier,  Lea  fahliaux  eie,  p.  421. 


ÉTUDES  SLR  LE  THÉATRE  COMIQUE  FRANCAIS  DU  MOYEN  AGE    295 

Toutefois  la  source  directe,  qui  est  restèe  inconnue,  appartieni 
à  Rabelais  {Pantagruel,  III,  19),  car  tous  les  détails  y  sont 
reproduits,  y  compris  le  nom  de  la  religieuse  et  celui  du  moine. 

«  Vous  savez  comraent,  à  Brignoles,  quand  la  nonnain  scBur 
Pesine  fut  par  le  jeune  brifant  Roydimet  engrossie,  et  la  gros- 
sesse  cognué,  appellée  par  labbesse  en  chapitre  et  arguée  de 
inceste,  elle  s'excusoit,  alleguant  que  ce  avoit  été  par  vio- 
lence  et  par  la  force  du  frere  Roydimet.  L'abbesse  repliquant 
et  disant:  «  Méchante,  c'ètait  au  dortoir,  pourquoy  ne  criois-tu 
à  la  force?  Nous  toutes  eussions  couru  à  ton  aide  »,  répondit 
qu'elle  n'osoit  crier  au  dortoir,  pource  qu'au  dortoir  y  a  si- 
lence  sempiternel.  «  Mais,  dit  l'abbesse,  méchante  que  tu  es, 
pourquoy  ne  faisois-tu  signe  à  tes  voisines  de  chambre?  » 
«  Je,  répondit  la  Pesine,  leur  faisois  signes  du  cui  tant  que 
pouvois,  mais  personne  ne  me  secourut.  »  «  Mais,  demanda 
l'abbesse,   méchante,   pourquoy  incontlnent  ne  me  le  vins-tu 

dire  et  l'accuser  regulierement?  »  «  Ainsi  eussé-je  fait (si 

le  moine  ne  m'avait  baillé)  en  pénitence  (de  la  confession)  de 
ne  rien  dire.  » 

Les  caquets  des  religieuses  de  la  farce  sur  la  conduite  de 
soeur  Pesne  dévoilent  leurs  vices  doublés  d'hj^pocrisie.  Le 
péché  n'est  rien,  pourvu  qu'il  demeure  secret.  La  fante  de 
soeur  Pesne  est  de  se  trouver  en  condition  de  ne  pouvoir  plus 
cacher  son  état. 

Ave  Maria!  (dit  Fune  de  ces  religieuses) 
Et  Jessus  et  je  l'ay  tant  faict 
Et  a  mon  plaisir  satisfaict 
Sans  estre  grosse. 

Ah!  ce  frère  Redymet  «  Rouge  comme  un  beau  cherubin  » 

«t  ce   frère  Lubin  «  tant  doulx  et   aymable quant   y  s'y 

met  »  méritent  bien  tout  l'amour  du  couvent!  Et  qu'on  a 
tori  de  croire  que  leur  temps  se  passe  dans  les  jeùnes  et 
dans  la  pénitence: 


2i)6  PIERRE  T01.D0 

Ceans  il  habonde 

Autant  de  plaisir  savoureulx 

Gomme  au  monde! 

L'abbesse,  lorsqu'elle  entend  l'état  de  soeur  Fesne,  s'écrie 
dans  son  beau  latin,  aussi  pur  que  ses  mceurs: 

0!  le  grosson  peccatores! 

Tenamus  chapitrum  totus 
Sonnare  clochetas  totas 
Qu'el  veniat. 

Le  'benedicite  est  rerapiacé,  dans  ce  couvent,  par  une  cban- 
sonnette  très  libre  et  l'interrogatoire  de  la  nouvelle  de  Boccace 
est  développé  d'une  manière  plaisante  et  tout  à  fait  rabelai- 
sienne.  Pourquoi  soeur  Fesne  n'a-t-elle  pas  crié  au  secours, 
lorsque  le  frère  la  serra  entre  ses  bras?  Farce  qu'au  dortoir  on 
doit  garder  le  silence.  Pourquoi  ne  fìt-elle  au  moins  quelques 
signes?  Oui,  elle  les  faisait  bien,  mais  de  quelque  chose  qu'il 
ne  faut  pas  nommer.  Pourquoi,  enfin,  n'a-t-elle  conte  ensuite 
ce  qui  s'était  passe?  G'est  que  le  prétre  lui  avait  donne  pour 
pénitence  de  garder  le  silence  là-dessus.  La  conclusion  de  la 
pièce  est  dans  ce  latin  de  cuisine,  dont  l'abbesse  nous  a  déjà 
donne  un  essai. 

La  nouvelle  venait  de  flétrir  de  mépris  le  commerce  des 
reliques,  cause  occasionnelle  du  grand  scbisme  et  l'on  connaìt 
l'aventure  de  ce  frère  Cipolla  du  Decameron  (VI,  10),  qui  faisait 
voir  une  piume  miraculeuse  de  l'ange  Gabriel.  Dans  le  Novellino 
de  Masuccio,  un  moine  montre  aux  croyants  le  manche  du 
couteau  qui  tua  Saint  Pierre  (p.  I,  nouv.  11),  et  dans  les 
comptes  du  monde  adventureux  un  prètre  vend  «  du  foin  de 
la  crescbe  où  nostre  Sauveur  et  redempteur  Jesus  coucha  le 
jour  de  sa  salute  nativité  »  et  un  autre  moine  «  la  gaine  du 
cousteau  de  Sainct  Pierre  et  la  courroye  de  ses  souliers  » 
(IX,  XXXV).   M'  Francois  Torraca,  dans  ses  études  sur  les 


ÉTUDES   SUR   LK   THÈATRE   COMIQUE    FRA.NgAIS   DU   MOYEN    AGE         297 

<c  farse  cavaiole  »  *),  nous  parie  d'une  pièce  ancienne  cora- 
posée  en  l'honneur  d'un  souverain,  où  l'on  énumérait,  d'une 
manière  plaisante,  les  reliques  de  Cava,  savoir  l'habit  d'A.- 
brahara,  une  oreille  de  l'ànesse  de  Balaam,  la  corde  qui  dut 
servir  à  pendre  Judas,  le  char  d'Elie  prophète,  une  plainte 
de  Jérémie  et  un  óternument  de  Jesus  enfant. 

Le  raème  sentiment,  à  une  epoque  où  la  Réforme  faisait  déjà 
entendre  sa  voix,  anime  la  farce  nouvelle  d'un  pardonneur, 
d'un  triacleur  et  d'une  tavernière,  sorte  de  défi  d'ìmpudence, 
entre  un  vendeur  de  fausses  indulgences  et  un  marchand  de 
thériaque.  Le  pardonneur  célèbre  le  mérite  de  certains  saints, 
aux  noms  burlesques,  sainct  Gouillebault,  protecteur  des  femmes 
en  mal  d'enfant  et  saincte  Velue,  qui  redonne  le  pucelage. 

Au  nombre  de  ses  reliques,  il  présente: 


Le  groing 
Du  pourceau  monsieur  sainct  Anthoine, 


la  creste 


Du  coq  qui  chanta  cheuz  Pylate; 
Et  la  moytié  d'une  late 
De  la  grand  arche  de  Noe. 

Il  a,  en  outre,  corame  frère  Cipolla  du  Boccace: 

l'elle 
D'un  des  seraphins  d'emprès  Dieu. 

Le  triacleur  exalte,  à  son  tour,  ses  oignements  merveilleux  : 

Que  j'ai  prins  sur  le  prebstre  Jehan, 
et  l'oeuf  d'un  moine: 

*)  Cfr.  Francesco  Torraca,  Studi  di  storia  letteraria  napoletana,  Li- 
vorno, 1884,  p.  113.  Cfr.  aussi  Benedetto  Croce,  I  teatri  di  Napoli, 
Napoli,  1891,  p.  42.  Voltaire,  lui  aussi,  se  moquera  des  reliques  dans 
sa  Pucelle  d'Orléans,   là   où   il   décrit    l'arsénal    du    Paradis   (II  eh.): 

l'armet  de  Débora,  ...  le  caillou  de  David,  ...  la  machoire  de 
Samson,  le  coutelet  de  la  belle  Judith,  etc.  „. 


298  PIERRE  TOl.DO 

Qui  fut  ponnu  en  Barbarie, 

Qui  est  plain,  quand  la  lune  est  plaine, 

Et  tary  quand  elle  est  tarye. 

Il  possedè,  aussi:  «  de  la  teste  de  Gerberus,  de  la  barbe  de 
Proserpine,  du  pied  de  Hanibal,  un  petit  caillou  des  murs  du 
Paradis,  la  dent  de  Geoffroy,  la  pierre  dont  David  frappa  le 
géant  Goliatb  »  et  enfin  «  du  bois  du  tabourin  de  quoy  David 
joua  devant  Dieu  ».  Les  deux  imposteurs  se  contredisent  et 
luttent  entre  eux.  Le  triacleur  fait  la  remarque  maligne  qua 
la  piume  de  Tange  pourrait  bien  étre  celle  d'une  oie,  mangée 
à  quelque  dìner  et  le  pardonneur,  à  propos  du  tabourin  de 
David,  répartit  à  son  tour: 

Il  a  menti,  par  le  sang  bieu, 
Car  David  jouoit  de  la  harpe. 

Enfin  ils  conviennent,  comme  larrons  en  foire,  qua  c'est 
dans  leur  intérèt  de  se  mettra  d'accord,  car  «  deux  coquins 
ne  vallent  rien  à  un  huys  »  et  a  fin  que  cet  accord  soit  sti- 
pulò, en  pleine  règie,  ils  se  rendent  à  un  cabaret,  boivent, 
mangent,  bavardent  et  laissent,  en  gagà,  pour  prix  de  leur 
écot,  «  le  beguin  d'un  des  innocents  ».  La  tavernière,  femme 
d'un  arracheur  de  dents,  les  avait  traités,  en  bons  camarades 
de  son  mari,  sans  songer  qu'ils  pouvaient  bien  se  moquer 
d'elle  aussi.  Mais  les  filous  partis,  elle  regarde  la  relique  et 
n'a  pas  besoin  des  yeux,  pour  s'apercevoir  qu'au  lieu  du 
beguin,  elle  a  regu  «  des  braies  breneuses  ». 

Dans  cette  sorte  de  satire,  outre  à  l'abus  des  ventes  des 
reliques  et  des  indulgences,  on  vise  évidemment  aux  reliques 
considérées  en  elles-mémes,  se  multipliant  depuis  longtemps, 
dans  tous  les  lieux  sacrés,  d'une  manière  prodigieuse  et 
consistant,  assez  souvent,  en  objets  étranges  ou  ridicules.  Tel 
est  aussi  le  sens  de  l'énumération  des  reliques  de  Cava,  que 
nous  venons  de  citer  et  mème  de  nous  jours  la  littérature  de 


ÉTUDES  SUR    LE   THÉATRE   COMtQUE   FRANCAIS   DU   MOYEN   AGE        299 

colportage  se  plaìt  à  ces  plaisanteries,  où  il  y  a  toujours 
une  arrière-pensée  de  malice  et  de  raillerie  visant  si  non  à 
la  religion  en  elle-raème  tout  au  moins  à  ce  qui  en  constitue 
les  dehors  et  qui  en  forme  le  prodnit  le  plus  lucra tif,  pour 
les  gens  d'église. 


Les  sots  et  les  badins. 

Les  tours,  dont  nous  venons  de  parler,  révèlent  la  lutte  de 
deux  ruses  où  celui  qui  a  le  dessus  doit  se  tenir  sur  ses 
gardes,  de  peur  que  son  ennemi  ne  prenne  sa  re v anche. 
Il  n'en  est  pas  de  mèrae  pour  certaines  pièces,  où  lon  met 
on  scène  de  pauvres  sots,  car,  dans  un  combat  inégal,  la  va- 
leur  et  le  mérite  de  celui  qui  vaine  se  rétrécissent  en  pro- 
portion  de  la  faiblesse  du  vaincu.  Mais  les  sots  de  ce  théàtre 
ont  parfois  une  certaine  malice,  qui  leur  sert  de  défense  et 
alors  on  rit  du  triomphe  du  faible,  triomphe  d'autant  plus 
reraarquable  qu'on  ne  s'y  attendait  point. 

G'est  le  cas  de  la  farce  de  Mahuet  Badin  natif  de  Baignolet, 
«  qui  va  à  Paris  au  marche,  pour  vendre  ses  oeufs  et  son 
lait  et  qui  ne  veut  ly  donner  qu'au  prix  du  marche  ».  La 
sottise  de  Mahuet  est  telle  qu'il  croit  que  le  prix  du  marche 
est  une  personne,  qu'il  rencontrera  aux  halles,  et  comme  un 
escroc  s'est  apergu  de  sa  naiveté,  le  tour  qu'il  lui  joue  est 
facile  à  deviner.  «  Je  suis  le  prix  du  marche  »,  s'écrie  celui-ci 
et  le  badin,  sans  se  faire  prier  et  sans  toucher  pas  mème  un 
liard,  le  rend  maitre  de  tonte  sa  marchandise.  Mais  la  re- 
vanche  ne  se  fait  pas  attendre.  Mahuet  s'enquiert  de  ce  qu'il 
doit  faire  du  pot  à  lait,  maintenant  vide.  «  Tu  peux  le  briser 
sur  la  tète  du  premier  que  tu  rencontreras  »,  lui  répond-on 
et  le  sot,  toujours   en  bonne  foi,   voyant  son  escroc  venir  à 


300  PIERRE  TOLDO 

sa  rencontre,  brise  d'un  seul  coup  le  pot  et  la  lète  du  mal- 
heureux.  Une  bourgeoise,  qui  a  èté  spectatrice  de  tout  ce 
qui  s'est  passe,  applaudii,  en  bonne  connaisseuse  de  ces  ex- 
ploits,  et  donne  le  mot  de  la  pièce  : 

C'est  bien  fait; 
Trompeurs  sont  voluntiers  trompez. 

Le  pauvre  badin  a  toutefois  encore  d'autres  malheurs  à 
essuyer.  Il  s'en  revient  à  sa  maison,  en  grand  danger  d'ètre 
batta,  ainsi  que  Perette  de  La  Fontaine.  Sa  mère,  poussée  à 
bout  par  le  récit  qu'il  lui  fait,  déclare  de  ne  plus  le  recon- 
naìtre  pour  son  fils  et  a  l'air  de  rèver  à  quel  pere  elle 
pourra  en  attribuer  la  responsabilité.  «  J'ai  envo^^é  mon  enfant 
au  marche,  ajoute-t-elle,  il  faut  bien  qu'on  me  l'ait  changé  ». 
Mahuet,  dans  sa  sottise  extrème,  prend  tout  cela  au  sérieux 
et  se  désespère  de  crainte  qu'à  Paris  on  ne  l'ait  effective- 
mente  changé  de  pcrsonne. 

Une  intrigue  à  peu  près  pareille  inspire  l'auteur  de  la  farce 
La  femme  et  le  badin.  La  femme  prie  le  badin,  son  mari,  de 
se  rendre  au  marche,  ce  qu'il  fait  non  sans  opposer  plusieurs 
difficultés.  Il  est  chargé  de  vendre  une  certaine  quantité 
de  pois,  mais  l'attente  l'ennuie  et  le  badin  est  bien  aise  lors- 
qu'un  inconnu,  un  filou,  se  présente  à  lui,  pour  acheter  sa 
marchandise.  «  Je  n'ai  pas  d'argent  sur  moi  —  déclare  l'a- 
cheteur  —  mais  tu  n'as  qu'à  te  rendre  à  Rouen  et  do- 
mander  de 

Zorobabel 
Demourant  desoublz  le  Risei. 

Tout  le  monde  t'indiquera  nia  maison  ».  Le  badin,  qui  se 
fie  aussitót  à  l'inconnu,  lui  livre  sa  marchandise,  mais  il  a 
beau  répéter  à  tout  moment  ce  nom  étrange  de  Zorobabel; 
il  finit  par  l'oublier.  La  femme  fait  à  son  mari  le  mème  ac- 
cueil   que  la  mère  de  Mahuet  avait  fait  à  son  enfant,  et  le 


ÈTUDES   SUn    LE    THÉATRlfi   COMIQUE   FRANCAIS   DU    MOYEN   AGE         301 

pauvre  homme,  sur  le  conseil  de  celle-ci,  se  rend  à  l'église 
Saint-Michel,  pour  prier  le  bon  Dieu  de  lui  rappeler  au  moins 
le  noni  et  l'adresse  de  son  créancier.  Le  mème  sentiment  qui 
a  diete  la  vengeance  inconsciente  du  sot  de  la  farce  de  Mahuet, 
inspire  ici,  au  moins  en  partie,  le  poète.  Le  trorapeur,  qui  prie 
dans  l'église  à  coté  de  notre  badin,  a  la  mauvaise  inspiration 
de  lire,  dans  son  livre,  le  passage  suivant: 

Et  post  transmygracionem, 
Jeconmai  autem  genuyt  Salatyel  ; 
Salatyel  autem  genuyt  Zorobabel. 

Le  badin,  en  entendant  ce  nom,  se  réveille  de  son  en- 
gourdissement,  saisit  le  voisin  par  le  bras;  mais  le  trompeur, 
après  un  moment  d'embarras,  proflte  de  la  sottise  du  badin, 
pour  lui  faire  accroire  de  nouvelles  bourdes.  Il  s'en  délivre 
dono,  il  est  vrai,  mais  non  sans  avoir  passe  un  fort  mauvais 
quart  d'heure  et  dans  la  crainte  qu'on  ne  le  découvre  ensuite. 

Ces  deux  farces  ont  une  origine  bien  populaire.  L'histoire 
d'un  sot  cu  d'une  sotte,  qui  prend  une  indication  quelconque, 
pour  le  nom  d'une  personne  et  qui  lui  livre,  par  conséquent, 
une  certaine  marchandise  confiée  à  ses  soins,  est  très  ré- 
pandue  mème  de  nos  jours.  On  la  retrouve  tout  d'abord  dans 
un  vieux  novelliere  italien,  Giovanni  Sercambi  *),  sous  lo  titre: 
De  malìHa  in  inganno.  Un  mari  dit  à  sa  femme  de  ne  pas 
toucher  à  un  cochon  sale,  qu'il  a  mis  de  coté  pour  mars. 
Un  moine  qui  vient  d'entendre  ce  que  le  mari  ordonne  à  sa 
fcmme,  se  présente  à  celle-ci  et  lui  dit:  «  Je  suis  mars»,  et  la 
pauvre  sotte  lui  donne  aussitót  le  cochon.  Malheureuseraent 
le  mari  revient  sur  ses  pas,  entpnd  le  tour  qu'on  lui  a  joué, 
poursuit  le  religieux  et  le  tue.  La  plaisanterie  tourne  ainsi  à 


*)  Cfr.  édition  Reiiier,  Turin,  Loescher,  1889. 


302  PIERRE  TOLDO 

la  tragèdie,  ce  qui  arri  ve  fort  souvent  dans  les  nouvelles 
italiennes. 

Le  mème  récit  paraìt  en  Fra  noe  dans  le  Moyen  de  par- 
venir  de  Béroalde  de  Verville,  qui  nous  en  offre  deux  ver- 
sions  ').  Dans  la  première  nous  avons  affaire  à  une  cham- 
brìère  à  laquelle  le  maitre  a  recommandé  de  garder  un 
jambon  pour  Pàques.  Elle  le  donne  à  un  intrigant,  qui  dit  de 
s'appeler  corame  ga.  Dans  l'autre  la  ressemblance  avec  la 
seconde  farce  n'est  pas  moins  evidente.  Une  femme  vend  des 
noix  à  un  homme,  qui  déclare  s'appeler  Jean  Tenon.  Lorsque 
le  mari  revient  à  la  maison,  la  femme  lui  expose  ce  qui  s'est 
passe,  et  bien  qu'elle  n  ait  pas  touché  cette  somme,  elle  est 
bien  sùre  de  son  affaire,  car  l'acbeteur  s'appelle...,  s'appelle... 
Mais  le  nom  lui  écbappe.  Le  mari,  dit  le  conte,  tout  fàché  et 
dépit  de  la  sottise  de  sa  femme,  s'écrie:  «Ha!  je  vois  bien 
ce  que  c'est.  J'en  tenons...  »  Elle  qui  entend  ce  mot,  Jean 
Tenon  :  «  Oui,  oui,  mon  ami  —  dit-elle  —  il  est  vrai  ;  c'est 
lui;  il  m'a  dit  qu'il  avait  ce  nom  là  ». 

Dans  les  nouvelles  populaires  frangaises,  réunies  dans  la 
Kruptadia  ^),  il  y  a  aussi  l'aventure  d'un  prètre,  qui  met  de 
coté  du  cochon  pour  Janvier,  Février,  Mars  et  Avril.  Sa  nièce 
le  donne  à  trois  compères  qui  empruntent  ces  noms.  La  mème 
sottise,  mais  sans  qu'il  y  ait  des  intrigants,  inspire  un  conte 
populaire  lorrain,  recueilli  par  M'  Gosquin  ^).  Une  femme 
regoit  l'ordre  de  ne  pas  vendre  sa  marchandise  à  un  bavard. 
Corame  elle  voit  que  tout  le  monde  cause,  exception  faite 
d'un  Saint  de  bois,  elle  lui  livre  son  cabas  et  croit  avoir  fait 
une  affaire  exceliente. 

Le  sot  est  un  personnage  très   cher  au  moyen  àge,  où  la 


')  Édition  Jacob,  1841,  p.  278  et  352. 

2)  Voi.  II,  pag.  8. 

^)  Cfr.  Romania,  1880,  p.  389  sgg. 


ÈTUDES  SUR  LE  THÈATRE  COMIQLE  FRANgAIS  DU  MOYEN  AGE    303 

conception  d'une  soltise  universuUe  forma  une  littérature 
tout  entière,  des  sociétés  nombreuses  et  puissanles  et  donna 
son  nom  à  un  genre  dramatique. 

Nous  laissons  de  coté  les  sotlies,  qui  ont  été  d'ailleurs  le  "^ 
sujet  des  études  diligentes  de  M.  M.  Picot  et  de  JuUeville, 
pour  nous  borner  à  Texamen  d'une  variété  du  sot,  le  badin, 
qui  n'est  pas  toujours  si  niais  qu'il  en  a  l'air.  Le  badin  est 
doué  en  general  d'un  esprit  borné  tei  qu'Arlequin  de  la  co- 
mèdie  de  l'art,  dans  ses  débuts;  mais  de  méme  que  ce  per- 
sonnage,  il  a  aussi  une  certaine  dose  de  malice  et  sa  sottise 
n'est  parfois  qu'un  moyen  dont  il  se  sert  pour  attraper  ceux 
qui  ont  l'air  de  se  moquer  de  lui.  Le  badin,  dans  l'état  de 
doraesticité,  est  un  véritable  fléau,  pour  ceux  qui  le  regoi- 
vent  dans  leurs  maisons.  Il  découvre  les  mystères  galants  de 
d  maitresse  du  logis,  il  vend  son  silence  à  un  prix  élevé  et 
l'argent  ou  les  cadeaux  regus,  il  devient  insolent,  bavard  et 
finit  par  révéler  à  son  maitre  ce  qui  s'est  passe  chez  lui, 
pendant  son  absence.  Son  défaut  principal  est  celui  de  la 
gourmandise  et  tandis  que  l'amant  et  la  belle  se  livrent  au 
désespoir  pour  le  retour  imprévu  du  mari,  le  badin  mange 
tranquillement  le  souper  apprèté  ou  le  vend  au  mari,  dont 
il  se  moque  et  qu'il  exploite,  à  son  tour. 

Une  autre  variété  du  sot  est  celle  du  gargon,  qui  étudie 
pour  entrer  dans  les  ordres.  Les  fautes  qu'il  dit,  dans  un 
latin  de  cuisine  et  ses  quiproquo  devaient  amuser  le  public 
à  une  epoque,  où  la  langue  latine  était  plus  accessible  à 
la  foule  que  de  nos  jours,  et  il  y  a  évidemment,  je  ne  dis 
pas  une  dépendance,  mais  une  relation  assez  intime  enlre 
les  pédants  du  théàtre  et  de  la  littérature  italienne  et  les 
écumeurs  du  latin  des  nouvelles  frangaises  et  de  tou!es  ces 
farces. 

Voyons  d'abord  le  sot  parent  de  ce  Calandrino  de  Boccace, 
■qui  descend   le  long  du   Mugnone  pour  retrouver  la  pierre 


304  PIERRE  TOLDO 

à'eliotropia.  Le  sot  dos  farces  rappelle  le  Pantalon  de  la  co- 
médie  de  l'art  *)  et  la  lignee  de  Graziano,  ainsi  que  ce  messer 
Rovina  de  la  Trinuzia  du  Firenzuola,  qui  se  laisse  persuader 
qu'il  a  quatre  jambes  et  que  la  fiente  apprend  l'art  de  de- 
viner.  Et  ce  sot  est  apparente  de  près  à  d'autres  personnages 
ridicnles  du  théàtre  et  de  la  nouvelle  de  la  Péninsule;  au 
vieux  Alesso  de  X Arzigogolo  du  Grazzini,  à  l'enfant  idiot  dont 
parie  Modini,  «  De  matre  quae  filium  custoditum  reliquit  », 
et  à  tonte  l'engeance  des  pauvres  d'esprit,  qui  avant  tous 
ces  écrivains,  avaient  forme  le  sujet  des  contes  de  Giovanni 
Sercambi  {Be  simplicitate,  De  simplicì  juvano.  De  altro  et 
simplici  mercadante,  etc.)  et  de  ceux  du  Sacchetti  et  du 
Poggio  ^).  Les  fabliaux  pullulent  de  ces  représentations  de  la 
sottise  humaine  ;  le  jeune  homme  de  Jouglet  en  est  le  proto- 
type  ^),  mais  il  se  verge,  sans  le  savoir,  du  tour  que  Jouglet 
le  ménétrier  lui  a  joué.  Dans  le  Prò  iondu,  on  parie  d'un  tei, 
qui  voulait  brùler  la  mer;  ailleurs  les  vilains,  les  prètres  et 
les  bourgeois  donnent  tour  à  tour  des  exemples  de  sottise 
doublée  de  ruse  ;  mais  le  sot,  par  excellence,  cest  toujours  le 


M  Scala,  Scenari,  3,  4,  6,  12,  25,  31,  etc.  Voyez  aussi  ce  qu'en  dit 
M'  D'Ancona  dans  ses  Origini  del  teatro,  p.  445  sgg.,  et  A.  Bartoli, 
Scenari  inediti  della  commedia  dell'arte,  Florence,  1880,  p.  xlix-lx. 

2)  Facéties  LXVII,  C,  CI,  CLIX,  CLXXVIII,  etc. 

^)  Recìieil  Montaiglon,  IV*  voi. 

Voyez  aussi  dans  les  Joyeux  Devia  (nouv.  XLV®),  ce  que  l'on  conte 
"  Du  sieur  de  Rascault  qui  alloit  tirer  du  vin,  et  comment  le  fausset 
lui  eschappa  dedans  la  pinte  „,  ce  qui  rappelle  de  près  deux  contes 
de  Morlini  (2*  et  49°),  et  la  nouvelle  De  simplicitate  de  Sercambi. 
Cfr.  en  outre  les  XXXVIIP  et  XLP  des  Comptes  du  monde  adventureux. 
Dans  le  folklore  italien  la  legende  de  l'idiot  se  reproduit  sans  cesse, 
et  Phnpi  ignudo  (voyez  De  Guiìernatis,  nov.  di  S.  Stefano,  27*)  en  est 
un  exemple  encore  vivant.  L'ignorance  du  juge  d' Aiguesmortes  des 
Devis  (LXVP)  rappelle  aussi  un  conte  du  Poggio  (Fac.  COL)  et  "  maistre 
Bertaud,  à  qui  on  fit  accroire  qu'il  estoit  mort  ,  {Devis,  LXVIIl'')  n'est 
paa  sans  avoir  quelques  rapporta  avec  le  mortuus  loq%iens  du  Florentin. 


ÈTUDKS   SUR    LE   THKATRE   CO.MIQUE    KRANCAIS   DU    MOYEN   AGE         305 

mari,  auquel,  comme  nous  allons  voir  sous  peu,  on  fait  ac- 
croire  les  choses  les  plus  étranges  et  les  plus  absurdes,  savoir 
qu'il  est  mort  ou  qu'il  est  devenu  religieux. 

L'ignorance  des  prètres  ou  de  ceux  qui  aspirent  à  entrer 
dans  les  ordres,  forme  aussi  un  sujet  inépuisable  de  plaisan- 
teries  pour  les  anciens  conteurs.  L'ignorance  des  prélats  est 
bernée,  dans  une  foule  de  dits  et  de  satires  sur  les  élats  ;  en 
Ilalie  le  Poggio  surtout  (XXIII,  GGL,  etc.)  et  ses  imitateurs 
de  tous  les  pays  se  sont  amusés,  dans  ces  peintures  où  il  y 
a  fort  souvent  une  arrière-pensée  satirique.  La  sottise  du 
prètre  de  l'écrjvain  florentin,  qui  ne  savait  si  l'Épiphanie 
était  male  ou  femelle,  a  fait  le  tour  du  monde,  aussi  bien  que 
l'exemple  de  l'ignorance  du  prestre  qui  dit  la  passìon,  tei 
qu'on  le  lit  dans  un  ancien  fabliau.  L'idée  de  la  sottise  est 
dono  déjà  répandue  dans  la  littérature  du  moyen  àge  et  le 
théàtre  comique  de  ce  teraps  ne  fait  que  puiser  à  une  source 
bien  connue. 

La  farce  des  Trois  galants  et  Phlipot  me  parait  assez  spiri- 
tuelle.  Elle  renferme  d'un  coté  la  satire  des  faux  braves,  et  de 
l'autre  la  personnifìcation  de  la  sottise.  Phlipot  cherche  un 
métier,  qui  ne  lui  donne  pas  trop  de  peine  et  sur  le  conseil  des 
galants,  il  se  rend  dans  une  église,  pour  prier  le  bon  Dieu  de 
venir  à  son  secours.  Un  des  galants,  se  servant  d'un  expédient, 
dont  nous  venons  de  voir  plusieurs  exemples  dans  les  nou- 
velles  et  dans  les  farces,  se  cache  tout  près  de  l'autel,  parie 
au  noni  de  la  divinité,  et  promet  au  jeune  homme  qu'il 
pourra  faire  et  savoir  tout  ce  qu'il  voudra  rien  qu'à  le  désirer. 
Phlipot  ne  se  sent  pas  de  joie: 

Je  seray  clerc,  sans  voir  les  lettres, 

s'écrie-t-il,  en  entreprenant  le  pèlerinage  que  le  ciel  lui  or- 
donne.  Les  galants  se  déguisent  en  cordonniers  et  l'invitent 
à  apprendre  leur  métier,  ce  qu'il  fait  sans  le  moindre  effort, 


306  PIERRE  TOLDO 

car  toute  chose  est  prèparée  d'avance.  On  le  persuade  en- 
suite  à  se  faire  soldat  et  nous  l'avons  vu  tout  à  l'heure,  en 
compagnie  des  archers  célèbres,  qui  ne  craignent  rien  ex- 
ceptè  les  dangers. 

Un  autre  gargon  bien  dépourvu  d'esprit  est  ce  Jenin  filz 
de  rien,  qui  se  désespère  à  la  recherche  de  la  paternité,  mais 
qui  se  tranquillise  lorsque  le  devin  lui  assure  qu'il  est  sans 
contredit  le  fils  de  son  pére.  Fernet  qui  va  ài' escolle  ne  lui 
est  pas  inférieur,  sous  aucun  rapport  et  il  a  mème  une  su- 
périoritè  dùment  établie,  dans  sa  connaissance  du  latin  ;  il 
suffit  de  lire  le  début  de  la  farce.  Fernet  commence: 

Per  omnia  secola  seculorum.  Amen. 
Sursum  corda.  Habemus  a  Domine. 
Qu'en  dictes-vous?  Suis-je  cure? 

G'est  le  latin  du  Médecin  malgré  lui. 
Sa  mère  est  toutefois  aux  anges  lorsqu'elle  entend  son  fils 
parler   ce   langage  étrange,  auquel  elle  a  le  bonheur  de  ne 
rien  comprendre. 

Mon  filz  chante  deja  la  messe 

Je  cuyde  que  d'icy  à  Eomme 
Il  n'y  a  ne  beste  ne  gent 
Qui  ayt  si  bel  entendement. 

Tonte  fière  de  ce  trésor,  elle  se  rend,  avec  lui,  chez  lo 
maitre  d'école  et  l'exaraen  qu'il  y  subit  n'est  qu'une  longue 
plaisanterie  fondée  sur  ses  fautes  et  sur  ses  équivoques.  II 
emploie  un  bàton  pour  indiquer  les  lettres,  qu'il  épèle  à 
grand'peine  et  l'explication  que  le  maitre  lui  donne  sur  les 
voyelles  et  sur  les  consonnes  n'est  pas  sans  rappeler  la  scène 
célèbre  du  Bourgeois  geniilhormne. 

A.  propos  de  la  voyelle  a 

Je  le  s9avoye  desjà  bien, 
Quant  je  fuz  batu  de  mon  pere, 
Je  crioye  :  a!  a! 


ÉTUDES   SUR    LE   TIlÈ.VTRE   COMIQUE   FRANCAIS   DU    MOYEN   AGE         307 

Pour  le  ì),  que  le  maitre  lui  répète  plusieurs  fois: 

Je  viens  tout  fin  droict  de  boire: 
Je  ne  puis  boire  si  souvent 

et  la  mère  proteste,  car  elle  craint  qu'on  ne  fasse  un  ivrogne 
<ìe  son  bien-aimé.  C  lui  suggère  l'idée  de  soif,  li  lui  rappelle 
la  ìiache,  h  et  cutu  donnent  lieu  à  des  équivoques  obscènes, 
href  toute  la  farce  se  passe  à  écouter  ce  genre  de  plaisan- 
teries,  d'un  goùt  fort  douteux  et  l'ignorance  de  l'écolier  n'em- 
pèche  pas  au  maitre,  en  vue  d'un  traitement  satisfaisant,  de 
déclai"er  qu'il  va  tirer  de  là  un  abime  de  science. 

Tout  ce  débat  rappelle  de  près  celui  d'une  ancienne  com- 
position  poétique,  la  Sénefìance  de  VA,  B,  C,  publiée  par  Ju- 
binal  *),  et  qui  n'a  aucun  caractère  dramatique: 

Ne  puiz  sana  A  nommer  avoir 

Par  B  commencent  li  bien  fait 


et  l'éditeur  a  soin  de  nous  faire  remarquer  combien,  au 
moyen  àse,  ce  genre  de  facéties  était  en  vogue.  Nous  avons, 
en  effet,  une  pièce  latine  du  XIP  siècle,  en  hexamètres,  sur 
l'A,  B,  C,  avec  le  titre:  Versus  cujusdam  Scothi  de  Abece- 
dario  et  dans  une  note  à  l'édition  citée  on  indique  deux  au- 
tres  compositions,  sur  le  méme  sujet,  savoir  VA,  B,  C  Nostre 
Dame  et  VA,  B,  C  Piente  lotte. 

Fernet  qui  va  à  fècole  pourra  y  retrouver  un  bon  cama- 
rade,  dans  le  héros  d'une  autre  farce  Le  fìlz  et  l'examyna- 
tew\  mais  celui-ci  n'a  pas  le  bonheur  d'avoir  affaire  aujuge 
indulgent  de  son  devancier.  Ce  fils  à  la  fois  sot  et  badin  veut 
entrer  dans  les  ordres,  mais  le  vicaire,  chargé  de  l'exarainer, 
le  renvoie  durement.  Le  gargon  de  la  Farce  de  la  bouteille, 


')  Voyez  le  Nouveaii  recueil  de  contes,  dits,  fàbliaux,  etc,  par  Achille 
JuBiNAL  (pièce  X^j,  et  la  note  à  la  p.  428  du  second  tome. 


308 


PIERRE  TOLDO 


appartieni  lui  aussi  à  la  mème  lignee,  mais  sous  sa  sottise, 
plus  apparente  que  réelle,  lui-mérae  laisse  voir  un  but  plus 
sérieux  que  celui  d'une  plaisanterie.  Le  Voisin  conseille  à  la 
mère  d'en  faire  un  prétre: 

Faisons  en  un  homme  d'eglise 

Je  n'y  trouve  aulire  moyen. 
La  fetnme.  Helas  !  compere  y  ne  sait  rien  ; 

Ce  ne  seroyt  que  vitupere. 
Le  voesin.  0!  ne  vous  chaille,  ma  commere; 

Il  en  est  bien  d'aultres  que  luy 

Qui  ne  sayvent  ny  ta  ny  my. 

Mais  qu'il  sache  son  livre  lyre, 

Et  qu'il  puisse  sa  messe  dire, 

C'est  le  plus  fort  de  la  matyere. 

Le  gargon  remarque,  à  son  tour,  que  pour  devenir  prétre, 
on  peut  se  passer  de  toute  étude.  Il  pourra  nommer  à  sa 
place  un  vicaire: 

Qui  prendra  Je  soin  et  la  cure 
Du  benefice  ou  de  la  cure, 

et  le  Voisin  ajoute  : 

lls  prennent  donc  le  bien  de  Dieu 
Sans  en  faire  droict  quelconques. 

Le  soufflé  de  la  réforme  paraìt  animer  cette  pièce  où  le 
badin  dit  en  riant  de  dures  vérités. 

La  farce  do  Maislre  Mimin  révèle,  chez  son  auteur,  un 
esprit  plus  distingue.  Composée  au  XVP  siècle,  lorsque  les 
pédants  du  théàtre  italien   étaient  déjà  connus  en  France  ^), 


')  Cfr.  mes  études  sur  La  comédie  franraise  de  la  Renaissance  dans 
la  Revue  d'hist.  liti,  de  la  France,  1888,  p.  253  et  passim. 


KTUD£S   SUR   LE   THEATUE   COMIQUE   FRANgAIS   DU   MOYEN   AGE         309 

elle  offre  l'aspect  de  quelque  chose  de   plus  important  qu'un 
siraple  badinage. 

Raulet  a  confié  l'éducation  de  son  fils  Mimin  à  un  pédant 
qui  le  gorge  tellement  de  latin,  qu'il  en  devient  presque  idiot 
et  n'est  plus  à  méme  de  se  faire  comprendre  dans  sa  propre 
langue.  Et  ce  latin,  il  va  sans  dire,  est  celui  des  pédants  et  des 
médecins  des  comédies  que  nous  venons  d'indiquer,  c'est  le  latin 
du  Pedante  de  Belo  (1529),  du  héros  de  la  Calandra  du  Bib- 
biena,   et    des  gais   étudiants  des  Universités  du  moyen  àge. 
Heureusement  pour  iMimin.  tandis  qu'il  était  chez  le  pédant. 
on   l'avait   fiancé   à   une   fille  fort  aimable.  Les  parents  du 
jeune  horame  et  sa  fiancée,  après  une  absence  très  prolongée. 
vont  à  sa  rencontre  pour  conslater  les  progrès  qu'il  vient  de 
faire.  Cette  fiancée,   qui  joue   encore   à    la  poupée,  ce  gros 
gargon  parlant  son  charabia,  avec  une  sorte  de  rage,  la  mère 
qui    est   au    désespoir  et  le  maitre  qui    s'étonne  de  ce  qu'on 
n'admire  pas  assez  son  oeuvre,  tout  cela  est  fort  bien  pensé. 
et  assez  bien  écrit.  Pour  ce  qui  est  du  latin  du  jeune  homme, 
en  voici  un  specimen: 

Mundo  variabilius 
Avantiirosus  hapare 
Bonibus  et  non  gaignare 
Non  durabo  certanibus 
Et  non  emportabilibus  etc. 

Or  C'est  là  précisément  le  défaut  de  la  pièce,  ce  latin  in- 
compréhensible,  qui  amène  sur  la  scène  nécessairement  de 
la  Iroideur.  En  outre,  cette  peinture  de  l'innocence  de  ces 
deux  jeunes  gens  est  gàlee  par  certains  jeux  de  mots  du 
gargon,  indiquant  que  ce  n'est  pas  seulement  le  latin,  qu'il 
vient  d'apprendre  à  l'école  du  pédant. 

Un  souvenir  de  Rabelais  inspire  la  scène,  où  la  mère  con- 
seille  de  mettre  son  enfant  dans  une  cage  et  de  lui  faire  un 
traitement  comme  aux  perroquets,  qu'on  entreprend  de  faire 

SluàJ  di  Jilologta  romanza,  IX.  20 


310  PIKRUE  TOLDO 

parler.  C'est  là  aussi  le  conseil  du  Médecin  malgrè  luì  de 
Molière.  Mais  le  triomphe  de  détruire  les  mauvais  effels  de 
celle  éducalion,  rappelant  de  près  celle  de  VEscolier  limousin 
de  Rabelais,  est  confié  à  la  jeune  Alle.  Celle-ci  se  tire  d'af- 
faire à  merveille  et  il  y  a  beaucoup  de  finesse  dans  la  pelile 
scène,  où  la  jeune  nriaìtresse  apprend  à  Raulet  comraenl  il 
faut  sy  prendre   pour  déclarer  t^on  amour  en   bon  frangais; 

Il  n'est  ouvrage  que  de  femme, 

s'écrie  le  magister,  qui  ne  se  montre  pas  trop  fàché  de  ce 
qu'on  détruit  ainsi  son  oeuvre,  pourvu  qu'on  le  paie. 

Farmi  ces  sots  il  y  en  a  un  qui  mérile  un  souvenir  à  part. 
Cesi  l'avocai  d'une  farce  doni  parie  Louis  Guyon  *),  qui  se 
croit  mori  et  refuse  tonte  nourrituro.  Sa  femme,  ses  parents 
et  les  médecins  soni  au  désespoir;  le  pauvre  homme  hanlé 
par  celle  fixalion,  qui  rappelle  plutòl  la  folie  que  la  sollise, 
va  mourir  toul  de  bon.  Un  de  ses  neveux,  chose  singulière 
pour  les  neveux  de  ce  théàtre,  medile  alors  un  expédient 
très  curieux  pour  le  sauver.  11  se  feint  mori  lui  aussi  et 
mange  et  boit,  lout  en  n'appartenant  plus  à  ce  monde,  car  les 
raorls,  explique-l-il  à  son  onde,  continuent  à  manger  dans 
l'aulre  vie.  L'onde  alors  suit  son  exemple,  et  sa  mélancolie 
disparaìl  peu  à  peu  à  la  sulle  d'une  nourrilure  reconsllluanle. 
C'est  là  le  sujet  de  Y Ilijpocondriaque  de  Rotrou  et  de  la 
Diète  de  Garmontel,  mais  ce  que  l'on  ne  sait  pas  c'est  que  Doni 
l'avait  déjà  développé  en  Italie,  dans  une  de  ses  nouvelles,  celle 
«  di  Girolamo  linaiuolo  fiorentino,  che  morì  due  volle  e  non 
risuscitò  nessuna  »  (n.  VI).  Ce  Jerome  se  croit  mori  comme 
l'avocat  de  la  farce;  deux  de  ses  amis,  voyant  sa  femme  se 


*)  Voyez  Petit  de  Julleville,  Répertoire  cité,  p.  296,  et  L.  Glyon, 
Direrses  lerons,  Lyon,  162.5.  Cette  farce,  dont  le  texte  est  perdu, 
aurait  été  jouée  à  la  présence  de  Charles  IX. 


KTUDES  SUR  LE  THÈATRE  COMIQUE  FRANCAIS  DU  MOYEN  AGE    311 

livrer  au  désespoir,  le  suivent  et  préparent  à  Saint  Laurent,  où 
il  voulait  et  re  enterré,  une  table  surchargée  de  mets.  Deus, 
homraes  masqués  en  morts  s'assiéent  alors  à  cóle  de  Jerome  et 
se  mettent  à  raanger  fort  tranquillement.  «  Que  faites-vouslà? 

—  leur  dit  le  pauvre  sot.  —  Est-ce  que  les  morts  mangent? 

—  Vous  le  voyez  —  répondent  les  deux  compagnons.  — 
Alors  qu'allons  nous  faire?  —  reprend  le  bonhomme.  —  Il 
n'y  a  qu'à  se  rendre  chez  nous  pour  recommencer  notre  vie 
ordinaire.  »  Et  Jerome  suit  leur  exemple. 

Ailleurs,  dans  la  Farce  nouvelle  de  messire  Jehan,  on  a 
affaire  à  une  intrigue  d'une  immoralité  repoussante.  La  mère 
de  Jaquet  alme  à  la  fois  le  cure  et  un  certain  Jehan,  et  ce- 
lui-ci  tàche  de  gagner  la  sympathie  de  l'enfant,  pour  fré- 
queuter  librement  la  maison.  Jaquet,  malgré  sa  sottise,  ex- 
ploite  la  situation.  Il  donne  avis  à  Jehan  que  son  pére  est 
absent  et  qu'il  pourra  visiter  sa  mère  pourvu  qu'il  lui  donne 
un  bon  diner.  Quant  à  l'honneur  de  son  pére,  il  s'en  moque: 

Car  mon  pere  poinct  ne  me  baille 
Du  vin  à  boyre  comme  vous. 

Les  recommandations  afin  qu'il  garde  le  silence  sont  aussi 
réitérées  qu'inutiles,  de  sorte  que  pour  s'en  délivrer,  la  mère 
et  son  amoureux  l'envoient  chez  le  cure,  auquel  il  conte, 
sans  trop  se  faire  prier,  d'un  air  à  la  fois  niais  et  malicieux, 
ce  qui  se  passe  chez  lui.  Jaquet  finit  par  ètre  battu,  mais  sa 
sottise  et  son  bavardage  ne  cessent  point  pour  cela. 

Parfois  le  badin  est  doué  d'une  fantaisie  Irès  vive  et 
enjouée  et  il  appartient  alors  à  la  société  nombreuse  des 
fous,  dont  l'importance,  dans  la  vie  courtisane  de  l'epoque, 
était  devenue  remarquable.  L'esprit  du  Gonnella  italien,  de 
Gaillette,  de  Triboulet  et  de  Polite,  frangais,  tei  que  nous  le 
retrouvons  chez  Sacchetti,  chez  Des  Périers  et  dans  la  lit- 
térature  populaire  de  la  Renaissance,  anime,  par  exemple,  le 


312  PIERRE  TCLDO 

héros  de  la  farce  Les  irois  galants  et  le  badin.  Rabelais  et 
les  vieux  poètes  paraissent  inspirer  celte  pièce,  oìi  la  douce 
philosophie  du  rire  est  prónée  par  tous  les  personnages.  Le 
badin  se  présente  aux  trois  galants,  comme  un  rayon  de 
soleil,  qui  réjouit  leurs  àmes.  Il  commence  par  plaisanter 
sur  les  lettres  de  l'alphabet,  puis  il  conte  ses  rèves  extra- 
ordinaires  et  glorieux.  Dans  son  sommeil  il  est  devenu  roi, 
mais  ainsi  que  La  Fontaine  dit  de  lui-mème,  en  se  réveillant 
il  se  trouve:  «  Gros  Jean  comme  devant.  » 

j'ay  faict  faire  l'assemblee, 

Des  princes  crestiens  que  menoye 
Sur  les  Turcs,  et  le  combatoye; 
Et  quant  me  resveillay  au  matin, 
J'aperceutz  que  j'estoys  Naudin. 

Mais  il  se  conforte  bientòt  de  sa  mésavenlure.  Les  princes 
et  le  pape  sont  exposés  aux  coups,  malgré  leurs  armures  et 
il  alme  mieux  vivre  désarmó  que  de  mourir  arme.  D'ailleurs 
les  grandeurs  de  la  terre  sont  bien  peu  de  chose,  pour  une 
àme  aussi  ardente  que  la  sienne.  Il  voudrait  planer  dans  les 
espaces  de  l'air  et  devenir  un  Dieu  mailrisant  le  Paradis. 
Cette  fantaisie  s'empare  bientòt  de  son  esprit  et  le  voilà  trans- 
forme  en  Dieu  tout-puissant.  Il  envoie  aussilòt  à  l'enfer  les 
gens  de  guerre  et  les  sergents  et  il  ouvre  les  portes  de  sa 
maison  divine  aux  ménétriers,  aux  francs  buveurs  et  à  tous 
ceux  qui  représentent  la  paix  et  la  joie.  Un  des  galants,  doué 
d'un  esprit  démocratique,  lui  demande  ce  qu'il  va  faire  des 
pauvres  laboureurs,  toujours  en  butte  à  la  misere  et  aux  pil- 
lages,  mais  le  badin  ne  se  mentre  pas  trop  généreux,  à  leur 
égard : 

Je  les  metroys  en  purgatoyre, 

Pour  parfaire  leur  penitence. 
Il  exerce  de  méme  sa  rigueur  contrelesboulangers,  vendant 
des  pains  trop  petits,   aussi   bien  que  contre  les  hótes  «  qui 


ÉTUDES   SUR    LE   THÈATRE    COMIQUE   FRANg.US   DU    MOYEN    AGE         313 

meslent  le  vin  ».  Daus   son   paradis   on    doit  vivre  dans  une 
gogaille  éternelle: 

Jambons,  bonne  poules,  bouilys; 
Et  aux  vendredys,  samedys, 
De  bons  pouessons  par  adventure. 
Et  puis: 

Becaces,  faisans,  lapereaulx 

Je  feroys  que  les  rivieres, 
Sans  en  mentir  poulce  ny  aune, 
Seroyent  du  vin  clairet  de  byaune, 
Et  le  reste  de  vin  francoys. 

Pouf  ce  qui  est  des  ferames,  il  leur  permet  rentrée  dans 
son  royaume,  pourvu  qu  elles  ne  dépassent  pas  le^  quinze 
ans;  il  pense  niéme  de  les  rendre  muettes;  c'est  là  la  manière 
la  plus  siìre  pour  que  son  paradis  ne  soit  point  troubló.  Tout 
le  monde  enfìn  jouira  d'une  jeunesse  éternelle  et  comme  dans 
l'ile  de  Rabelais,  les  buissons  se  chargeront  d'babits  et  de 
joyaux  et  Garéme  perdra  pour  toujours  son  empire.  M"^  Four- 
nier,  dans  ses  notes  •),  n'a  pas  oublié  de  citer  quelques  des- 
criptions  de  l'epoque  de  ce  fameux  pays  de  cocagne,  célèbre 
jadis  dans  un  fabliau  ^)  : 

Li  paì's  a  à  nom  Coquaigne, 

Qui  plus  i  dort,  plus  i  guaigne 

Six  semaines  a  en  un  mois 
Et  quatre  Pasques  a  en  Fan. 

L'enfer  et  le  paradis  sont  des  lieux  que  l'imagination  des 
poètes  du  moyen  àge  visite  très  librement.  Outre  la  Voie 
de  Paradis  de  Rutebeuf  et  la  conquéte  du  paradis  faite  par 


^)  Recueil,  p.  449. 

*)  Recueil  Barhazan,  IV^  voi. 


314  PIERRE  TOLDO 

un  paysan  rusé,  on  lit  le  Songe  d'enfer,  le  Salut  cfenfer,  la 
Court  de  Paradis  et  toutes  les  descriptions  divines  des  Contes 
dèvois.  On  connait  VAventure  de  Saint  Pierre  etdujongleur, 
la  bonté  moqueuse  de  Saint  Martin,  les  doux  réves  de  la  Fon- 
taine  de  Jouvence;  l'homme  n'a  jamais  été  si  proche  du  ciel 
qu'à  cette  epoque  et  il  n'a  jamais  rèvé,  corame  dans  cesjours 
de  fantaisie  naive  et  de  croyancé  aveugle,  un  monde  si  mer- 
veilleux  et  si  féerique. 

Lorsque  le  badin  a  quitte  son  aspect  de  sot,  il  devient  un 
bon  compagnon  enjoué,  aimant  le  plaisir  et  les  tours  parfois 
*^  fripons.  Le  héros  de  la  Farce  du  raporteur  est  un  dévancier 
du  Frèlon  de  Voltaire  ou  du  Don  Marzio  de  Goldoni.  Pour 
tuer  son  temps,  il  va  trouver  plusieurs  personnes  et  rapporte, 
coup  sur  coup,  un  tas  de  raédisances  de  son  invention,  qui 
amènent  nécessairement  des  querelles.  Le  rapporteur  se  frotte 
les  mains,  se  pàme  de  joie  ;  il  se  donne  l'air  de  vouloir  inter- 
venir, pour  apaiser  la  querelle,  mais  en  effet,  il  soufflé  dans 
le  feu  et  il  ne  se  sent  pas  d'aise  lorsqu'il  réussit  à  faire  venir 
lout  le  monde  aux  mains.  Malheureusement  pour  lui,  aux 
coups  suivent  les  explications,  on  comprend,  sans  trop  de 
peine,  qui  est  la  cause  de  toute  cette  bagarre  et  alors  la  colere 
de  tous  ces  gens  se  renverse  sur  son  pauvre  dos.  Tout  cela 
n'est  pas  mal  imaginé.  La  colere  des  commères,  la  joie  maligne 
du  badin  et  le  contraste  entre  cette  joie  et  la  punition  imme- 
diate, révèlent  une  certaine  connaissance  de  la  vie  des  classes 
populaires  et  du  mouvement  des  passions. 

Dans  la  Farce  nouvelle  des  cris  de  Paris,  nous  voyons  le 
sot  se  moquer  de  deux  galants,  en  faisant  tomber  à  propos 
certains  cris,  qui  complètent  et  interrompent  le  discours  des 
ìnterlocuteurs.  «  Si  un  mari  —  demande  un  des  galants 
à  l'autre  —  a  le  malbeur  d'avoir  affaire  à  une  femme  aca- 
riàtre,  que  doit-il  faire?»  —  «Busche!  busche!»  s'écrie  le 
badin. 


ÉTUDES    SUR    LE    THÈATRE   COMIQUE   FRAN'CAIS   DU   MOYEN    AGE         315 

Si  le  mary  est  sans  cervelle 
Et  la  femme  toute  enragée, 
Que  sera- ce? 
Le  sot.  Bourrée  sèche,  bourrée! 

Et  si  l'on  a  des  enfants? 

Le  sot.  Aportez  le  pot  au  laict. 

lei  encore  une  vieille  composition  poétique  se  présente  à 
notre  souvenir.  G'est  le  dit  des  Crieries  de  Paris,  où  l'on  re- 
trouve  méme  le  mot  «  busche,  busche  »  M,  mais  sans  l'appli- 
cation plaisante  qu'en  fait  le  sot  de  la  farce. 


Les  valets  et  les  charlatans. 

Ils  méritent  bien  un  rang  à  part.  Rien  de  plus  commun,  en 
effet,  dans  ce  théàtre,  que  les  charlatans  débitant  leurs  dro- 
gues  merveilleuses,  ou  les  valets  des  deux  sexes  offrant  au 
public  leurs  services  de  toute  sorte  et  leurs  connaissances 
sans  bornes.  Maitre  Aliborwn,  qui  de  ioui  se  mèle,  peut  étre 
considerò  corame  le  chef  d'une  nombreuse  famille.  Le  Watelet 
de  tous  mestiers,  maitre  Karahrelin,  le  Varlet  à  louer,  le 
Clero  de  taverne,  la  Fille  batelière  et  la  Charribrière  à  tout 
(aire  exaltent  les  mémes  merites  d'un  air  à  la  fois  fripon  et 
enjoué.  M'  Picot  ')  rappelle  à  ce  propos  que  le  specimen  le 
plus  ancien  de  ce  genre  est  une  petite  pièce  provencale, 
n'ayant   pas   un   caractère  dramatique,  due   à   la  piume  de 


')  Cfr.  Fabliaux,  contes,  etc,  édit.  Barbazan,  1808,  II*  voi. 
^)  Voyez  le  Reciteil  de  farces  frang.  etc,  publiées  par  MM.  E.  Picot 
et  Ch.  Nyrop,  Paris,  1888  (note  au  monologue  de  maitre  Hambrelin). 


316  PIERRE  TOLDO 

Ilaimon  d'A.vignon  *)•  Un  liomme  y  énumère  tous  les  méliers 
qu'il  sait  faire  et  la  famille  de  maitre  Aliborum  fait  elle 
aussi  plusieurs  énumérations  de  ce  genre. 

En  plein  raoyen  àge,  Ratebeuf  amusait  dèjà  son  public  par 
le  ditz  de  VErberie,  où  il  est  question  —  sans  aucun  caractère 
dramatique  —  d'un  charlatan,  qui  sait  guérir  tous  les  maux. 
Il  n'y  a  qu'un  pas,  comme  on  l'a  fort  bien  remarqué,  de  ce 
charlatan  au  valet  qui  sait  lout  faire  du  thèàtre  et  ce  mèrae 
type  de  charlatan  paraìt  encore  au  XIV"=  siècle,  dans  une 
ballade  d'Eustache  Deschamps.  Enfin  mème  de  nos  jours, 
dans  les  comédies  populaires,  on  entend  encore  de  ces  pa- 
rades  de  professions  et  de  mérites  singuliers. 

Ix  ditz  de  maistre  Aliborum  n'étant  pas  destine  à  la  scène, 
on  peut  dire  que  ce  genre  dramatique  commence  par  le  Wa- 
telet  de  tous  mesiiers,  suivi  par  les  pièces  citées,  maitre  Ham- 
hrelin,  le  Varlet  à  louer  de  Christophe  de  Bordeaux  et  la 
Chambrière  du  mème  auteur  ^). 

Maitre  Aliborum  a  bien  la  conscience  de  sa  haute  valeur: 

Je  m'esbahis  en  moy  très  grandement 
Du  grant  engin  et  grant  entendement, 
Du  grant  S9avoir,  fantasie  et  memoire 
Qui  sont  en  moy. 

11  est  en  effet,  au  moins  si  l'on  veut  ajouter  foi  à  ses  van- 
tardises,  médecin,  astrologue,  théologue,  peintre,  alchimiste, 
voyageur,  etc,  et  les  professions  les  plus  nobles  ne  lui  em- 
pèchent  point  de  s'y  connaìtre  aussi  en  toute  sorte  de  métiers. 
Malheureusement  il  sait  faire  trop  de  choses  et  cette  sorte 
d'encyclopédie  ambulante  a  bien  l'air  de  mourir  de  faim.  Le 
Varlet  de  Christophe  de  Bordeaux,  ainsi  que  Maistre  Ham- 
brelin  son  aieul,  est  à  la  recherche  d'un  maitre  qui  sache  ap- 

*)  Cfr.  Bartsch,  Chrestomathie  prov.,  3®  édit.,  p.  307. 
^)  Voyez,  pour  toutes  ces  pièces,  le  Recueil  Montaiglon  cité,  I,  33-41; 
I,  77-88;  XI,  46  sqq.;  XIII,  154  sqq.,  etc. 


ÉTUDES  SUR    LE   THÈATRE   COMIQUE   FRANCAIS  DU   MOYEN   AGE        317 

précier  à  leur  juste  valeur  ses  hauts  mérites.  Mais  où  trouver 

un  maìfre,  s'écrierait  Boanraarchais,  poiir  de  tels  valets? 

Maistre  Hambrelin   arrive  dans   la  ville,  en  fort  mauvais 

èqui page: 

Sur  une  mulle  a  beaulx  piedz  nus, 

et  cependant  il  sail: 

Forger  monnoye  en  bonne  foy; 
plaider,  alleguer  loy, 

et  il  Jone  des  farces  «  sans  rolles  »,  arrache  les  dents,  saigne, 
se  connaìt  en  galanteries,  parie  plusieurs  langues,  chante  la 
messe,  décore  les  églises,  jpue  de  plusieurs  instruments  et  il 
est  à  méme  aussi  de: 

Bruller  voleurs,  pendre  larrons, 
Et  au  besoing  faire  la  corde, 

ce  qui  ne  l'empèche  pas  de  loger 

au  Plat  d'argent 
Où  se  tient  son  train  et  sa  court 
Avec  le  seigneur  d'argent  court; 

hòtellerie  et  seigneur  que  Gringore  nous  fait  mieux  connaìtre 
dans  sa  sottie  célèbre  contro  Jules  IL 

La  Chambrière  n'est  pas  moins  adrairable  que  notre  Ham- 
brelin. Elle  se  déclare  prete  à  tout  faire  et  on  n'a  pas  de  la 
peine  à  le  croire.  Christophe  de  Bordeaux  n'a  eu  qu'à  rem- 
placer,  en  elle,  les  mètiers  de  l'homme  par  ceux  de  la  femme 
bien  plus  variés,  surtout  dans  certaines  matières.  Il  s'ensuit 
que  la  chambrière  sait  filer,  coudre,  couper  des  habits, 
broder,  empeser,  godronner,  laver,  etc,  mais  elle  sait  aussi 
composer  des  vers  «  mieux  encore  que  Ronsard  »,  aider  sa 
maitresse  dans  ses  couches,  et  la  reraplacer  en  tout  et  par- 
tout  si  cela  est  nécessaire,  pour  la  tranquillile  de  son  ménage. 
Elle  excelle  surtout  dans  les  secrets  de  la  toilette,  apprète 
des  pommades  et  des  poudres,  qui  redonnent  la  jeunesse  et 
elle  s'y  connaìt  aussi  à  : 


318 


PIERRE  TOLDO 


conjurer  les  esprits 
Qui  courent  de  nuict  par  la  rue. 

Il  n'est  pas  difficile  de  comprendre  de  qufds  esprits  il  est 
question. 

Le  théàtre  nous  offre  aussi  un  tableau  tròs  vif  des  moeursdes 
chambrières,  dans  le  monologue  de  la  Chamhrière  despourvue 
du  mal  d'amour,  de  mème  que  dans  Le  debat  de  la  nourrisse 
et  de  la  chamberière  et  dans  la  farce  des  Chamlìerières,  qui 
vont  à  la  messe  de  cinq  heures  pour  avoir  de  Veau  leniste. 
La  première,  dont  le  Sermon  joyeux  de  la  fille  esgarèe  n'est 
qu'une  variante,  aspire  à  la  vie  libre  et  se  déclare  tonte  disposée 
à  faire  bon  marche  de  son  honneur.  La  nourrice  et  la  cham- 
brière  s'injurient  à  leur  tour  de  la  manière  la  plus  piate,  au 
grand  plaisir  d'un  certain  Johannes,  qui  les  pousse  à  se  donner 
des  coups.  Pour  ce  qui  est  des  bonnes  qui  vont  à  la  messe,  elles 
s'amusent  à  conler  les  affaires  des  familles,  oìi  elles  vivent,  les 
amours  de  leurs  dam.es,  l'avarice  des  mattres  et  écoutent  aux 
portes  pour  savoir  tout  ce  qui  se  passe.  Que  leur  dévotion  ne 
nous  trompe  point!  Leurs  visites  aux  différentes  églises  soni 
en  rapport  direct  avec  les  moeurs  des  moines  et  des  prètres 
qui  les  desservent  et  leur  bavardage  roule  particulièrement 
sur  le  plaisir  et  sur  l'argent  qu'elles  peuvent  tirer  des  gens 
d'église. 

Mais  avant  de  paraìtre  au  théàtre  ou  au  moins  à  la  mème 
epoque,  cette  sorte  de  plaisanteries  avait  déjà  regu  un  déve- 
loppement  littéraire.  En  effet,  dans  les  compositions  de  ce 
temps,  n'ayant  pas  un  caractère  dramatiquc,  l'apologie  plus 
ou  moins  railleuse  des  bonnes  est  à  l'ordre  du  jour.  Rap- 
pelons,  toujours  d'après  le  recueil  Montaiglon  (Il  voi.)  «  L'a- 
pologie des  chamberières  qui  ont  perdu  leur  mariage  à  la 
blanque  »,  «  L'heur  et  guain  d'une  chambrière  qui  a  mis  à  la 
blanque  pour  soy  raarier,  etc.  »  et  «  Le  banquet  des  cham- 
brières fait  aux  estuves  ». 


ÉTCDES  SUR  LE  THEATRE  COMIQUE  KRANCVIS  DU  MOYRN  AGE    319 

La  Fille  basteliere^)  «  monologue  nouveau  et  fort  recroatif  » 
n'est  qu'une  parade,  où  la  jeune  fille,  qui  a  parcouru  bien 
des  pays,  au  service  d'un  bateleur  qu'elle  oblige,  «  en  toute 
bornie  affaire  »,  nous  apprend  comment  elle  sait  à  merveille 
les  secrets  d'amour  et  l'art  de  peler  «  les  bonnes  gens  de 
ces  rillages  ».  Elle  connaìt  mieux  encore  que  la  chamhrière, 
la  composition  des  breuvages  merveilleux  et  des  onguents, 
guérissant  toute  sorte  de  maux.  A  son  discours  elle  unit 
l'action;  monte  sur  un  escabeau  ,  fait  danser  un  chien  et 
vend  à  tout  venant  ses  marcbandises  niiraculeuses.  Gette 
batelière  appartient  donc  à  la  grande  famille  des  farceurs  du 
Pont-Neuf  et  est  apparentée  de  près  à  Tabarin  et  au  Baron  de 
Grattelard  (Descombes),  cbarlatan  de  la  place  Dauphine. 

Le  bateleur  joue,  lui  aussi,  un  róle  dans  les  farces  propre- 
ment  dites.  Celle  du  Bateleur,  son  varlet,  Binete  et  deiix 
femmes,  raet  en  jeu  une  famille  de  charlatans  et  sert  de  pré- 
texte  à  une  longue  énumération  des  sobriquets  de  certains 
acteurs.  Le  maitre  et  le  valet  débitent  leurs  ròles ,  avec 
beaucoup  d'aisance,  et  se  consultent  et  s'injurient,  pour  ex- 
citer  les  rires  gros  du  public.  Le  valet  se  plaint  surtout  de  son 
grand  appétit  que  le  bateleur  a  le  tort  de  ne  pas  assouvir 
et  la  femme  du  maitre  ajoute  sa  note  libertine.  Les  vers  ne 
sufflsent  pas  d'ailleurs,  pour  faire  accourir  les  chalands.  On 
chante,  on  sonno  et  le  valet  fait  probablement  des  tours  d'a- 
dresse.  Au  moins  est-on  porte  à  le  croire  en  lisant  ces  deux 
vers  du  bateleur,  adressés  à  son  camarade: 

Or  sus,  faictes  un  sault,  paillart, 
Pour  l'amour  des  clames,  hault  sus. 

La  gaieté  de  cette  parade  est  très  vive;  mais  les  charlatans 
font,  malgré  leurs  efforls,  de  fort  mauvaises  affaires  et  il  s'en 
plaignent  aux  femmes. 

')  Recneil  Lerotix  de  Lincy  etc,  V  voi. 


320  PIERRE  TOI.DO 

Vous  ne  voules  rien  acheter 
Vous  estes  asses  curieuses 
De  voir  inventions  ioyeuaes. 
Mais  quant  vient  a  faire  payement 
Rien  ne  voules  tirer,  vrayment. 

Rien  de  plus  commiin  que  ces  scènes  de  marche  et  de  tapage. 
11  sufflt  de  rappeler  le  Marchant  de  po7nmes  qui  est  sourd  et 
qu'on  nous  présente  entouré  de  femmes,  criant  à  tue-tète  et 
venant  mème  aux  raains.  Et  les  valets,  les  sots,  les  badins,  les 
batelenrs  se  promènent  au  milieu  de  la  fonie  épiant  Toccasion 
favorable  pour  jouer  des  tours  de  passe-passe. 

Que  l'on  prenne  donc  garde  à  tous  ces  valets,  à  la  cons- 
cience  facile  !  Au  XIIP  siècle,  on  rencontre  déjà  le  GarQon 
de  Vaveugle  *),  nn  fort  mauvais  sujet,  qui  se  moque  de  l'in- 
firmité  de  son  maitre  et  s'amuse  à  le  frapper,  de  mème  que 
Scapin  de  Molière,  ayant  l'air  de  le  protéger  contre  des  en- 
nemis  invisibles.  Ses  mains  ne  sont  pas  moins  habiles  à  cogner 
qu'à  voler  et  l'aveugle  aura  toutes  les  peìnes  du  monde  à  se 
délivrer  de  cet  ennemi  domestique.  Dans  une  autre  pièce  de 
beaucoup  postérieure.  Le  Sourd,  son  Varlet  et  VYverongne, 
le  maitre  aveugle  est  remplacé  par  un  maitre  sourd,  mais  le 
valet  demeure  toujours  le  mème.  11  injurie  le  malheureux 
qu'il  sert,  bien  qu'il  l'aide  à  battre  à  piate-couture  un  ivrogne, 
qui  les  ennuie.  La  plaisanterie  de  cette  pièce  consiste  surtout 
dans  les  équivoques  causés  par  le  défaut  du  maitre,  qui,  ne 
comprenant  pas  bien  ce  que  son  valet  lui  dit,  prend  cerveau 
pour  veau  et  se  fàche  sans  raison  et  à  tout  moment. 

Rappelons  encore  le  valet  de  la  farce  le  Relraict  et  Richard 
le  pelé,  qui  fait  enrager  son  Mais  tre  Mùnin  le  goutteux.  Le 
premier  est  un  malin,  exploitant  les  amours  de  sa  maitresse 
et  vendant   au   mari  le  souper  payé  déjà   par  l'amoureux; 

'j  Cfr.  Jahì-buch  fiir  roinan.  Literatur,  1865,  VI,  165-72,  article  de 
M.  Paul  Meyer. 


ÉTUDES  SUB  LE  THÉ.VTRE  COMIQL'E  FRANCAIS  DU  MOYEN  AGE    321 

l'autre  s'amuse  à  lire  les  chroniques  gar^gantuines  au  lieu 
de  soigner  le  pauvre  inalade  et  corame  il  est  sourd,  il  comract 
des  quiproquo,  qui  causent  le  désespoir  de  Mimin. 

Une  menlion  à  pari  niéritent  les  valets  niais,  dont  le  nombre 
est,  comme  nous  venons  de  le  dire,  assez  remarquable.  Le 
fabliau  s'était  déjà  più  à  la  représentation  du  valet  sol  et  pa- 
resseux;  il  sufBt  de  rappeler  celui  De  Maimon  le  pereceus 
et  pour  ce  qui  est  de  la  nouvelle  nous  savons  que  les  sols  y 
jouentbien  souvent  un  ròle  remarquable.  Sercambi,  dans  son 
conte  De  sìmplicitate  et  Modini,  dans  celui  De  maire  quae 
fiUwìn  cusioditwn  reliquit,  nous  en  olTrent  maints  exemples, 
que  nous  avons  déjà  examinés,  dans  le  chapitre  précédent. 

La  femme  de  la  Farce  nouvelle,  où  il  y  a  pour  person- 
nages  le  mari/,  la  femme,  le  badin  qui  se  loue  et  l'amou- 
reux,  doit  se  repentir  amèrement  d'avoir  prie  son  seigneur 
de  lui  louer  un  tei  valet.  Gelui-ci  passe  dans  la  rue,  justean 
moment  où  la  femme  s'en  prend  à  son  mari  de  ce  qu'il  ne 
lui  donne  aucun  aide,  dans  son  ménage,  et  le  badin  crie. 
comme  ses  prédécesseurs,  de  tonte  la  force  de  ses  poumons: 

Varlet  à  louer!  Varlet  à  louer! 

Varlet,  de  par  tous  les  diables,  à  louer  ! 

La  sottise  de  ce  lourdaud  est  doublée  de  malice  et  il  tàcbe, 
tout  de  suite,  d'exploiter  la  situation,  qu'il  n'a  pas  grand'peine 
à  deviner.  Il  coramence  par  faire  sonner  haut  ses  raérites  et 
il  prétend  qu'on  lui  donne  la  clef  de  la  cave  et  «  du  celier, 
du  lard,  du  pain  et  de  l'argent  ».  L'amoureux,  qui  profile  de 
l'absence  du  mari,  pour  rendre  visite  à  sa  belle,  se  trouve 
sous  la  surveillance  maligne  et  intéressée  de  cet  intrus,  in- 
lerrompant  les  doux  entretiens  et  menagant  de  révéler  tonte 
l'intrigue  à  son  maitre,  si  l'on  ne  paie  pas  son  silence  par  des 
préscnts,  qu'il  exige  sur  l'instant.  Et  les  présents  n'ont  pas 
mème  la  force  de  fermer  sa  bouche.  Le  mari  rentré,  il  lui 
conte  ce  qui  s'est  passe  à  la  maison  pendant  qu'il  élait  absent, 


322  PIKRRB  TOLDO 

de  sorte  quo  le  mari  fait  pleuvoir  des  coups  de  bàlon  sur  le 
dos  de  la  malheureuse. 

On  lil  dans  une  autre  farce,  celle  de  Jenmot,  \esquiproquo 
d'un  valet,  qui  veut  mettre  la  selle  et  les  brides  à  sa  mai- 
tresse, ayant  été  chargé  de  la  raener  à  la  messe,  farce  gros- 
sière et  sans  aucun  Irait  d'esprit  *).  lei  c'est  le  mari,  qui 
veut  louer  le  valet  pour  passer  sa  vie  plus  à  son  aise  et  il 
n'a  qu'à  se  louer  des  promesses  de  Jeninot,  qui  connaìt  toute 
chose,  y  compris  le  latin,  pourvu  qu'on  le  lui  apprenne. 
Le  maitre  le  charge  de  garder  la  maison  et  Jeninot  est  en 
souci  de  peur  qu'elle  ne  lui  échappe.  Il  prétend  que  son 
maitre  l'aide  à  sa  toilette,  et  qu'il  le  déchausse.  Pendant  la 
nuit,  il  rève  et  il  crie  de  sorte  que  toute  la  famille  est  sur 
pied  :  href,  tout  ce  que  la  sottise  humaine  peut  commettre  de 
plat  et  d'étrange,  se  résumé  dans  ce  type,  qui  devait  égayer 
sans  doute  le  public  très  facile  du  XVI*  siècle. 

Il  en  est  de  mème  de  Guillaume  «  qui  mangea  les  figues  du 
cure  »  ^),  sorte  de  sot  doublé  lui  aussi  de  malice,  avec  des 
prétentions  pédantesques. 

Le  Cure  (commence).  Guillermel 

Guillerine.  Placet,  magistrum? 

Le  Cure.  Tu  es  ung  notable  poltron. 

D'où  viens-tu? 
Guillerme.  Où?  de  foras 

Ego  fui  duabus  horas 
Legendo  epistolibus. 
Le  Cure.  Que  mauldit  soit  le  lordibus  : 

Il  n'a  sens  non  plus  que  ung  oyson. 
Mais  le  cure  doit  s'apercevoir,  à  ses  dépens,  que  Guillaume 
n'est  pas  si  sot  qu'il  en  a  l'air,   lorsque   celui-ci  en  dérange 

')  Recueil  Viollet  Le  Due,  V  voi.  *  Jeninot  qui  fist  un  roy  de  son 
chat,  par  faulte  d'autre  compagnon,  en  criant:  Le  roy  boit!  et  monta 
sur  sa  maiatresse,  pour  la  mener  à  la  messe.  „ 

«)  Ibid. 


ÉTUDES   SUR   LE   THEATRE   COMltìUE   FR.\NgAlS   DU    MOYEN    AGE         323 

les  amours,  met  en  soupgoii  le  mari  de  sa  commère  et  ayant 
deux  figues  à  garder,  mango  l'une  et  après  l'autre,  pour 
montrer  à  son  maitre  comment  il  a  fait  avec  la  première. 

EnQn,  à  une  epoque  où  dans  une  sorte  de  tragèdie  bour- 
geoise  on  avait  représenté  les  amours  d'un  valet  et  d'une 
dame,  avec  la  punilion  du  coupable,  où  les  nouvelles  présen- 
taient  de  nombreux  exemples  de  dames  surprises  entra  les 
bras  de  leurs  dumestiques  *),  le  mariage  d'une  veuve  ardente 
avec  son  serviteur  ne  devait  pas  paraitre  étrange. 

Le  valet  de  la  Femme  veuve  s'appelle  Robinet;  beau 
gargon,  à  ce  qu'il  parait,  mais  qui  ne  róvèle  point  un  esprit 
fort  éveillé,  ce  dont  la  femme  se  réjouit,  car  elle  pourra 
Tester  ainsi  la  maitresse  absolue  de  sa  maison. 

Tandis  qu'il  est  simple,  novice, 
J'auray  tousjours  de  luy  service, 
Et  sy  feray  mieulx  à  ma  guise 
Avec  luy  qu'avec  un  riche  homme. 

Elle  consulte  là-dessus  une  de  ses  voisines,  dame  très  com- 
plaisante  et  charitable,  qui  lui  donne  raison  en  tout  et  par- 
tout,  et  Robinet  n'a  qu'à  donner  la  benne  nouvelle  à  son 
onde,  dont  l'accueil  n'est  pas,  de  prime  abord,  fort  aimable. 

La  vieille  historiette  de  la  consultation  des  cloches,  réap- 
parait  ici,  avec  beaucoup  d'à-propos.  Que  peut-elle  faire  une 
pauvre  femme,  abandonnée  de  tout  le  monde?  Elle  voudrait 
bien  garder  sa  foi  au  regretté  Roger,  son  premier  mari,  dont 
elle  ne  cesse  jamais  de  louer  lesmérites,  mais  le  ciel,  lui-méme, 
lui  a  indiqué  la  route  à  suivre: 

')  Voyez  les  nouvelles  54^  et  57®  des  Cent  nouvelles  nouvelles,  le 
21*  des  Comptes  du  monde  adv.,  le  20®  de  ceux  de  V Heptaméron.  Ces 
aventures  forment  aussi  le  sujet  de  plusieurs  nouvelles  italiennes 
Cfr.,  par  ex.,  la  24*  nouvelle  du  Novellino  de  Masuccio,  et  ce  que 
j'en  dis  dans  les  notes  aux  nouvelles  frangaises  citées  dans  mon  6'ow- 
tributo. 


324  PIERRE  TOLUO 

Car  dès  la  premyere  nuyctee, 
Qu'on  sonnoyt  pour  le  trespassé 
Dont  le  deuil  n'estoyt  pas  passe, 
Je  ouys  bien  de  nostre  maison 
Les  cloches  disant  en  leur  son, 
Insessament  se  me  sembloyt 
Pren  ton  valet,  pren  ton  valet. 

G'est  ce  qu'on  lit  dans  le  Pantagruel  de  Rabelais  (III, 
XXVII  chap.)  là  où  Panurge  demande  à  frère  Jean  un  conseil 
sur  son  raariage.  «  Écoute  —  dit  frère  Jean  —  l'oracle  des  clo- 
ches de  Varennes,  que  disent-elles  ?  *  —  «  Je  les  entends  — 
répondit  Panurge  —  leur  son  est,  par  ma  soif,  plus  fatidique 
que  des  chaudrons  de  Jupiter  en  Dodone.  Écoute:  Marie-toy, 
marie-toy;  marie,  marie.  Si  tu  te  maries,  rnaries,  maries 
très  Men  Ven  irouveras,  ver  ras,  ver  ras.  Marie,  marie  ». 
Mais  Panurge  ne  se  contente  pas,  ainsi  que  la  benne  veuve,  de 
cette  consultation  fatidique,  et  il  entreprend  un  long  voyage, 
dont  il  ne  tirerà  pas  d'ailleurs  beaucoup  de  profit. 


La  nouvelle  dans  la  comédie  de  la  Renaissance 
et  du  XVII'  siede. 

Dans  raon  elude  sur  la  Com,èdie  fr'ang.  de  la  Renaissance  % 
j'ai  tàché,  autant  que  possible,  d'en  indiquer  les  sources  et  je 
crois  avoir  déraontré,  entre  autres  choses,  le  róle  d'inspira- 
trice,  que  la  nouvelle  y  a  joué.  Je  résumé  donc  tout  d'abord 
et  en  peu  de  mots  les  résultats  de  ces  rccherches,  pour  in- 
diquer ensuite  d'autres  sources  inconnues. 


*)  Revue  d'hist.  Utt.  de  la  France,   1897,  p.  336  sqq.;  1898,  p.  220  et 
554  sqq.;  1899,  p.  571  sqq.,  et  1900,  p.  263  sqq. 


ÈTUDES  SUR  LE  thèatre  comique  francais  du  moyen  age   325 

Voyons  avant  tout  les  sources  douleuses.  Les  auteurs  co-  "^ 
Diiques  frangais  du  XVP  siede  multiplient,  par  exemple,  dans 
leur  théàtre,  les  travestissements  les  plus  étranges;  des  jeunes 
fiUes  habillées  en  gargons,  des  intrigants  déguisés  en  pères, 
en  raessagers,  etc.  Toinette  de  Molière,  empruntant  l'habit 
d'un  médecin,  sans  crainte  d'étre  reconnue  de  son  maitre,  le 
Malade  imaginaire\  Scapin,  jouant  tous  les  róles  et  chan- 
geant  de  figure  à  chaque  scène;  le  corate  d'Almaviva,  déguisé 
en  écolier,  en  maitre  de  rausique,  en  soldat,  ne  sont  après  tout 
que  des  variations  postérieures  de  ce  moyen  comique  des 
débuts  de  l'art  dramatique.  Or  ce  moyen,  je  dirai  mieux  cette 
rage  de  déguisements  d'où  naquit-elle?  Est-ce  de  la  comédie 
classique,  ou  de  l'italienne?  Est-ce  plutót  des  nouvelles?  Les 
exemples  sont  nombreux  de  toute  part  sur  le  sol  de  la 
France  aussi  bien  que  sur  celui  de  l'Italie  et  de  l'Espagne. 
La  préexistence  reste  constatée,  mais  l'inspiration  directe  se 
confond,  dans  la  foule. 

Les  enlèvements  et  les  reconnaissances  sont  aussi  fort  nom- 
breux dans  la  nouvelle  {Dèe.  V,  5,  6,  7.  Masdccio,  Novell. 
39,  etc);  les  tours  joués  par  quelque  fripon  qui  fait  accroire, 
par  ex.,  à  un  pauvre  sot  qu'il  est  invisible,  avaient  défrayé 
la  nouvelle,  avant  de  paraitre  sur  la  scène  {Dèe.  Vili,  3, 
IX,  5),  et  l'on  peut  répéter  la  méme  remarque  pour  d  autres 
plaisanteries  de  ce  genre,  ainsi  que  la  substitution  d'une 
vieille  à  une  jeune  beauté,  pour  duper  un  amoureux  sur- 
anné  %  ou  l'autre  d'une  jeune  Alle  remplagant  un  rivai, 
contèe  elle  aussi  par  l'auteur  du  Dèeamèron  (VII,  8). 


•)  Voyez  le  fabliau  Du  prestre  et  d'Alison  (Montaiglon,  V,  2,  8) 
Decameron  (Vili,  4),  Sercambi  (De  prudentia  et  castitate,  édit.  Renier)' 
Cornazzano  (nouv.  La  ducale),  Bandello  (II,  47),  les  Comptes  du  monde 
adv.  (8),  le  Grand  Parangon  des  nouv.  nouv.  (8),  etc.  Voyez  en  outre, 
pour  les  rapports  entre  la  comédie  italienne  et  le  Decameron,  ce  que 
dit  M.  Gebbardt  dans  sa  belle  étude  sur  l'oeuvre  du  Boccace  {Revue 
des  deux  Mondes,  Boccace,  II,  livr.  du  V  dee.  1895). 

Stu/ìj  (li  filologia  romnmrt,  IX.  q, 


326  PIERUE  TOLDO 

Nous  nous  bornerons  parlant  à  déterminer  les  sources  qui 
paraissent  évidentes  ou  au  moins  probables. 

Un  mariage  secret  compliqué  par  l'avonture  de  l'amoureux, 
qui  entre  en  qualité  de  domestique,  dans  la  maison  de  sa  belle, 
forme  le  fond  de  la  Lucelle  de  Louis  le  Jars  (1576).  C'est  là 
un  sujet  qu'on  trouve  dans  YEunuque  de  Térence  et  dans 
plusieurs  comédies  italiennes,  savoir  VOrlcnsia  et  V Alessandro 
du  Piccolomini,  le  PoUfìlo,  les  Parentadi  àn  Lasca,  les  Contenti 
du  Parabosco:  la  Cameriera  du  Secchi,  la  Cecca  du  Razzi,  etc, 
mais  la  situation  tragique  des  deux  amoureux  sauvés  tout  à 
coup  par  une  reconnaissance,  avait  été  exposée  par  les  no- 
vellieri,  avant  que  la  comédie  s'en  inspirai  (Décam.  V,  6). 

Dans  les  Contens  d'Odet  de  Turnèbe  (avant  1581),  un  amou- 
reux emprunte  les  habits  d'un  autre,  pour  pouvoir  pènétrer 
chez  celle  qu'il  aime  et  lorsqu'il  est  compromis  et  surpris  sur 
le  fait,  il  se  tire  d'affaire  à  l'aide  d'une  substitution,  c'est-à- 
dire  mettant  à  sa  place  une  femme  quelconque.  La  première 
partie  de  cette  intrigue  a  été  répétée  fort  souvent  par  les 
conteurs  de  l'Italie  et  de  la  France  et  il  suffit  de  consulter 
le  Novellino  (nouv.  35'),  compose  à  une  epoque,  où  la  scène 
n  avait  rien  dit  là-dessus.  Et  le  conte  du  Novellino  n'est  que 
le  premier  annea'u  d'une  longue  chaìne;  Randello  en  Italie 
(1, 16;  III,  22),  et  en  France  l'auteur  des  Cent  nouv.  nouv.  (31*), 
de  VHeptamèron  {ÌA%  des  Coìnptes  du  monde  adventureux 
(53")  reproduisent,  à  quelques  changements  près,  cette  mème 
donnée.  Il  en  est  ainsi  de  la  seconde  partie  des  Contenis, 
c'est-à-dire  de  la  substitution  formant  de  mème  le  sujet  du 
fabliau  De  la  darne  qui  fisi  entendant  son  may^i  qu'il  sonjoit 
et  de  celui  des  tresces,  aussi  bien  que  du  conte  cité  de  Boc- 
cace  et  d'une  des  Cent  nouvelles  nouvelles  *). 

M  Voyez  Recueil  Montaiglon  (V,  124;  IV,  94),  et  l'étude  de  M.  Bé- 
DiER  dans  son  ouvrage  sur  les  Fahliaux  (chap.  VI,  p.  133),  Décam. 
(VII,  8),  Cetit  nouv.  nouv.  [Zd,"). 


ÉTUDES  SUR  LE  THÉATRE  COMIQUE  FRANCAIS  DU   MOYEN   AGE        327 

La  comédie  Les  Neapolitaines  de  Frangois  d'Araboise  (1584) 
s'inspire  directement  du  Decameron  (VII,  6),  dans  lepisode 
de  la  dame  qui  voulant  s'excuser  d'avoir  deux  jeunes  hommes 
chez  elle  à  l'arrivée  d'un  troisième  galani,  feint  que  l'un  d'eux 
soit  poursuivi  par  l'autre.  Isabelle,  dans  le  conte  de  Boccace, 
se  trouve  avec  Leonetto  et  Lamìiertuccìo,  lorsque  son  mari 
parait  tout  à  coup.  La  femme  ne  se  perd  pas  pour  cela  de 
courage.  Elle  fait  sortir  Lamliertuccio,  un  couteau  à  la  main, 
et  présente  Lionetto  à  son  mari,  comme  un  jeune  homme 
qui  étant  ménacé  par  unadversaire  redoutable  et  trouvant  la 
porte  ouverte  s'est  réfugió  cbez  elle.  Le  mari  fait  bon  accueil 
à  Lionetto.  L'histoire  d'Isabelle  est  répétée  par  d'Amboise, 
dans  ses  moindres  détails. 

Les  Escolliers  (1589)  de  Francois  Perrin  offrent,  dans  l'é- 
pisode  principal  —  un  jeune  homme  qui  cède  sa  belle  à  un 
de  ses  amis,  lui  donnant  ses  habits  pour  la  tromper  —  une 
aventure  très  répétée  par  les  novellieri,  et  le  détail  de  la 
cession  est  aussi  bien  connu  *).  Je  rappelle,  entro  autres,  la 
quatorzième  nouvelle  de  l'Heptaméron  (1558),  où  l'on  expose 
la  «  subtilité  d'un  amoureux  qui,  sous  la  faveur  du  vrai  ami, 
cueille  d'une  dame  milanoise  le  fruit  de  ses  labeurs  passés  » 
et  le  cinquante-troisième  des  Comptes  du  monde  adventu- 
reux  (1558),  où  l'auteur  conte  le  tour  «  d'un  gentilhomme 
longuement  poursuivant,  qui  ne  peut  avoir  satisfaction  de  sa 
dame,  si  non  par  le  moyen  d'une  affectèe  chambrière  et  soubs 
le  nom  emprunté  d'un  autre  ».  Le  théàtre  italien  s'était,  à  son 
tour,  emparé  de  ce  sujet  ^). 

Claude  Bonet  dans  sa  Tasse,  comédie,  dont  les  person- 
nages  parlent  le  frangais,   l'italien  et  différents  dialectes,  em- 


*)  Novellino  (CXXXV),  Cent    nouv.    nouv.    (XXXI),    Bandelle  (I,  16; 
III,  22J. 
^)  Voyez  les  Escolliers  de  Larivey,  la  Milesia  de  Giannotti,  etc. 


328  PIERRE  TOLDO 

prunte  le  sujet  general  à  une  nouvelle  italienne  que  nous 
avons  déjà  indiquée  et  un  incident  épisoditiue,  à  ce  cycle  de 
contes,  touchant  le  mari  battu  et  content,  que  celui  de  Boc- 
cace  a  rendu  si  populaire  {Dèe,  VII,  71.  Bravache  et  Ripaille, 
deux  soldats  de  fortune,  qui  reviennent  de  la  guerre,  dans  un 
état  de  dénoueraent  complet,  arrètent  de  vivre  par  des  tours 
de  passe-passe.  Gomme  ils  entendent  que  le  docteur  Jerosme 
vient  de  recevoir  une  tasse  d'argent,  l'un  d'eux  se  présente 
à  la  fenime  du  docteur,  madame  Jacqueline,  avec  deux  per- 
drix  volées  et  lui  dit  que  son  mari  l'a  chargé  de  lui  donner 
ces  oiseaux,  qu'elle  fera  cuire  sur  l'instant  et  de  demander, 
en  mème  temps,  la  tasse  précieuse.  La  femme  ne  se  doutant 
de  rien,  prend  les  perdrix  et  consigne  la  tasse;  le  mari  re- 
vient  à  la  maison,  entend  le  tour  qu'on  lui  a  joué  et  fait 
trotter  le  bàton  sur  le  dos  de  la  malheureuse.  L'autre  aven- 
turier,  voulant  montrer  à  son  camarade  qu'il  est  à  mème  lui 
aussl  de  briller  dans  ce  genre  d'exploits,  attend  la  sortie  de 
maitre  Jerosme  et  se  présente  à  madame  Jacqueline  pour  lui 
annoncer  que  son  mari  vient  de  retrouver  la  tasse  et  qu'il 
la  prie  de  vouloir  bien  lui  envoyer  les  perdrix  destinées  à  un 
certain  banquet.  Jacqueline  les  lui  donne  et  la  colere  du 
docteur  ne  connait  plus  de  bornes,  lorsqu'il  entend  qu'il  a 
été  dupé  encore  une  autre  fois. 

Nous  avons  eu  précédemment  l'occasion  de  citer  le  conte 
que  Franco  Sacchetti  expose  dans  son  Novellino  (CCXI)  et 
celui  plus  complet  de  Masuccio  Salernitano  (nouv.  XVIP)  qui 
nous  présente  les  deux  tours,  colui  de  la  tasse  et  l'autre  du 
poisson,  remplagant  les  perdrix.  Nous  avons  ajouté  aussi  que 
l'auteurdes  Comptes  du  monde  adventureux  traduisit,  presque 
à  la  lettre,  cette  nouvelle  de  Masuccio  (XXIV«).  Tout  cela  est 
évident,  mais  dans  la  Tasse  il  y  a  d'autres  détails  empruntés  à 
la  nouvelle.  Il  est  question,  tout  d'abord,  de  l'amant  de  Jacque- 
line, Laure,  qui  aurait  été  surpris   par  le  docteur,  si  Geor- 


ÉTUDES  SUR  LE  THEATRE  COMIQUE  FRANgAiS  DU  MOYEN  AGE   329 

gette,  la  servante,  n'eùt  pourvu  au  salut  des  deux  amourcux, 
par  une  de  ces  substitutions,  dont  nous  venons  de  parler.  Geor- 
gette  prend  la  place  de  Laure  et  le  mari  se  trouve  avec  un 
pied  de  nez  lorsqu'il  s'apergoit  que  ses  soupgons  paraissent 
tout  à  fait  faux.  G'est  l'aventure  du  cycle  des  Tresses.  Au 
dernier  ade,  Jerome  regoli  les  étrivières  de  Jacqueline  et  de 
Georgette  et  le  bonhomme  est  bien  aise,  comme  Egano  du 
Dèemnèron  (VII,  7),  de  constater  l'innocence  de  sa  femme,  et 
de  lui  présenter  ses  excuses. 

Et  la  nouvelle  inspire  fori  probablement  aussi  la  première 
comédie  que  le  XVIP  siede  nóus  offre,  c'est-à-dire  les  Cor- 
rivaux  de  Trotterei,  sieur  d'Aves.  Cette  pièce  se  compose  de 
deux  éléments  principaux:  un  valet  remplace  son  maitre 
auprès  d'une  jeune  fiUe  à  l'aide  d'un  déguisement  et  un  jeune 
homme,  surpris  enlre  les  bras  de  celle  qu'il  aime,  reraédie  à 
sa  fante  par  un  mariage.  L'auteur  a  du  puiser  son  inspiration 
à  quelques  comédies  italiennes,  ou  aux  nouvelles  telles  que 
les  Plaisanteries  du  Poggio  (XXVI,  XLI),  le  Mambriano  (II), 
les  Cent  nouv.  nouv.  (IX),  VHepiaméron  (IX),  le  Gran  Pa- 
rangon  (XXXV),  etc. 

Ce  fut  vers  cette  epoque  que  le  théàtre  populaire  eut  en 
France  des  acteurs  et,  jusqu'à  un  certain  point,  des  auteurs 
célèbres,  qui  formaient  les  délices  du  Pont-Neuf  et  de  la  place 
Dauphine  et  ici  encore  on  peut  constater  l'influence  de  cer- 
taines  données  de  la  tradition  orale.  La  Farce  du  sac  de  Ta- 
barin reproduit,  par  exemple,  une  historiette  qu'on  lit  dans 
le  Campriano  et  dans  Bertoldo  et  qui  égaya  ensuite  la  muse 
de  La  Fontaine  {Les  lunettes).  «  Lucas  -^  dit  Vargument  de 
la  farce  de  Tabarin  —  va  en  marcliandise,  donne  sa  fi  Ile  en 
garde  à  Tabarin,  laquelle  lenvoie  vers  le  capitaine  Rodo- 
mont.  Ce  capitaine  donne  une  chaisne  à  Tabarin  pour  sa 
maitresse;  Tabarin  le  fait  entrer  dans  un  sac.  Il  veut  garder 
la  fidélitè  à  son  maitre.  Lucas  arrive  de  son  voyage.  Le  ca- 


330  PIERRE  TOLDO 

pilaine,  enfermé  dans  le  sac,  pour  sortir  trouve  une  inven- 
tion,  qui  est  de  persuader  à  Lucasqu'on  l'a  rais  en  ce  sac,  à 
cause  qu'il  ne  voulait  se  marier  avec  une  vieille,  qui  avait 
cinquante  mille  écus.  Lucas,  corame  les  vieillards  sont  ordi- 
nairement  avaricieux,  domande  la  place  du  capitaine  Rodo- 
mont,  et  s'enferme  dans  le  sac.  Tabarin  et  Isabelle  viennent 
pour  Trotter  le  capitaine,  et,  après  Tavoir  bien  battu,  trouvent 
que  c'est  Lucas  et  deraeurent  bien  estonnez  ».  Dans  le  Cam- 
priano  il  est  question  d'un  tour  pareli  joué  à  des  voleurs  et 
celui  qui  se  laisse  attraper  est  jeté  à  la  mer.  Ce  récit  passa 
lout  entier  dans  Bertoldo.  Chez  La  Fontaine,  le  héros  de  la 
nouvelle  ne  se  trouve  pas  dans  un  sac,  mais  lié  à  un  arbre. 
Il  se  tire  toutefois  d'affaire,  par  la  mème  ruse,  en  persuadant 
un  meunier  de  se  laisser  garotter  à  sa  place.  Le  meunier 
regoit  les  coups  de  bàton  destinés  au  jeune  homme. 

Le  Baron  de  Graiielard  (Descorabes),  toujours  d'après  la 
tradition  populaire,  exposa,  sur  les  tréteaux  de  la  place  Dauphine, 
lesujetdu  fabliau  bien  connu  du  hossu,  remanié  si  souvent  par 
les  nouvellistes.  Trostole,  vieux  bossu,  selon  cette  farce,  doit 
se  rendre  au  Palais.  Il  prie  sa  femme  de  ne  pas  recevoir  ses 
frères  bossus  corame  lui.  Sa  femme  désobéit,  recoit  les  bossus 
et  lorsque  le  mari  revient  à  la  maison,  elle  les  cache  si  étroi- 
leraent  qu'ils  étouffent  et  meurent.  Alors  elle  s'adresse  à  Grat- 
telard,  jouant  le  ròle  du  badin,  et  lui  promet  vingt  écus,  sous 
condition  qu'il  jette  à  la  rivière  un  bossu,  qui  est  mort  chez 
elle.  Grattelard  s'en  charge;  en  revenant  il  est  fort  étonné 
de  voir  un  autre  bossu  mort,  à  la  place  où  il  avait  pris 
l'autre;  Grattelard  croit  qu'il  s'agit  de  sorcellerie  et  le  jette 
de  nouveau  à  l'eau.  L'aventure  se  répète,  de  la  mème  ma- 
nière, pour  le  troisième  bossu  et  à  la  quatrième  fois,  lorsque 
Grattelard  croit  avoir  bien  raérité  sa  récompense,  il  rencontre 
Trostole  en  personne  et  le  prenant  pour  le  raème  bossu  re- 
venant sur  ses  pas,  le  noie  tout  vivant  qu'il  est. 


ÉTLDES   SIR    LK   THÈATR£   COMIQCK   FR.OCAIS   DU    MOTEN   AGE         331 

Xous  avons  étudié,  jusqu'à  présent,  le  thèàtre  comique  du 
XV'  et  du  XVP  siècle,  dont  la  nouvelle  coustitue  si  souvent  le 
sujet  tout  entier  de  riulrigue.  Dans  la  littéi-ature  dramatique 
qui  suit,  cette  source  d'inspiration  n'est  pas  certaineraent  né- 
gligée,  mais  son  ròle  se  berne  à  la  partie  épisodique  et  tend  à 
se  rétrécir  de  plus  en  plus.  Je  me  bornerai,  d'après  mes  notes 
et  mes  recherches  personnelles.  à  la  constatation  des  sources 
principales.  La  uouvelle  cht*z  Molière  et  Regnard  n'a  d'autre 
but  que  colui  de  faire  re^sortir,  par  des  situations  coraiques,  le 
caractère  des  personnage^  et  des  passions,  de  sorte  que  luin  de 
constituer,  comme  auparavant,  l'intrigue  de  la  pièce,  elle  ne 
sert  qua  l'égayer  par  des  données  populaires,  qu'on  pourrait 
sopprimer  sans  que  la  phvsionomie  generale  de  la  comèdie 
en  restàt  altérée. 

Les  galaiìierics  du  due  d'Ossonne,  comédie  de  Jean  de 
Mairet  (1027),  renferme,  entre  autre^,  une  vieille  nouvelle 
passée  de  l'Italie  en  France  au  XVI*  siècle  et  qui  s'y  accli- 
mata merveilleusement.  Le  due  d'Ossonne,  c'est-à-dire  Don 
Fedro  Tellez-Gii\)n,  vice-roi  de  Naples,  s'est  épris  d'Emilie, 
femme  du  noble  Paolin  et  belle-sosur  de  Flavie,  qui  aime  le 
due,  sans  que  celui-ci  s'en  doute.  Le  due  d'0>sonne  pénètre  nui- 
tammeut  chez  Emilie.  Celle-ci,  qui  était  en  train  d'aliar  vi- 
sitar son  «  favory  »  Camilie,  supplie  le  due  de  vouloir  prendre 
sa  place  dans  le  lit  où  elle  assure  se  trouver  une  vieille 
femme  à  laquelle  son  mari  a  confiè  sa  garde.  C'est  un  service 
que  le  Due  rend  bien  à  contre-cceur;  il  se  conche  à  còte  de  la 
vieille,  en  se  lenant  <  dessus  le  bord  du  lict  »,  de  crainte  de  se 
trouver  trop  à  contact  de  ce  <  vieux  sujet  de  rhume  et  de 
décrépitude  ».  Heureusement  pour  lui.  il  s'aper»^oit  que  celle 
qui  partage  son  lit  est  une  fiUe  douée  d'une  beauté  surpre- 
nante.  C'est  Flavie,  la  belle-sosur  d'Emilie,  qui  soupire,  en  pro- 
non^ant  son  nom,  d'une  voix  mélodieuse,  et  le  Due  profite  du 
tour  qu*Émilie  lui  a  jouè  et  récompense  l'amour  de  la  belle. 


332  PIERRE  TOLDO 

Masuccio  Salernitano  (nouv.  41')  avalt  conte  depuis  longteraps 
comment  une  dame  s'était  nioquée  d'un  jeune  homme  le  fai- 
sant  coucher  auprès  d'une  jeune  fille  qui  l'aimait  et  qu'il  eut  le 
tort  de  prendre  trop  longtemps  pour  le  mari.  La  méprise  du 
jeune  homme  est  enfin,  il  va  sans  dire,  fort  bien  récompenséo.  Le 
CXLIX'^  des  contes  du  Monde  adventureux  reproduit  la  nou- 
velle  de  Masuccio,  répétée  en  Italie  par  le  Parabosco  (Journée  1% 
nouv.  II),  et  imitée  à  son  tour  par  l'auteur  des  Joyeux  Devis 
(CXXVIIP).  De  là  cette  nouvelle  passa  tout  entière  dans  la 
Précaution  mutile  de  Scarron,  puis  avec  quelques  modifica- 
tions  dans  les  caractères  des  personnages,  et  surtout  dans  le 
chàtiment  que  l'on  inflige  à  un  fat,  on  la  volt  reparaltre  chez 
La  Fontaine  {Le  Gascon  puni),  chez  Francois  Caillères  {Des 
ì)ons  mots,  etc,  Paris,  1692,  p.  226)  et  plus  tard  de  nouveau 
elle  revit  le  théàtre,  dans  le  Fat  puni  d'Antoine  de  TerrioI, 
joué  au  Théàtre-Frangais  le  7  avril  1739,  avec  le  plus  grand 
succès.  Mais  Mairet  fait  subir  à  la  nouvelle  des  changements 
caractéristiques;  il  n'est  plus  question,  comme  dans  les  nou- 
velles,  de  deux  amis  dont  l'un  «  se  présente  au  danger  pour 
faire  planchette  »  comme  dit  Des  Périers  «  à  la  jouissance  » 
de  l'autre  et  au  mari  redoutable,  qui  devrait,  selon  les  nou- 
vellistes,  se  trouver  dans  le  lit,  il  substitue  quelque  chose  de 
plus  comique,  une  vieille  femme,  en  anlithèse  frappante  avec 
la  beauté  que  le  gentilhomme  va  découvrir. 

Le  Parasite  de  Tristan  (1654)  reproduit,  à  son  tour,  d'une 
manière  moins  incidentelle,  la  nouvelle  de  Tamoureux  (Ly- 
sandre)  pénétrant  chez  une  jeune  fille  qu'il  alme,  sous  un  nom 
emprunté.  On  découvre  l'intrigue  et  le  jeune  homme  y  laisse- 
rait  la  vie,  comme  le  héros  de  la  Lucelle  de  Le  Jars,  si  le 
pere  de  Lysandre  ne  se  présentait  sur  la  scène  pour  le  déli- 
vrer,  apaisant  ainsi  le  scandale  par  un  mariage.  Un  capitaine 
ridicule  et  le  parasite  Fripe-Sauces  complètent  l'inspiration 
classique  et  italienne  de  cette  pièce. 


ÉTUDES   SUR    LE   TlIEATRE   COMIQUE    KRANgAIS    DU    MOYEN    AGE         333 

Vers  c^tttì  epoque  Rotrou  reproduisait  dans  ses  pièces  dra- 
matiques  divers  sujets  puisés  à  l'Italie,  où  la  nouvelle  joue 
aussi  un  ròle  considérable,  et  le  théàtre  d'Alexandre  Hardy 
avait  demandò  à  tout  genre  littéraire,  la  nouvelle  y  comprise, 
son  inspiratlon  désordounée  et  débordante  *). 

Pichou,  dans  ses  Folies  de  Cardenio  (1629),  développe  un 
épisode  du  Don  Quichotte,  épisode  inspirant  ensuite  Guérin  du 
Bouscal,  Destouches,  Dufresny  et  Dancourt;  le  Jardin  deys 
musos  provenQalos  ^)  compose,  à  peu  près,  à  la  mème  date,  raet 
en  scène  lui  aussi  deux  contes  populaires.  En  effet  la  Co- 
Tnèdie  à  sept  personnages  s'inspire  de  ce  cycle  de  nouvelles 
forme  par  la  24^  de  Masuccio,  par  la  24*  de  Morlini,  par  deux 
des  Cent  nouv.  nouv.  (54%  58*=),  par  la  20*=  de  VHeptamèron  et 
enfin  par  le  XXI^  des  Compies  du  monde  adventureux,  où  il 
est  question  d'une  dame  dédaignant  l'amour  d'un  gentilhomme 
et  que  Ton  surprend  ensuite  entre  les  bras  d'un  valet,  d'un  mure, 
ou  de  quelque  monstre.  Une  autre  de  ces  pièces  du  Jardin  deys 
musos  provengalos  présente  une  variante  de  la  nouvelle  con- 
tenue dans  le  chant  XXVII1'=  de  VOrland  Furieux  de  l'Arioste, 
nouvelle  qui  a  pour  but  de  prouver  comment  la  femme  est 
corrompue  et  comment  il  est  impossible  de  pouvoir  la  garder. 

G'est  vers  cette  epoque  que  se  présente  sur  la  scène  fran- 
^aise  celui  qui  devait  la  dominer  en  maitre  et  sa  première 
inspiration  est  tirée  des  contes  populaires  et  littéraires. 

On  peut  dire  en  effet  que  l'oeuvre  de  Molière  commenga 
par  la  mise  en  action  d'une  nouvelle  et  que  ce  fut  le  Dèca- 


*)  Voyez  RiGAL,  Alexandre  Hardy  et  le  théàtre  frangais  à  la  fin  du 
XVI"  et  au  commencement  du  XVIl"  siede,  Paris,  1889,  et,  pour  le 
théàtre  de  Rotrou,  J.  Jarrt,  Essais  sur  les  ceuvres  dramatiques  de  B., 
Paris,  1858  ;  J.  Vianet,  Deux  sources  inconnties  de  Rotrou,  Dole,  1891 
(extrait  des  Archives  hist.,  art.  et  Utt.);  Stiefkl,  Unbekannte  italienische 
Quellen  Jean  de  Rotrou's  [Zeits.  fiir  franz.  Sprache  und  Litt.,  1890,  mai). 

^)  Voyez  mon  étude  sur  la  comédie  de  la  Renaissance,  p.  279  sgg. 


334  PIERRE  TOLDO 

méron  de  Boccace,  qui  eut  Phonneur  de  l'inspirer  *).  La  jalousie 
fle  Baròouillè  reproduit,  corame  on  le  sait  depuis  longtemps, 
l'aventure  de  Tofano  (Dèe.  VII,  4)  avec  un  simple  changement 
de  noms  et  de  détails  secondaires.  Angélique  revient  à  une 
hpure  indue  vers  sa  maison,  après  avoir  couru  une  aventure 
galante;  soa  mari  Barbouillé  ferme  la  porte  et  déclare  qu'elle 
n'entrerà  pas.  Mais  Angélique  feint  de  se  livrer  au  désespoir 
et  de  se  tuer  et  Barbouillé  alors  sort  pour  en  recevoir  le 
dernier  soupir,  ce  qui  permei  à  Angélique  d'entrer  et  de  lui 
fermer,  à  son  tour,  la  porte  au  nez.  Les  parents  d'Angélique 
arrivent  pour  constater  les  dérèglements  de  leur  fille,  mais 
c'est  à  celle-ci  maintenant  de  se  plaindre  et  d'accuser  son 
mari  d'ivrognerie  et  de  tonte  sorte  de  vices. 

Cette  simple  donnée  de  la  Jalousie  de  Barbouillé  repré- 
sente  le  premier  degré  de  la  conception  dramatique  de  Mo- 
lière. La  nouvelle  de  Tofano  sufflt  pour  remplir  la  pièce  tout 
entière;  plus  tard  lorsqu'il  reviendra  sur  ce  sujet  dans  son. 
George  Danclin,  la  nouvelle  passera  à  l'état  d'épisode,  qui  ne 
seri  qu'à  maitre  en  évidence  la  sottise  da  bonhomme,  et  le  dé- 
dain  de  sa  femme  et  de  sa  famille.  Mais  cette  famille  des  Soten- 
ville  et  la  position  d'un  mari  bourgeois,  qui  vient  de  commettre 
la  sottise  d'épouser  une  demoiselle,  ne  sont  pas  inconnues. 
aux  nouvellistes.  Nous  venons  de  voir  la  farce  de  George  le 
veau,  dont  le  sujet  vivait  déjà  dans  les  fabliaux.  lei  il  faut 
rappeler  une  autre  nouvelle  du  Boccace  (VII,  8),  où  il  s'agit 
d'un  marchand,  Arriguccio  Berlinghieri,  qui  «  pensa  de  s'ano- 
blir  par  un  mariage,  suivant  la  solte  coùtume  de  ses  pareils  et 


')  C'est  le  sujet  du  fabliau  :  "  De  celui  qui  enferma  sa  fame  en  une 
tor  „.  Pour  les  variantes  de  ce  conte,  dont  l'origine  orientale  ne  pa- 
raìt  pas  douteuse,  voyez  D.  Comparetti,  Ricerche  sul  libro  di  Sindibad 
et  les  notes  touchant  la  Discipline  de  Clergie,  le  Dolopathos  etc.  dans 
la  notice  précédant  George  Dandin,  dans  l'édition  des  ceuvres  de  Mo- 
lière (voyez  Les  grands  écrivains  de  la  France). 


ÉTUDES  SUR  LE  thèatre  comique  krancais  du  moyen  age       335 

épousa  pour  cela  une  noble  demoiselle,  monna  Sismonda,  d'un 
caractère,  qui  ne  s'accordait  nullement  avec  le  sien  ».  Ce  Ber- 
linghieri  devint  peu  à  peu  l'homme  le  plus  jaloux  de  ce  monde, 
ne  quittant  jamals  des  yeux  son  nid  menacé.  Mais  monna 
Sismonda,  malgré  toutes  ces  précautions,  trouve  le  moyen  de 
le  tromper  avec  Ruberto  et  lorsque  le  mari  croit  tenir  les 
preuves  de  son  infidélité,  les  mèmes  preuves  du  fabliau  des 
tresces,  la  noble  demoiselle  se  sauve  par  une  habile  substi- 
tution.  Le  Boccace  nous  présente  ensuite  le  malheureux 
bourgeois  aux  prises  avec  les  nobles  paronts  de  sa  femme 
qu'il  a  convoqués;  avili,  reproché  et  menacé  de  mort,  il  doit 
reconnaìtre  sur  l'instant  l'honneur  que  la  demoiselle  lui  a  fait 
en  répousant  et  lui  demandar  pardon  de  ses  injustes  soupgons. 

Une  troisième  nouvelle  concourt  à  la  composition  de  George 
Dandin  aussi  bien  qu'à  celle  de  VÉcole  des  femmes.  Lubin, 
valot  de  Glitandre,  prend  deux  fois  Dandin  pour  confident  des 
amours  de  son  maitre  et  lui  explique  tous  les  tours  qu'on  va 
lui  jouer.  Get  avis  ne  suffit  pas  pour  sauver  le  malheureux 
mari,  qui  arrive  toujours  en  retard  et  seulement  pour  cons- 
tater  qu'on  s'est  déjà  moqué  de  lui.  Telle  est  la  situation  du 
mari  du  Pecoì^one  (Journée  1%  nouv.  IP)  et  de  celui  du  Stra- 
parole  (n.  IV°  et  f.  14*^).  Ghez  ce  dernier  l'amoureux  prend 
directement  pour  son  confident  le  mari  de  la  femme  qu'il 
aime,  lui  donnant  avis  tout  d'abord  de  sa  passion,  ensuite  de 
ses  progrès  et  enfìn  de  sa  victoire.  Le  bonhoinme  làche  de 
jouer  de  ruse,  mais  il  finit  par  rester  comrae  Dandin,  avec 
un  pied  de  nez. 

Et  l'inspiration  que  Molière  tire  des  nouvelles  ne  s'arrète 
pas  là.  La  femme  de  Dandin,  pour  donner  avis  à  son  amou- 
reux  de  la  manière  dont  il  pourra  s'approcher  d'elle,  feint  à 
la  présence  de  son  mari  et  de  ses  parents,  de  lui  reprocher 
vivement  ce  qu'il  n'a  pas  encore  fait  et  l'amoureux  sait  se 
régler  là-dessus  (A.  I,  se.  VI):  «  Je  voudrais  bien  le  voir  vrai- 


336  PIERRE  TOLDO 

ment  que  vous  fussiez  amoureux  de  raoi.  Jouez-vousy,  je 
vous  en  prie,  vous  trouverez  à  qui  parler,  c'est  une  chose 
que  je  vous  conseille  de  faire.  Ayez  recours,  pour  me  voir,  à 
tous  les  détours  des  aniants;  essayez  un  peu,  prenez  plaisir  à 
m'envoyer  des  ambassades,  à  ra'écrire  secrètement  de  petits 
billets  doux,  à  épier  les  raoments  que  mon  mari  n'y  sera  pas, 
ou  le  temps  que  je  sortirai,  pour  me  parler  de  votre  amour...  ». 
Ce  moyen  comique  fort  souvent  employé  par  Molière  *)  n'est 
après  tout  qu'une  application  d'une  autre  nouvelle  de  Boccace, 
fort  répandue  elle  aussi  et  dont  on  connaìt  maintes  rédactions 
(III,  3).  Une  femme  feignant  de  repousser  l'amour  d'un  jeune 
homme,  lui  fait  comprendre  ses  tendres  sentiments  à  son 
égard  et  lui  indique  la  voie  à  suivre. 

Que  l'on  remarque  encore  que  le  tour  qu'Angélique  joue  à 
son  mari,  de  le  baltre  au  lieu  de  l'araoureux  qu'elle  déclare 
vouloir  punir,  n'est  que  la  mise  en  action  d'un  autre  conte 
de  Boccace  (VII,  7),  Le  mari  battu  et  conteni.  George  Dandin 
n'est  donc,  à  tout  prendre,  qu'une  sorte  de  conglobation 
de  plusieurs  historiettes,  touchant  les  ruses  féminines,  mais 
cette  contribution  si  large  de  la  nouvelle  ne  sert  qu'à  mettre 
en  évidence  l'idée  qui  appartieni  en  propre  au  poète,  idée 
indépendante  de  tous  ces  éléments  accessoires.  Le  héros  de 
Molière  est  bien  vivant  avec  la  jalousie  rongeant  son  àme  et 
ses  regrets  désormais  inutiles  sur  les  conséquences  de  sa  me- 
saillance. Dandin  n'est  pas  si  ridiente  qu'il  en  a  l'air  et  au  mi- 
lieu de  tous  ces  maris  bernés  de  la  vietile  comédie,  il  excite 
notre  intérèt  non  seulement  par  sa  douleur  si  vive  et  si  pro- 
fonde, mais  aussi  par  les  violences  dont  il  est  la  victime,  les 
violences  d'un  rang  insolent  et  corrompu  représenté,  dans 
toutes  ses  nuances,  par  la  dynastie  des  Sotenville. 


')  Voyez  VÉtourdi  (I,  4),  le  Malade  imagtnaire  (II,  5),  V Avare  (III,  7), 
VÉcole  des  maris  (II,  9j. 


ÉTUDES  SUR  LE  THÉATRE  COMIQUE  FRANCAIS  DU  MOYEN  AGE   337 

Un  cycle  de  nouvelles,  dont  nous  allons  nous  occuper  bientòt 
dans  l'examen  du  théàtre  de  Hauteroche  et  de  Regnard,  ins- 
pire la  ruse  la  plus  célèbre  de  Mascarille,  le  héros  de  VÉtourdi 
de  nutre  anteur.  Mascarille  persuade  Lélie  de  faire  passer  pour 
mort  son  pére  Pandolfe,  dans  le  but  de  tirer  de  l'argent  d'An- 
selme,  débitenr  et  ami  du  mort  suppose.  Anselmo  donne  l'ar- 
gent demandò  et  il  croit  avoir  affaire  à  un  revenant  lorsqu'il 
rencontre  Pandolfe,  bien  vivant  et  fort  étonné  de  l'étrange 
accueil.  Mais  la  ruse  de  Mascarille  échoit  à  cause  de  l'élour- 
derie  habituelle  de  son  maitre. 

On  connaìt  la  source  du  Mèdecìn  malgrè  lui,  vivant  du 
temps  de  Molière  dans  la  tradition  populaire,  représentée  en 
plein  mo3'en  àge  par  le  fabliau  du  Vilain  mire.  Le  Petrillo  du 
Pogge  (fac.  ISQ'^)  et  il  Medico  Grillo  appartiennent  à  la  mème 
lignee  et  représentent  de  mème  la  ruse  des  classes  inférieures, 
d'où  naìtront,  avec  le  temps,  les  valets  du  XVIIP  siècle  et  Fi- 
garo lui-mème. 

L'étude  de  la  jalousie  inspira  au  poète  frangais  une  autro 
pièce,  le  Sicilien  ou  Vamour  peinire,  dont  le  héros  n'est  pas 
certainement  si  intéressant  que  Dandin.  L'auteur  emploie  lei 
encore  son  système  d'adaptation  épisodiquc  des  nouvelles. 
Nous  y  voyons  en  effet  la  substitution  d'une  femme  à  une 
autre,  comme  dans  le  fabliau  des  tresces  ou  dans  le  conte  du 
Decameron,  que  nous  venons  de  citer.  L'aventure  de  messer 
Lambertuccio  (VII,  6)  joue  aussi  un  certain  róle  dans  la  pièce 
de  Molière,  parce  que  Zaide,  esclave  intrigante,  se  feint  pour- 
suivie  par  Adrasto  (amant  d'Isidore)  et  se  réfugie  chez  le 
jaloux  sicilien,  de  sorte  que  celui-ci  lui  fait  bon  accueil  et 
tàche  d'apaiser  le  jeune  homme,  dont  il  ne  soupgonne  pas 
les  rapports  avec  celle  qu'il  alme  '). 


')  Voyez  aussi  une  des  Facéties  du  Pogge  (266"). 


338  PIERRE  TOLDO 

Dans  V Avare,  Molière  tire  de  la  comédie  ou  de  la  nouvelle 
italienne,  d'une  manière  plus  ou  moins  directe,  l'épisode  de 
Valére,  qui  entre  en  condilion  de  domestique  chez  celle  qu'il 
aime,  et  nous  avons  vu  tout  à  l'heure  plusieurs  versions  de 
ce  tour  galant.  Il  en  est  de  mème  de  tous  les  déguisemenls 
du  Ihéàtre  de  notre  écrivain.  Le  Médecin  volani,  l'une  de  ses 
premières  pièces,  commence  par  un  travestissement  en  mé- 
decin, et  c'est  par  un  travestissement  en  médecin  queTécrivain 
frangais  conclue  sa  dernière  comédie,  le  malade  imaginaire. 
Toujours  d'après  le  théàlre  ou  la  nouvelle  de  la  Péninsule, 
Molière  présente  dans  son  Dépii  amoureux  l'aventure  d'une 
fille  habillée  constamment  en  gargon  par  un  pari  de  son  pére 
et  cette  situation  si  invraisemblable  défraya  longtemps  le 
théàlre  frangais.  Je  rappelle,  entre  autres,  la  pièce  d'Ouville 
d'où  Bois-Robert  tira  sa  Belle  invisible  (1656). 

Nous  avons  cité,  tout  à  l'heure,  le  fabliau  frangais  et  la 
nouvelle  de  Boccace  (III,  3)  sur  le  Mari  confident.  J'ajoti- 
terai  un  autre  rapprochement.Fortiguerri,  dans  ses  nouvelles 
{Ed.  Romagnoli,  Bologna,  1882,  VP  nouv.),  conte  qu'un  amant 
prend,  à  son  tour,  pour  confident  le  mari  de  celle  qu'il  aime 
et  le  mari,  malgré  l'étourderie  de  son  rivai,  ne  réussit  pas  à 
protéger  son  honneur. 

Or  c'est  évidemment  dans  le  Decameron  que  Molière  re- 
trouva  la  source  du  IP  acte  de  YÉcole  des  maris,  source  déjà 
reconnue  par  les  critiques.  Isabelle  ne  sachant  comment  s'y 
prendre  pour  faire  connaìtre  son  amour  à  Valére,  le  fait 
tancer  par  son  tuteur  Sganarelle,  qui  s'acquitte  avec  enthou- 
siasme  de  cette  commission,  sans  s'apercevoir  qu'il  est  la  dupe 
de  sa  pupille.  Lope  de  Vega  avait  profìté  de  cette  nouvelle 
du  Boccace  ou  de  quelque  version  similaire  pour  composer  sa 
Discreta  enamorada  et  Dorimond,  peut-ètre  avant  Molière, 
avait  conte  l'aventure  d'une  autre  Isabelle,  La  femme  indus- 
Irieuse,  qui  voulant   avertir  Léandre  de  la  passion  qu'elle  a 


ÈTUDES  SUR  LE  THEATRE  COMIQUE  FRANC-AIS  DU  MOYEN  AGE    339 

congue  pour  lui,  emploie  le  mèrae  expédient.  Il  y  a  toutefois 
une  petite  diffèrence  de  détail;  le  tuteur  est  remplacé  par  le 
Docteur,  précepteur  de  Léandre.  La  diffèrence  entre  le  conte 
de  Boccace  et  la  cornédie  de  Dorimond  est  encore  moins  sen- 
sible.  UÉcole  des  femmes  de  Molière,  outre  Tincident  du 
mari  qu'on  prend  pour  confident  et  qu'on  trornpe  malgré  tout, 
renferme  une  autre  situation  tirée  elle  aussi  de  la  nouvelle, 
l'homme  qui  élève  une  femme  dans  la  solitude  et  dans  l'inno- 
cence  la  plus  absolue,  Tentourant  de  sottes  gens  et  fìnissant 
par  se  repentir  de  ce  système  d'éducation.  La  sottise  d'une 
jeune  fille  forme  le  sujet  de  maints  fabliaux  ')  et  c'est  celte 
sottise  qui  est  la  cause  de  sa  fante.  Sercambi,  avant  l'auteur 
des  Cent  nouvelles  nouvelles,  avait  conte  lui  aussi  ce  qui  était 
arrivé  a  un  mari,  ayant  éduquó  sa  ferarae  dans  l'ignorance  la 
plus  absolue  %  et  Scarron  dans  sa  Prècaution  inutile  avait 
dèveloppé,  à  son  tour,  ce  sujet.  Je  passe  sous  silence  les  détails 
de  ces  versions,  car  il  s'agit  de  sources  bien  déterminées;  je 
remarque  plutòt  que  l'épisode  de  l'amoureux  cache  par  Agnès 
dans  l'armoire,  rappelle  de  près  les  amants  cachés  des  nou- 
velles et  que  l'agnition,  qui  concine  la  pièce,  a  été  tirée  de 
la  cornédie  classique,  aussi  bien  que  de  la  nouvelle  ou  du 
théàtre  italien. 

Monsieur  de  Pourceaugnac  est,  entre  autres  choses,  pré- 
sente à  des  médecins  comrae  salsi  de  folle;  c'est  là  un  sujet 
lire  de  la  nouvelle,  dont  le  théàtre  du  moyen  àge  avait  déjà 
su,  comme  nous  venons  de  le  voir,  proflter  largement.  Le  sac 
dont  Scapin  se  sert,  dans  les  Fourlteries,  pour  renfermer  Ge- 
rente, sous  prétexte  de  le  soustraire  à  ses  ennemis,  dont  il 
feint  ensuite  les  menaces  et  les  coups,  a  été  rapproché,  fort 
à  raison,  du  sac  de  Tabarin.  Mais  Straparule  lui  aussi,  dans 

')  Cfr.,  par  ex.,  la  Gme,  et  VEcureuil  du  Recueil  Montaiglon. 
^)  Voyez  mon  Contributo,  p.  20,  e  note  à  la  41^  des  Cent  nouvelles 
nouvelles. 


3-JO  PIERRE  TOI.IiO 

ses  Facèlieuses  nuiis  (II  n.,  5  f.),  emploii'  ce  moyen  pour  se 
moquer  d'un  amoureux.  La  ferame  que  le  jeune  homrae  pour- 
suits'en  plaint  à  son  mari,  lequel  lui  ordonne  de  le  faire  entrer 
dans  un  sac  qu'il  bat  ensuite  à  piate  couture. 

Les  Fenimes  savantes  présentent  à  leur  tour  des  inspira- 
tions  puisées  à  la  mèrae  source.  Ce  mari,  tremblant  de  peur 
devant  sa  femme  et  n'osant  lui  manifester  sa  volente,  est  bien 
de  l'engeance  du  baron  du  fabliau,  dont  la  dame  dut  subir 
une  étrange  opération,  pour  guérir  de  son  orgueil  *).  Dans  le 
Malade  imaginaire,  la  scène  (III,  18)  où  Argan  se  feint  mort 
pour  éprouver  l'affection  de  sa  femme,  appartieni  aussi.quoique 
les  commentateurs  n'en  aient  rien  dit,  à  un  autre  groupe  d'his- 
toriettes  populaires.  C'est  de  la  mème  manière,  par  exemple, 
que  le  héros  d'une  des  facéties  du  Pogge  simule  une  mort 
soudaine,  dans  le  but  de  connaìtre  les  véritables  sentiments 
de  sa  femme.  Celle-ci  se  livre  à  des  démonstrations  tout  à  fait 
extérieures,  quitte  à  manger  et  à  boire  tout  son  soùl  lors- 
qu'elle  ne  se  trouve  plus  sous  les  yeux  de  témoins  indiscrets, 
Mais  le  mari  est  là,  sous  sa  raideur  apparente,  témoin  autre- 
meni  interesse,  qui  finit  par  se  lever  de  son  lit  de  mort  et 
lui  adresser  de  vifs  reproches  (fac.  CXV'=). 

Enfin  l'influence  que  la  lecture  de  l'oeuvre  de  Rabelais  put 
exercer  sur  l'esprit  de  notre  poète  ne  se  berne  pas  seule- 
ment  aux  constatations  déjà  faites  par  les  critiques.  Outre 
les  questions  que  Sganarelle  adresse  à  tout  le  monde,  pour 
savoir  s'il  peut  se  marier,  sans  trop  de  dangers  *),  questions 
rappelant  de  près  celles  de  Panurge,  dans  un  cas  à  peu 
près  identique  et  que  nous  venons  de  citer,  on  peut  sup- 
poser  que  les  consultations  contradictoires  des  membres  de  la 
faculté,  dans   V Amour  mèdecm,  tirent  aussi  leur  origine  de 


')  De  la  dame  qui  fut  escouillée,  citée  précédemment. 
')  Mariage  force. 


ÈTUDES  SUR  LE  THÉATRE  COMIQUE  FRANCAIS  OU  MOYEN  AGE    311 

là.  Il  s'agit  toujours  d'une  personne,  qui  après  avoir  entendu 
les  conseils  les  plus  disparates  et  les  plus  bizarres,  ne  sait  à 
quoi  s'en  tenir  et  se  trouve  erabarrassée  plus  ancore  qu'aupa- 
ravant.  Ailleurs  la  scène  de  la  Princesse  d'Elide,  où  Moron 
s'exprime  par  sip:nes  (scène  que  les  acteurs  devaient  déve- 
lopper  bien  largement),  rappelle  le  défi  célèbre  de  Panurge,  et 
Moron  qui  fait  le  héros,  lorsque  tout  danger  a  disparu,  n'est 
pas  sans  nous  faire  songer  à  ce  mème  personnage  de  Molière, 
reprenant  son  courage  et  son  aplomb,  la  tempète  cessée. 

Molière  est  entouré  d'une  foule  d  ecrivains,  s'inspirant  lar- 
gement à  ses  pièces.  C'est  de  lui  que  naissent  les  marquis, 
les  femmes  savantes,  les  pédants,  les  maris  ridicules  de  ses 
contemporains,  dont  les  intrigues  comiques  paraissent  le  plus 
souvent  modelées  sur  le  patron  du  grand  maitre.  Tout  le  dix- 
septième  siècle  est  rempli  de  sa  gioire  et  ses  adversaires  eux- 
mémes,  tout  en  le  combattant,  ne  savent  s'éloigner  de  la  voie 
qu'il  vient  de  frayer.  Hauteroche,  né  cinq  ans  avant  Molière, 
assez  bon  acteur,  reproduit  de  mille  manières  les  créations  de 
son  maitre.  h'Amani  qui  ne  /latte  point  nous  présente  en  Gé- 
rasle  et  Anselme,  les  deux  personnages  les  plus  caractéristiques 
du  Misanthrope,  Alceste  et  Pbilinte;  malheureusement  l'imita- 
tion  a  parfois  l'air  d'une  parodie. Ze^-ow^é malapprètè  renferme 
des  souvenirs  de  Don  Juan,  de  monsieur  Loyal  et  de  Scapin 
et  Crispin  médecin  apparlient  à  la  nombreuse  famille  des 
domestiques,  empruntant  le  langage  et  l'habit  des  membres 
de  la  faculté.  Mais  ce  n'est  pas  de  l'influence  de  Molière  sur 
ses  contemporains  que  nous  voulons  nous  occuper  ici.  Ce  qui 
nous  importe  de  constater  c'est  que  la  nouvelle,  qui  inspira 
le  grand  maitre,  inspire  aussi  ses  élèves  et  dans  cette  pièce 
de  Hauteroche,  Cy^ispin  mèdecin,  nous  voyons  la  mise  en 
action  d'un  conte  traditionnel,  l'bomme  qui  se  feint  mort,  pour 
se  tirer  d'une  situation  dangereuse.  On  connaìt  le  fabliau  du 
prestre  crucifié,  où  un  prétre  surpris  par  un  sculpteur,  mari 

StuSj  di  Jilohgin  romanzn,  IX.  22 


342  PlERKb:  TOLDa 

de  la  femme  qu'il  aime,  se  tìent  immobile,  comme  s'il  était 
une  des  statues  de  son  atelier.  Ce  sujet  répétè,  sous  des  forraes 
variées,  trouve  une  autre  application  dans  l'aventure  de 
Grispin  de  Hauteroche,  car  l'adroit  valet,  ne  sachant  comment 
justifìer  sa  présence  dans  la  maison  du  médecin  Mirobolan, 
feint  d'ètre  un  des  raorts  que  le  docteur  doit  sectionner.  La 
comicité  de  cette  scène  est  assez  plaisante,  car  le  médecin 
s'apprète  à  lui  faire  subir  une  opération  fatale  et  fait  des 
remarques  désagréables  sur  la  physionomie  de  Grispin,  qui 
étant  obligé  au  silence,  n'ose  protester.  G'est  là  une  autre 
situation  de  celui  qui  se  feint  mort,  situation  exploitée,  par 
exemple,  dans  le  Mortuus  loquens  du  Pogge.  Les  apparences 
trompeuses  de  Hauteroche  reproduisent  (II,  7)  la  donnée  que 
Molière  tira  de  la  nouvelle,  du  mari  confident  des  amours  de 
son  rivai.  lei,  comme  dans  George  Dandìn,  c'est  un  valet  sot 
qui  révèle  au  mari  ce  qui  se  passe: 

Blesois  (le  valet).  Surtout  il  ne  faut  pas  que  le  mari  le  S9aclie. 
Sturgon  (le  mari).  He!  nous  syavons  cacher  ce  qu'il  faut  que  l'on 
cache. 

Blesois.  C'est.  sans  doute,  un  fantasque,  un  fou. 

Dans  les  Nohles  de  Province,  le  disciple  de  Molière  nous 
présente  Grispin,  auquel  on  fait  accroire  qu'il  est  fou  et  le  mé- 
decin, trompé  lui  aussi,  veut  le  saigner,  coùte  que  coùte.  G'est 
l'aventure  de  Monsieur  de  Pourceaugnac,  avec  un  change- 
ment  de  détails  tout  à  fait  insignifiant.  Le  Deuil  a  été,  par  dé- 
claration  de  son  auteur,  tire  des  contes  d'Eulrapel.  Timante, 
jeune  homme  amant  le  plaisir  et  ne  recevant  pas  de  son  pére 
Pirante,  tout  l'argent,  dont  ses  vices  ont  besoin,  s'accorde  avec 
Grispin  et  joue  au  bonhomme  le  tour  de  le  faire  passer  pour 
mort.  Maitre  et  valet,  habillés  en  deuil,  se  rendent  chez  le 
fermier  Jaquemin  et  se  font  donner  le  prix  du  bai!  et  lorsque 
Pirante  se  présente,  à  son  tour,  on  le  prend  pour  un  spectre 
et   tout   le  monde   s'enfuit.   Mais  la  ruse  est  découverte  et 


ÉrUDES   SUR   LE   THÉAIUE   COMIQUE   FRAN'CAIS   DU   MOYEN   AGE         343 

Grispin  passe  le  quart  d'heure  de  Rabelais.  Nous  verrons  plus 
tard,  à  propos  des  sources  du  théàtre  de  Rognard,  une  autre 
friponnerie  de  ce  genre,  tirée  d'une  nou velie. 

lei  nous  pouvons  constater  quo  l'historiette  de  Noci  du  Fai!, 
d'wn  fils  qui  trompa  Vavarice  de  son  pere,  est  imitée  à  la 
lettre.  Le  faux  orphelin  se  présente  au  fermier  de  la  raènrie 
manière,  mais  le  pére  raeurt  de  rage,  en  entendant  la  du- 
perie,  dont  il  est  la  victime  *).  L'immoralité  de  la  nouvelle 
est  encore  plus  frappante  que  celle  de  la  comédie.  Une  autre 
piece,  le  Cocker  suppose,  du  méme  écrivain,  nous  présente  la 
vieille  donnée  d'un  jeune  fìlle  trompée,  poursuivant  son  sé- 
ducteur  et  l'obligcant  de  tenir  sa  parole  -),  et  le  Feint  Polonais 
consiste  dans  un  déguiseraent,  qui  permei  à  un  araoureux 
d'entrer  dans  la  maison  de  celle  qu'il  aime,  déguisement  qui 
forme  le  fond  d'autres  pièces  du  méme  auteur  '). 

Monfleury  était  plus  jeune  que  Molière,  mais  il  mourut  en 
1685.  Fils  de  comédien  et  coraédien  lui  aussi,  il  ressent  parfois 
de  rinfluence  du  maitre  qu'il  combattit  avec  tant  d'acharne- 
ment,  mais  il  a  plus  d'esprit  que  son  collègue  Hauteroche. 
Dans  VÉcole  des  filles,  il  a  recours  à  cotte  nouvelle  du  Deca- 
meron (VII,  6)  que  nous  avons  eu  l'occasion  de  citer  si  sou- 
vent.  De  méme  que  Madonna  Isabella,  Léonor,  pour  tromper 
la  surveillance  de  son  frère,  ne  sachant  comment  cacher  Don 
Juan  et  Don  Carlos,  qui  se  trouvent  chez  elle,  feint  que  l'un 
poursuive  l'autre,  l'épée  à  la  main.  Les  besfes  raisonnables 
du  méme  auteur  s'inspirent  au  sujet  d'Homère  tei  qu'il  avait 
étè  précédemment  développé  en  Italie  par  Gelli  dans  sa  Circe 
et  en  France  par  Boyer  (1648),  dans  sa  tragi-comédie,  Ulysse 
dans  Visle  de  Circe.  Il  est  toujours  question  des  compagnons 

*)  Cfr.  Cotifes  et  discours  d'Eutrapel,  édit.  elz.,  1874,  IP  voi.,  p.  6-3. 
*)  Cfr.  ma  Comédie  franeaise  de  la  Renaissance,   Revue  citée,    1898, 
p.  244. 
3)  Ibid. 


344  PIERRE  TOLDO 

du  héros  grec,  préférant  l'état  d'abrutisseraent  où  ils  se  trou- 
vent  à  celui  d'homme. 

Vers  la  mème  epoque  (1663),  Samuel  Chapuzeau  faisait  jouer 
sa  Dame  (Tintrlgue,  renfermant  l'historiette  de  Rufline,  qui 
pour  pénéfrer  dans  la  maison  d'un  avare  feint  que  son  mari 
la  poursuive.  Plus  tard  Raymond  Poisson,  dans  les  Faux  mos- 
covites  (1668),  nous  présente  une  forme  particulière  de  dé- 
guisement,  rappelant  de  près  celui  du  Feint  Polonals  de  Hau- 
teroche.  Ce  déguisement  en  faux  moscovites,  inspiré  par 
l'arrivée  à  Paris  des  ambassadeurs  de  Russie,  conlient  un 
détail,  qui  n'est  pas  sans  rappeler  de  près  une  nouvelle  fran- 
^aise.  Un  certain  Lubin,  crieur  de  noir,  est  chargé  du  róle 
d'ambassadeur  et  il  se  rend  avec  sa  suite  chez  Qorgibus, 
maitre  d'bótel,  dans  le  but  évident  de  vivre  pendant  quelque 
temps  à  ses  dépens  et  de  le  voler.  Ce  Lubin  ne  doit  pas  con- 
naìtre  le  fran^ais,  et  pour  démontrer  qu'il  est  russe,  il  dira 
seulement,  pour  réponse  à  toute  question,  le  mot  nyo.  Un  autre 
fìlou,  La  Montagne,  joue,  auprès  de  lui,  le  róle  d'interprete. 
Or,  dans  les  Conteset  discours  d'Eutrapel(ll  voi,  pag.  91)  on 
expose  de  la  mème  manière,  comment  quelques  aventuriers  à 
bout  de  ressources,  font  passer  «  un  vilain  gueux  »  pour  un 
riche  prélat  et  c'est  avec  lui,  qu'ils  se  rendent  à  un  hotel  somp- 
tueux,  où  ils  s'en  donnent  à  coeur  joie.  Le  faux  prélat,  ne 
connaissant  pas  le  latin,  répond  toujours  à  toutes  les  questions 
du  traiteur  par  le  seni  mot  Uà,  ita.  L'adaptation  de  la  nouvelle 
me  parait  fort  probable. 

Guillaume  Marcoureau  de  Brécourt  déclare  avoir  tire  son 
Jaloux  invisible  d'une  nouvelle  espagnole,  El  zeloso  enganado, 
que  je  n'ai  su  retrouver  nulle  part,  mais  le  tour  que  le  feint 
astrologue  joue  au  bonhomme  Carizel  de  lui  faire  voir  le 
marquis  embrassant  sa  femme,  le  persuadant  en  mème  temps 
qu'il  s'agit  là  d'une  sorte  d'allucination,  nous  rappelle  le  cycle 
du  fabliau  du  presire  hi  abevete.  Dans  ce  fabliau  un  prètre 


ÉTUDES  SLH  LE  THÉATRE  COMIQL'E  FRANCAIS  DU  MOYEN  AGE    345 

amoureux  de  la  femme  d'un  paysan,  se  présente  à  la  porte 
de  celui-ci,  s'arrète,  regarde  et  cric  au  scandale.  Il  dèclare 
avoir  vu,  par  le  trou  de  la  serrare ,  la  femme  entre  les 
bras  de  son  mari.  Le  mari  s'ótonne;  il  n'était  occupé  à  autre 
chose  qu'à  manger  et  pour  voir  si  une  telle  allucination  est 
possible,  il  sort  de  sa  maison,  et  laisse  le  prètre  à  sa  place. 
Ce  (ju'il  voit  par  le  trou  de  la  serrure  le  persuade  que  le 
prètre  n'avait  pas  tous  les  torts  de  crier  au  scandale,  mais 
il  reste  bien  persuade  qu'il  ne  s'agit  là  que  d'une  sorte  de 
sorcellerie.  Tel  est  aussi  le  sujet  d'une  nouvelle  de  Boc- 
cace  {Dèe.  VII,  9)  et  M.  Liebrecht  en  a  étudié  plusieurs  ver- 
sions  dans  la  Germania  (XXI,  385  sqq.).  Rien  de  plus  popu- 
laire  que  le  bonnet  qui  est  censé  rendre  invisible,  comme  le 
chapeau  de  Fortunalus,  l'anneau  d'Angélique  du  Furioso,  ou  les 
pierres  dont  le  Calandrino  du  Boccace  remplit  ses  poches. 
Une  pareille  donnée  inspira  plus  tard  De  Visé,  dans  sa  Pierre 
philosophale  (1081),  où  il  est  question  d'une  pierre,  qui  doit 
avoir  cette  vertu  de  rajeunir,  dont  nous  nous  sorames  occupés 
précédemment.  Le  faux  négromant  se  charge  de  raème  de 
rendre  invisible  le  valet  Crispin  et  ces  plaisanteries  sur  les 
vieilies  superstitions  du  moyen  àge  inspirèrent  aussi  le  théàtre 
de  Thomas  Gorneille. 

Les  intrigues  amoureuses  de  Gabriel  Gilbert  (IV,  A.)  re- 
nouvellent  à  leur  tourla  vieille  intrigue  de  faire  passer  pour 
fou  un  personnage  incommode,  et  dans  le  Docieur  de  verre, 
Quinault  nous  présente  un  cas  de  folle  bien  étrange,  tire  d'un 
conte  populaire.  Ce  conte,  dont  je  ne  connais  aucune  rèdaction 
frangaise,  préexistait  déjà  dans  les  nouvelles  de  Cervantes. 
Je  n'ai  sous  les  yeux  que  la  traduction  de  Louis  Viardot 
(Paris,  1871,  p.  213).  Le  licèncié  Vidriera,  à  la  suite  d'un 
malheur  qui  lui  est  arrivé,  se  croit  devenu  de  verre,  ainsi 
que  son  nom  l'indique:  «  Le  malheureux  s'imagina  qu'il  était 
de  verre,  et  dans  cette  pensée  bizarre,  si  quelqu'un  s'appro- 


346  PIEURE  TOLDO 

chait  de  lui,  il  jetait  des  cris  pergants  et  suppliait  dans   les 

meilléurs  termes qu'on   ne   le   touchàt  pas,  crainte  de  le 

briser  en  mille  piòces,  et  jurant  ses  grands  dieux  qu'il  n'élait 
pas  fait  corame  les  autres  horames,  mais  qu'il  était  de  verre  de 
la  lète  aux  pieds  ».  Meme  dans  les  détails,  la  ressemblance 
entre  la  nouvelle  et  la  comédie  me  paraìt  evidente. 

L'historiette  d'un  paysan  ivre  qu'un  seigneur  mene  dans 
son  chàteau  et  qui  se  réveille  au  milieu  des  richesses,  de 
sorte  qu'il  croit  rèver  les  j^eux  ouverls  et  se  persuadant  ensuite 
que  tout  son  passe  n'a  été  qu'un  jeu  de  sa  fantaisie,  forme  le 
sujet  des  Songes  des  hommes  éveillés,  comédie  composée  en 
1646  par  Brosse,  où  il  y  a  des  souvenirs  du  berger  Abu  Hassan 
et  du  calife  Harum  des  Mille  et  une  nuits.  G'est  là  un  sujet  fort 
exploité  sur  la  scène.  Dans  le  Nouveau  thèdtre  italien  de  Ricco- 
boni  (IV  voi.)  il  y  a  un  «  Arlequm  cru  prince  par  magie,  en 
italien  Arlichino  finio  principe,  comè^VxQ  italienne  en  3  actes, 
4juin  1716».  EtRiccoboniajoute:  «  Ilya  en  Italie  une  comédie 
en  musique  à  peu  près  semblable,  inlitulée  II  girello  (le  tonnelet) 
parce  que  c'est  par  ce  tonnelet  qu'Arlequin  est  cru  prince  ». 
G'est  toujours  dans  le  mème  recueil  (cfr.  1  voi.,  p.  177)  qu'on 
lit  le  sujet  à'Arlequin  toujours  Arlequin,  comédie  frangaise 
jouée  en  1726.  Arlequin  est  enivré  et  transporté  dans  le  palais 
d'Alphonse,  roi  de  Naples.  A  son  réveil  on  lui  fait  accroire 
que  sa  vie  précédente  n'a  été  qu'un  songe;  il  est  le  roi  de 
Naples  et  tous  les  courtisans,  qui  l'entourent,  ont  l'air  de 
n'avoir  jamais  connu  d'autre  souverain  que  lui.  Mais  Arlequin 
craint  la  guerre  et  alme  Golette  et  pour  cela  se  sauve  au 
premier  coup  de  fusil.  Louis  de  Boissy  s'inspire  à  la  mème 
donnée  dans  La  vie  est  un  songe  (1732),  comédie  héroique> 
comme  il  l'appelle.  lei  Arlequin  joue  pendant  quelques  instants 
la  róle  de  prince,  mais  il  rentre  bientòt  dans  ses  fonctions  de 
bouffon. 

Ce  sujet  que  le  danois  Holberg  remania  en  partie,  dans  son 


ÉTUDES  SUR  LE  THÉaTRE  comique  francais  du  moyen  age       347 

Jpppe  paa  Bierre,  et  d'où  Plòtz  tira  une  farce,  Le  prince 
enchanté,  inspira  de  nos  jours  une  pièce  désorraais  célèbre, 
l'Arlequin  feint  prince, -Sc/z^wc/t  und  Jau  de  Gherarde  Haupt- 
inann,  pièce  qui  ne  sera  pas  peut-èlre  le  dernier  anneau  de 
cette  chaìne  dèjà  si  longue. 

L'aveugle  clairvoyanl  du  mème  Brosse  offre  un  remanie- 
ment  de  la  nouvelle  citée  tout  à  l'heure  du  mari  qui  se  feint 
mori  pour  éprouver  la  fidélité  do  sa  femrne.  lei  au  lieu  d'un 
mari  nous  avons  un  amant  et  au  lieu  d'un  feint  mort,  un  feint 
aveugle,  mais  le  fond  de  la  plaisanterie  demeure  toujours  le 
mème.  Raymond  Poisson  paraìt  se  souvenir  de  la  legon  de  Boc- 
cace  du  Pont  de  l'ole  et  des  nouvelles  sur  la  vertu  du  bàton, 
dans  son  Lubin  ou  le  sot  venffé,  où  il  mei  en  scène  un  mari, 
dont  la  ferame  se  moque  de  la  manière  la  plus  effrontée.  Un 
de  ses  amis,  ému  de  ce  spectacle,  arrète  de  corriger  Lubin 
de  sa  faiblesse  et  sa  femme  de  son  orgueil  et  fait  présent  au 
bonhorame  d'une  certaine  racine,  qui  a  la  vertu  de  guérir  les 
femmes  désobéissantes  et  éhontées.  Cette  racine  n'est  autre 
chose,  Dien  entendu,  qu'un  bàton  solide,  dont  Lubin  se  sert 
aussilòt  pour  punir  sa  femme  et  pour  en  chasser  l'amoureux. 

Dorimond,  poète  et  comédien,  publia,  en  1C61,  La  feìwne 
indusirieuse,  qui  offre  un  nouveau  remanieraent  de  la  nou- 
velle du  Boccace,  exploitée  par  Molière.  Isabelle  ne  sachant 
comment  révéler  à  Léandre  la  passion  qu'elle  nourrit  pour  lui, 
dit  au  Docteur,  pédant  du  jeune  homme,  que  son  élève  l'en- 
nuie  par  ses  déclarations  d'amour.  Léandre  qui  n'en  sait  rien, 
n'a  pas  trop  de  peine  pour  comprendre  pourquoi  Isabelle  le 
fait  tancer  par  son  maitre,  qui  apporte  ensuite  d'autres  am- 
bassades  et  devient,  à  son  insù,  l'entremetteur  des  deux  jeunes 
gens.  Dans  une  autre  pièce,  YÉcole  des  cocus  ou  la  précau- 
tion  mutile  (1661),  Dorimond  met  en  action  la  41"^  des  Cent 
nouvelles  nouvelles  «  d'ung  chevalier  qui  faisoit  vestir  à  sa 
femme   ung   haubregon   quant   il   luy   vouloit   faire   ce  que 


343  PIERRE  TOLDO 

scavez,  ou  compier  les  dens;  et  du  clero  qui  luy  apprint 
aulire  maniere  de  faire,  doni  elle  fut  à  peu  près  par  sa  bouche 
mesme  encusée  à  son  mary,  se  n'eust  esté  la  glose  quelle 
controuva  subiteraent  ». 

Sercambi  ')  avait  déjà  conte  cette  anecdote,  avec  quelque 
différence,  dans  la  conclusion.  La  niaise  Cloris  de  la  pièce  de 
Dorimond  fait  part  à  son  mari,  le  Capitan,  de  la  nouvelle  legon 
que  Léandre  vient  de  lui  apprendre  et  dont  sa  sottise  ne  lui 
permei  pas  bien  de  comprendre  la  portée.  Philipin,  le  valet 
de  la  comédie,  se  charge  de  la  conclusion,  qui  est  celle  de 
tant  de  nouvelles  et  de  comédies  : 

AUez  dire  aux  maris  des  champs  et  de  la  ville, 
Que  la  précaution  leur  est  chose  inutile. 

Ladèsolationdes  filous{iQQÌ)àQC\iQvd\\Qv  rappelle  quelque 
peu  le  sujel  de  la  Tasse  et  Ghappuzeau  emprunte  au  Moyen 
deparvenir  et  aux  contes  de  d'Ourville  l'intriguede  son  Colin- 
Maillard  (1662).  Un  traiteur  veut  marier  sa  fìUe  à  son  gargon 
Colin,  mais  Isabelle  lui  préfère  le  vicomte  de  Brisebarre,  sorte 
d'aventurier,  criblé  de  dettes.  Gelui-ci,  suivi  de  son  cousin  La 
Roche,  se  rend  au  cabaret  et  comme  ils  n  ont  pas  d'argent, 
le  baron  persuade  Colin  de  jouer  au  colin-maillard  et  de  se 
faire  payer  de  celui  qu'il  saisira.  Colin  se  laisse  bander  les 
yeux;  les  deux  filous  se  sauvent  avec  Isabelle  et  Colin  ne 
saisit  que  le  traiteur,  dont  il  ne  déviendra  plus  le  gendre. 

Le  théàtre  attribué  à  La  Fontaine,  dont  nous  allons  nous 
occuper  maintenant,  erabrasse  à  peu  près  la  seconde  moitié  du 
XVIP  siècle  et  l'on  sait  que  dans  plusieurs  de  ces  pièces  co- 
miques,  on  ne  saurait  déterminer  exactement  ce  qui  est  propre 
à  l'illustre  écrivain  et  ce  qui  est  du  à  la  collaboration  de 
Champmeslé.  Les  rieiirs  du  Beau-Richard  se  présentent  les 

')  C'est  la  première  de  l'appendice  de  l'édit.  Renier. 


ÉTUDES  sua  LE  TUEATRK  COMIQUE  KRANgAIS  DU  MOYEN  AGE    349 

premiers  en  date  (1659).  Ce  ballet  met  ea  action  une  nouvelle 
de  La  Fontaine,  lai-mème  *),  mais  cette  nouvelle  n'est  pas 
issue  de  la  fantaisie  de  l'illustre  écrivain,  dont  l'origina  lite  con- 
sistait  plutòt  dans  la  forme  et  dans  les  détails,  que  dans  l'in- 
vention  du  sujet  general. 

L'intrigue  de  la  pièce  en  question  peut  se  résumer  en  peu 
de  mots.  Un  savetier,  qui  a  une  ferame  bien  charmante,  achète 
à  credit  un  demi-muid  de  blé  et  donne  en  payement  un  billet 
à  tenne.  Le  marchand,  qui  lui  a  vendu  le  blé,  se  présente  à 
réclióance,  mais  comme  il  trouve  que  la  femme  du  savetier 
vaut  bien  l'acquit  du  blé,  il  le  lui  offre  sans  trop  de  fagons: 

Vous  me  devez;  mais,  enti'e  nous, 

Si  vous  vouliez bien  à  votre  aise 


La  femme  se  fàche  tout  d'abord  : 

Monsieur,  pour  qui  me  |3renez-vous  ? 
Voyez  un  peu  frère  Nicaise  ! 

mais  enfin,  pour  ne  pas  le  pousser  à  bout,  elle  s'accorde 
avecson  mari,  qui  lui  conseille.de  jouer  un  tour  au  bonhomme. 
De  raème  que  dans  les  fabliaux  et  dans  les  vieilles  farces,  le 
marchand  et  la  femme  apprétent  un  banquet  et  là  la  belle 
commence  à  cajoler  son  amoureux,  ne  lui  permettant  de  l'em- 
brasser  qu'après  que  le  regu  est  déchiré.  Puis  elle  se  prend 
à  tousser;  le  mari  entre,  ayant  l'air  de  ne  rien  comprendre: 

Ah!  Monsieur,  quei  vous  voir  chez  nous? 
C'est  trop  d'honneur  que  vous  nous  faites, 

et  le  marchand  est  obligé  de  sortir  sans  argent  et  sans  amour, 
en  grand  danger  d'ètre  battu. 


')  Cfr.  oeuvres  de  La  Fontaine,  édition  des  Grands  écrivains,  IV, 
p.  108.  Conte  d'une  chose  arrivée  à  C.  Cette  pièce  fut  jouée  par  les 
ainis  du  poète,  auqucl  elle  paralt  appartenir  entièrement. 


350  PIERRE  TOLDO 

Je  suis  bien  aise  de  faire  connaìtre  à  mes  lecteurs  la  source 
de  cette  farce  si  enjouée,  où  l'esprit  de  l'illustre  écrivain  brille 
d'un  éclat  assez  vif.  On  voit  tout  d'abord  que  nous  avons  af- 
faire à  ce  cycle  de  la  revanche  des  maris  étudiè  précédem- 
ment,  mais  le  noyau  fondamental  il  faut  le  rechercher  dans 
une  nouvelle  du  Moyen  de  parvenir  *),  où  il  est  question  d'un 
mari,  qui  s'accorde  avec  sa  femrae,  pour  avoir  ^rató  du  blé. 
Le  créancier,  qui  reste  berne  ainsi  que  le  marchand,  est  ici 
le  cure,  personnage  commun  à  cette  sorte  d'aventures. 

Je  glisse  rapidement  sur  Ragotin  ou  le  r^oman  comiquey 
mediocre  adaptation  du  roman  de  Scarron;  que  l'on  remarque 
toutefois  que  l'aventure  du  pot  de  chambre  arrivée  au  pauvre 
Ragotin  (ir,  XI),  appartient  aux  contes  populaires  les  plus  ré- 
pandus  et  que  l'autre  du  mème  Ragotin,  auquel  on  veut  faire 
accroire  qu'il  est  mort  (III,  7),  fait  part  des  tours  joués  par 
les  trois  comraères  à  leurs  maris.  Ges  tours  du  mort  suppose 
constituent  un  novellenhrets  représenté  par  une  foule  de  ver- 
sions  depuis  les  fabliaux  De  trois  da7nes  qui  trouvèrent  un 
annel  et  Du  vilain  de  Bailleul,  jusqu'au  Mambriano,  à  Mor- 
lini,  aux  Joyeux  Devis,  aux  Comples  du  ìnonde  adventu- 
reux,  etc.  '). 

Le  Florentin,  qui  eut  l'honneur  d'ètre  mis  par  Voltaire 
«  au-dessus  de  la  plupart  des  petites  pièces  de  Molière  »  %  en- 
thousiasme  que  la  critique  moderne  ne  saurait  partager,  met 
en  scène  la  vieille  donneo  de  garder  une  femme,  considérée 
en  tout  temps,  corame  l'entreprise  la  plus  difficile  de  ce  monde. 
Le  Florentin  est  un  jaloux  de  la  pire  espèce,  qui  renferme. 


')  P.  253  de  l'édition  Jacob. 

^)  Cfr.  LiEBRECHT,  Zur  Volkskunde,  Heilbronn,  1879,  pp.  124-141.  et 
mon  Contributo,  p.  124. 

^)  Conseils  à  un  journaliste,  tome  XXIX,  jj.  270  de  ses  (Euvres 
complètes. 


ÈTUDES   SUR    LE    THÉATRE    GOMIQUE    FRANCAIS   DU    MOYEN    AGE         351 

sous  clef,  sa  pupille  Horfense,  destinée  à  devenir  sa  femme. 
Malgré  ces  précautions,  Hortense  se  moque  de  lui,  aussi  bien 
que  la  demoiselle  du  fabliau  renfermée  dans  une  tour.  Son 
amoureux  Timante  tàche  de  lui  faire  parvenir  un  billet  congu 
dans  ces  termes:  «  pour  punir  votre  jaloux,  je  me  suis  rendu 
maitre  de  la  maison  qui  est  voisine  de  la  vòtre,  où  j'ai  trouvé 
le  raoyen  de  me  faire  un  passage  sous  terre,  qui  me  conduira 
jusqu'à  votre  chambre  ».  Ce  passage  secret  n'est  pas  inconnu 
aux  nouvellistes.  M''  D'Ancona,  dans  ses  Note  alle  novelle  del 
Sercambi  (Bologne,  1871),  rappelle  la  XIII*  nouvelle  de  l'au- 
tour  do  Lucques,  renfermant  cette  donnée  {De  furto  unìus 
mulieris)  répétée  dans  la  1*  des  Cent  nouvelles  nouvelleSy 
dans  les  contes  de  Nicolas  de  Troyes  et  par  Brantóme,  dans 
son  premier  discours  des  Dames  galantes  ^). 

Le  Florentin,  pour  connaìtre  l'ama  de  sa  pupille,  emprunte 
aux  fabliaux,  ou  pour  m'exprimer  plus  exactement,  à  la  tra- 
dition  populaire,  une  invention,  d"un  succès  fort  douteux, 
celle  bien  connue  du  Mari  confesseur,  contèe,  avons-nous  dit, 
entre  autres  par  Boccace  {Dèe.  VII,  5).  Dans  la  comédie  de  la 
Fontaine,  il  y  a  un  léger  changement.  Le  prètre  confesseur  est 
reraplacé  par  un  soi-disant  magistrat  cousin  du  mari,  mais  le 
déguisement  du  mari  et  l'interrogatoire  qu'il  fait  subir  à  sa 
femme  n'ont  d'autre  but  que  celui  du  faux  confesseur.  La  pu- 
pille, qui  n'est  pas  la  dupe  de  ce  déguisement,  punit  la  curiosité  de 
son  tuteur,  en  feignant  de  ne  s'apercevoir  de  rien  et  en  lui 
disant  des  vérités  bien  douloureuses,  qu'il  est  obligé  d'écouter, 
le  coeur  saignant.  Un  autre  stratagemme  employé  par  la  belle 
rappelle  la  donnée  d'autres  nouvelles.  Le  jaloux  est  averti 
que  Timante  va  pénétrer  nuitamment  dans  sa  maison.  Alors 
il  s'arme  de  pied  en  cap  et  monte  la  garde  devant  la  porte,. 


')  Cfr.  mon  Contributo,  p.  23. 


352  PIERRE  TOLDO 

pendant  que  les  deux  amoureux  s'entretiennent  tranquille- 
raent  aillours.  G'est  le  cas,  par  exemple,  du  fabliau  de  la 
Veuve,  et  mieux  encore,  du  tour  joué  par  une  des  femmes 
du  Bècamèron  à  son  mari  (VII,  5)  «  tandis  que  le  mari  ja- 
loux,  d'après  un  faux  alarme,  monte  la  garde  à  sa  maison,  la 
femme  fait  entrer  son  amoureux  par  le  toit  et  s'entretient  dou- 
cement  avec  lui  ». 

Enfin  la  ruse  finale  finit  par  donner  gain  de  cause  à  la  pu- 
pille et  à  son  amant.  Le  Florenlin  a  fait  construire  une  sorte 
de  machine,  pour  emprisonner  Timante  ;  mais  on  lui  fait  com- 
mettre  la  sottise  de  lessaj-er  et  il  reste  là  dedans  corame  une 
souris  dans  une  souricière,  tandis  que  le  beau  couple  s'en 
va  tranquillement  et  que  la  fringante  Marinette  s'écrie:  «  Adieu  ! 
pigliate  un  peu  de  paltence  ».  Ce  pigliate  équivaut  au  «pi- 
glialo su»  de  M'^de  Pourceaugnac,  et  doit  ètre  tire  de  la  co- 
médie  de  l'art.  La  mère,  qui,  avant  de  tirer  le  Florentin  de 
cette  situation  pónible,  lui  fait  subir  un  long  discours,  nous 
fait  penser  à  une  fable  du  méme  auteur  (L.  I,  fab.  XIX),  dont 
les  sources  sont  dùment  établies. 

La  Coupé  enchantée  s'inspire  elle  aussi  à  deux  nouvelles, 
dont  La  Pontaine  nous  présente  des  versions  dans  ses  Oies  de 
frère  Philippe  et  dans  sa  Coupé  enchantée,  versions  recon- 
naissant,  à  leur  tour,  leurs  sources  directes  dans  le  préambule 
de  la  quatrième  journée  du  Decameron  et  dans  le  poème  de 
l'A-rioste  {Ori.,  XLIII,  octave  70).  Les  thélesmes,  ayant  la  vertu 
de  découvrir  l'infidélité  et  la  vertu  des  femmes,  ont  forme  le 
sujet  d'études  diligentes  de  la  part  d'une  élite  de  savants. 
MM.  Du  Méril,  Dunlop,  Kòhler,  Gomparetti,  Rajna,  etc,  nous 
ont  fait  connaìtre  la  fontaine  des  nouvelles  indiennes  de 
Sucasaptati,  celles  de  Floire  et  Bianche for  et  du  Filocopo  de 
Boccace,  La  bocca  della  verità  de  la  legende  virgilienne,  Le 
serpent  d'airain  attribué  de  mèrae  à  Virgile,  et  d'autres  ver- 
sions de  ces  fantaisies  du  moyen  àge. 


ÉTLDES  SUR  LE  THÈATRE  COMIQUE  FRANCAIS  DU  MOYEN  AGE    :^53 

La  coupé  de  La  Fontaine  est  identique  à  celle  de  l'Arioste; 
«  G'est  une  coupé  qui  est  entre  les  raains  du  seigneur  de  ce 
chàteau;  quand  elle  est  pleine  de  vin,  si  la  feinrae  de  celui 
qui  y  boit  lui  est  fidèle,  il  n'en  perd  pas  une  goutte;  mais,  si 
elle  est  infidèle,  tout  le  vin  se  répand  à  terre  ».  La  conso- 
lation  d'avoir  des  compagnons  de  inalheur,  engagé  le  seigneur 
à  faire  essayer  son  vin  à  ceux  qui  lui  rendent  visite,  mais  les 
gens  de  bon  sens  évitent  prudemment,  corame  Thibaut,  une 
épreuve,  qui  pourrait  empoisonner  leur  vie  pour  toujours. 
Maitre  Josselin,  cbargó  de  surveiller  le  jeune  Lèlie  et  de  lui 
défendre  tonte  connaissance  de  la  femme,  est  un  homme  doué 
de  doctrine  et  de  bon  sens,  qui  comprend,  à  l'avance,  l'inutilité 
de  tous  ses  efforts.  Il  a  beau  dire  à  son  élòve  que  les  deux  jeunes 
femmes,  qui  se  présentent,  ne  sont  que  des  «  carognes  »,  qu'il 
veut  chasser  sur  le  champ.  La  nature  parie  plus  ha  ut  que  lui  et 
le  maitre,  lui-mème,  corame  Aristote,  précepteur  d'Alexandre, 
dans  la  legende  si  célèbre,  finit  par  céder  à  leurs  appas,  en 
se  couvrant  par  là  de  ridicule. 

Le  veau  perdu  est  une  sorte  de  farce,  attribuée  plutót  à 
Gharapraeslé  qu'à  La  Fontaine  et  que  nous  ne  connaissons  que 
d'après  l'abrégé  donne  par  les  frères  Parfait  *).  Après  deux 
ou  trois  scènes  nécessaires  pour  l'exposition  du  sujet,  parait 
Ricato,  ce  villageois,  qui  a  cherché  inutilement  un  veau,  qu'il 
a  perdu,  et  qui  monte  sur  un  arbre,  pour  découvrir  de  plus 
loin.  Le  gentilàtre  arrivo,  et  se  croyant  seul  avec  sa  servante, 
lui  conte  des  douceurs,  veut  l'embrasser  et  lui  porte  la  raain  sur 
le  sein  ;  à  chaque  mouvement  il  s'écrie:  «  Ah  Ciel  !  que  d'appas  ! 
que  vois-je,  que  ne  vois-je  pas  ?  »  Ricato,  impatienté  d'entendre 
répéter  toujours  la  mèrae  chose,  crie  du  haut  de  son  arbre: 
«  Notre  bon  Seigneur,  qui  voyez  tant  de  choses,  ne  voyez-vons 
pointmon  veau?»  —  « Je  suis  perdu  —  dit  alors  le  gentilhomrae 

*)  Ristoire  du  théàtre  fraìiQais,  XIII,  pp.  143-145. 


354  PIERRE  TOLDO 

tout  bas  —  ce  rustre  ne  va  pas  manquer  de  raconter  à  ma 
femme  tout  ce  qui  vient  de  se  passer.  Cours  vite  —  ajoute-t-il 
à  sa  servante  —  et  va  dire  à  madame  qu'elle  vienne  en  di- 
ligence  me  trouver  lei  ».  Le  gentilhomme  deraeure  seul  sur 
le  théàtre.  Dans  le  moment  la  dame  arrive.  Le  mari  fait 
l'empressé  aupròs  d'elle  et  recommence  le  mème  jeu,  qu'avec 
sa  servante.  Ricato  rapporte  à  la  dame  ce  qu'il  a  vu  du  mari 
avec  sa  servante,  et  la  dame  répond  toujours:  «  G'était  moi  » 
jusqu'à  ce  que  Ricato,  perdant  patience:  «  Jarni  —  dit-il  — 
vous  me  ferez  enrager;  un  mari  n'est  point  si  sot  à  l'entour 
de  sa  femme».  —  «  Gomment  donc,  insolent  —  reprend  la  dame 
fort  en  colere  —  vous  manquez  ainsi  de  respect  à  monsieur 
le  comte?  ».  Dans  une  autre  scène,  la  servante,  songeant  à  un 
établissement  solide,  et  voulant  épouser  le  fils  du  fermier, 
parce  qu'il  est  jeune  et  riche,  trouve  le  moyen  de  lui  parler. 
Après  quelques  discours,  elle  fait  en  sorte,  qu'il  lui  touche 
dans  la  main.  «  Oh,  dame  ~  dit-elle  alors  —  tu  ne  saurais 
plus  t'en  dédire,  nous  voilà  mari  et  femme  »,  et  c'est  ainsi 
que  tonte  chose  s'arrange,  malgré  le  bavardage  de  Ricato. 

La  Fontaine,  si  ce  n'est  Cbampmeslé,  n'a  fait  que  mettre 
en  action  deux  de  ses  contes,  celui  de  la  Servante  Justifìée  et 
l'autre  du   Villageois  qui  cherche  son  veau  *). 

Ce  dernier  a  été  tire  indirectement  de  VAsinus  pevditus 
du  Pogge  et  directement  de  la  douzième  des  Cent  nouvelles 
nouvelles,  où  Tane  est  remplacé  par  un  veau.  Je  rappplle,  en 
passant,  qu'une  facétie  suédoise  Der  Pfarrer,  der  niemals 
gesehen  halle  (Kruptadia,  II,  p.  193)  reproduit  la  mème  aven- 
ture.  Quant  à  la  Servanle  juslifìèe,  la  source  que  Fon  a  re- 
chercbée  dans  VHeptamèron  (nouv.  XLV*)  n'est  pas  exacte. 
Marguerite  de  Navarre  nous  conte  comment  un  mari,  sous 

')  Edition  citée,  conte  XI*  de  ìa  ir  partie,  tome  IV,  p,  373;  ibid., 
p.  276,  VP,  IP. 


ÉTUDES  SUR  LE  THÉATRE  COMIQUE  PRANCAIS  DU  MOYEN  AGE    355 

l)rótexte  de  faire  lever  de  bon  matin  sa  bonne  paresseuse  et 
<le  lui  «  bailler  Ics  innocents  »,  trompa  la  simplicité  de  sa 
femme. 

La  dernière  des  pièces  comiques  attribuées  à  La  Fontaine, 
Je  vous  prends  sans  verd,  représente,  avec  plusieurs  chan- 
gcmenls,  une  sorte  de  version  de  l'historietle  du  mari  qui, 
voulant  éprouver  la  vertu  de  sa  femme,  se  feint  mort,  histo- 
riette  que  nous  avoiis  déjà  lue  dans  les  facéties  du  Pogge  (GXV). 
[ci  le  mari  annonce  sa  mort  de  loin,  mais  comme  celui  du 
conte  italien  il  n'a  pas  à  se  plaindre  d'avoir  fait  répandre 
trop  de  larmes  à  sa  femme  Juiie.  Gelle-ci  s'adressant  à  sa 
servante  Toinon,  s'écrie: 

De  cette  mort,  Toinon,  cueillons,  goùtons  le  fruit, 
Jouissons  du  bonheur  que  le  ciel  nous  envoie; 
Je  u'ai  plus  de  mari!  quel  plaisir!  quelle  joie! 

Il  n'y  a  rien  d  etonnant  si  La  Fontaine,  ou  Ghampmesló  sur 
son  conseii,  ont  exploité  si  largement  les  contes.  On  ne  pou- 
vait  s'atiendre  autre  chose  de  celui,  qui  avait  dédié  son 
activité  liltéraire  à  la  nouvelle  non  moins  qu'à  la  fable.  Ge- 
pendant  son  exemple  sufflt  pour  faire  comprendre  comment 
une  nouvelle  est  bien  peu  de  chose  pour  remplir  une  comédie 
moderne,  qui  ne  saurait  intéresser  le  public  sans  la  complexité 
de  l'intrigue  et  la  valeur  psychologique  de  ses  personnages. 


356  PIERRE  TOLDO 

Les  derniers  échos  de  la  nouvelle 
au  théàtre. 

Les  autres  auteurs  comiques  ne  dédaignèrent  pas  d'eraprunter 
à  la  nouvelle  leurs  Inspirations.  Nous  en  Irouverons  plus  d'un 
écho  au  XVIP  siècle  et  au  début  du  siècle  suivant,  surtout 
chez  Regnard,  Dancourt  etc.  et  dans  le  répertoire  des  théàtres 
populaires. 

Houdar  de  la  Motte  (1672-1731)  s'inspire ,  par  exemple, 
à  Boccace  et  c'est  de  lui  qu'il  tire  Minutolo  {Dèe.  Ili,  6;  et 
La  Fontaine,  Contes),  le  Magnìfique  (Dèe.  Ili,  5;  La  Fontaine^ 
Contes),  le  Calendrier  des  vìeillards  {Dèe.  II,  10;  La  Fontaine, 
Contes),  et  le  Talisman  répétant  l'a venture  de  Renaud  d'Ast 
célébrée  elle  aussi  par  La  Fontaine  {Dèe.  II,  2;  La  Fontaine, 
Voraison  de  Saint  Julien).  Le  vieux  conte  du  Saiyricotide 
Pétrone,  ou  mieux  encore  la  nouvelle  de  La  Fontaine  forme 
le  sujet  de  sa  Matrone  d'Éphèse.  et  l'inspiration  qu'Hou- 
dar  tire  de  la  nouvelle  se  mèle  aux  souvenirs  du  théàtre  de 
Molière  et  à  des  préoccupations  d'ordre  moral,  surtout  celle 
de  modifier  les  sujets  pour  leur  óter  toute  sorte  de  licence. 

Regnard  puisa,  avec  assez  d'originalité,  le  sujet  de  son  Le- 
gataìre  umversel  (1708)  à  une  nouvelle  italienne,  restée  in- 
connue  aux  critiques  du  poète  et  qu'il  vaut  bien  la  peine 
d'examiner  de  près.  L'italien  Marco  Cademosto  de  Lodi  avait 
publiéen  1544  un  recueil  de  contes,  au  nombre  desquels  on  lit 
le  suivant,  quej'abrège  en  peu  demots  (nouv.  VP):  Scipion  San- 
guinaccio de  Padoue  avant  de  mourir  fait  son  testa ment  et 
laisse  tous  ses  biens  à  l'église.  Galeazzo,  le  valet  affectionné 
de  la  maison,  voyant  que  les  enfants  resteraient  sans  le  sou, 
leur  conseille  de  cacher  le  pére  mort  et  de  faire  courir  le  bruit 
qu'il  est  encore  au  nombre  des  vivants.  Le  valet  Galeazzo  se 
couche   ensuite  dans   le   lit  de  Sanguinaccio,   s'affuble  d'un 


BTUDES  SUR  LE  THÈATRE  COMIQUE  FRANCAIS  DU  MOYEN  AGE    357 

gros  bonnet,  ordonne  qu'on  ferme  les  volets  de  sorte  à  ne 
laisser  pónétrer  daiis  la  chambre  qu'un  demi-jour  incertain,  et 
il  fait  appeler  un  notaire  et  des  témoins,  pour  faire,  au  nom  de 
Sanguinaccio,  un  testament  qui  annule  le  premier.  Tonte  chose 
marche  à  souhait.  L'intrigant  dispose  de  douze  mille  ducats  en 
faveur  de  ses  enfants,  mais  il  ajoute  un  codicille  où  il  laisse  deux 
mille  ducats  à  lui-mème,  pour  les  bons  services  que  cet  excellent 
Galeazzo  lui  a  rendus  constamment.  Les  enfants  protestent  à 
demi-voix,  car  ils  craignent  que  le  notaire  et  les  témoins  ne 
découvrent  leur  ruse,  mais  Galeazzo  fait  la  sourde  oreille  et 
déclare  qu'il  òtera  son  bonnet,  s'ils  osent  se  plaindre.  Le  notaire 
et  les  témoins  partis,  on  avoue  la  mort  de  Sanguinaccio  et  le 
rusé  compère  jouit  des  deux  mille  ducats,  tandis  que  les  enfants 
du  défunt  doivent  le  remercier  de  ce  qu'il  a  fait  pour  eux. 

Dans  le  Lègaiaire  de  Regnard  il  y  a  la  méme  donnée,  seu- 
leraent  le  vieux  Géronte  n'est  pas  encore  mort.  Il  a,  au  con- 
traire, assez  de  vi  Ialite,  bien  que  les  médecins  le  déclarent  en 
fin  de  vie,  pour  songer  à  son  mariage  avec  la  jolie  Isabelle, 
amante  de  son  neveu  Érasle.  Ce  mariage  nuirait  partant  de 
deux  manières  aux  intérèts  du  jeune  homme,  s'il  n'y  avait 
Crispin,  l'adroit  valet  dii  théàtre  frangais,  qui  a  l'oeil  au  guet  et 
qui  renouvelle  l'intrigue  de  Galeazzo,  avec  le  seul  changement 
dù  au  fait  quo  celui,  dont  il  prend  la  place,  est  encore  bien 
vivant.  Ce  changement  n'altère  toutefois  pas  sensiblement  le 
sujet  emprunté  à  Gademosto,  car  Géronte  s'est  évanoui  et  tout 
le  monde  est  persuade  qu'il  ne  reverra  plus  le  jour.  Crispin,  de 
mème  que  son  prèdécesseur,  exige  qu'on  ferme  les  volets  et 
qu'on  l'affuble  «  d'un  grand  bonnet  fourré  jusques  sur  les 
oreilles  ».  Les  deux  notaires  ne  coraprennent  rien  à  l'intrigue 
et  Crispin,  après  avoir  dispose  des  biens  de  celui  qu'il  rem- 
place  en  faveur  d'Éraste,  croit  lui  aussi  convenable  de  se 
donner  une  rente  viagère  de  quinze  cents  francs  et  de  disposer 
de  deux   mille  écus   au   profit  de  la  soubrette  Lisette,  qu'il 

St%idj  di  filologia  romanza,  IX.  23 


358  PIERRE  TOLDO 

épousera  bientót.  Éraste  proteste  de  mème  que  les  enfants  de 
Sanguinaccio,  mais  tonte  protestation  demeure  inutile. 

Ce  qu'il  y  a  de  bien  nouveau  dans  la  pièce  de  Regnard,  c'est 
cette  espèce  de  résurrection  de  Gerente,  qui  met  tout  le 
monde  dans  l'embarras,  mais  ici  encore  les  héritiers  se  tirent 
d'affaire,  en  employant  un  vieil  expédient  de  la  nouvelle,  celui 
de  faire  accroire  au  bonhorame  qu'il  a  rèvé.  La  Demoiselle 
d'un  fabliau  ')  fait  bien  accroire  à  son  mari  que  le  cheval  et 
l'habit  qu'il  a  vus  ne  sont  qu'un  rève  de  son  esprit  malade 
et  le  chevalier  s'en  laisse  persuader. 

Les  souhaits  Saint  Martin  et  d'autres  nouvelles  de  ce  genre 
nous  font  comprendre  l'inspiration  de  la  comédie  Les  souhaits 
du  mème  Regnard  ^)  et  l'on  pourrait  retrouver  comme  l'écho 
de  la  legende  d'Aristote  dans  ce  vieux  philosophe  de  l'anti- 
quité,  ce  Dèmocrite  qui  se  moque  de  toutes  les  faiblesses  hu- 
maines  et  que  notre  écrivain,  dans  la  pièce  de  ce  nom,  fait 
devenir  amoureux  d'une  jeune  fiUe.  Le  retour  imprèvu,  outre 
le  sujet  latin,  renferme  un  expédient  tire  lui  aussi  de  la  nou- 
velle. Merlin,  à  bout  de  ressources,  fait  accroire  à  M'"*'  Bertrand 
que  le  vieux  Gerente  est  fou  et  il  répète  la  mème  chose  à  Ge- 
rente, à  régard  de  M""^  Bertrand.  Gonnella,  le  célèbre  bouffon 
italien,  aurait  joué,  d'après  la  legende,  un  tour  semblable  à  la 
marquise  de  Ferrare  ^),  tour  répété  dans  le  X*  des  Joyeux 
Devis  attribués  à  Des  Périers:  «  De  Fouquet,  qui  fit  accroire 
au  procureur  en  Chastellet,  son.maistre,  que  le  bon  homme 
estoit  sourd,  et  au  bon  homme  que  le  procureur  l'estoit  ». 
Tonte  la  différence  consiste  dans  la  folle  remplagant  la  surdité 
et  pour  laquelle  je  n'ai  qu'à  renvoyer  à  M'  de  Pourceaugnac 
et  à  ce  que  j'ai   dit  là-dessus.  Et  un  autre   souvenir  de  ces 


')  Le  chevalier  à  la  robe  vermeille. 

^)  Cfr.  Bédier,  ouvr.  cité,  chap.  VII,  et  p.  427. 

*)  Cfr.  les  nouvelles  de  Bandelle  (p.  4,  nouv.  27*") 


ÈTUDES   SUR    LE   THEATRE   COMIQUE    FRANCAIS   DU    MOYEN    AGE         359 

contes  populaires  paraìt  aussi  dans  le  Bai,  comédie  du  mèrae 
auteur,  où  un  amoureux  est  introduit  dans  une  sorte  de 
caisse,  chez  celle  qu'il  aime.  L'amant  dans  la  caisse  est  un 
sujet  qui  a  été  exploité  bien  des  fois  par  les  auteurs  des  co- 
médies  et  des  nouvelles  *). 

Du  temps  où  Regnard  composait  ses  pièces,  le  théàtre  ita- 
lien  dirige  par  Évariste  Ghepardi  donnait  nombre  de  repré- 
sentations  a  soggetto,  composées,  en  benne  partie,  par  des 
auteurs  frangais,  Regnard  y  compris.  lei,  de  mème  que  dans 
le  théàtre  du  Scala  et  dans  la  plupart  des  comédies  de  l'art, 
rinfluence  de  la  nouvelle  est  fort  considérable.  Je  me  home 
à  indiquer  que  la  Matrone  d'Éphèse  est  tirée  entièrement  de 
cette  nouvelle  du  Saiyricon  de  Pétrone  (eh.  CXI,  GXII)  qui 
fit  le  tour  du  monde  et  qui  avait  inspirò,  comme  nous  venons 
de  le  voir,  La  Fontaine  lui-méme.  Une  comédie  italienne  de 
Pier  Jacopo  Martello,  Che  bei  pazzi,  est  fondée  elle  aussi 
sur  la  mème  donnée.  ' 

Je  rappelle  en  outre  que  dans  VOpèra  de  campagne  du  recueil 
Gherardi  un  mari  s'arme  de  pied  en  cap,  comme  le  héros  du 
Sacchetti,  pour  s'imposer  à  sa  femme,  mais  celle-ci  se  moque  de 
lui.  La  Fontaine  de  sapience  appartient  au  cycle  des  fontaines 
raerveilleuses,  qui  donnent  une  jeunesse  éternelle  et  rempla- 
cent  l'arbre  de  la  science,  *tandis  que  dans  la  bluette  Atten- 
dez-moy  sous  Vorme,  on  a  une  autre  épreuve  de  la  vertu  fé- 
minine.  Les  femmes  coupables  qui  entrent  dans  le  creux  de 
Torme  y  restent  étouffées,  ainsi  que  celles  de  Naples,  intro- 
duisant  leur  tète  dans  cette  bouche  de  la  vérité,  due  aux 
arts  magiques  de  l'enchanteur  Virgile,  et  que  M""  Gomparetti 
nous  a  fait  déjà  connaitre. 

Enfin  dans  Le  tombeau  de  maistre  André,  on  a  une  adap- 

*)  Décam.,  II,  9;  Giraldi,  Ecatomnithi,  III,  10;  Mambriano,  nouv. 
Cfr.  RuA,  Novelle  del  Mamhriano,  etc,  Turin,  1888,  et  pour  le  théàtre 
la  Cofanaria  de  rran90is  d'Ambra  etc. 


360  PIERRE  TOLDO 

tation  de  la  table  de  l'iiuìtre  et  des  deux  plaideurs.  Arlequin, 
nommé  juge  d'un  différend  entra  Mezzelin  et  Scaramouche, 
differend  cause  par  une  bouteille  de  vin,  vide  pour  son  compie 
la  bouteille  en  question  et  se  moque  des  deux  zanni. 

Dans  le  théàtre  italien  à  Paris  connu  sous  le  nom  de  nou- 
veau  thèdtre  et  compose  lui  aussi  généralement  par  des  écri- 
vains  frangais,  on  a  eu  bien  souvent  recours  à  la  nouvelle 
pour  l'intrigue  des  pièces.  Le  Catalogne  alphabétique  de  Ric- 
coboni  cite  une  Adultere  innocente  «  tirée  de  la  nouvelle  de 
Boccace  intitulée  la  Gageure  des  trois  florentins  (?).  W  Do- 
minique l'a  mise  en  cinq  actes  et  en  vers  frangois  sous  le 
titre  de  la  Femme  fidèle,  ou  les  apparences  trompeuses  ». 
Les  amans  icjnorans  (1720)  de  d'Autreau  ont  été  tirés,  d'après 
le  mème  Riccoboni,  du  roman  célèbre  de  Daphnis  et  Cloe; 
La  hagiie  magique  (1726),  due  à  la  piume  de  M"^  Fuselier,  n'est 
que  VOraison  de  Saint  Julien  de  La  Fontaine:  «  Gette  pièce 
fut  faite  à  l'occasion  de  celle  du  Talisman,  que  représen- 
toient  les  Frangais  et  qui  roule  sur  le  mème  sujet  ».  En  1720 
on  joua  un  Panurge  à  mariey\  s'inspirant  évidemment  aux 
exploits  du  héros  de  Rabelais  et  en  1718  on  avait  mis  en 
action,  toujours  d'après  Riccoboni,  un  conte  des  Mille  et  un 
jours,  sous  le  titre  de  La  vengeance  comique.  L'aventure  cé- 
lèbre de  Belphagor,  connue  en  France  surtout  par  la  nou- 
velle de  Machiavel  et  par  l'imitation  de  La  Fontaine,  forme 
le  sujet  de  Belphagor,  comédie  par  M'  Le  Grand  (ed.  1728) 
et  on  n'a  pas  de  peine  à  retracer  l'inspiration  d'Autreau, 
dans  sa  pièce  Le  besoin  d'aimer  (1723),  lorsqu'on  se  souvient 
que  son  amoureux  timide,  ne  sachant  comment  s'y  prendre 
pour  révéler  sa  passion  à  celle  qu'il  aime,  lui  présente  un  miroir 
et  lui  dit  qu'il  soupire  pour  la  dame  dont  elle  verrà  là  dedans 
l'image  réfléchie.  G'est  l'épisode  de  Ghiarino  dans  V Arcadia  *). 

*)  Cfr.  mon  Contributo  p.  78,  et  pour  Thimon  et  le  figuier   auquel 
les  femmes  se  pendent  voyez  ibid.,  p.  103. 


ÉTUDES  SUR   LE  THÉATRE   COMIQUE  FRANCAIS  DU   MOYEN  AGE        361 

Dans  une  autre  coraédie  de  De  L'Isle,  Thimon  le  misanihrope, 
on  rópòte  la  plaisanterie  bien  connue  entre  autres  par  la  ré- 
daction  du  Cortegiano  du  Castiglione.  Le  héros  de  la  pièce 
offre  à  ses  flatteurs  des  branches  d'un  flguier  auquel  plusieurs 
de  ces  gens  se  sont  déjà  pendus.  Il  croit  que  ce  figuier  a  vrai- 
ment  recu  du  ciel  le  don  merveilleux  d'inviter  les  mauvais 
sujets  à  se  pendre. 

Le  méme  écrivain  (cfr.  Nouveau  ih.  ztaL,  t.  VII)  donna  en 
1725  une  autre  production  dramatique,  dont  le  titre,  Le 
faiicon  ou  les  oijes  de  Boccace,  sufflt  pour  en  indiquer  la 
source  directe,  et  la  nièrae  année  D'AUainval  publiait  sa  co- 
médie,  L'embarras  des  richesses,  reproduisant  la  nouvelle 
de  La  Fontaine,  Le  saveiier  et  le  financier.  lei,  au  lieu  du 
financier,  nous  avons  affaire  à  Plutus  en  personne,  qui  des- 
cend  du  ciel  ou  monte  des  enfers  pour  troubler  le  repos 
d'un  jardinier  pauvre  et  heureux.  Mais  le  jardinier  restitue 
son  trésor  au  dieu  de  la  richesse  et  des  soucis:  «  ainsi  —  dé- 
clare-t-il  —  je  vais  retourner  à  mes  jolies  chansons  ».  La 
moralité  du  conte  de  La  Fontaine  est  là  tout  entière. 

Dans  le  HI*  voi.  du  recueil  cité  de  Riccoboni  on  trouve  une 
Griselda,  dont  l'auteur  paraìt  italien  et  dans  le  Scelto  teatro 
inedito  italiano,  tedesco  e  francese  (voi.  17"),  on  lit  l'histoire 
des  trois  bossus  reproduite  sous  le  titre:  Il  califfo  di  Bagdad 
ossia  i  tre  gobbi  di  Damasco.  L'auteur  est  indiqué  comma 
francais;  on  aurait  pu  tout  bonnement  en  ajouter  le  nora. 

Une  certaine  partie  des  pièces  composant  le  Thédtre  de  la 
Foire  ')  s'inspirent  a  la  parodie  des  dieux  de  l'Olympe  et  au 
merveilleux  surnaturel  aussi  bien  qu'aux  contes  et  aux  ro- 
mans  les  plus  répandus.  Arlequin  roi  de  Serendib,  pièce  en 
trois  actes,  par  M.  le  S**,  représentée  à  la  foire  de  Saint  Ger- 
main  en  1713,  reproduit  une  partie  des  aventures  de  Sancbo 

')  Le  thécitre  de  la  foire  ou  l'opera  comique  etc.  recueil  par  MM.  Le 
Sage  et  D'Orneval,  trois  voi.,  Paris,  Ganeau,  MDCCXXL 


362  PIERRE  TOLDO 

Panga  dans  son  royaume  éphémère.  Cet  Arlequin  devenu  roi 
voudrait  faire  bornie  chère  et  il  ordonne  qu'on  lui  serve  ies  mets 
les  plus  exquis.  Mais,  dit  l'auteur  de  la  pièce:  «  Un  médecin, 
sans  avoir  égard  à  ce  qui  peut  plaire  ou  déplaire  à  Arlequin, 
fait  òter  les  plats  à  mesure  qu'il  y  porte  la  main,  sous  pré- 
texte  que  ce  sont  des  mets  nuisibles  à  sa  sante  ».  Arlequin 
se  fàche  et  «  outré  de  colere  se  saisit  d'un  plat  de  crème  et 
l'applique  sur  le  visage  du  docteur  »  *). 

Arlequin  invisible  du  mème  anonyme,  pièce  jouée  à  la  foire 
de  Saint  Laurent  en  1713,  reproduil  en  parlie  Le  diable  boiteux 
de  Gleofas  et  l'invisibilité  du  héros  de  cette  bluette  est  en- 
tièrement  du  ressort  des  légendes  populaires  et  da  folh-lore  de 
toute  epoque.  On  n'a  qu'à  se  souvenir  d'Anffélique  de  TA- 
rioste.  Dans  la  Ceinture  de  Venus,  pièce  en  deux  actes,  due 
toujours  à  la  piume  de  M.  le  S**,  il  y  a  «  la  bourse  de  For- 
tunatus  »  que  la  Fortune  présente  à  Arlequin,  en  lui  disant  : 

A  peine  tu  l'auras  videe 
Qu'iin  nouvel  or  la  remplira 

et  la  ceinture  de  la  déesse  des  amours  qui  fait 

plaire 
Aux  plus  orgueilleuses  beautés. 

Tèlèmaque  forme  le  sujet  d'une  autre  comédie  de  M.  le 
S"  (1715),  qui  dans  ses  Eaux  de  Merlin  ^)  s'inspire  à  la  le- 
gende des  poèmes  chevaleresques  des  deux  fontaines  mer- 
veilleuses  dont  «  l'une  qui  s'appelle  la  Fontaine  de  la  haìne, 
a  le  pouvoir  d'éteindre  la  fiamme  de  l'amour  en  qui  en  boit 
et  de  changer  son  amour  en  aversion,  l'autre  appelée  la  Fon- 
taine de  l'amour,  allume  cette  passion  dans  les  coeurs  indiffé- 
rents  et  l'augmente  dans  ceux  qui  aiment  déjà  ».  L'inspiration 
tirée  du  Furioso  de  l'Arioste  me  paraìt  Irès  probable.  G'est  dans 

M  5  voi.,  pag.  30. 
')  IP  voi.,  p.  38. 


ÈTUDES  SUR   LE   THÈATRE   COMIQUE   FRANCAIS   DU   MOYEN   AGE        363 

ces  Eaux  de  Merlin  que  nous  avons  la  reproduction  de  la 
plaisanterie  bien  connue  du  moine  de  Rabelais  dans  son  Pan- 
tagruel  : 

Pierrot.  J'ai  pris  en  mariage, 

Depuis  fort  peu  de  tems, 

Une  fille  gentille, 

D'assez  bonne  famille, 

Et  qui  n'a  pas  vingt  ans. 
Arlequin.  Cela  est  bon. 
Pierrot.  Pas  trop  bon. 
Arlequin.  Pourquoi  ? 
Pierrot.  C'est  qu'au  logis  à  tous  moments 

Arrivent  des  amans. 
Mezzetin.  Ah  !  cela  est  mauvais. 
Pierrot.  Pas  trop  mauvais. 
Mezzetin.  He,  d'où  vient? 
Pierrot.   Je  fais  bonne  chère  chez  moy 

A  leurs  dépens,  ma  foy. 
Arlequin.  Oh!  cela  est  bon. 
Pierrot.  Pas  trop  bon. 
Arlequin.  He,  pourquoi  cela? 
Pierrot.  Hom!  c'est  qu'il  vient  une  personne, 

Un  homme  de  condition, 

Qui,  pour  me  renvoyer,  me  donne 

Toujours  quelque  commission. 
Mezzetin.  Cela  est  mauvais  *). 

Belphégor,  ce  diable  que  le  Machiavel  et  La  Fontaine 
avaient  mis  à  la  mode,  joue  un  ròle  assez  important  dans 
Arlequin  traitant  par  M.  D'Or**  (1716)  et  dans  le  Pharaon 
de  monsieur  F***  (1717)  ^),  il  y  a  Olivette  suivante  de  la  com- 
tesse  de  Sept-Et-Le-Va,  qui  fait  accroire  à  sa  maitresse  que 
M'  Maussadinet  est  sourd  et  à  M"'  Maussadinet  que  c'est  là  le 

*)  n*  voi.,  p.  118.  Rabelais,  Pantagruel,  V*  livre,  chap.  XXVHl. 

')  IP  voi. 


364  PIERRE  TOLDO 

défaul  de  sa  maitresse,  ce  qui  fait  que  les  deux  dupes  crient 
sur  la  scène  à  tue-tète. 

Les  anìmaux  raisonnables,  pièce  d'un  acte  par  Messieurs 
F*"et  Le  G'  (1718),  reproduit  la  legende  de  Circe  et  d'U- 
lysse  *),  et  le  Jugement  de  Paris  nous  transporte  en  pleine 
raythologie. 

Enfln  plus  tard  d'autres  écrivains  du  Théàtre  de  la  foire, 
ont  recours  aux  mèmes  sources  ^).  En  1752  Vadé  fait  jouer 
à  la  foire  Saint  Laurent  le  Poirier,  comédie  ingénieuse  où  un 
vieux  tuteur  du  haut  d'un  arbre  assiste,  comrae  le  villageois 
du  Poggio  ou  de  La  Fontaine  qui  a  perdu  son  veau,  à  des 
scènes  araoureuses  bien  pénibles  pour  lui.  G'est  à  La  Fontaine 
que  le  raéme  Vadé  emprunte  le  sujet  de  ses  Troqiieurs  et 
Seda  ine  après  Panard  met  à  la  scène  un  autre  conte  de  La 
Fontaine:  On  ne  s'avise  jmnais  de  tout.  Enfin  Jaconnet 
s'inspire  lui  aussi  à  La  Fontaine  dans  son  Baiser  rendu  ;  Fa- 
vart  tire  sa  Fèe  Urgèle  d'une  nouvelle  de  Voltaire,  remaniée  en- 
suite  par  Nodier  dans  sa  Fèe  aux  miettes,  et  V Aonhigu-Comique 
d'Audinot  attire  beaucoup  de  monde  à  la  foire  Saint-Laurent 
par  un  spectacle  à  machines  intitulé  Les  quatre  fils  d'Aymon. 

Piron,  qui,  fut  un  des  coUaborateurs  les  plus  constants  de  ce 
théàtre,  eut  recours  à  son  tour  aux  mèmes  inspirations.  Son 
Fàcheux  veuvage  (1725)  n'est  que  la  mise  en  action  d'une 
des  nouvelles  les  plus  fantastiques  des  Mille  et  une  nuiis,  celle 
du  mari  ou  de  la  ferame  condamnés  à  finir  leurs  jours  dans 
le  tombeau  renfermant  leur  moitié  et  l'imitation  est  aussi 
dans  les  détails,  la  montagne  creusée,  les  trésors  retrouvés,  etc. 
Dans  les  Chimères  (1726),  Piron  répète  la  très  vieille  histo- 
riette  des  Braies  au  cordelier,  mais  ici  le  cordelier  est  rem- 
placé  par   un  autre  amoureux   changement   dù  à  l'epoque; 

»)  III«  voi. 

*)  Cfr.  M.  Albert,  Les  théàtres  de  la  foire,  pp.  197,  199,  213,  231, 
272  (Paris,  1900). 


ÉTUDES  SUR  LE  THÉATRE  COMIQUE  FRANCAIS  DU  MOYEN  AGE   365 

dans  le  Faux  prodige  il  est  question  du  manteau  magique, 
pour  éprouver  la  vertu  des  femmes  et  dans  YAne  d'or  on 
reproduit  la  donnée  d'Apulée. 

On  volt  donc  qu'en  plein  XVIII*  siècle  la  nouvelle  n'a  pas 
encore  perdu  sa  valeur  inspiratrice. 

Pouf  revenir  à  la  comédie  littéraire,  rappelons  aussi  qu'une 
pièce  de  Dancourt,  Le  tuteur,  met  en  action  l'ancien  fabliau 
du  mari  battu  et  content,  tei  qu'il  a  été  reproduit  par  Boccace 
dans  l'historiette  d'Égane  {Dèe.  VII,  7).  Dans  la  comédie  de 
Dancourt,  on  feint  de  prendre  le  tuteur  Bernard  pour  un 
galant  qui  en  veut  à  la  vertu  de  sa  pupille  et  on  le  bat  à 
piate  couture.  Le  bonhomme  est  heureux  de  ce  qu'il  a  regu 
une  telle  preuve  de  la  fidólité  de  celle  qu'il  alme,  tandis  que 
le  vrai  amoureux  pénètre  dans  sa  maison  et  se  raoque  de  sa 
jalousie. 

G'est  à  la  nouvelle  qu'un  jésuite  anonyme  deraande  le  sujet 
de  sa  comédie  Conaxa  ou  les  gendres  dupès  (1710)  '), 
pièce  qui  i3t  un  certain  bruit  lorsqu'un  académicien,  Etienne, 
un  siècle  plus  tard,  s'avisa  de  s'y  inspirer  dans  sa  production 
dramatique  Lefi  deux  gendres  (1810).  L'histoire  de  Conaxa  se 
trouve  dans  VEsprit  des  conversattons  agréaUes  de  Guyol 
de  Pitaval,  qui  l'avait  tirée  d'un  ancien  conte;  on  la  lit  aussi 
dans  Éraste  ou  fami  de  la  jeunesse  et  dans  la  Morale  en 
action.  Il  s'agit  d'un  pére  assez  sot  pour  céder  entièrement 
ses  biens  à  ses  fiUes  et  par  conséquent  à  ses  gendres  et  qui 
ayant  été  tout  d'abord  traité  avec  beaucoup  d'égards,  est  ensuite 
maltraité,  bafoué  et  chassé,  à  peu  près  corame  le  Roi  Lear  de 
la  tragèdie  de  Shakespeare,  ou  le  malheureux  pére  de  la  Terre 
de  Zola.  A  bout  de  ressources,  le  bonhomme  s'adresse  à  un  de 
ses  amis  qui  lui  conseille  de  se  feindre  riche  et  cette  fiction 
donne  des  résultats  on  ne  pourrait  plus  satisfaisants. 

')  Cfr.  édit.  de  Paris,  1812. 


366  PIERRE  TOLDO 

Un  écho  de  vieilles  légendes  paraìt  aussi  dans  les  Deux 
tonneaux  de  Voltaire,  qui  renouvellent  le  conte  cité  tout  à 
l'heure  du  Furioso,  celui  des  deux  fontaines,  dontl'une  inspire 
l'amour  et  l'autre  la  haine.  Une  méprise  peut  changer  par- 
tant  la  passion  la  plus  vive  dans  une  antipathie  indomptable. 
G'est  la  condition  oìi  se  trouvent  les  deux  fiancés  Glycère  et 
Daphnis,  par  la  substitution  maligne  du  grand  sacrificateur 
de  Bacchus. 

Enfin,  en  plein  romantisme,  un  des  esprits  les  plus  aima- 
bles  de  la  France,  Alfred  de  Musset,  demanda  fort  souvent 
ses  inspirations  dramatiques  à  ces  vieilles  nouvelles.  Mais  il 
n'y  a  rien  en  cela,  qui  doive  nous  étonner.  Un  des  préceptes 
de  l'école  romantique  était  celui  de  rechercher  ses  inspira, 
tions  dans  les  traditions  du  moyen  àge  et  de  la  Renaissance 
et  Alfred  de  Musset  suivait  en  cela  une  voie  bien  tracée.  — 
M'  D'Ancona  nous  a  fait  déjà  connaitre  comment  le  drame 
Carmosine  est  tire  du  Boccace  (X,  7)  et  BarbeìHne  du 
Bandelle  (1  partie,  nouv.  Sl-^)  *).  A  ces  sources  indiquées,  je 
puis  en  ajouter  quelques  autres.  Le  sujet  des  Caprices  de 
Marianne  n'est  que  l'histoire  de  celui  qui  se  fait  remplacer, 
dans  un  rendez-vous  galant,  par  un  de  ses  amis.  Nous  avons 
déjà  entendu  Marguerite  de  Navarre  conter  cette  aventure, 
dans  son  Heptaméron  (nouv.  14^):  «  Subtilité  d'un  amou- 
reux,  qui  sous  la  faveur  du  vrai  ami,  cueilla  d'une  dame  mi- 
lanoise  le  fruii  de  ses  labeurs  passés  »  et  cette  nouvelle,  ré- 
pétée  en  France  dans  les  Comptes  du  monde  adventureux 
(53«),  se  retrouvait  déjà  en  Italie,  dans  le  Novellino  (GXXXV) 
et  dans  les  contes  de  Bandello  (p.  I,  16;  p.  Ili,  22).  Rien  de 
plus  commun  que  le  versions  postérieures.  Plusieurs  déguise- 


"  »)  Voyez  Alfred  de  Musset  et  l'Italie,  dans  les  Varietà  storiche  e  let- 
terarie de  M.  Alessandro  d'Ancona,  V  serie,  Milan,  1883.  De  Musset 
tira  aussi  du  Boccace  les  deux  nouvelles  de  Silvio  et  Simone. 


ÉTUDES  SUR  LE  THÉATRE  COMIQUE  FRANgAIS  DU  MOTEN  AGE   367 

ments  constituent  le  fond  de  Fantasia  de  l'aimable  roman- 
tique.  Son  Chandelier  nous  présente  un  amoureux  cache  dans 
une  armoire,  de  méme  que  les  hóros  galants  des  fabliaux 
mis  au  lardier  ou  repus  derrière  Vescrin  et  dans  les  May'- 
rons  du  feic,  De  Musset  répète  la  substitution  de  ses  Ca- 
prices.  On  peut  dire  que  toute  l'intrigue  de  ce  drame  char- 
mant consiste  dans  le  tour  joué  par  Rafael  Garuci  à  la  belle 
Garaargo  de  lui  envoyer,  à  sa  place,  l'abbé  Annibal  Desiderio. 
Mais  la  vengeance  de  la  femme  offensóe  modifie  singulière- 
ment  cette  première  inspiration  et  jette  un  sombre  voile  sur 
ce  que  l'ancienne  nouvelle  présentait  d'enjoué.  Il  y  a  dans 
ce  dénouement  un  souvenir  de  Bandello. 

La  Belcolore,  du  poèrae  dramatique  La  coupé  et  les  lèvres, 
n'est  pas  sans  nous  rappeler  la  Matrone  d'Éphèse  des  nou- 
velles  milésiennes.  Belcolore  a  beau  pleurer  celui  qu'elle  croit 
mort.  L'argent  d'un  nouveau  venu  sufflt  pour  lui  faire  oublier 
le  défunt,  qu'elle  s'apprète  à  offenser,  sur  son  tombeau  raème, 
transformé  en  couche  affreuse  de  ses  nouvelles  amours.  Enfin 
le  capitaine  Frank,  assistant  de  son  vivant  à  ses  funérailles, 
reproduit  une  page  célèbre  de  la  vie  de  Charles  Quint  ;  mais 
l'histoire  elle  aussi,  en  ce  qu'elle  présente  d  etrange  ou  d'ex- 
traordinaire,  contribue  au  patrimoine  des  traditions  populaires. 
Bien  des  légendes  sont  issues  de  là,  et  méme  de  nos  jours,  où 
l'histoire  est  à  la  portée  de  tout  le  monde,  Napoléon  en  France, 
Garibaldi  en  Italie,  et  bien  d'autres  personnages  illustres, 
vivent  chez  le  peuple,  sous  un  aspect  tout  à  fait  particulier,  où 
le  merveilleux  se  mèle  à  la  vérité  et  où  le  coté  épisodique 
et  douteux  l'emporte  sur  l'exactitude  des  évènements  réels. 

Peut-étre  la  plupart  des  nouvelles  inspiratrices  des  farces, 
qui  nous  ont  occupò  jusqu'à  présent,  ne  sont-elles  que  le  re- 
sultai de  cette  altération  inconsciente  (jue  le  peuple  fait  subir 
à  des  faits  qui  se  sont  vraiment  passés,  et  cette  altération  est 
devenue  de  plus  en  plus  profonde,  en  passant  de  pays  en  pays 


368  PIERRE  TOLDO 

et  de  bouche  en  bouche.  Ainsi  les  pèlerins  revenant  de  la  Pa- 
lestine transformaient  à  leur  insù,  poussés  par  leur  fantaisie 
excitée,  les  faits  réels  qui  s'étaient  passés  sous  leurs  yeux. 

Dans  tout  ce  que  l'on  coraprend  sous  le  nora  de  créalion  ou 
d'invention  littéraire,  l'artiste  ne  fait  après  tout  que  repro- 
duire  ce  qu'il  a  recu  de  ses  prédécesseurs,  s'inspirant  en  mème 
temps  à  l'observation  de  ce  qui  l'entoure  et  à  l'étude  des 
passions,  agitant  son  àmé.  La  création  populaire  nait  d'un  pro- 
cède semblable,  mais  moins  psychologique  et  profond.  Le  coeur 
humain  ne  parie  si  ce  n'est  à  ceux  qui  sont  à  mème  de  le 
comprendre,  mais  les  grands  évènements  de  l'histoire,  les 
guerres,  les  famines,  les  pestilences,  les  victoires  et  les  défaites, 
ainsi  que  les  anecdotes  comiques  de  la  vie  de  tous  les  jours, 
laissent  une  trace  parfois  très  profonde  dans  les  souvenirs  des 
peuples.  Le  passe  arrive  ainsi  aux  générations  nouvelles,  avec 
tout  le  charme  de  l'inconnu,  agrandi  par  la  fantaisie  des 
masses,  altérées  du  merveilleux,  faussé  par  l'ignorance,  adapté 
d'une  manière  étrange  à  l'intelligence  de  tout  le  monde  et  des 
nouvelles  générations,  changeant  d'habit  et  de  moeurs,  mais 
gardant,  malgré  tout,  quelques  traits  de  la  vérité  primitive. 
L'histoire  de  la  Grece  et  de  Rome,  la  vie  des  empereurs 
latins  et  des  saints  du  Ghristianisme  ont  subi  de  ces  altéra- 
tions  profondes,  mais  plusieurs  de  ces  légendes,  que  la  critique 
avait  repoussées,  avec  le  scepticisme  dédaigneux  des  esprits 
éclairés,  sont  revenues  au  jour,  dévoilant  leur  fond  historique. 
L'Iliade  renferme  certainement  des  inventions  poétiques,  mais 
le  trésor  de  Priam  est  là  pour  nous  attester  que  tout  n'est 
pas  issu  de  l'imagination  du  poète. 

Pourquoi  donc,  à  une  epoque  quelconque,  n'y  aurait-il  pu 
y  avoir  des  femmes  rusées,  trompant  leurs  maris,  par  des  tours 
semblables  sinon  identiques  à  céux  que  les  anciennes  nou- 
velles nous  ont  transmis  et  que  la  tradition  populaire  répète 
encore  dans  nos  cabanes?  Gés  tours  se  renouvellent  peut-ètre, 


ÈTUDES  SUR  LE  thèatre  comique  francais  du  moyen  age   369 

à  quelque  diffórence  près,  dans  la  société  de  notre  epoque,  et 
c'est  cette  véritè  humaine,  qui  a  donne  à  tous  ces  contes  une 
vitalité  et  une  plasticité  merveilleuses,  qui  leur  a  permis  de 
revivre,  sans  un  air  trop  vieilli,  dans  la  littérature  de  tous 
les  siècles  et  chez  tous  les  peuples. 

Gbangez  quelques  détails,  modifiez  les  moeurs,  et  le  mari  des 
fabliaux  et  des  farces,  la  femme  acariàtre  et  lascive,  le  prètre 
libertin  et  le  sot  dont  tout  le  monde  se  dupe  apparaitront  à 
nos  yeux  tels  que  nos  ancétres  ont  su  les  concevoir.  C'est 
que  l'homme  est  toujours  égal  à  lui-méme  et  les  raèmes  pas- 
sions,  les  mèmes  vices  et  les  raèmes  sujets  du  rire  ont  remué, 
ému,  réjoui  les  siècles  passés,  ainsi  qu'ils  exciteront  la  douleur 
ou  la  joie  de  l'huraanité  à  venir.  Et  la  gaieté  comique  est 
encore  ce  qu'il  y  a  de  mieux  ici-bas,  car  au  moins  d'après 
Rabelais: 

"  Mieux  et  de  ris  que  de  larmes  escrire, 
Pour  ce  que  le  rire  est  le  propre  de  l'homme. 

En  cela  la  nouvelle  et  la  comédie  ont  été  toujours  d'accord, 
ce  qui  sert  aussi  à  expliquer  leurs  étroits  rapports  et  la 
source  si  souvent  commune  de  leurs  inspirations. 

P.   TOLDO. 


ERRATA-CORRIGE. 

Pag.    43,  riga  21  me  nage  corr.  me 

»       66,  »     19  davanciers                             »     devanciers 

»       89,  »     15  commes                                 »     conime 

»     125,  ^       1  allons  voir  sous  peu             »      venons  de  voir 

»     132,  »       8  ainsi  que  La  Fontaine  dit      >     ainsi  que  plus  tard  dira 


1  NOMI  DEGLI  UCCELLI 
NEI    DIALETTI    LOMBARDI 


Introduzione.  —  I  nomi   dialettali  degli   uccelli   si    vennero 

formando  secondo  parecchi  criteri Pag.  374 

PARTE  PRIMA 
Nomi    0  g  g  e  1 1  i  v  i. 

Gap.  I.  —  Specie  a  nomi   indicanti  il  colore  o  la  disposizione 

delle  i^enne 377-387 

a)  Di  tutto  il  corpo ,     377 

Accentor  modularis  —  Alcedo  ispida  —  Cannabina 

linota  —  Cypselus  apus  —  Emberiza  citrinella  — 
Fringilla  chloris  —  Lagopus  rautus  —  Lanius  auri- 
culatus  —  Lanius  minor  —  Motacilla  alba  —  Mo- 
tacilla  flava  —  Muscicapa  atricapilla  —  Muscicapa 
grisola  —  Philloscopus  Bonellii  —  Philloscopus  si- 
bilator  —  Ficus  viridis  —  P3'rrula  europaea  —  Pra- 
tincola  rubicola  —  Ruticilla  tit3"S  —  Serinus  hor- 
tulanus. 

b)  Di  parte  del  corpo ,     382 

Aegiotus  linarius  —  Carduelìs  elegans  —  Cyanecula 

Wolfi  —  Cyanistes  cocruleus  —  Emberiza  cirlus  — 
Ei-ithacus  rubecula  —  Galerita  cristata  —  Hirundo 
rustica  —  Hirundo  urbica  —  Merula  torquata  — 
Monacus  atricapillus  —  Monticola  saxatilis  —  Parus 
ater  —  Parus  caudatus  —  Parus  maior  —  Pica 
rustica  —  Picus  maior  —  Regulus  ignicapillus  — 
Ruticilla  phoenicurus  —  Saxicola  oenanthe  —  Turdus 
iliacus  —  Upupa  epops  —  Vanellns  capella. 


I    NOMI   DEGLI    UCCELLI    NEI    DIALETTI    LOMBARDI  371 

Gap.  II.  —  Specie  a  nomi  indicanti  la  forma  del  becco  .     .     Pag.  388 
Caprimulgus   europaeus  —  Coccothraustes    vulgaris 

—  Loxia  curvirostra  —  Scolopax  rusticola. 

Gap.  III.  —  Specie  a  nomi  indicanti  il  cibo „     389 

Alcedo  ispida  —  Budj'tes  flavus  —  Gaprimulgus 
europaeus  —  Carduelis  elegans  —  Goccothraustes 
vulgaris  —  Golumba  palumbus  —  Grysoinitris  spinus 

—  luns  torquilla  —  Ligurinus  chloris  —  Miliaria 
projer  —  Monacus    hortensis  —  Muscicapa   grisola 

—  Passer  Italiae  —  Passer  montanus  —  Philloscopus 
rufus  —  Pratincola  rubicela  —  Sylvia  cinerea  — 
Tichodroma  muraria  —  Turdus  musicus  —  Turdus 
pilaris. 

Gap.  IV.  —  Specie  a  nomi  riflettenti  il  canto „     395 

Abanda  arborea  —  Anthus  pratensis  —  Gannabina 
linota  —  Gorvus  frugileus  —  Coturnix  communis  — 
Guculus  canorus  —  Emberiza  eia  —  Emberiza  hor- 
tulana  —  Erithacus    rubecula  —   Fringilla   coelebs 

—  Fringilla  montifringilla  —  Gallinago  coelestis  — 
Garrulus  glandarius  —  Hipolais  poliglotta —  Hirundo 
rustica  —  Miliaria  proyer  —  Motacilla  alba  —  Mo- 
tacilla  boarula  —  Parus  coeruleus  —  Parus  maior 

—  Parus  minor  —  Passer  montanus  —  Philloscopus 
rufus  —  Pratincola  rubicela  —  Pyrrula  europaea  — 
Regulus  ignicapillus  —  Scops  giù  —  Sylvia   cinerea 

—  Troglodytes  parvuhis  —  Turdus  musicus  — 
Turdus  pilaris  —  Turdus  viscivorus  —  Upupa  epops 

—  Vanellus  capella. 

Gap.  V.  —  Specie  a  nomi  indicanti   qualche  particolare  moto 

0  abitudine ,     402 

Alcedo  ispida  —  Anthus  pratensis  —  Gaprimulgus 
europaeus  —  Gerthia  familiaris  —  lunx  torquilla  — 
Monticela  cyanus  —  Motacilla  alba  —  Motacilla 
boarula  —  Muscicapa  atricapilla  —  Passer  montanus 

—  Picus  maior  —  Podiceps  fluviatilis  —  Pratincola 
rubetra  —  Pratincola  rubicela  —  Strepsilas  interpres 

—  Troglodytes  parvulus. 

Gap.  vi.  —  Specie  a  nomi  formati  su  quelli  de'  luoghi  di  pre- 
ferenza abitati  dagli  uccelli ^     408 

Accentor   medularis  —  Acrocephalus    arundinaceus 

—  Alauda  arvensis  —  Anthus  aquaticus  —  Anthus 
pratensis  —  Ginclus  aquaticus  —  Golumba  livia  — 
Emberiza  eia  —  Emberiza    citrinella  —  Emberiza 


372  G.    BONELI.I 

hortulana  —  Fringillu  montifringilla  —  Miliaria 
proyer  —  Monticela  cyanus    —  Monticela  saxatilis 

—  Ruticilla  titys  —  Saxicola  oenanthe  —  Sylvia 
cinerea  —  Ticliodroma  muraria  —  Turdus  iliaeus  — 
Turdus  menila  —  Turdus  musicus  —  Turdus  pilaris. 

Nomi  so^gettui. 

Gap.  vii.  —  Specie  a  itomi  accrescitivi  e  diminutivi  .     .     .      Paq.  415 
Acrocephalus    arundinaceus  —  Alauda    arborea  — 
Alauda  arvensis  —  Alauda  calandra  —  Alauda  me- 
lanocorypha  —  Anthus  arboreus  —  Anthus  arvensis 

—  Anthus  pratensis  —  Asio  otus  —  Athene  noctua 

—  Cypselus  apus  —  Emberiza  eia  —  Emberiza  cirlus 

—  Gallinago  coelestis  —  Garrulus  glaudarius  — 
Hipolais  poliglotta  —  Hirundo  rustica  —  Hirundo 
urbica  —  Lanius  minor  —  Lanius  rufus  —  Monacus 
hortensis  —  Monticela  saxatilis  —  Motacilla    alba 

—  Motacilla  flava  —  Parus  caudatus  —  Parus  maior 

—  Parus  minor  —  Passer  Italiae  —  Passer  mon- 
tanus  —  Ruticilla  phoenicurus  —  Scolopax  rusticola 

—  Sylvia  cinerea  —  Turdus  iliaeus  —  Turdus  mu- 
sicus —  Turdus  pilaris  —  Turdus  viscivorus. 

Gap.  Vili.  —  Specie  a  nomi  a  base  latina 419-429 

Alanda  arvensis  —  Alauda  calandra  —  Anas  boscas 

—  Aquila  chrysaetus  —  Giconia  alba  —  Gygnus  olor 

—  Goccothraustes  vulgaris  —  Golumba  palumbus  — 
Corvus  ater  —  Crysomitris  spinus  —  Falco  —  Frin- 
gilla  coelebs  —  Fulica  atra  —  Clrus  communis  — 
Hirundo  rustica  —  Hirundo  urbica  —  Lanius  col- 
lurio  —  Lanius  maior  —  Lanius  minor  —  Lusciola 
luscinia  —  Oriolus  galbula  —  Phasianus  colchicus 

—  Passer  Italiae  —  Passer  montanus  —  Ficus  maior 

—  Monacus  hortensis  —  Regulus  ignicapillus  — 
Serinus  hortulanus  —  Starna  perdix  —  Sturnus  vul- 
garis —  Syrmium  aluco  —  Turdus  merula  —  Turdus 
musicus  —  Turtur  tenera  —  Upupa  epops  -  Va- 
nellus  cristatus. 

a)  A  base  francese „     427 

Athene  noctua  —  Pyrrula  europaea  —  Turdus  pi- 
laris —  Turdus  viscivorus. 

h)  A  base  tedesca „     428 

Cannabina  linota  —  Garrulus  glandarius  —  Loxia 
curvirostra. 


I   NOMI   DEGLI   UCCELLI    NEI   DL\LETT1    LOMBARDI  373 

Gap.  IX.  —  Specie  a  nomi  ironici  o  scherzo^ Pag.  429 

Accentor  modularis  —  Cypselus  apus  —  Erithacus 
rubeeula  —  Muscicapa  atricapilla  —  Oriolus  galbula 
—  Ruticilla  titys  —  Strix  flammea  —  Troglodytes 
europaeus. 

PARTE  SECONDA 

Capitolo  unico.  —  Considerazioni  intorno  al  genere  dei  nomi 

ornitologici 434-451 

In  alcuni  nomi  bergamaschi  e  bresciani  sembra  che 
la  denominazione  femminile   sia    propria  degli   uc- 
celli dei    quali  non  si  rileva   il  sesso,  almeno    con 
facilità;  la  maschile  degli  altri. 
Elenco  di  questi  uccelli  : 

e  dei  primi „     437 

e  dei  secondi ,     444 

Alcune  eccezioni „     448 

APPENDICE 

Nota  I.        —  Neppure  nel  Folignate  la  caccia  ha  la  grande 

importanza  che  ha  in  Lombardia  ....         „     452 

,  II.  —  Gli  stessi  nomi  ornitologici  paion  dimostrare 
poco  diffusa  e  poco  sicura  la  conoscenza  del- 
l'avifauna nella  Sicilia  e  nella  Sardegna     .         „     453 

,  III.  —  Il  passero  è  assai  timido  e  sospettoso  in  Italia; 
altrove  molto  meno  perchè  efficacemente  tu- 
telato           ,       , 

,     IV.      —  I  nomignoli  di  merlo  e  di  cuco „     454 

,     V.      —  Le  otto  voci  del   fringuello.  —  Interpretazioni 

del  suo  canto  d'amore „     458 

,  VI.  —  L'epiteto  di  compare  dato  al  rigogolo  è  proba- 
bilmente nomignolo  di  famigliarità  ...         „     460 

„  VII.  —  I  Francesi,  aiutati  dalla  lingua  molto  armo- 
niosa, hanno  con  assai  grazia  e  fantasia  ri- 
tratto gorgheggi  e  abitudini  di  parecchi  uc- 
celli. Due  esempi:  l'allodola  e  l'usignuolo  .         ,     461 

,     Vili.  —  Il  tordo  e  il  chioccholìo -     463 


Studj  di  filologia  rotnama,  IX.  24 


374  G.   BONELLI 


Introduzione. 

Per  poco  che  si  prendano  a  considerare  i  nomi  coi  quali 
il  popolo  ha,  per  cosi  dire,  battezzato  gli  uccelli,  si  scorge 
tosto  come  nella  formazione  di  essi  intervengano  parecchi 
criteri,  tra  i  quali  principalissimi  quelli  del  colore  delle 
penne,  del  canto,  del  cibo  preferito;  che  se  poi  l'uccello 
presenta  qualche  strana  caratteristica,  questa  il  popolo  ha 
colto  e  fermata  nella  denominazione. 

Tale  fatto  non  è  certo  anormale,  poiché,  se  perfino  la 
lingua  colta  serba  evidenti  e  numerose  traccie  del  processo 
oggettivo,  è  ben  naturale  ch'esse  pure  si  riscontrino  nella 
volgare.  —  Non  è  però  a  credere,  per  quanto  riguarda  il 
caso  nostro,  che  i  criteri  cui  sopra  s'è  accennato  siano 
qualche  cosa  di  rigidamente  fisso  e  che  in  modo  neces- 
sario e  quasi  fatale  s'impongano  alla  mente  del  popolo; 
no;  pur  in  questo  fatto  della  formazione  dei  nomi  ornito- 
logici il  popolo  s'è  sentito  libero,  e,  senza  obbedire,  se 
posso  COSI  esprimermi,  a  nessun  schema  mentale,  ha  giu- 
dicato puramente  secondo  l'impressione  che  riceveva,  e 
laddove,  ad  esempio,  di  un  uccello  era  piti  che  altro  colpito 
dal  colore  delle  penne  a  questo  informava  il  nome;  lad- 
dove invece  ciò  che  maggiormente  faceva  impressione  su  di 
lui  era  una  qualche  particolarità,  vuoi  della  nutrizione,  vuoi 
dei  moti  dell'uccello,  questa  rilevava  o  direttamente  o  per 
mezzo  di  un  paragone. 


I    NOMI   DEGLI    UCCELLI    NEI    DIALETTI    LOMBARDI  375 

Ma  pui'  di  un  medesimo  oggetto  l' impressione  varia  a 
seconda  dell'indole  fisiologica  e  psicologica  di  chi  lo  avverte 
0  considera;  di  qui  avviene  che  mentre  da  una  popolazione 
o  parte  di  popolazione,  un  dato  uccello  —  per  venir  tosto 
e  mantenerci  sempre  nei  limiti  di  codeste  nostre  osserva- 
zioni —  è  denominato  con  una  voce  che,  mettiamo  il  caso, 
rileva  il  cibo  dall'uccello  preferito,  un'altra  invece  lo  de- 
signa con  un  nome  che  del  volatile  ritrae  non  piìi  il  cibo 
ma  un  moto  particolare. 

Adunque  i  criteri  non  sono  fissi  e,  per  così  dire,  presta- 
biliti, poiché  non  solo  variano  secondo  l'oggetto  (l'uccello) 
e  secondo  il  soggetto  (la  popolazione)^  ma  anche  tra  loro 
s'incrociano,  come  allora  che  un  medesimo  uccello  ha  pa- 
recchi nomi  dei  quali  alcuni  ritraggono  date  caratteristiche, 
altri,  altre  ^). 

Questa  l'avvertenza  che  c'è  parso  di  poter  fare,  avver- 
tenza che  a  noi  sembra  accettevole  e  perché  naturale  e 
perché  confortata,  anzi  in  noi  prodotta  da  un  esame  piut- 
tosto minuto  che  abbiamo  fatto  dei  nomi  in  questione. 

Diamo  ora  i  risultati  di  cotali  nostre  ricerche,  e  cioè, 
avuto  speciale  riguardo  alle  denominazioni  lombarde,  a  noi 
per  uso  e  affinità  di  dialetti  più  famigliari  e  meglio  note, 
verremo  discriminando  le  diverse  specie  ornitologiche  ^) 
secondo  i  criteri  che  intervennero  nella  formazione  dei  loro 
rispettivi  nomi  dialettali,  e  si  vedrà  così,  poi  che  parecchie 


')  Tale  fatto  del  variare  del  criterio  direttivo  riscontrasi  special- 
mente considerando  di  un  dato  uccello  i  nomi  coi  quali  le  divei-se 
popolazioni  lo  sogliono  indicare;  ma  talora  anche,  e  non  è  raro  il 
caso,  in   quelli  stessi  di  una  medesima  popolazione. 

")  Tralasciando  però  in  generale,  come  meno  importanti  per  il  com- 
pito nostro,  quelle  acquatiche. 


376  G.   BONELLI 

si  dovranno  numerare  più  d'una  volta,  ciò  che  pure  s'è  già 
accennato,  vo' dire  l'incrociarsi  e  il  variare  dei  criteri 
fra  loro  ^). 


^)  Dei  nomi  dialettali  ornitologici  che  nelle  presenti  pagine  sono 
citati,  solo  quelli  bresciani,  alcuni  bergamaschi  e  i  pochi  milanesi 
riferisco  per  diretta  cognizione  e  sapienza.  Devo  invece  alla  squisita 
cortesia  di  benevoli  persone  i  cremonesi,  i  vicentini,  i  genovesi  ;  al 
—  Saggio  di  un  vocabolario  bergamasco  ornitologico  —  del  reverendo 
prof.  Caffi  (vedasi  l'appendice  del  giornale  L'eco  di  Bergamo,  nu- 
meri della  2^*  quindicina  del  mese  di  dicembre,  a.  1898)  buona  parte 
dei  bergamaschi;  ai  dizionari  dei  dialetti  mantovano  e  pavese  (Arui- 
vABENE,  Gambini)  ì  nomi  di  tali  dialetti,  e  ai  vocabolari  zoologici  del 
Gusumpaur  e  del  Costa  quelli  napoletani,  pugliesi  e  calabresi;  gli 
altri  quasi  tutti  all'opera,  in  proposito  ornai  di  capitale  importanza, 
del  prof.  GiGLioLi,  Avifauna  italica  e  primo  resoconto  dell'inchiesta  or- 
nitologica in  Italia,  alla  quale,  per  quanto  con  prudenza,  attinsi  a 
larga  mano. 


I    NOMI    DEGLI    UCCELLI    NEI    DIALETTI    LOMBARDI  377 


PARTE   PRIMA 
Nomi    oggettivi. 


Capitolo  I. 
Nomi  indicanti  il  colore  o  la  disposizione  delle  penne 

a)  sia   di  tutto  il   corpo;   b)   che   di  parte   del  corpo. 

a) 

Accentor  modularis.  "  Ha  le  penne  della  testa  e  della 
schiena  color  castagno,  e  il  petto  azzurrognolo  „  (Savi, 
Ornitologia  italiana,  ediz.  pisana,  1827, 1  voi.,  pag.  299). 
Brescia  muritlna,  Vicenza  moréta,  Ven.  hrunéta,  Bel- 
luno  neyróla,  Viem..  carbuné,  Cuneo  grizarol,  Nizza  bruna, 
Cogoleto  rùhenénto,  Trent.  mora  tota  ^). —  Si  rilevò  di 


')  Come  si  vede,  cercando  di  attenerci,  nei  casi  nei  quali  la  pro- 
nuncia può  essere  dubbia,  agli  additamenti  Ascoliani  (cfr.  Archivio 
glottologico  voi.  1°,  pag.  XLIII  e  segg.),  segniamo  su  di  ogni  nome 
l'accento,  e  indichiamo  col  segno  (  che  la  vocale  cui  esso  si  riferisce  è 
una  vocale  aperta;  col  punto,  invece,  che  la  vocale  è  stretta.  11  segno  ' 
indica  che  la  gutturale  alla  quale  è  sovrapposto  è  palatizzata,  come  la 
e  di  celare  eia,  g  di  gelare;  mentre  il  segno  »  indica  che  lo  stesso  fo- 
nema conserva  il  suono  gutturale.  Il  segno  ~  sulle  liquide  -l,  -n, 
indica  che  vanno  pronunciata  come  gì,  gn  in  egli  e  ogni  ;  la  s  corri- 
sponde al  scia.  Le  due  forme  di  sibilanti,  sorda  e  sonora,  furono  rese, 
rispettivamente,  per  5  e  i^. 

(Non  essendo  l'intento  di  queste  nostre  pagine   esclusivamente  lin- 


378  G.   BONELLI 

questo  uccello  anche  il  colore  degli  occhi  onde  il  nome 
novarese  insolitamente  lungo  :  uzél  d'iéux  culùr  ciél. 
(Cfr.  i  nomi  francesi:  brunette,  buriche,  morette.  Eugène 
Rollano,  Faune  populaire  de  la  France,  II,  pag.  252, 
Paris  1879). 

Alcedo  ispida.  "  Il  pileo  e  le  ali  sono  punteggiate  di  verde 

mare,  il  dorso  e  la  corta  coda  di  color  azzurro  „  (Les- 

SONA,  Salv ADORI,  StoHa  illustrata  del  regno   animale). 

Cuneo  serenai^),  Lucca  u'c'cel  bel  verde,  Palermo  acéddu 

celèsti. 

Cannabina  linota.    "  Dorso  lionato-fosco  o  castagno,   mac- 
chiato di  scuro  „  (Savi,  II,  pag.  126). 
Nov.  briuiél. 

Cypselus  apus. 

Br.  rundti  néger,  Rmg.  rondón  néger,  Rover,  zézla 
néra,  Girg.  rinninùni  niùru.  E  infatti  egli  ha  nero  il 
becco,  scura  l'iride,  nero-scuro  il  corpo,  nero-verdone 
il  dorso  (Savi,  op.  cit.,  I,  pag.  321). 

Emberiza   citrinella.   "  Vertice  e  addome   giallo   zolfino   vi- 
vace; sottocoda  giallo  „  (Savi,  II,  pag.  112). 

Cuneo  giauné  e  ambra  (dal  colore  dell'ambra?), 
Pad.  ortolàn  zàlo,  Sav.  sta  yiàna,  Como  yialdón,  Lucca 
zirla  gialla,  Grosseto  gialletto,  Ancona   verzàina,  Mes- 


guistico,  per  non  moltiplicare  le  difficoltà  di  lettura  alle  persone  meno 
colte,  non  abbiamo  creduto  necessario  di  seguire  rigidamente  le  norme 
dell'Ascoli.  Così,  ad  esempio,  abbiamo  reso  col  semplice  e  la  guttu- 
rale sorda,  per  la  quale  avi-ebbe,  a  rigore,  dovuto  valere  il  ^•;  e  ab- 
biamo trascurato  —  sempre  per  non  riuscire  troppo  irti  di  segni  dia- 
critici —  le  minori  sfumature  dei  suoni  vocalici). 


I   NOMI   DEGLI    UCCELLI    NEI    DIALETTI    LOMBARDI  379 

sina  ziiilii   yialinu,    Caltaniss.   ziulu  ffiàrnu,    Belluno- 
Cadore  verda. 

Fringilla  chloris.  Colore  suo  dominante  il  verde  (Savi,  II, 
pag.  134). 

Berg.  verdù,  Mant.  verdér,  Piacent.  vardón,  Genova 
Verdun,  Reggio  verdtini,  Sicil,  viridduni,  Sardo  vardarólu, 
birdarólu. 

Lagopus  mutus.  Cuneo  pernis  bianca. 

Lanius  auriciilatus.  Piem.  sinùga  róssa,  dérna  ^'ussa^  Bresc. 
gah^t  marti,  Boi.  buffarla  róssa,  Siena  vèlia  róssa,  Vi- 
cenza regestola  róssa,  Rovigo  re'zéstola  da  la  tèsta  róssa, 
Gen.  caiùrno  fèsta  russa,  Pisa  averla  capir  ossa,  An- 
cona gastrigótlo  tèsta-róssa,  Mess.  tèsta  rùssa.^ 

Lanius  minor.  Dal  colore  bianco  del  suo  corpo  ;  gola,  sot- 
tocoda, petto  e  fianchi  (Savi,  I,  pag.  96). 

Brescia  gahet  molener,  Mant.  gdka  molinèra,  Pav.  sga- 
zirola  mornèra,  Fir.  vèlia  cenerina,  Anc.  gastrigotto  ce- 
nerino, Nap.  quèrola  cennerina,  Mess.  tistàzza  grisia. 

Motacilla  alba.  Due  soli  colori ,  bianco  e  nero ,  che  ap- 
paiono anche  sulla  testa,  la  cui  parte  superiore  è  nera, 
le  due  laterali  bianche;  la  coda  nera  (Savi^  II,  pag,  28) 
(onde,  con  nome  scherzoso,  è  chiamata  a  Napoli  mo- 
nacélla.  Cfr.  Savoia  religieuse). 

Piem.  ballarina  grisa,  Rmg.  huarèna  bianca,  Ven.  boa- 
róla  bianca,  Feltre  koakàssola  negra,  Friuli  pastorèle 
bldnke,  Valsug.  spazzacóa  bianca,  Gen.  biancóla,  Casen- 
tino batticóda  néra,  Sicil.  pispisa  vrànca. 

Motacilla  -flava  e  motacilla  boarula  ^).  Piem.  ballarina  vérda, 

')  Domandiamo  tante  scuse  se  qui  riuniamo  due  specie,  per  quanto 


380  G.   BONELLI 

Tort.-Novi  huarinna  giana,  gian^tta,  Boi,  huaréina  zàla, 
Ver.  hoarina  gioia,  Friuli  pastoréle  zàle,  Nizz.  peràga 
giàuna,  Valt.  cuatrémida  giàlda,  Roma  codétta  gialla, 
Mess.  giallinédda,  etc. 

Muscicapa  atricapilla  (Savi,  II,  pag.  4).  Berg.  alet  nl^er, 
Pad.  batiale  mòro. 

Muscicapa  grisola  (Savi,  II,  pag.  2).  Brescia  grik^t,  Pa- 
dova gri'zeto. 

Philloscopus  Bonella.  Fascia  sopraccigliare  biancastra  ;  tutte  le 

parti  inferiori  bianco-sericeo-candide  (Savi,  I,  pag.  294). 

Piem.  cincm  hiànk,  Bresc.  tui  hiànk,  Vie.  ciuin  bianco, 

Sav.  boin  giànco,  Fir.  lui  bianco,  Mess.  virdéddu  iàncu. 

Philloscopus  sibilator.  Fascia  sopraccigliare,  penne  cigliari, 
gote,  gola  e  lati  del  petto  color  giallo  canarino  ten- 
dente al  verdognolo  (Savi,  Sylvia  silvicola,  I,  pag.  290). 
Brescia  e  Berg.  lui  verd.  Ver.  verdehin,  Belluno  zalet, 
Lucca  kiuino  verde,  Pisa,  Fir.  lui  verde,  Mess.  virdéddu, 
Calt.  virduliddu. 

Ficus  viridis  (Savi,  I,  pag.  140).  Bresc.  becasgk  vert,  Man- 
tova pigos  véri.  Vie.  piggzzo  verde,  Boi.  ppk  véird. 


affini,  diverse,  poi  che  davanti  ai  pentimenti  del  grande  naturalista 
Paolo  Savi  (il  quale  nella  Ornitologia  Italiana  chiama  &Mrf^<es  ci- 
nereocapillus  la  specie  che  nella  Ornitologia  Toscana  avea  detta 
motacilla  flava,  denominazione  dal  Brisson  usata  per  la  motacilla  hoa- 
rtila),  e  alle  sconcordanze  dell'opera  pur  pregevolissima  1'  '  Avifauna 
italica''  dell'illustre  professor  Giglioli  (al  quale  dovettero  pervenire 
relazioni  riguardo  i  nomi  bresciani  certo  inesatte,  giacché,  come  nomi 
a  Brescia  corrispondenti  alla  motacilla  alba,  invece  dell'unico  vero  e 
usato  boarota,  pone  quello  di  spassacli  e  quello  di  boarina,  che  spet- 
tano ad  altre  specie),  il  nostro  povero  corredo  di  cognizioni  d'orni- 
tologia scientifica  fa  naufragio;  e  noi,  non  vedendo  con  precisione 
quale  sia  la  specie  che  s'ha  a  dire  m.  flava  o  hudytes  cinereocajnllus, 
dobbiamo  riunire  i  nomi  d'essa  con  quelli  della  hoarula. 


I    NOMI    DEGLI    UCCELU    NEI    DIALETTI    LOMBARDI  381 

Pyrrula  europaea.  Becco  nero,  pileo,  gola  e  gote  di  color 
nero  violetto.  Cervice,  schiena,  scapolari,  e  piccole  e 
medie  cuopritrici  delle  ali  color  cenerino  piombato  ; 
groppone,  regione  anale  e  sottocoda  candide;  soprac- 
coda e  coda  di  color  nero  violetto  ^)  (Sa\^,  II,  pag.  142). 
Mant.  monagin,  Vere,  canónik,  Yen.  menegln,  Brà|?ajp- 
pagdl  d'muntàna,  Nap.  monakino,  Mess.  pdssaru  ame- 
rica mi. 

Pratincola  rubicola.  "  Becco  nero;  testa  e  gola  di  color  nero 
puro,  0  solo  con  qualche  piccolissima  macchia  gial- 
liccia; penne  della  schiena  e  scapolari  nere  nel  mezzo; 
coda  nera,  piedi  neri  „. 

Udine  grisiHt,  Pavia  moret,  Ver.  negrisól,  Ven.  batiale 
moro,  Empoli  prete,  Sen.  fornaiolo. 

Ruticilla  titijs.  Dalla  tinta  nerastra  delle  sue  penne  (Savi, 
I,  pag.  234) 

Brescia  caross/ rie^er,  Berg.  moràt  carbiìner,  Como  co- 
rossolet  neger,  Valt.  ciiróss  fere,  Varzi  citarùssa  niura, 
Mod.  covróss  neger,  Boi.  murett,  Ver.  sqiieróssolo  spaz- 
zacamin,  Ven,  coarósso  mòro,  Gen.  cuarussa  mga  (mora), 
Roma  codirósso  di  pància  nera,  Lecce  falaetta  fumata, 
Mess.  ci'ida  russa  cu  piettu  niùru,  etc. 

Serinus  hortulanus.  "  Penne  della  schiena  e  scapolari  verdi 
olivastre  con  larga  macchia  nera  sullo  stelo;  groppone 


*)  Videro  i  francesi  qualcosa  di  tozzo  nelle  forme  di  questo  uccello, 
onde  i  nomi  hoeiif,  bouvard,  bouvVeuil,  e  tanti  altri,  ai  quali,  tranne 
il  novarese  buvreul,  non  crediamo  si  possa  riscontrare  nessun  nome 
italiano,  neppure  quello  fiorentino,  come  invece  parrebbe  al  Kolland 
(op.  cit.,  II,  166).  poiché  ci  sembra  che  anche  la  parola  ciuffolotto  deva 
far  capo  al  verbo  zufolare. 


382  G.    BONELLI 

giallo-canarino ,    macchiato    di    verdastro  ;    penne   del 
sopraccoda  olivastre  verdi  „  (Savi,  II,  pag.  132). 

Boi.  gialUno,  Ossola  verzeUhi,  Bresc.  verdari,  Ber- 
gamo sverzerl  (?),  Cremon.  verdulen ,  Piacent.  e  Par- 
mig.  vidarén,  Valt.  e  Como   sverzerin,  Sardo    verdolin. 


à) 


Aegiotus  linarius.  Per  la  stella  rosso-sangue  sul  pileo  la 
quale  sembra  fare  alla  testa  corona  (Savi,  fringilla 
linaria,  II,  pag.  126). 

Berg.  cardinali,  Brescia  fami  de  la  regina,  Istria 
re  de  fag aneli. 

Carduelis  elegans.    "  Maschera    rosso-cremisi  „    (Savi,   op. 
cit.,  II,  pag.  117). 
Fiesole  capo-rósso. 

Cyanecida  TFolfi.  "  Gola  e  gozzo  d'un  bel  colore  azzurro 
lucente,  con  una  macchia  grande  nel  mezzo  d'un  bianco 
purissimo  „   (Savi,  I,  pag.  236). 

Novara  gorz-hló,  Cuneo  stòmi  bla,  Berg.  mordi  d^  la 
stela,  Mil.  pett'azur,  Belluno  codaróss  dal  péto  turJcin, 
Udine  e  Cividale  petaróss  turkin,  Tir.,  Arezzo,  Siena,  etc. 
pett'azzùrro,  Anc.  petto  turkino,  Mess.  péttu  hru,  Calta- 
nisetta péttu  blu. 

Cyanistes  caerideus  (Savi,  II,  pag.  15).  Br.  molinerl,  Ber- 
gamo monegina,  Mant.  molinarin,  Rover,  molinarella, 
Pieni,  tèsta  blo,  Fies.  cincia  turkhia,  Rovigo  celestin, 
fratì'n,  Bell.  frarQtol  (fraticello?).  Bari,  càpo-torkino, 
Nap.  par r élla  blu. 

Emberiza  cirlus.  "  Pileo  e  cervice  colore  olivastro,  con  strie 


I   .NOMI    DEGLI    UCCELLI    NEI    DLA  LETTI    LOMBARDI  333 

longitudinali  nere.  Una  fascia  larga,  nera,  parte  dal- 
l'angolo del  becco,  passa  attraverso  l'occliio,  e  ricuopre 
l'orecchio.  La  gola  è  di  color  nero,  etc.  .„  (Savi,  II, 
pag.  81). 

Cuneo  barhiza,  Padova  piónsa  mòra,  Lucca  zirla  n§ra, 
Fir.  zigolo  néro,  Siena  nizzola  nera,  Sard.  orgiàli  de  is 
)mistdssus{?). 

Erithacus  rubeciila.  "  Pettirosso  „   (Savi,  I,  pag.  243). 

Cuneo  piciti-rùs,  Berg.  pecia-róss,  e  pìcidl,  piciali 
(molto  probabilmente  da  "Special,  voce  che,  al  pari  delle 
rimanenti,  rileva  dell'uccello  la  parte  che  più  delle  altre 
spicca  —  cfr.  i  nomi  della  Saxicola  oenante,  il  cui  bianco, 
Ven.  culéto,  Ud.  culétt  — ,  come  la  voce  bresciana  petarz 
che  m'ò  avvenuto  di  sorprendere  sulla  bocca  di  vecchio 
uccellatore),  Bass.  betùsso,  Veron.  pitàro,  Genov.  peceto, 
Bell,  bet,  betiiz,  betarel,  Crem.  pett-rùss,  Mant.  e  Pavia 
pet-róss,  Rover,  pitter,  Valsug,  pettùzzo,  Vie.  petar^lo, 
Boi.  2)^iér,  Nap.  pietto-rùsso,  Mess.  pittirri,  Sard.  bar- 
barriìbia,  etc.  Cfr.  in  frane,  roche  gasse,  gave  rouge, 
roudge  gueule,   rouge   bourse,  pit  rotje,  etc. 

Galerita  cristata.  "  Le  penne  del  pileo  sono  molto  più  lunghe 
delle  altre  e  formano  un  ciuffo  erigibile  „  (Savi,  II, 
pag.  53). 

Ven.  capelim,  capeluga. 

Hirundo  rustica.  Dalla  coda  forcuta  per  le  due  lunghe 
penne  timoniere  (Savi,  I,  pag.  162). 

Ancona  róndine  dalla  forketta,  Rmg.  róndine  dalla 
furzéla,  Roma  forcinélla,  Nap.  rennennella  taliafiigrfece. 

Hirundo  urbica.  "  Parti  inferiori  e  groppone  di  color  bianco  „ 
(Savi,  I,  pag.  164). 


384  G.    BONELl.l 

Piem.  ci'd-biànk,  Pav.  cil-biank,  Gen.  cu-gkìnco  de  téito. 

Merlila  torquata,  Bresc.  ìnerlo  del  colar,  Vie.  merlo  dal  co- 
làro,  Bell,  colà  ina,  Feltre  tórdo  dalla  colàna,  Cadore 
tórdo  da  la  colàina,  Udine  niiérli  de  golàine,  Rovigo 
mèrlo  dal  petto  bianco,  Gen.  mèrlo  gidhco,  Lucca  mèrlo 
col  petto  bianco,  Arezzo  mèrlo  col  vézzo,  Nap.  mièrolo 
a  piastre,  Mess.  mérru  péttu  icHìcu,  o  a  collana,  No- 
vara mèrla  du  collarit,  meri  del  stómik  biank. 

Monacus  atricapillus.  Bresc.  capo-neyer,  Berg.  capu-ni'ger , 
Crem.  Mani.  Pav.  cap-nèger.  Vie.  cào-négro,  Gen.  capo- 
nègro,yL2iWÌ.cap-nègere\2iìemm..  cap-negar,  Piera,  capnér, 
Com.  co-neger,  Boi.  cap-nèiger,  Rm.  kep-nè^er,  Pisa  capi- 
néra, Nap.  capa-néra,  capo-foskola,  capo-fóska,  focétola 
capa-néra,  Caltaniss.  capu-fusku.  —  Solo  però  i  maschi 
hanno  il  pileo  nero;  le  femmine  lo  hanno  di  color 
rosso-tabacco,  onde  le  denominazioni,  apposite  per  le 
femmine,  pisana  cappi-bigia,  veneta  cao-rósso,  messin. 
tèsta  russa  e  quella  di  Terra  d'Otranto  di  tabaccósa, 
le  quali,  o  noi  c'inganniamo,  sono  in  modo  speciale 
significative,  poiché  ci  mostrano  come  il  popolo  nel 
formare  i  nomi  degli  uccelli  —  forse  si  potrebbe  dire 
degli  animali  in  genere  — ,  piìi  che  altro  si  sia  preoc- 
cupato degli  individui  maschi,  probabilmente  come 
quelli  che  meglio  lo  interessavano,  vuoi  per  la  spic- 
cata colorazione  delle  penne,  vuoi  per  il  canto  ;  e  perché 
ci  indicano  che  il  popolo  già  quando  le  foggiava,  sa- 
peva che  esse  convenivano  alle  femmine,  non  ai  maschi. 
(Altrettanto  si  può  dire  dei  due  nomi  merlo  négro,  per 
l'individuo  maschio,  e  ìti^rla  per  quello  femmina,  essi 
pure  appieno  conformi  alla  tendenza  del  popolo  di  non 


I    NOMI    DEGLI    UCCELLI    iNKl    DIALETTI    LOMBARDI  385 

mai  denominare   con   sole  voci    femminili   uccelli   dei 

quali  si  conosca  facilmente  il  sesso). 
Moìiticola  saxatilis.  "  Petto,  fianchi,  addome,  cuopritrici  infe- 
riori delle  ali  e  sottocoda  di  color  fulvo  acceso  „  (Savi, 

Sylvia,  I,  pag.  218). 

Bresc.  caróssol,  Berg.  caróss,  cuaróss,   Mant.    coro- 

solón,  Vie.    curussolo,    Gen.    cuarùsso,    Nap.  codarnsso 

gruósso,  codarùsso  bastardo,  Sard.  cidurùhiìi,  Lucca  cul- 

rossolóne. 
Parus  ater.  Piem.   tèsta  mura  pcita,  Valt.  monegin,  Boi.  fra- 

tezzéin,  Arezzo   cincia  nera,  Fir.  cincia  mòra,  Sav.  mu- 

negétta. 
Parus  caudatus  (Savi,  II,  pag.  20),  Bresc.   speransi  de   la 

cua  Unga,  Mant.  molinarin  d'ia  cua  Unga,  Sondrio  cua 

lunga,  Cogoleto  parissuin  cua  lunga. 
Parus    maior.  Becco   nero,  iride   nera;  pileo,  collo,  parte 

media  del   petto  e  dell'addome   d'un  bel    colore   nero 

lucido    leggiermente    cangiante  in   violetto  (Savi,  II, 

pag.  14). 

Chiari  mùritina,  Piem.  té2ta  mura,  testa  néira,  Nizza 

lardiéra   inunegétta,    Gen.    tèsta  negra,    Siena  perlónza 

capi-néra,  Caltan.  munakèdda. 
Pica  rustica.    Testa,   collo,   petto,    schiena,    sopraccoda  e 

collo  del  piede  di  color  nero;    coda  lunghissima  (Savi, 

I,  pag.  258). 

Br.  Crem.  gaza  de  la  cua  lóo'iga,  Ven.   gaza   negra, 

Trent.  gazza  mòra,  Pav.  berta  d'ia  eoa  Unga,  Mod.  gazza 

cUdóna,    Piac.    sgdzza    dalla    eòa,   Boi.    gazza    nèigra, 

Rm.  argàza  dalla  còda  lunga. 
Picus  maior.  Addome  tinto  in  rosso  fiamma  (Savi,  I,  pag.  142). 


386  G.    BONELLl 

Piem.  pik  dal  cui  ross,  Tort.  ^;ìA-  ross,  Ossola  pik  cui 
russ,  Berg.  picgt  ross,  Vie.  pigózzo  rósso,  Cadore  beca-lfn 
ross,  Viterbo  kulo-rósso,  Montefiascone  p>lkkjo  focàro, 
Nap.  caca-fuQCo,  fugco'n  culo,  Sinig.  pikkjo  cardinale. 

Begulus  ignicapillus.  Per  la  stellina  rosso-gialla  che  ha 
sul  pileo  (Savi,  II,  pag,  11). 

Brescia  stili,  Berg.  steli,  Cremori,  stelen,  Nap.  riginiello 
(cfr.  il  fr.  prince),  cardinale,  Piem.  stéile  d'or,  stellétta, 
Vere,  stéila  ffiduna,  Vie.  stelin,  Gen.  reginéta,  Tortona 
Novi  testin  d'gr,  Como  fiorancin,  Aless.  testhi  d'oiì, 
Feltro  cao  d'qro.  Spezia  testin  d'gg. 

Buticilla  phoenicurus.  Parte  superiore  dell'addome,  fianchi 
e  sopraccoda  di  color  fulvo  acceso  ;  coda  rossa  (Savi,  I, 
pag.  232). 

Bresc.  cua-róssa,  ca-rossi  ^)  (Berg.  per  la  testa  nera 
nel  maschio,  morat),  Cremon.  cua-russa,  Mant.  cua-róga 
e  cill  ross,  Como  co-róssola,  Rav.  cill  ranz,  Valt.  cil-ross, 
Bell,  squa-rùsola,  Pontebba  scoda-róss,  Pav.  codi-róss, 
Vicent.  coa-róssa,  Gen.  cua-rùssa,  Veron.  scue-róssolo, 
Piac.  ca-rùssla,  Lucca  currósso,  Nap.  coda-russiello, 
Umb.  codi-ràncio,  Sard.  coa-rùbia,  eòa  de  fógu,  etc. 

Saxicola  oenanthe.  "  Parte  media  dell'addome  biancastra; 
sopraccoda  bianco  „  (Savi,  I,  pag.  221). 

Fiem.  cù-biànk  de  tfra,  Bresc.  Berg.  Mant.  cill-biank, 
Fsiv.  cii-biànk  d'ia  segla  (segale).  Vie,  cul-biaùco,  Ve- 
nezia cid^to,   bianketón,  Gen.  cu-giànco  de  prao,  Roma 


')  Dove  il  ca  sta  certamente  per  cita,  e  l' intero  nome  carassi 
non  è  che  un  diminutivo  fatto  in  confronto  dell'accrescitivo  caróssol 
{*cuaróssol  =  codarossolone\  nome  della  monticola  saxatilis. 


I    NOMI    DEGLI    UCCELLI    NEI    DIALETTI    LOMBARDI  387 

codo-bidnco,  Nap.  coda-bidnco,  coda-iànco,  Reggio  culi- 
biànco,  Sicil.  cuda-vrànca,  etc.  Cfr.  il  n.  fr.  quiil  blan. 

Turdus  iliacus.  Ha  i  fianchi  colorati  d'un  bel  rosso  sangue, 
nei  maschi  più  specialmente  vivace. 

Pieni,  griva  russa,  riiss^Ma,  Mod.  tgrd  d'I' ala  róssa, 
Anc.  tordella  yaggiàra  dall'ali  rósse,  Roma  tórdo  roHglo, 
tordo  rg ssolo,  Pai.  tùrdu  ri'issu,  Girg.  malvizzu  pettu 
rùssu.  Cfr.  i  nomi  fr.  rossétte,  rouge  aile,  ala  rotj. 

Upupa  epops.  Ha  le  penne  del  pileo  lunghe,  disposte  in 
due  serie,  e  formanti  un  bel  ciuffo,  che  a  volontà  s'alza 
e  s'abbassa  (Savi,  I,  pag.  335). 

Tort.-Novi  galet  d'  mars,  Val  Taro  gali  marzol,  Ve- 
rona galeto  de  muntdna,  Yen.  galeto  de  bósko,  gàio  del 
paradiso,  Sav,  gallétto  de  marzo,  Friuli  gialétt  (o  uciell) 
de  biéle  créste,  Fir.  gallétto  di  maggio,  Elba  gallétto  mar- 
zolino, Campobasso;  gallo  di  sélva.  Cfr.  i  nomi  fr.  coq 
de  bois,  coq  sauvage,  capulado,  etc. 

Vanellus  capella.  Nella  parte  posteriore  dell'  occipite  gli 
nasce  un  ciuffo  di  sedici  o  diciotto  penne,  bianche  e 
verdi,  ripiegate  in  alto,  tre  assai  lunghe,  che  fanno 
alla  testa  assai  grazioso  ornamento. 

Piem.  paondssa,  Como  yavunzm,  Cremon.  pavunzina, 
Piac.  Istr,  pavonzélla,  Mod.  pavunzena,  Ver.  paonzma, 
Bell.,  Trent.  paoncm,  Roma,  Nap.  paonc^lla,  Anc.  gal- 
lùzza,  Cat.  paunéddu.  Cfr.  il  n.  fr.  paon  celeste  ^). 


*)  Già  il  Belon,  Histoire  de  la  nature  des  oiseaux  (1555),  pag.  209, 
ebbe  ad  avvertire  che  dev'esser  questo  l'uccello  stato  chiamato  da 
Aristotele  a!£  (cfr.  il  latino  capella  probabilmente  perchè  i  suoi  gridi 
possono  assimigliarsi  a  belati;  cfr.  il  n.  fr.  dix-huit  e  l'italiano-bre- 
scìano-sgucUna),  ma  che  volgarmente  i  Greci  dissero  pavone  selvaggio, 


388  G.    BONELLI 


Capitolo  II. 
Nomi  indicanti  la  forma  del  becco. 

Caprimulgtis    europaeus.   Ha    il   becco   piccolo,    compresso, 

debole,  ma  ad  apertura  larghissima,  giungendo   quasi 

al  di  là  dell'occhio  (Savi,  I,  pag,  301). 

Crem.  bucdssa,  Varzi  buccdssa,  Mod.  ingoia-vpit,  buàzza, 

Ven.  bocds,  Ver.  bocdza,  Friuli   bogàss,  Fir.   boccalóne, 

Rmg.  boccàccio,  Marche  bocca-larga. 
Coccothraustes  vulgaris.  Dal  robusto  becco,  grosso  quasi  come 

la  testa. 

Piem.  bek-di^r,M.od.testón,bek-grgsSjRoyìgo  bécco-grosso, 

Umb.  Jpacca-Qsso,  Pugl.  spezza-fer,  Sardo,  pizzu-gróssu, 

Corsica  pizzigóne. 
Loxia  curvirostra.  Bresc.  bek-stórt,  Berg.  ^)  e  Cremona  bek- 


appunto  come  noi  Italiani  lo  diciamo  '  piccolo  pavone  ',  in  quanto, 
e  per  la  cresta,  e  per  i  riflessi  metallici  delle  penne,  al  pavone  pa- 
recchio si  assomiglia.  (Il  nome  suo  milanese  [vanett)  farebbe  anch'esso 
forse  capo  a  un  *pavanétt'ì). 

^)  Notiamo,  a  proposito  di  questo  uccello,  che  a  Bergamo  è  anche 
detto,  con  nomignolo  probabilmente  a  significato  furbesco,  '  todfsk  ', 
in  relazione  forse  colla  sua  grossa  testa  (anche  ai  primi  tordi  del 
passo  d'autunno  si  affibbia  da  uccellatori  tale  soprannome  appunto 
per  questo  motivo),  o,  ancor  più,  col  suo  grido  d'appello  monotono 
e  quasi  incessante  di  "tok,  tok,  tqk,  . . .  „  che  sia  stato  dal  popolo 
assomigliato  a  un  discorso  di  tedesco  del  quale  nulla  esso  comprenda. 
0  forse  perchè  annidi  in  Germania?  Cfr.  il  nome  suo  cadorino  oa^l 
todésko. 


I    NOMI   DEGLI   UCCELLI   NEI   DIALETTI   LOMBARDI  389 

in-crus,  Sondrio  beker,  Pav.  b^k-in  eros,  Vie.  bécco  in 
eróse.  Gen.  bécco-stórto,  Boi.  bek  in  erdus,  Nap.  pizzo 
stuórto,  becco-cróce,  becco'n-cróce,  becco-stórto,  becco'hgro- 
ciàto,  Sard.  biccu-trótu. 
Scolopax  rtisticola.  Dal  lungo  becco  (Savi,  II,  pag.  304): 
Cuneo  becdssa,  Ossola  beccàsia,  Parma  becàzza,  Tose, 
Nap.  beccàccia,Bol.  pizzàcra,  Varzi, Gen.  becedssa,  etc.^). 
Pure  dallo  stesso  motivo  del  lungo  becco  il  gallinago 
caelestis  ripete  i  nomi  beccassin  (Piem.),  beicela  (Vicen- 
tino), becangt  (Bellunese),  becadfl  (Bresciano),  beccaccino 
(Toscana),  etc. 


Capitolo  III. 
Nomi  indicanti  il  cibo. 

Alcedo  ispida.  Cibasi  d'animaletti,  piccoli  pesci  cioè,  vermi 
e  insetti  acquatici  (Savi,  I,  pag.  178). 

Como  martin  peskadór,  Piem.  mèrla  pesquera,  mèrlo 
peskadùr,  Berg,  beca-pes,  Crem.  e  Mant.  pia-pess,  Son- 
drio martin  peskadu,  Mil.  martin  pesku,  Arezzo  becca- 
pesi,  kiappa-pési.  Cfr.  i  nomi  frane,  pécheur,  pacìiou, 
pechuz  (Rollano,  op.  cit,,  II,  pag.  70). 

Bxidytes  flavus.  "  Vola    fra  i  piedi    delle  vacche  e  de'  ca- 


')  Per  il  colore  grigio-terra  delle  penne  che,  unito  alla  dimensione 
del  corpo,  fa  ricordare  la  gallina,  a  Bergamo  è  detta  j9?^«,  a  Cremona 
gallinàzza,  a  Mantova,  Belluno,  Feltre,  etc,  galinàza,  a  Pavia  galli- 
nassa,  e  in  Sardegna  puddci  de  mata  (cioè,  probabilmente,  in  quanto 
mata  vuol  dire  albero,  pollo  di  foresta.  Cfr.  Tingi,  ivoodcock  e  il  greco 
XiXópvK). 

Studj  di  filologia  romanza,  IX.  25 


390  G.    BONELLI 

valli  dando  la  caccia  agli  insetti  che  sempre  in  quan- 
tità vi  si  trovano  „  ^)  (Savi,  motacilla,  II,  pag.  36). 
Nap.  pappa-moska. 
Caprimulgus  europaeus.  E  opinione  generale  nel  popolo  che 
tale  uccello  succhi  il  latte  alle  vacche  e  alle  capre, 
cosa  che  può  sembrare  provata  anche  dalla  stessa 
denominazione  tecnica.  A  noi  tuttavia  riesce  tanto 
strana  che  poco  vi  prestiamo  fede,  e  ai  testimoni  ocu- 
lari che  assicurano  d'aver  visto  il  caprimulgus  attac- 
cato alle  mammelle  di  capre  o  vacche,  andiamo  insi- 
nuando non  abbia  esso,  piìi  che  il  latte,  colà  cercato  e, 
da  buon  insettivoro  quale  è,  beccati  i  moscerini  e  i 
piccoli  tafani  che,  attratti  dal  dolciume  del  latte  di 
cui  le  poppe  delle  vacche  sono  sempre  più  o  meno 
bagnate,  trovano  tra  i  viscidi  peli  del  ventre  di  queste 
sede  opportuna.  Ma,  comunque  stia  la  cosa,  ciò  che  a 
noi  qui  interessa  è  che  nel  popolo  è  diffusa  la  cre- 
.  denza  che  questo  uccello  succhi  il  latte  alle  capre  e 
alle  vacche,  del  che  appunto  ne  fanno  fede  i  suoi  nomi 
dialettali  : 

Ossola  tetta-vdk,  Pav,  tetta-cràv,  Bresc.  teta-àke,  Ven.  la- 
ta-cavre,  Trent.  teta-cdure,  Valsug.  tetta-caore,  Val  di 
Ledro  tetta-cdvri,  Val  di  Non  lata-ciàure,  Gen.  tetta-crdve, 
Nap.  zinna-vdkke,  bocca-lattàro,  Bari  ' nganna-pastore  ^), 


')  È  probabile  che  sia  ancora  questa  sua  abitudine  la  ragione  per 
la  quale  è  chiamata  in  francese  hergerette  (cfr.  la  denominaz.  friulana 
pastoréla  e  la  novarese  vakkerina),  in  quanto  che  tale  cutrettola  segue 
volentieri  le  mandre  ai  pascoli. 

')  Questo  nome  richiama  quelli  francesi  della  motacilla:  "  engane 
pastre,  engano  pastré,,  che  vengono  spiegati  dal  Rolland  (pag.  227) 


1    NOMI    DEGLI    UCCELLI    NEI    DIALETTI    LOMBARDI  391 

Roma  sukkia-capre,  Tose,  succia-càpre.  —  Cfr.  i  nomi 
francesi  tette  chèvre,  tela  cabra. 

Cardiielis  elega?is.  Cuneo  ciardoUnna,  Bresc.  raari  (rape- 
rino =  uccello  delle  rape.  Non  è  però  raperino  il 
nome  suo  toscano,  ma  cardellino;  e  raperino  è  invece 
il  nome  del  serinus  horttdanus,  detto  pure  altrove  dal 
cibo  suo  preferito  rapalin  (Spezia),  rapparéddu  (Mes- 
sina), etc),  Berg.  raari,  reveri,  Cremon.  lavarpi  (*ra- 
varén),  Mant.  gardlin  (*cardlin  =  uccello  dei  cardi), 
ravarin,  Pav.  ravarei,  Vie.  gardelin,  Savona  cardàina, 
Gen.  cardelin,  Nap.  cardillo ,  Molf.  cardiéddu,  Reggio 
cardinnu.  —  E  invero  codesto  uccello  si  ciba  di  pre- 
ferenza di  semi  di  rape  e  di  semi  di  cardi,  si  che  non 
rare  volte  gli  orticoltori  allontanano  gli  stormi  di  tali 
uccelli  dai  seminati  con  appositi  spauracchi  ^). 

Coccothraustes  vulgaris.  "  Le  mandorle  de'  nocciuoli  piìi  duri, 
come  di  ciliegie,  olive,  etc.  molto  piacciono  ad  essi  „ 
(Savi). 


coll'osservazione  che  la  motacilla  va  a  cercare  i  piccoli  insetti  perfino 
sul  dorso  dei  buoi,  onde  il  pastore  spesso  allunga  la  mano  per  pren- 
derla, ma  indarno,  ch'essa  lesta  sempre  gli  si  sottrae.  Tale  spiega- 
zione bì  potrebbe  avanzare  anche  a  proposito  del  caprimulgtis'ì  Certo 
che  sì;  invece  lo  stesso  Rolland ^ricorre  ad  altra  che,  lo  diciamo 
schietto,  ci  sembra  assai  men  buona.  Suppone  egli  infatti  che  i  nomi 
abuso  pastou,  enganija-pastors  siano  venuti  a  questo  uccello  perché 
il  pastore  corra  ove  l'ha  visto  posare  :  "  il  croit  pouvoir  le  prendre 
sans  peine  ;  il  s'en  approche,  il  avance  la  main  pour  le  saisir  et,  au 
mème  instant,  l'oiseau  s'énvole;  . . .  n"a  fait  que  simuler  le  sommeil  ,. 

Ma  dov'è,  diciamo  noi,  quel  pastore  sì  ingenuo  che  crede  di  poter 
rincorrere  e  prendere  colle  mani  un  uccello  che  appena  s'è  posato? 

')  Anche  il  Savi  (II,  118):  "  Ha  tolto  il  nome  quest'uccello  di  Car- 
dellino, Carderugio  o  Cardello  dalle  piante  spinole  dette  curdi,  sulle 
quali  spessissimo  si  vede  posato.  Egli  ama  molto  i  semi  di  tali  piante  „. 


392  G.    BONELLI 

Spezia  skgssa-nuci,  Caltaniss.  skaccia-ménnuli  (schiac- 
cia-mandorle). 

Columba  palumbus.  Dal  cibo  prediletto,  le  fave,  deriva  i 
nomi.  Cun.  ctdùmb  sarvdi  o  fave,  Verana  favdzo,  Bo- 
logna clumh  favdzz,  Lucca  favdccio. 

Crysomitris  spinus.  Molto  notevole  perché  oltreché  esatta, 
in  quanto  verissima,  forse  l'unica  che  ricordi  il  cibo 
preferito  —  i  semi  di  ontano  o  onice  —  di  questo  uc- 
cello; la  novarese  onicerécc. 

lunx  torquilla.  Cibo  suo  favorito  le  formiche  ^).  Aless.  pitta- 
furmige,  Spezia  formiguin,  Nizza  fùrniigie,  Berg.  b^ca- 
furmige ,  fùrmiger,  Friuli  funnidr,  Napoli  formicóne, 
pizzeca-formicole,  Capri  furmiculdru,  Lecce  furmicalQray 
Reggio  furmicoliere,  Grirg.  furmiculùni,  Cat.  mangia 
formiculi,  Sard.  papa-formiga. 

Ligurinus  chloris.  "  Amano  molto  i  verdoni  mangiare  i 
semi  „  (Savi,  II,  pag.  135). 

Val  di  Ledro  pizza-cdnef  (becca-canape),   Civid.  se- 
menzarùl. 

Miliaria  projer.  Bergam.  t^ta-rais.  —  A  noi  veramente  non 
consta  che  cotale  uccello  ami  succhiare  le  radici  ^), 
come    la   denominazione  bergamasca,    quando    non   si 


')  Al  Savi,  come  ad  altri  ornitologi,  è  forse  sfuggito  che  tale  uccello 
ha  la  lingua,  oltreché  leggermente  vischiosa,  assai  lunga  (in  appa- 
renza normale,  perché  contrattile);  d'essa  si  serve  per  prendere  in  un 
colpo  solo  parecchie  formiche.  Ma  si  direbbe  che  anche  il  popolo  non 
l'abbia  tanto  presto  notata,  poiché  appena  la  ricordano  il  genovese 
léngua-luhga  e  il  sicil.  lihgua-lohga. 

^)  Savi,  II,  80  :  "  Il  loro  (detto  degli  strillozzi)  cibo  consiste  in  semi 
e  bacolini  che  essi  cercano  fra  la  terra  ove  quasi  sempre  son  posati  ,. 


I    NOMI    DEGLI    UCCELLI    NEI    DIALETTI    LOMBARDI  393 

voglia  vedervi  che  un  valore  onomatopeico,  sembra 
indicare;  ma  il  conico  suo  becco,  tanto  piìi  robusto  in 
quanto  provvisto  nella  parte  superiore  di  un  dente  ^)  — 
come  un'escrescenza  calcarea  — ,  cui  risponde,  quasi 
incudine,  nella  inferiore  una  rientranza  del  becco  stesso, 
mercé  il  quale  può  rompere  semi  assai  più  grossi  e 
duri  del  miglio,  ad  es.,  il  riso,  certo  gli  deve  permet- 
tere di  stritolare  e,  in  mancanza  d'altro  ^),  cibarsi 
anche  di  radichette. 

Monacus  hortensis.  "  Si  trovano  i  bigioni  in  tutta  la  nostra 
pianura,  ma  negli  orti,  in  cui  son  pedali  di  fichi,  ci  si 
trovano  in  maggior  quantità  e  vi  si  trattengono  un 
tempo  maggiore  ;  e  subitoché  tali  frutti  son  terminati, 
i  bigioni  spariscono,  e  vanno  a  svernare  in  Asia  e  in 
Africa  „   (Savi,  I,  pag.  249). 

Brescia,  Berg.,  Cremona,  Mant.,  Pav.  heca-fik,  Vie, 
Gen.  hécca-figo,  Piner.  pitta-fig. 

Muscicapa  grisola.  Mod,  pia-mósk,  Mant.  heca-móre,  Giudi- 
carie  pizza-móske,  Nap,  moskdrdo,  Otranto  muskalóra, 
Mess.  appdppa-muski,  Catania  ammucca-muski,  Savona 
cidppa-móske. 

Passer  Italiae.  Come  indica  l'altra  sua  denominazione  tec- 
nica —  fringilla  domestica  —  è  questo  il  passero,  che, 
petulante,  scende  nell'inverno  persino  nelle  rumorose 
vie  delle  città  a  beccare  nello  sterco  dei  cavalli  i  semi 


')  Cfr.  il  nome  sardo  éinéirri  a  déntes. 

-)  E  invero  la    stagione    durante  la  quale    più    particolarmente  si 
ferma  nel  Beroramasco  è  la  invernale. 


394  G.   BONELI-l 

d'avena  o  altro  che  in  esso   si  trovano.  Da  tale   sua 

abitudine  trae  i  nomi  : 

Berg.  passerà  merd§r,  passera  smerderà. 
Passer  niontanus.  Vi  cent,  megiaróla  =  l'uccello  del  miglio, 

Piem.  miarina,  miaróla,  Pad.  e  Rovigo  spiega  megiaróla^ 

Lucca   miliarina. 
Pliilloscopus  rufus.  Yen. papa-mosJcm,  Mess.  moskitu,'mhùcca- 

mùski. 
Pratincola  rubicola.  Cat.  piggia-muski,    Tose,  pilia-móske. 
Sylvia  cinerea.  Bresc.  èec«-móre,  Spezia  ^issa-w<'<e(beccamore). 
Tichodroma  muraria.  Bresc.  beca-ràn,  Udine  randr. 
Turdus  musicus.  Varzi  turdren  da  l'uva,  Ver.  tórdo  da  uà, 

Bell,  tórdo  d'uva,  Rover,  tord  dall'uà. 
Tnrdus  pilaris.  Dal  fatto  che  si  ciba  fra  l'altro  di  bacche 

del  vischio  {viscum  album)  e  di  quelle  del  ginepro: 
Berg.  visterà,  viskdrda,  visera,  Friuli  zenevrón,  Istria 

zanevrón.  Cfr.  i  nomi  frane,  grive  du  gui,  villiettaz. 

In  nota,  quasi  a  dire  con  esitanza,  segno  i  nomi  del  huteo  viilgaris, 
poiché  anche  in  essi,  e  precisamente  quando  si  ritenga  che  la  radice 
a  lor  tutti  comune  pò  voglia  significare  pollo,  sembrami  di  veder 
dichiarato  il  cibo  prediletto  del  rapace  in  questione. 

Ossola,  Como,  Brescia,  Berg.,  Piac,  Parma,  Ver.,  Anc,  Tose,  poiana 
(a  Berg.  anche  paia  che  è  tal  quale  il  nome  della  gallina),  Crem.  puiàna. 
Boi.  puiàna,  Ven.  jjogiàna,  Sard.  stori  (^astori)   de  pudda. 

Non  mi  dissimulo  però  che  quasi  tutti  questi  nomi  possono  forse 
significare,  anziché  "  insidiatore  dei  polli  ,,  "  pollo  grosso  ,,  nel 
qual  caso  converrebbe  registrarli  fra  gli  accrescitivi. 


I   NOMI    DEGLI   UCCELLI    NEI    DIALETTI    LOMBARDI  395 

Capitolo  IV. 
Nomi  riflettenti  il  canto  (vedi  Appendice,  n.  VII). 

Alauda  arborea.  "  Quando  vola  manda  un  fischio  che  si 
esprime  assai  bene  con  il  di  lei  nome  "  tottavilla  „, 
giacché  continuamente  ripete  tottavi,  lottavi  „  (Savi,  II, 
pag.  66). 

Tose,  tottavilla,  Terran._,  Caltan.  tuvittula.  Cfr.  i  nomi 
francesi  turlutoire,  coutouliou,  couterliou,  etc,  e  l'inter- 
pretazione del  suo  canto  come  avviso  al  contadino  di 
coprire  il  grano  e  prepararlo  al  riparo  dalle  immi- 
nenti piogge  invernali:  cuhri,  ciihri. 

Anthus  pratensis.  Assai  probabilmente  dal  grido  suo  quasi 
incessante  di  vit,  vit  o  vie',  vie',  ebbe  i  nomi.  Trent.  vii, 
Gen.  vicia,  Pad.,  Rovig.,  Bell,  fista,  Feltro  zit,  Udine, 
Civid.  Ulte,  Arenzano  sihi  de  monte.  Tose,  pispola,  Tort., 
Novi  sisi,  Cat.  zinzincula.  —  Forse  qui  si  potrebbero 
noverare  anche  buona  parte  di  quelli  deWanthus  ar- 
horeus;  ad  es.,  il  bresciano  aiguina,  il  lucch.  agnina, 
il  bergam.  guina.  Infatti,  se  a  tutta  prima  codeste  de- 
nominazioni sembrano  accennare,  come  ad  abitudine 
dell'uccello  da  esse  indicato,  il  costume  di  frequentare 
i  luoghi  acquosi  {acqua  nell'antico  bresciano  suona 
digua,  onde  il  nome  aiguina  dal  quale,  per  aferesi, 
quello  bergamasco),  quando  poi  si  rifletta  che  non  è 
nelle  abitudini  di  tale  uccello  il  praticare  i  luoghi  ricchi 
d'acqua  più  di  quello  che  non  sia  per  gli  altri,  anzi 
che  certi  altri  (come,  ad  es.,  le  cutreitole  "  motacillae  „) 
veramente,  e  assai  più  delle  lordine,  si  trovano  sulle 


396  G.   BONELLI 

marcite,  lungo  i  fiumi  e  gli  stagni,  sorge  il  dubbio 
delle  denominazioni,  la  originaria  non  sia  già  la  bre- 
sciana, ma  la  bergamasca  "  guitta  „,  che,  in  qualche 
modo,  indicherebbe  col  gui  ^)  il  grido  di  passo  proprio 
e  frequentemente  emesso  da  tutti  gli  individui  di  tale 
specie.  Onde  la  voce  bresciana  aiguina  non  sarebbe,  a 
nostro  avviso,  che  la  bergamasca  cui  si  sia  venuto 
dai  parlanti  inconsciamente  cementando  la  vocale  del- 
l'articolo, tra  la  quale  e  il  nome,  forse  a  sempre 
meglio  facilitare  la  pronunzia,  sia  sorto  un  i,  cosiché 
la  voce,  scomposta,  sarebbe  Va-i-guina  ^).  Cfr.  il  nome 
francese  pipit  generico  per  tutti  gli  anthus,  e  vedasi 
lo  Chenu,  Hist.  naturelle,  IIP  partie,  pag.  208,  ove 
dice  che  il  grido  del  pipit  des  buissons  (a.  arboreus) 
"  peut  étre  exprimé  par  la  syllabe  pi^  prononcée  très 
distinctement  et  d'une  manière  trainante  „  (Bell,  pita- 
réla,  Cad.  pitaróla),  e,  poco  appresso,  che  il  pipit  des 
près  —  tal  quale  l'alessand.  sisi  da  prii  —  (a.  pratensis) 
"  pousse  le  méme  cri,  mais  plus  faible,  plus  href,  et 
plusieurs  fois  de  suite  „. 

Cannabina  linota.  Dal  grido  di  passo  il  nome  suo  novarese 
cicik. 

Corvus  frugileus.  Sondrio,  Berg.,  Brescia,  etc.  corf,  Bell,  ero. 
Pad.  gróla,  Gen.  góa,  cróvo,  Pisa,  Fir.,  Arezzo,  etc. 
còrvo,  etc. 

*)  Tale  radice  gui  ricorre  nel  linguaggio  d'uccellatore  anche  ad  in- 
dicare un  particolare  grido  delle  tordelle  (turdus  pilaris)  ove  si  dice 
che  alcune  d'esse  "  le  sguina  „  o  "  le  gui'na  ,. 

')  Altro  esempio  però  di  i  sorto  per  simile  cagione  non  saprei  tro- 
vare, onde  l'ipotesi  suaccennata  non  può  certo  pretendere  a  forte 
probabilità. 


I    NOMI    DEGLI    UCCELLI    NEI    DIALETTI    LOMBARDI  397 

Anche  la  coturnix  communis  o  dactilysonans  (Savi,  II, 
pag.  200)  si  può  qui  registrare,  qualora  si  veda  nel 
qua  che  incontrasi  in  tutte  le  sue  denominazioni. 
Pieni.,  Piac. ,  Bres.,  Berg.,  Cremon.  qudja,  Mantova, 
Pav.  qudi,  Friuli  qudje,  Yen.,  Gen.  qudgia,  Nap.,  To- 
scana qudlia,  Pugl.  quagyia,  Calab.  qudckia,  etc,  e  già 
nella  voce  del  basso  latino  quaquila  —  l'espressione 
del  canto  suo  che  per  l'appunto,  come  è  noto,  consiste 
in  una  cadenzata  ma  pur  sempre  monotona  ripetizione 
di  un  qud,  onde  la.  frase  italiana  "  il  quacquarà  delle 
quaglie  ^)  „  (In  Francia  si  fa  dire  alla  quaglia  "  paye 
tes  dettes,  paye  tes  dettes  „,  frase  che  richiama  la  nostra 
bresciana    "  capei  pagdt,  pagdt  capei  „). 

Cuculus  canorus  (Savi,  I,  pag.  151).  Brescia  e  Berg.  cuco 
e  cók,  Cremon.  cacti,  Bell.,  Friuli,  Mant.  cuk,  Pavia 
coca,  Nap.  cucii,  cuculo,  cà-cu,  Sondrio  ciicul,  Vie.  ciico, 
citi,  Gen,  dico,  Brà  ciùk,    Reggio  d'Em.  cig. 

Emberiza  eia.  Come  alla  meglio  onomatopeica  la  denomi- 
nazione tecnica,  lo  sono  le  dialettali. 

Sond.  zipp,  Berg.  zéa,  zia,  Bell,  cipp,  Padova  sia, 
Lucca  zirla,  il  nome  generico  toscano  zigolo,  Nap.  zin- 
zella,  Lece,  ziula. 


')  Secondo  il  Dal  Pozzo  (Dizionario  Piemontese)  sarebbe  detta  in 
Piemonte  c'rlik-c'rlak,  o,  meglio,  questo  sarebbe  il  verso,  e  il  nome 
quello  di  piuncsa;  ma  qui  probabilmente  si  fa  una  confusione,  giacché 
la  quaglia  non  è  punto  l'allodola  pantarana,  e  il  nome  di  piiirèsa  va 
probabilmente  accostato  a  quelli  francesi  pleureuse,  breade  (da  breaire= 
lamentarsi)  e  tutti  e  tre  attribuiti  aWanthus  campestn's,  nel  canto  del 
quale  pare  appunto  di  sentire  una  nota  di  tristezza. 


398  G.   BONELI.I 

Emberiza  hortulana  (Savi,  II^  pag,  88).  Bresc,  tirahils,  Ber- 
gamo filafii.s  ^). 

Erithacus  rubecula.  Sard,  ziddi. 

Fringilla  coelebs  (Savi,  II,  pag.  110).  Dal  grido  suo  di  passo 
che  dicesi  dagli  uccellatori  finòidre  ^)  —  onde  fìnciaroi 
i  giovani  fringuelli  dell'anno  —  è  chiamato  a  Cuneo 
cincin,  Vie.  finco,  Susa  qiiinquin,  Regg.  spinco,  spin- 
zéro.  Cfr.  i  nomi  francesi  qiiinquin,  qui  qui,  pini, 
huit,  etc.  (vedi  Appendice,  n.  V). 

Fringilla  montifringilla.  Feltre-Cadore,  dal  grido  suo  d'ap- 
pello, kek. 

Gallinago  e  Scolopax.  Milano  hip,  snip,  shep,  shepa,  shepin, 

shepun. 

Garrulus  glandarius.  Piem.  gè. 

Hipolais  poliglotta.  "  Ha  una  voce  piacevole,  delicata  e  va- 
riabilissima, e  canta  quasi  continuamente  posata  sul- 
l'estremità d'un  ramo  mediocremente  alto  „  (Savi,  I, 
pag.  288). 

Piem.  ciarléttua,  Bresc.  go'zitina,  Chiari  ciribiciàcola, 
Aless.  ciarlettuinna. 

Il  suo  canto  consiste  in  una  dolce  imitazione  di 
quello  di  altri  uccelli;  onde  i  nomi:  ital.  (bresc.)  in- 
gànola,  ted.  spottvogel,  spotterl,  francese  contrefaisant, 
moqueu. 


^)  Felicissime  tali  espressioni;  che  però  a  rendere  proprio  tal  quale 
e  per  intero  il  canto  della  hortulana  andrebbero  nella  loro  prima 
parte  raddoppiate  itira-tira-bus). 

^)  Anche  il  Diez  {Etym.  Worterbuch,  pag.  589)  a  proposito  della 
voce  frinfjuer:  Mutmasslich  aus  einer  Wurzel  die  auch  in  lat.  frin- 
ffutire  zwitschern,  fringuilla,  fringilla,  pnk,  etc. 


I    NOMI    DEGLI    UCCELLI    NEI    DIALETTI    LOMBARDI  399 

Hirunclo  rustica.  Bell,  zirla,  Udine  cibile,  Ven.  hizila,  se'zila, 
Friuli  bizilei'^). 

MUiaria  proyer  (Savi,  II,  pag.  80).  Dal  grido  d'appello  il 
feltrese  piók;  dal  canto  d'amore 

Berg.  tartarais,  Civid.  trentacihgliris,  Tose,  strillgzzg^ 
Nap.  slrilluózzo,  Ano.  strillo,  Mess.  jcicirùni,  Sard.  cin- 
cirri.  Cfr.  i  nomi  francesi  cincerizi,  tartari,  teriteri  ^), 

Motacilla  alba  (Savi,  II,  pag.  30).  Mess.  pispicia,  Calt.  vi- 
spiha,  Regg.  pispiha  (?), 

Motacilla  hoarula.  Pisa  cutti,  Roma  aizzi. 

Parus  coeruleus.  Brescia,  Berg.  berebebe. 

Parus  maior.  Piem.  ciribibi,  ciribiri,  Tesino  peruzola  finca, 
Fir.  cincipQUola,  Nap.  trentacinque,  trentacinke,  Girgenti 
cirlincÌQ  2). 

Parus  minor  o  ater.  Berg.  ciuici,  fjigid. 

Passer  montanus.  Piem.  cirik. 

Philloscopus  rufus.  "...  ora  battendo  le  ali  e  la  coda  sal- 
tella di  rametto  in  rametto,  o  s'attacca  a'  tronchi  degli 
alberi  ;  ora  agile  come  una  farfalla  insegue  gli  insetti 
a  volo,  sempre  ripetendo  in  tono  lamentevole  un  pic- 
colo fischio  che  assai  bene  s'esprime  col  suo  proprio 
nome  lui  „  (Savi,  Si/ivia  rufa,  I,  pag.  292). 

*)  Savi:  "  Canta  di  continuo  quel  suo  verso  stridulo  tri,  tri,  tri, 
tririri,  che  acutissimo  rompe  l'aria  anche  a  grandi  distanze  „.  — 
Così,  in  certi  luoghi  della  Francia,  nella  quale  è  generalmente  detto 
preyer,  ha  il  nome  onomatopeico  teriz:  "  car  il  se  met  sur  jour  [sic: 
passa  il  giorno?)  dessous  le  bout  d'un  palis,  e  chante  "  tirtertirteriiz  „ 
réitérant  souvent  telle  voix  „.  Bellonius,  St.  d.  nat.  degli  uccelli, 
pag.  267. 

^)  A  Milano  il  suo  canto  è  interpretato,  non  senza  una  punta  di 
birichina  malignità:  Ki  l'è  ke  fa  la  rQbba?  i  poveritt  -  ki  l'è  ke  gQd 
la  róbba?  i  rik,  i  rik. 


400  G.   BONELLI 

Piem.  tuik^  boin,  boén,  boenélto,  Gen.  tùio,  Como  buzt, 
Bresc,  Berg.  tiii,  Bassano  fui'n,  Cremon.  tui'n,  Novara 
zuit,  Trent.  tuit,  Roma  piti,  Tose,  lui,  luikfcio.  Anche 
in  Francia  tui,  huit,  puit. 

Pratincola  rubicola  e  rubetra.  Mendr.  vitcecf.  E  il  grido  loro 
tale  e  quale,  reso  quindi  un  po'  meno  bene  dai  nomi 
comaschi  cik-ciak,  ciup-tek,  e  dal  roveret.  cibezek.  — 
Francese  vitree,  huiktrac,  rikchek. 

Pyrrula  europaea.  Bresc.  sobiot,  Berg.  siflgt,  si'glót,  siiilgt, 
Crem.  sifùlgtt,  Mil.  cifulgtt,  Mant.  subigt,  Pav.  sufici, 
Vie,  finco  subigto,  Friuli  sifìlott,  Gen.  sigiiriin,Tosc.  ciuf- 
folotto. Dall'espressione,  che  par  lamentevole,  del  suo 
canto,  i  nomi  francesi  fKìteur,  pleureux. 

Regulus  ignicapillus.  Spezia  fri-fri. 

Scopsgiu.  Manda  un  "  fischio,  che  assai  bene  s'imita  con  la 
parola  chiù,  etc.  „  (Savi,  I,  pag.  75). 

Cuneo  citi,  Aless.  ciò,  Nov.  ciiik,  Bell,  zuf.  Boi.  cimi, 
Valli  di  Sopa  kiùrlo-in  kig,  Fies.  kiù,  Caltan.  kiùppu. 

Sylvia  cinerea,  "  Si  fa  sentire  nei  campi  coltivati  con  il  suo 
verso  corto  e  monotono  che  di  continuo  ripete  „  (Savi,  I, 
pag.  252). 

Bresc.  gozeta,  Mant.  ciciarela,  Arenzano  ciarletta. 

Troglodijtes  parvulus.  Ossola  re-re,  Berg.  c'err.  Spezia  kra-kra, 
Gen.  recece,  Tose,  skric'ciolo,  Bell,  tre-tre.  Cfr.  il  nome 
francese  cretcret. 

Turdus  inusicus.  Dallo  zillo,  grido  suo  di  passo.  Ven.  tóì^do 
sigarài,  t.  cik,  t.  zik,  Bell,  tórdo  zit. 

Turdus  pilaris.  Dal  canto  o,  meglio,  grido  di  passo,  che 
ricorda  l'abbaiare  dei  cani.  Bell,  tórdo  ciak,  Bresc.  gar- 
dena  baiarola,   cidcola,    Cuneo   ciacidra,  Vie.  baiar^la, 


I   NOMI    DEGLI    UCCELLI   NEI    DIALETTI    LOMBARDI  401 

Tort.,  Novi  ciak-ciak.  Cfr.  i  nomi  francesi  fidtid,  tsdtsd, 
kidkid,  chackchack. 

Turdiis  viscicorus.  Mil.  dr^ss,  Ossola  dr^s^  Piera,  sgerr, 
Bresc.  tr^,sa,  Berg.  dréssa,  Vogh.  diysla.  Cfr.  i  nomi 
francesi  draine,  tree,  tret. 

Upupa  epops.  Piem.  pupu,  Novi  bohó,  Ossola  hùhxda,  Mod. 
pupùlla,  Bari  huhù,  Sard.  pupùza,  Tose,  bùbbola  ^). 
Cfr.  i  nomi  francesi  houpp  hoiipj),  boiitt  boutt,  boud  boud, 
put  put,  etc, 

Vanellus  capella.  "  L'un  l'altra  si  chiamano  mandando  con- 
tinuamente il  loro  solito  fischio  acuto  e  stridulo,  col 
quale  sembrano  pronunziare  gì  gi  „  (Savi,  II,  pag.  258) 
e  da  esso,  è  probabile,  si  devono  ripetere 

Bresc.  sguaina,  Spezia  pm^  Lucca  fz'fa,  Fucecchio  mi- 
ciola  (quasi  a  dire  gattina). 


')  Savi,  I,  326.  11  nome  di  '  bubbola  '  è  stato  dato  a  questo  uccello 
a  cagione  del  grido  che  manda  in  primavera.  (Anche  se  lo  si  fa  de- 
rivare, anziché  da  hiibo,  da  upupa  —  *  puppola,  *  tipupola  —  non  es- 
sendo probabilmente  il  latino  upupa  che  una  i-eduplicazione  del  suono 
up,  si  ha  pur  sempre  un  nome  a  radice  onomatopeica).  Stando  na- 
scosto dentro  gli  alberi,  continuamente  ripete  bu  bu  bu,  bu  bu  con 
voce  sonora  e  forte  di  modo  che  ne  risuona  la  campagna  anche  a 
distanza  assai  grande.  —  Pierre  Belon  dd  Mans  (opera  cit.),  chap.  X', 
De  la  huppe,  pag.  293:  "  Nous  luy  donnons  ce  nom,  à  cause  de  sa 
creste  (la  cosa  però  è  vera  al  rovescio,  in  quanto  il  nome  huj)pe  e 
stato  dato  all'uccello  per  il  suo  canto,  e  se  significa  anche  cresta,  lo 
si  deve  all'  uccello  che  ha  appunto  la  cresta),  mais  les  Grecs  l'ont 
nommée  Epops  à  cause  de  son  cry.  Nous  la  nommons  un  imput  „, 
canto  che  Ai-istofane  più  a  lungo  svolse  nella  frase  'HiroTTuùe,  ironoTiù», 
irOTTUic,  uoTTi&e,  lo,  ìò,  txuj,  trai. 


402  G.    BONELLI 

Capitolo  V. 

Nomi  indicanti  qualche  particolare  moto  o  abitudine. 

Alcedo  ispida.  Dal  modo  ratto  e  veloce  col  quale,  mentre 
svolazza  sui  fossati,  se  vede  a  fior  d'acqua  un  qualche 
pesciolino,  a  ghermirlo  si  lascia  tosto  cadere  a  piombo 
su  di  esso,  è  detto  a  Brescia  piàmbi;  Creraon.  piumbéen, 
Vie.  piombin,  Boi.  plumbéin,  Udine  piombili,  Siena  piom- 

binello  ^). 

(Questo  fatto  poi  d'un  uccello  che  si  ciba  di  pesci 
era  troppo  curioso  e,  per  cosi  dire,  stravagante,  perché 
potesse  sfuggire  a  que'  pazienti  osservatori  che  sono 
i  contadini  -}  —  e  le  denominazioni  ornitologiche  pro- 
babilmente in  buonissima  parte  dovettero  essere  co- 
niate da  loro  — ,  onde  che  tale  uccello  sia  stato  anche 
detto,  come  già  si  vide,  nel  bergamasco  b^ca-pess,  nel 
mantovano,  cremonese  pkt-pess,  ad  Arezzo  kiappa-pesi , 
a  Nap.  martiniello  —  (ove  forse  s'ha  a  vedere  un'in- 
fluenza 0  un  riscontro  del  nome  toscano  martin  peska- 
tóre  —  e  Nicola  peskatóre,  a  Mess.  martinéddii,  a  Calta- 
nisetta martinu  piskaturi  ^)  ). 

')  È  però  completamente  da  escludere  che  tali  uomi  non  siano 
anche  stati  indettati  dallo  splendore  e  luccichio  metallico  delle  penne 
di  questo  uccello? 

-)  "  Les  oyselcurs  sont  si  duicts  de  bien  observer  les  oyseaux . .  . 
qu'ils  n'en  laissent  aucun  „    Belon,  op.  cit.,  1.  VII,  cap.  XVI. 

^)  Quanti  nomi,  per  così  dire,  religiosi  ebbe  anche  quest'uccello  ! 
A  Pisa,  ad  esempio,  quello  di  uccd  scinta  Maria,  santa  Maria,  a  Te- 
ramo uccello  s.  Nicóki,  e  in  molti  luoghi  della  Sicilia,  dove  ucéddu 
vale  uccello,  acéddii  s.  Giuvanni.  Così  in  Francia  aonzel  de  Saint  Martin, 
oiseau  de  saint  Jean,  oiseau  de  saint  Nicolas. 


I    NOMI    DEGLI    UCCELLI    NEI    DIALETTI    LOMBARDI  403 

Anthus  pratensìs.  Il  volo  calmo  e  regolare  di  questo  uc- 
cello ha  fatto  sovvenire  il  guizzare  del  pesce  ^),  onde 
le  denominazioni 

Bresc,  Berg.  sguiss^ta,  Cremon.  guizzetta,  Mant.  sgui- 
setina,  Vicent.  sguìzéta,  etc. 

Caprimulgiis  eiiropaeus.  "  Di  giorno  sta  posato  sulla  terra 
fra  i  cespugli  e  prende  il  volo  se  gli  si  passa  d'ac- 
canto; soltanto  tramontato  il  sole  esce  dal  suo  nascon- 
diglio e  insegue  le  farfalle  crepuscolari  „  (Savi,  I, 
pag.  303). 

Ossola  nocciola  (quasi  a  dire  l'uccello  della  notte  ?), 
Rmg.  cova-tèrra,  Fir.  nottolóne,  Siena  piaitaióne,  Casent. 
cova-in-térra,  Valdich.  piattóne,  Lecce  suónnu  (l'uccello 
del  sonno  ?),  Otranto  duórmi  (l'uccello  che  dorme,  anche 
di  giorno  ?). 

Certhia  familiaris.  "  S'arrampica  sulla  scorza  degli  alberi 
continuamente  percorrendoli  ed  esaminandoli  per  cer- 
care i  ragni,  afidi,  e  gli  altri  insettini  che  sono  il  suo 
cibo  „  (Savi,  I,  pag.  187). 

Bresc.  rampigi,  Berg.  rampar i,  Mant.  rampgin,  Ro- 
vereto ranipegétta,  Pav.  rampe§m,  Vie,  Bass.,  Valsug. 
rampegarglo,  Tose,  rampikino.  Cfr.  i  nomi  francesi  grim- 
peaux,  grimpé,  grimpion,  rampa,  rampinette,  rate,  ratatè, 
ratera. 

lounx  torquilla.  La  qualità  piìi  curiosa  di  questo  uccello 
è  quello  di  muovere  il  collo  da  tutti  i  lati  e  celeris- 


')  "  Pare  che  voghino  „  mi  ebbe  a  dire  un  cacciatore  l'anno  scorso, 
parlando  appunto  dell'impressione  che  gli  facea  il  volo  delle  prispole. 
"  Ont  une  démarche  lente  et  gracieuse„.  Chenu,  op.  cit.,  IIP  partie, 
pag.  208. 


404  G.    BONELLI 

simamente  ;  pare  che  sia  attaccato  da  convulsioni,  gira 
e  rigira  la  testa  da  tutte  le  parti  in  modo  stranissimo 
e  sorprendente  ^)  (Savi,  I,  pag.  146). 

Pieni,  torsa-cóll,  Bresc,  mena-cQ,  Berg.  cgl-tgrt,  Cre- 
mona mena-có,  Bell,  coda-tórcol,  Mant.  mena-có  e  stort-c'qll, 
Vie.  cao-stgrto,  Gen.  torsi-cl^lo,  Friuli  cuel-stnart,  Pisa 
girasóle,  Nap.  capo-tortiello,  Lecce  tranc'ollo,  Abb.  tor- 
ciàra,  Arezzo  cgllo-t^rto,  Caltaniss.  c^ddu-tórtu. 

Monticola  cyanus.  Bresc,  Pad.  poserà  sulitdria,  Rovigo  pas- 
sarci solitaria,  Tose,  passera  solitaria,  Anc.  passero  so- 
litario, etc.  Cfr.  i  nomi  francesi  le  merle  solitaire,  l'in- 
glese the  solitari/  Thrush,  etc.  E  invero  essa  ama  1 
luoghi  pili  inaccessibili  delle  montagne,  nei  quali  vive 
solitaria  quasi  fuggendo  la  compagnia  degli  altri  uccelli. 

Motacilla  alba.  Dal  modo  col  quale  leggiera  passeggia  sul 
terreno,  e  quasi  vi  sussulta,  la  troviam  detta  a  Ber- 
gamo balargta,  sul  Genovese  e  in  Toscana  ballerina. 

Si  potrebbe  dire  che  questa  motacilla  cammini  con 
tutto  il  corpo,  poi  che  tutta  si  dimena,  e  sempre  agile 
e  lesta  saltella;  alla  lunga  coda  poi  imprime  di  con- 
tinuo un  movimento  dall'in  giù  all'in  su  —  probabil- 
mente per  ragione  di  miglior  equilibrio  —  ,  onde  che  a 
Feltre,  Belluno  sia  stata  chiamata  coa-cdssola,  a  Udine 
skassa-códe,  a   Cividale   code-bdndule,   a   Padova  batti- 


')  Pensava  il  Savi  che  questi  moti  della  testa  della  Jounx  non 
fossero  dello  stato  normale  dell'uccello,  ma  effetti  dello  spasmo  ner- 
voso del  sentirsi  preso.  Ma  lo  Chenu,  trattando  appunto  del  torcicollo 
(op.  cit.,  Oiseaux,  P  partie,  pag.  248),  là  dove  osserva  che  "  lorsqu'il 
est  pris,  et  qu'on  le  tient,  il  ne  cesse  pas  de  se  donner  ce  mouvement  ,, 
soggiunge  anche  :  "  mais  il  l'exécute  aussi  très  souvent  en  liberté,  et 
les  petits  ont  déjà  la  méme  habitude  dans  le  nid,. 


I   NOMI    DEGLI   UCCELLI   NEI   DIALETTI   LOMBARDI  405 

eoa,  ad  Arezzo  batti-códola,  a  Firenze  cutréttola  (*koda- 
trepida,  Zambaldi),  a  Siena  codi-tr'emola ,  etc,  e  che  i 
Calabresi  l'abbiano  detta  coda'nzinz'era,  e  cioè  para- 
gonata al*  turibolista  che  rende  l'incenso  al  sacerdote 
0  all'altare  col  suo  incensiere  detto  appunto  dagli 
abbruzzesi  zinzero  ^). 

Motacilla  hoarula.  Mant.  squassa-cóa,  Pav.  trema-cóva,  Ge- 
nova coa-trémola.  Calabr.  codijdttola.  Cfr.  i  nomi  fran- 
cesi hochecaive,  bassequoette,  bat-queue,  vouttekua,  bran- 
lequeue,  yuigneqìioye,  billecul,  etc. 

Muscicapa  atricapilla.  Dallo  sbattere  frequente  delle  ali  è 
chiamato  a  Brescia  alt,  a  Berg.  alet  niyer,  sul  Pavese 
al'et,  Gen.  sbatti-de,  Bell.,  Feltro  bati-dle,  Lucca  aliuzza. 

Passer  montanus.  Maravigliosa ,  sorprendente  è  l'abilità 
colla  quale  tale  passero  sa  nascondersi  nei  buchi  dei 
muri  0  nei  crepacci  del  terreno,  sguisciare  di  mano 
anche  al  più  esperto  uccellatore,  o,  attraverso  a  un 
foro  qualunque  della  gabbia  in  cui  stia  rinchiuso  o 
della  rete  in  cui  si  trovi  viluppato,  ricuperare  allegra- 
mente la  libertà.  È  un  demonietto!  —  Si  direbbe  poi 


^)  Savi,  II,  28.  "  Hanno  le  Motacillae  una  figura  snella  ed  elegante, 
e  vivaci  ed  allegre  sono  le  loro  mosse.  Di  continuo  con  gran  lentezza 
alzano  e  abbassano  tremolando  la  coda,  dal  che  esse  han  preso  il 
nome  di  hatticode,  coditremole  „.  E  forse  per  lo  stesso  motivo  questa 
cutréttola  è  detta  in  francese  la  lavandière  ;  infatti  anche  il  Belon 
(op.  cit.,  cap.  X)  osserva  ch'essa  deve  aver  avuto  tale  nome  o  "  pource 
qu'elle  tient  compagnie  aux  lavandiers  sur  les  rivages  des  eaux,  ou 
pource  qu'elle  est  fort  familiere  aux  ruisseaux,  ou  elle  remue  tousiours 
la  queue  en  hochant  le  derriere,  comme  un  lavandière  qui  bat  ses 
drapeaux  ,  ;  e  il  Rollano  (op.  e  voi.  cit.,  pag.  226)  :  on  les  voit  souvent 
à  coté  des  laveuses  ;  elles  mèmes  semblent  faire  leur  petite  lessive 
avec  leur  queue  en  guise  de  battoir;  d'où  les  noms:  batte  lessive,  la- 
vresse,  lavandière  „.  Sp.  lavandera,  ingl.  tvasher. 

Sludj  di  filologiti  romanza.,  IX.  26 


406  G.   BONKLLI 

che  i  buchi,  o  ciò  che  gli  si  presenta  sotto  tale  forma, 
lo  attraggano  ;  e  se  lo  sanno  invero  gli  uccellatori,  cui 
non  di  rado  capita  di  vedersi  annegare  sotto  gli  occhi 
qualcuno  di  tali  passeri  ch'essi  tengono  in  gabbia, 
poiché  questi,  per  qualsivoglia  causa  atterriti,  cercano 
talora  scampo  gettandosi  a  capofitto  nell'orciuoletto 
dell'acqua,  ove,  naturalmente,  incontrano  invece  morte 
immediata.  Ed  ecco  omai  chiarito  l'adiettivo  che,  quasi 
ad  unanimità,  il  popolo  ha  aggiunto  al  nome  di  questo 
uccello,  come  mostrano  le  seguenti  denominazioni: 

Bresc.  passera  bukerma,  Berg.  passera  buherola,  Cre- 
mona passera  huzarina,  Mant.  pdsara  hozarina,  Napoli 
pdssaro  de  perttiso,  Marchig.  passero  bucaiglo. 

Significativo  il  nome  che  ha  a  Fucecchio:  passera 
strega  ! 

Ficus  niaior.  "  Abita  nei  boschi,  e  quasi  di  continuo  ne 
turba  la  quiete  o  con  i  suoi  urli  forti  o  con  il  romor 
risonante  del  becco  che  va  battendo  negli  alberi  affine 
d'intaccarne  la  corteccia,  sollevarla,  e  mettere  quindi 
allo  scoperto  le  uova  d'insetti  di  cui  si  ciba  „  (Savi,  I, 
pag.  141). 

Bresc.  e  Berg.  b^ca-sgk,  Rover,  beca-zoke,  Yen.  batti- 
lano, Bass.  beca-rdme,  Cadore  beca-len,  Pad.  bati-leno, 
Tose,  pikkio.  Cfr.  i  nomi  francesi  becca-bò,  begue-bois, 
pigue-bois,  togue-bois,  perce-bois,  etc.  Rollano,  op.  cit..  Il, 
pag.  58. 

Podiceps  fluviatilis.  "  Abitano  i  tuffetti  ne'  fossi  e  nelli  stagni  ; 
per  pochi  momenti  stanno  alla  superficie  dell'acqua, 
subito  si  tuffano,  e  ricompariscono  a  una  certa  distanza  „ 
(Savi,  III,  pag.  18). 


1    NOMI    DEGLI    UCCELLI    NEI    DIALETTI    LO.MBAHUI  407 

Piem.  suttacquhi,  Yen.  sottarglo,  Tose,  tuffetto,  etc. 
Pratincola.   Se   ne    hanno    due    specie:   rubicola  e  rubetra; 
l'una   nidifica   anche   da  noi,  l'altra   ci  viene   solo    di 
passo,  e  la  prima,  come  quella  che  più   specialmente 
vive  su  pei  monti  ed  è  alquanto  più  piccola  della  se- 
conda, è  detta  in  bresciano  makitz  nostra,  e  in  berga- 
masco maketi  d' montana,   a  differenza    della   seconda 
che  invece  chiamasi  a  Brescia  e  a  Bergamo  mafc^t  de 
pasdda  o  semplicemente  makk  i).  —  È  però  costante 
abitudine  d'entrambe  quella  di  posarsi  sulla  punta  del 
ramo  più  alto  degli  alberi  o  sul  cocuzzolo  delle  pan- 
nocchie, per   trovarsi    nella   posizione    più   favorevole 
per  prendere  i  moscherini  che  si  trovano  a  ronzare; 
onde  efficacemente  rappresentativi  i  nomi  loro:  antico 
Bresciano   smansitz  2),  Pav.  zima-brgk,  Pis.  spùnta  ca- 
Igckie,  Tose.  saWin-pùnta,  Gen.  salt-in-vétta,'Raveiìn.  selt- 
in-p'el,  Varzi  puntaro,  Rover,  zwia-erbe.  Romano  salta- 
bastóne,  Napol.  miett-em-pùnta,  Sard.  punti-palo,  Sicilia 
caca-si-pdli,  salt'in-pizzu,  caca-pdlu. 

Siccome  poi  l'una,  la  rubetra,  fa  da  noi  suo  pas- 
saggio nella  stagione  calda,  così  a  Napoli  essa  è  detta 
miettem-ptinta  di  state,  e  l'altra,  la  rubicola,  che  s'in- 
contra nelle  nostre  campagne  anche  d'inverno,  miette'm- 
punta  d'inverno  ^). 


')  Potrà  rientrare,  per  questa  distinzione  del  makét  dal  makitl 
anche  nella  serie  degli  uccelli  a  nome  positivo  e  diminutivo. 

*)  Cfr.  V Elenco  dell'  ornitofauna  bresciana  compilato  dal  prof  Luigi 
Erra,  riordinato  e  cresciuto  dal  prof.  Eug.  Bettoni  (nei  Commen- 
tari   dell'Ateneo    di    Brescia,  1900). 

■     ')  Così  la  ruticilla  titys  che,  a  differenza  à%\\^  phoeuicurus,  solo  coi 
freddi    scende    al    piano,  è  a  Parma    chiamata  covróss    da   Vinv'eren. 


408  G-    BONKLLI 

titrepsilas  interpres.  "  Cibasi  di  vermi  e  piccoli  molluschi, 
di  crostacei,  che  va  a  cercare  sotto  i  sassi  gettandoli 
all'aria  mediante  il  suo  becco  corto  e  duro  „  (Savi, 
op.  cit..  Il,  pag.  261). 

Gen.  vòlta-prie.  Tose,  v^lta-piélre.  Cfr.  il  nome  fran- 
cese le  tournepierre. 

Troglodytes  parvulus.  Berg.  bilh-séss,  re  de  s^ss,  Mant.  sòm- 
ka-sess,  Novar.  sauta-hócc,  re  di  bdcc,  Como  fora-H'ess, 
Valt.  fora-bócc,  Veron.  sbuha-séhe,  Siena,  Fiesole  fora- 
rndkkie,  Kom. sbuca-f ratte,  Nap.  speréia-sepe,  Mess.  p'^rcia 
ruvettu  (Bene  appropriata  e  graziosa  la  francese  compte- 
fascines). 

Capitolo  VI. 

Nomi  formati  su  quelli  de'  luoghi  di  preferenza  abitati 
dagli  uccelli. 

Accentor  modularis.  Più  che  gli  alti  alberi  ama  esso  le 
siepi,  i  cespugli,  le  piccole  boscaglie  ');  ed  ecco  che  lo 
troviamo  chiamato  ad  Aless.  buskin,  a  Sondrio  passera 
buskrna,  Boi.  passera  d'mdcia,  Lucca,  Pisa  stipaióla, 
Fiesole  passera  sepaióla,  Arezzo  skopina,  Anc.  passera 
frattaróla,  e  nelle  Romagne  buskaiol,  buskarol. 

Acrocephalus  arundinaceus.  Poi  che  s'incontra  di  preferenza 
nelle  paludi  e  nei  canneti  %  è  detta  a  Padova  sélega 

n  Cosa  questa  tanto  più  notevole  in  quanto,  essendo  Yaccentor  un 
buonissimo  volatore,    anche  sugli  alti  alberi  potrebbe    posarsi  senza 

veruna  difficoltà.  -,  ,-  ^     , 

')  Savi,  I,  285  (Silvia  turdoides):  '  ...  si  trova  ne  paduli  tra  le  can- 
nelle alte;  qualche  volta  si  stabilisce  anche  ne' cespugli  che  pendono 
sulle  correnti  de' fiumi  ,. 


I    NOMI    DEt'.Ll    UCCELLI   NEI   DIALETTI    LOMBARDI  409 

palugdna,  canevarolón,  Mod.,  Boi.  cannaról,  Ven.  cana- 
ro'ìia,  Bresc.  passera  cauflera,  Cremori,  passera  canera, 
Mil.  cannette,  Vie.  zélega  palugdna,  Bell,  canelón,  Feltre 
canaról,  Nap.  focetolóne  (beccafico  grosso)  d'dkua,  ru- 
sinuólo  d'dkua,  Cuneo  ransinol  d'ie  canne.  Cfr.  i  nomi 
francesi  rossignol  de  rivière,  rossignol  de  marais,  rous- 
signoou  d'a'iguo,  paisse  de  marais. 
Alanda  arvensis.  È  noto  che  tale  uccello  non  si  posa  sugli 
alberi  '),  ma  o  spazia  volando  per  l'aria,  o  a  terra  sta 
posato.  Probabilmente  per  questa  sua  abitudine  ^)  è 
detto  a  Sondrio  odola  de  campana,  nel  Napoletano  cvc- 
cidrda  ^),  a  Lecce  terranóla. 

*)  Quelle  rarissime  volte  che  vi  si  appollaia  lo  fa  quasi  a  gioco. 
Una  sola  volta  io  mi  ricordo  di  aver  visto  allodole  appollaiate: 
erano  panterane  nostrali  (le  cosidette  ciqrle),  e,  poi  che  correva  il 
mese  di  settembre,  —  e  l'allodola,  si  sa,  come  è  tra  i  primissimi 
uccelli  ad  aprire  col  canto  la  stagione  degli  amori,  così  è  l'ultima  ii 
chiuderla  (ancora  in  novembre  bene  spesso  accade  a  chi  esca  per  i 
campi  di  sentire  il  suo  "  adieù  Dieu  „),  —  trillavano  argutamente  a 
distesa  i  lor  canti  d'amore,  ora  inseguendosi,  ora  quiete  ognuna  al- 
zandosi a  librarsi  nell'aria,  quando  una  di  esse,  un  maschio,  abbassa- 
tosi sulla  prateria,  quasi  per  capriccio,  o,  forse  per  meglio  far  risaltare 
e  far  intendere  la  potente  sua  voce,  rattenne  il  volo  su  di  un  piccolo 
gelso  selvatico,  e,  dopo  qualche  esitanza,  si  posò  sul  ramo  più  grosso 
orizzontale  e  tosto  riprese  il  canto.  Quasi  subito  gli  comparvero  d'at- 
torno le  altre  allodole  dello  stormo  e,  quale  piroettandogli  da  vicino, 
quale  volteggiando  poco  al  disopra  della  pianta,  tutte  sembravan  mo- 
strare il  desiderio  di  appollaiarsi  esse  pure,  e  invero,  l'una  appresso 
dell'  altra,    quasi  tutte  —  saranno  state  sei  o  otto  —  si  posarono. 

^)  Portata  forse  non  tanto  dalla  ragione  del  cibo  quanto  proprio 
dalla  speciale  conformazione  del  piede  suo  che  non  gli  permette  di 
abbrancarsi  a  un  ramo,  ma  soltanto  di  sostenersi  e  camminare  sul 
terreno  ;  a  meno  che  non  si  voglia  spiegare  codesta  particolare  strut- 
tura del  piede  come  un  risultato  dell'abitudine  dell'allodola  di  posarsi 
soltanto  sul  terreno,  poi  che  solo  su  di  questo,  non  su  gli  alberi,  ri- 
trova il  cibo. 

^)  Da  acciiccidre,  onde  c/(CCjar(^«^=  uccello  che  s'accovaccia  (e  non  si 


410  G.    BONELLl 

Anthus  aquaticiis.  Tortona-Novi  sibi  d'dkiia,  Pieni,  vainéta 
d'éva,  Arezzo  fossd'ccio. 

Anthus  pratensis.  Tortona-Novi  si'hi  da  pra,  Piem.  vainéta 
d'i  camp,  si:2i  da  prv. 

Cinclus  aquaticiis.  Cuneo  mèrlo  da  èva,  Lomb.  m^rlo  d'dkua, 
Cividale  miérli  d'dge,  Gen.  mèrlo  peskii,  Boi.  mérel  akudr, 
Lucca  merlakduccio,  Tose,  merlo  akiiaiólo,  Nap.  mièrolo 
d'dkua,  Mess.  memi  d'dkua,  Caltan.  addtlzzu  d'dkua. 

Columha   livia.  "    Tutte   le    torri,    tutte   le    alte    fabbriche 
anche  delle  città,  se  han   buche  o  spacchi,   sono  abi- 
tate dai  piccion  torraiuoli  „  (Savi,  II,  pag.  162). 
Cuneo  ciiUhnh  tùrèr  o  toré,  Ancona  coparólo  (?). 

Emheriza  eia.  Bresc.  spiónsa  de  moni,  Berg.  sponsi  de  rgcol, 
Cogoleto  sia  montanina,  Ancona  ziola  montandra,  tutte 
le  quali  denominazioni  —  anche  la  bergamasca,  poi  che 
il  roccolo  è  l'uccellanda  propria  della  montagna  — 
indicano  che  questa  spionsa  è,  a  differenza  della  cirluSy 
quella  che  nidifica  e  fa  il  passo  in  montagna  ^). 

Emheriza  citrinella.  Berg.  pajeróla,  paerdna,  pagardna,  paja- 
rdna,  pajargta,  Gen.  paliarma,  Cuneo  pajarma,  Pia- 
cenza spajard,  Vergato  pajariz,  Arenzano  sta  paggèa, 
Parm.  spagidr,  Aless.  sia  pagéa,  etc,  denominazioni 
che  dell'uccello  significano  l'abitudine  di  frequentare 
e  pasturare  nelle  sterili  lame  bene  spesso  di  null'altro 
produttrici  che  di  paglie. 

Emheriza  hortiilana.  Crem.  ùrtnldn,  Mant.  ortolanìn,  Pavia 


appollaia).  A  Napoli  si  suol  dire  cuccidrda  la  donna  bassotta  e  grassa 
precisamente  come  in  Francia  s'  usa    1'  espressione    gras   comme    une 
mauvieUe,  nella  quale  mamnette  significa  appunto  allodola. 
*)  Savi,  II,  86:  "  Abita  particolarmente  i  colli  „. 


I    NOMI    DEGLI    UCCELLI    NEI    DIALETTI    LOMBARDI  411 

ortoldn,  Tose,  ortolano,  Gen.  lùturdn,  Messina  ortuldnu^ 
Caltan,  iardindru;  di  tutte  le  quali  denominazioni  è 
evidente  che  il  significato  è  uccello  degli  orti  ^). 
Fringilla  montifringilla.  Bresc.  monta,  Berg.  montan'el,  Parma 
frdngol  montandr,  Crem.  muntdn,  Mant.-Vic.  montdn. 
Pad.  montanélo,  Gen.  frenguéllo  montamn,  etc;  e  invero, 
come  ne  insegna  la  tecnica  denominazione  di  Linneo, 
è  questo  il  fringuello  piìi  specialmente  proprio  dei 
monti  ^).  A  Savona  fringuello  córso  o  barbaresko. 


')  Se  però  a  chi  scrive  qui  si  domandasse  se  pienamente  gli  sod- 
disfino tali  nomi,  forse  egli  risponderebbe  che  non  ne  comprende 
troppo  bene  la  ragione,  poiché  non  gli  consta  che  tale  specie  di  e>n- 
heriza  davvero  frequenti  orti  o  giardini,  anzi  stazionaria  solo  l' ha 
trovata  nelle  aperte  campagne  coltivatela  frumento,  e,  meglio  ancora, 
in  quelle  ad  avena. 

^)  Savi,  II,  114:  "...  cova  sui  monti  ,.  Opportunamente  accosta  il 
Belon  i  nomi  di  questa  specie,  =  lat.  montifringilla —  gr.  ó  òpoaitiZ^ric; 
—  fr.  pison  mountain,  e  ne  ammira  la  giusta  e  perfetta  corrispondenza. 
Sbaglia  però,  a  nostro  avviso,  quando  sembra  voglia  vedere  in  essi 
un  legame  di  successione  [on  trouve  que  noz  paysans  retiennent  les 
dictions  telles,  que  les  anciens  Grecs  ont  laissé  par  escrit,  sans  s9avoir 
dont  cela  leur  vient],  vo'  dire  quando  crede  che  l'uno  sia  derivato 
dall'altro,  quasiché  ai  nostri  contadini,  di  Francia  o  d'Italia,  i  nomi 
ornitologici  possano  mai  esser  giunti  attraverso  i  manoscritti  greci 
e  latini.  No,  con  buona  pace  di  tutti  i  nostri  eruditi,  che  in  ogni  cosa 
volean  vedere  la  continuazione  di  filoni  unici,  anche  questo  fatto  della 
corrispondenza  dei  nomi  volgari  ornitologici  non  è  strano,  e  non  ci 
deve  quindi  maravigliare.  Non  è  forse  infatti  palmare  che  la  gran 
somiglianza  e,  talora,  identità  fonetica  e  di  significato  che  si  rileva 
nei  nomi  ornitologici  è  una  necessaria  conseguenza  dell'essere  cotali 
nomi  nella  loro  maggior  parte  prettamente  oggettivi?  Poi  che  le  popo- 
lazioni nel  foggiarli  ad  altro  per  così  dire  non  s'ispiravano  che  agli 
uccelli  stessi  che  volevano  denominare,  altro  cioè  non  riguardavano 
che  le  qualità  e  i  caratteri  di  questi;  qual  meraviglia  se  in  quasi  tutti 
i  nomi  delle  rispettive  specie,  singolarmente  considerate ,  tornano, 
quasi  con  insistenza,  gli  stessi  concetti,  si  accennano  le  stesse  proprietà? 

Forse  che  gli  uccelli,  col  cambiar  paese,  cambiano  abitudini? 


412  G.   BONELLI 

Miliaria  projer.  Mil.  pradiró,  Bresc.  predér,  Berg.  pradér, 
Crem.  pradéer,  Pav.  prión,  Parm.  prdddr. 

Yoglion  dire  cotali  nomi,  come  sembra,  che  l'uccello 
da  essi  indicato  frequenta  le  praterie?  Può  darsi  ^); 
però,  per  parte  nostra,  sospettiamo  essi  non  accennino 
meglio  che  ai  prati,  alle  pietre;  poiché,  se  è  vero  che 
la  specie  in  discorso  preferisce  ai  luoghi  boscosi  le 
radure,  è  anche  vero  ch'essa  ama  non  già  gli  erbosi 
prati,  ma  le  sterili  lame,  le  risaie,  i  greti  dei  fiumi, 
e  i  luoghi  insomma,  più  ricchi  di  pietre  che  non  di 
verdeggianti  erbe.  —  Ne  ci  sembra  che  questa  nostra 
interpretazione  urti  contro  difficoltà  linguistiche;  giac- 
ché, come,  volendo  dare  alle  denominazioni  surriferite 
il  significato  di  "  uccello  dei  prati  „,  occorre  allargare 
in  un  originario  a  Ve  della  voce  bresciana  e  l'i  della 
pavese,  cosi  volendo  ad  esse  dare  invece  quello  di 
"  uccello  delle  pietre  „ ,  si  potrà  forse  supporre  che  i 
loro  a  altro  non  siano  che  e  allargati.  E  si  avrebbe 
in  cotal  guisa,  nel  significato,  uguaglianza  perfetta 
dei  nomi  suddetti  con  quello  di  petrone  da  qualche 
autore  italiano  stato  dato  appunto  allo  strillozzo  (Gi- 
GLioLi,  Avifauna  italica^  pag.  46),  col  modenese  petrón, 
col  bolognese  ptrdun,  i  quali  certo,  e  crediamo  di  non 
ingannarci,  non  alludono  a  prati,  ma  a  pietre  (Sar- 
degna petarón  *petraron). 


')  Il  Bellonius,  a  pag.  267  della  sua  Storia  della  natura  degli  uc- 
celli, trattando  di  questo,  scrive  :  "  Il  voit  dedens  les  prez:  dont  il  a 
gaigné  ce  noni  francoys  Preyer  „  ;  così  pure  il  Rollano,  op.  cit.,  II, 
pag.  197  :  "  On  trouve  frequemment  cet  oiseau  dans  les  prés,  d'où 
363  noma:  pradier,  proyer,  pruyer,  prier,  etc.  „. 


1    NOMI    DEGLI   UCCELLI    NEI    DIALETTI    LOMBARDI  413 

Né  ci  si  opponga  che,  con  questa  nostra  supposi- 
zione, bisogna  ammettere  che  nella  mente  del  popolo 
si  sia  oscurato  e  mutato  l'antico  valore  del  nome,  poiché 
tale  fatto  non  sarebbe  nuovo  ne  strano  ;  e  invero  :  chi 
mai  dei  parlanti  un  dialetto  si  rende  più  ragione  delle 
denominazioni  di  cui  si  vale?  Forse  che  alcun  bre- 
sciano o  bergamasco  sa  cosa  voglian  dire  —  passera, 
machet  — ,  nomi  d'uccelli  comunissimi,  e  dei  quali 
quindi  gli  ricorre  sovente  di  menzionare?  —  Del  resto 
nulla  di  necessario,  nulla  di  esclusivo.  Noi  per  i  primi 
conveniamo  che  può  benissimo  darsi  che,  mentre  alcune 
popolazioni  concepivano  la  "  Miliaria  „  come  "  uccello 
delle  pietre  „,  altre  la  chiamassero  già  fin  d'allora 
"  uccello  dei  prati  „. 

Monticola  cyamis.  Abita  nelle  parti  piìi  riposte  degli  alti 
monti,  e  pone  il  nido  fra  i  dirupi. 

Cuneo  pàssra  siditnria  bla,  Spezia  mèrlo  rokaé,  Mes- 
sina memi  di  rocca,  Pisa  mèrla  tettaiuóla. 

Montico'  '^  saxatilis.  "  Abita  i  colli  sassosi  e  nudi;  ordina- 
riamente sta  posato  sulla  cima  de'  massi  piìi  elevati  e 
inaccessibili  „  (Savi,  Sylvia,  I,  pag.  219). 

Boi.  merci  sdssol,  Friuli  codaróss  di  montane,  Siena 
tordo  di  rgcca,  Nap.  e  Roma  merlo  de  rqcca,  Capri 
passavo  montanaro,  Rovigo  eòa  rossa  de  monte. 

Ruticilla  titys.  Mentre  la  phoenicuriis,  detta  semplicemente 
carossi  o  cuaróssa,  pone  suo  nido  sugli  alberi  o  negli 
spessi  cespugli,  questa  invece  si  compiace  di  porlo  nei 
muri  ^),  onde  le  denominazioni  bresc.  carossi  de  mUrdja, 

')  I,  234  (Sylvia):  Nidifica  nelli  spacchi  de'  massi,  ne'  muri  rovinati, 
e  qualche  volta  su  i  tetti,  o  ne'  campanili. 


414  G.   BONELLl 

piemont.    bucidrd  di  rgk,    milan.    russino   de   miiràja, 
sicil.  cuda-rtissa  di  rgcca. 

Saxicola  oenanthe.  Mentre  pressoché  dapertutto  è  chiamato 
cììl-hidnk,  a  Pavia  sembra  meglio  determinato,  poich'è 
detto  cil-hidnk  d'ia  s'egla  (segale);  ma  in  realtà  codesta 
aggiunta  specificativa  ha  ragion  d'essere  solo  per  Pavia, 
giacché  qui  e  nel  Piemonte  soltanto  s'incontra  la  de- 
nominazione cii-hidhk  usata  anche  per  un  altro  uccello 
e  precisamente  per  Vhirundo  urbica  ^);  a  distinguere 
le  due  specie  occorreva  adunque  per  la  saxicola  o 
lasciar  da  parte  la  denominazione  generale  cU-bidnk  che, 
se  era  già  convenuta  ad  altro  uccello,  ora  non  meno 
s'addiceva  a  questo,  o  specificarla  con  un'aggiunta,  ed 
ecco  il  nome  cu-hidnk  d'ia  s'egla  2). 

A  Lecce  è  detto  caca-pariti;  vorrebbe  forse  tal  voce 
indicare  la  bizzarra  abitudine  di  questo  uccello  di 
vivere  in  prossimità  a'  ruderi,  muraglie,  case,  e  svo- 
lazzare e  posarsi  su  di  esse,  sulle  roccie,  sui  sassi  ? 
(vedi  i  nomi  suoi  novaresi  uh'el  di  sass,  steinvogel).  — 
Confrontisi  anche  la  denominazione  barese  pagignica 
di  parete  e  la  francese  rechiretto  ^). 

Sylvia  cinerea.  Come  quell'uccello  che  piìi  particolarmente 


')  Detta  altrove  comunemente  dard  o  durder,  denominazione  certo 
felice  se  significa,  come  sembra,  dardo  (questo  uccello  è  invero  nel 
volo  una  freccia;  cfr.  la  denominaz.  tose,  balestruccio)  ma  che  non  si 
potrà  però  dire  di  conio  popolare. 

^)  Nel  Piemonte,  ad  Alessandria,  il  nome  cùgiafico  ricorre  quattro 
volte,  ma  pur  sempre  specificato;  per  la  saxicola:  cugiànco  de  tp-a, 
per  la  hirundo:  ciigiàhco  d'àja,  per  la  cUvicola  riparia:  ciigidhco  de 
riva,  per  il  totanus  ochropus:  cugiànco  d'dkiia.  Così,  sul  Genovese,  ad 
Arenzano,  la  saxicola,  cugiànco  de  bósko,  la  h.  ufbica,  cugiànco  d'àja. 

')  Anche  il  Savi  nota  che  nidifica  sui  monti  nudi  e  sassosi. 


I    NOMI   DKGLI    UCCELU    NEI    DIALETTI    LOMBARDI  415 

vive  nel  folto  dei  boschi,  in  mezzo  ai  rovi  e  agli  sterpi, 
a  Belluno  è  detta  boskardela,  in  Toscana  sterpazzola. 

Tichodroma  muraria.  "  Si  ciba  particolarmente  di  ragni, 
che  va  a  cercare  sopra  i  muri  e  sopra  i  massi  „  (Savi, 
op.  cit.,  I,  pag.  186). 

Savona  rampegm  de  miMggia. 

Turdus  iliacHS,  Aless.  cqrsin{?)^  Gen.  tordo  corsesko{?),  Siena 
tórdo  alpif/ino. 

Turdus  merlila.  Reggio  merlo  de  sepula  —  e  invero  i  bo- 
schetti, le  piccole  siepi,  non  gli  alberi,  sono  i  luoghi 
ov'egli  di  preferenza  dimora. 

Turdus  musicus.  Cremona  dùrden  de  muntdna,  perché,  a 
differenza  del  viscivorus,  che  a  Cremona  è  pur  detto 
duri,  nell'Italia  settentrionale  non  annida  che  nei 
monti  delle  alte  valli  (Trompia,  Camonica,  etc).  Vedi 
anche  Savi,  I,  pag.  212). 

Turdus  pilaris.  Per  distinguerlo  dal  viscivorus,  che,  siccome 
annida  si  al  piano  che  ai  monti,  è  detto  semplicemente 
grivds,  è  in  piemontese  chiamato  grivds  d'muntdna,  e 
per  la  stessa  ragione  a  Nizza  tiirdù  muntane,  a  Siena 
tordéla  alpigina,  a  Roma  tordiccia  di  montdìla. 


Nomi    soggettivi. 

Capitolo  VII. 
Specie  a  nomi  accrescitivi  e  diminutivi. 

Posit.:  Alanda  arvensis.  -  Bresc.  sarloda,  Berg.,  Mantova, 
Pav.  lódola,  Crem.  lodala,  Gen.  lóudura,  Pie- 
monte lódua. 


416  G.    BONEI.LI 

Dimin.:  Alanda  arborea.  -  Bresc.  liidiik,  Berg.  loduU,  roduli, 
Cremon.  lodiiviik,  Piac.  lodlénna,  Mod.  ludUn, 
lodlétta,  Istr.  lodoUna. 

A.CGTQSC.:  Alanda  melanocorypha.  -  Gen.  lodolùn,  Ver.  lodolón, 
Bresc.  sarlodii  (Pieni,  re  d'ie  lóduè). 

Posit.:      Alanda  calandra  o  cristata.  -Ven.,  Sicil.,  Sardo,  etc. 

calandra. 
Dimin.:    Alanda  arborea.  -  Ven.  calandrin,  Mass.,  Sard.  ca- 

landr'edda. 

Posit.:      Anthus  pratensis.  -  Bresc,  Berg.  sguiss'eta,  Cremona 

sgiiizzetta,  Mil.  giizetta,  etc. 
Accresc:  Anthus  aquaticus.  -Bresc.  sguissitu,  Berg.  sgtiisseUl, 

Crem.  guizzettón,  Mil.  guzetùn,  etc. 

Posit.:      Athene  noctiia.  -  Ossola  Svetta. 
Accresc:  Asio  oius.  -  Ossola  svettón. 

Posit.:      Emberiza  eia.  -  Bresc.  spiónsa. 

Dimin.:    Emberiza  cirlus.  -  Bresc.  spionsi  de  rl/col. 

Posit.:      Garridus  glandarius.  -  Br.,  Berg.^  Crem.,  Mantova, 

Pav.,  Spezia,  etc.  gdka,  Mil.  gdsffia,  etc. 
Dimin.:    Lanius  collurio.  -  Bresc.  gabét,  gazareta,  Berg.  ga- 
zala, Crem.  sgarzet,  sgarz^tta,  Pav.  garzaróla, 
sgazirijla,  Mil.  gasffetta,  Spezia  gazuéla. 
Funge  poi  da  positivo  per  i  nomi  accrescitivi  del 
Lanius  excubitor.  -  Br.  gaietti  (Berg.  gazala  frizù- 
nera),  Crem.  sgarzetón,  Mil.  stragazzun. 

Posit.:  Hirundo  rustica.  -  Bresc,  Berg.,  Crem.  róndena, 
Mant.  rondila,  Pieni.  rUndùla,  Pav.  rondanéna. 


I   NOMI   DEGLI    UCCELLI   NEI    DIALETTI    LOMBARDI  417 

Vie.  rondi na. 
Dimin.:    Hirundo    uròica.  -  ì^siv.  rondonzhi,  Boi.  rundéccia, 

Mod.  rundek,  Mant.  rondanina,  Yen.  rondikkio. 
Accresc:  Cypselus   apus.  -  Bresc.  rondù,  Berg.  rondu  d'mon- 

t 

tana,   Piem.  rundun,  Mant.,  Pav.,  Vie.  rondón. 

Posit.:  Monachus  hortensis.- Rower.  beccafik ,  Roma,  becca- 
figo,  Nap.  fuckola,  Bari  facédua,  Sic.  heccaficu. 

Accresc,:  Acrocephalus  arundinaceus.  -  Rovereto  beccafigom, 
R.  becca ficóne,  Nap.  fucetolóne,  B.  f acedua 
grgss,  Sieil.  re  de  li  beccafiki,  etc.  (Nizza  riis- 
sinidun,  Ane.  rossinolóne,  etc.). 

Posit.:      Motacilla  alba.  -  Bresc.    boarota,   Berg.    balargta, 

Crem.  buar^tta. 
Dimin.:    Motacilla  flava. -Br.  e  Berg.  èoa/7,  Crem.  hUarina. 

Posit.:  Farus  maior.  -  Bresc.  speransina,  Berg.  parassóla, 
paissóla,  Gen.  parissóa,  Mil.  paraSÓla. 

i  Parus  caiidatus. -Bresc.  speransi  de  la  cùalóhga. 
Dimin.:       Parus  wmor.- Berg.  parassoli,  Gen,  parissolétta, 

'        Mil.  parasiolin. 

Posit,:  Passer  ,montanus.  -  Br.  passera  bìùerina,  Berg,  pàs- 
sera bilzeróla,  Crem.  passera  buzarina,  Man- 
tova pdsara  bozarina,  Civid.  pàssere  niinude, 
Cuneo  passargt  d'rdsa  pcita. 

Accresc:  Passer  Italiae.  -  Bresc.  pàssera  grossa,  Berg.  pas- 
serai., passertl,  Cuneo  j^^^ssarc/t  d'ràsa  grossa. 
A  Genova  invece  è  denominata  questa  con  un 
positivo  pàssùra  (così  a  Belluno  zélega)  e  la 
prima  con  un  diminutivo  passUreta  (Bell,  zi- 


418 


G.    BONELLl 


ligéta)  ;  ad  Arenzano  l'una  col  diminutivo  jyas- 
suétta,  l'altra  col  positivo  passua,  riservandosi 
r  accrescitivo  passuùn  alla  specie  petronia 
stulta. 

Posit.:  Ruticilla  phoenicurus.  -  Br.  carassi,  Mantova  e  Vi- 
cenza coarossa,  Gen.  ciiariissa,  Nap.  codarus- 
siéllo,  etc. 

Accresc:  Monticola  saxatilis.  -  Br.  caróssol,  Mant.  corosolón, 
Piem.  ciiaruss  gróss,  Ver.  skuarussolón,  Vi- 
cenza curussolo,  Nap,  codarusso  gruósso. 

Posit.:      Scolopax  rusticola.  -  Piem.  hecdssa,  Mod,  pizzdcra, 

Tose,  beccdccia,  Bari  biccdccia. 
Dimin.:    Gallinngo  caelestis.  -  Piem.    bekassin,   Mod.  pizza- 

cdret,  Tose,  beccaccino,  Bari  biccaccina. 
A  Brescia     beccadel,  evidente  diminuzione  di   be- 

cdsa,  nome  colà  del  gallinago  maior.  A  Milano 

snepa  questo,   snepiin  quella. 
Posit.:      Sylvia  cinerea.  -  Br.  gobeta,  Cogoleto  ciarlétta. 
Dimin.:    Hippolais  poliglotta.  -  Br.  gositina,  Cogol.  ciarléttua. 

Posit.:  Turdus  miisicus.  -  Berg.  durt,  Crem.  durt,  Man- 
tova dord,  Mod.,  Pav.  tord,  Vie.  tórdo,  Ge- 
nova turlo,  Friuli  dordéi. 

Dimin.  femm.:  AntJms  arboretis.-Berg.  diirdina,  Crem.  dUr- 
dina,  Mant.  dordina,  Pav.  dordéna,  tordéna, 
Gen.  ter  dina. 

Dimin.  masc:  Turdus  iliacus.  -  Berg.  sdàrdi,  Vie.  tordéto, 
Mil.  dressin,  Mod.  tord  peznén,  tùrden,  Civi- 
dale  dordéi  pizztd. 


I    NOMI    DEGLI   UCCELLI    NEI    DIALETTI    LOMBARDI  419 

Accresc:  Turdus  viscivorus. -Cvem.  dUrddssa.  Mant.  dordàs, 
Grosseto  tordo  maggiore. 

Posit.:       Turdus  pilai'is.- Br esc.  gardéna,  Piem.  ^rzm. 
Accresc:  Turdus  viscivorus. -Bresc.  gard'^ia  grossa,   Piem. 

griv&n,  etc. 
Dimin.:     Turdus  iliacus.  -Fìem.  grivéHa. 

E  in  realtà  tutti  questi  uccelli  che  siam  venuti  ora 
noverando  non  si  differenziano  tra  loro,  a  due  a  due 
considerati,  che  per  la  grossezza  maggiore  o  minore. 

Capitolo  Vili. 
Specie  a  nomi  a  base  latina. 

Alanda  arvensis.  Evidenti  sue  derivazioni  sono  certo,  per 
tacere  del  nome  toscano  allodola,  la  voce  milanese, 
bergamasca,  vicentina,  mantovana  e  pavese  lódola, 
piem.  lódua,  valt.  ódola,  parm.  lódla,  la  cremon.  lódula 
e  la  sicil.  lónora.  Ma  probabilmente  anche  la  voce 
bresc.  sarlóda  ne  è  un  derivato,  forse  attraverso  a  un 
primitivo  *alóda,  passato  in  seguito,  per  maggior  faci- 
lità di  pronunzia,  ad  *arlo'da,  dal  quale,  da  ultimo, 
l'odierno  sarlóda.  (La  voce  latina  fa  capo,  secondo 
alcuni,  alla  bretone  alc'houeder  che  significa  uccello 
dell'armonia.  Cfr.  Diez,  Etym.  Worterbtich,  pag.  13.) 

Alanda  calandra^  detta  anche  cristata.  Bresc,  Berg.,  Mod., 
Ven.,  Gen.,  Fir.,  Lecce,  etc.  calandra,  Calt.  caldnnira, 
calanniruni,  etc. 

Anas  boscas.  Aless.  dnia  sarvdega,  Ossola  dnida  selvddiga, 
Lomb.  nedra,  nedrqt.  Tose,  dnitra,  etc. 


420  G.    BONELLI 

Aquila  chnjsaetus.  Piem.  dcula^  diyia,  Com.,  Bresc,  Berg., 
Crem.,  Parm.,  Mod.,  Ven.,  Gen.,  etc.  Tose,  aquila, 
Friuli  dkuila,  Nizza  digla,  Sicil.  dcula,  Cagl.  dkili, 
Sass.  dbila.  Già  il  lat.  aquila  è  propriamente  il  fem- 
minile di  aquilus  =  "  oscuro,  nero  „ ,  onde  il  nome 
vorrebbe  dire  uccello  nero  (Cfr.  Zambaldi,  op.  cit.). 

Ciconìa  alba.  Piem.  zig<^Tia,  Mil.  sigma,  Tort. ,  Friuli,  To- 
scana cicóna,  Bresc.  siggna,  Parm.  zicgua,  Spezia  si- 
gtina.  etc. 

Coccothraustes  vulgaris.  Per  il  fatto  che,  grazie  al  robustis- 
simo e  voluminoso  suo  becco,  schiaccia  con  facilità, 
mastica  —  frendit  —  anche  semi  assai  duri,  ebbe  i  nomi  : 
Aless.  frixiun,  Bresc.  sfrihu,  Berg.  frizu,  Cremon., 
Mant.  sfrisón,  Pav.,  Vie.  frizón,  Gen.  fresun,  Nap.  fro- 
solo'ne,  Lece,  frahune,  Regg.  frihthii.  —  Anche  il  Diez, 
infatti,  nel  suo  Dizionario  etimologico  delle  lingue  ro- 
manze testé  citato  (pag.  275):  "  Frusone  wird  aus 
f rendere,  fresus  hergeleitet  „. 

Columba  palumbus.  Bresc.  colombdss,  Pav.  piìviùn,  Valt.  pe- 
vión,  Crem.  culómp ,  Carpi  clomb,  Rmg.  clumbdzz, 
Ven,  colombdzo,  Nizz.  piffeón,  Tose,  colombdccio,  Roma 
palómbo,  Nap.  palzlmmo,  Sav.  cUmbo  sarvdègo. 

Corvus  ater.  Br.  e  Berg.  cgrf,  Vie.  e  Tose,  c'grvo,  Gen.  crgvo, 
Nap.  cu'grvo.  Cuneo  crgv,  Oss.  corv  ^). 

')  Devesi  però  avvertire  che  tutti  codesti  nomi,  come  già,  del  resto, 
la  stessa  base  latina,  hanno  un  valore  onomatopeico,  poi  che  la  sil- 
laba cor  0  ero,  che  è,  per  così  dire,  il  nucleo  della  parola,  ritrae  in 
qualche  modo  il  gracchiare  del  corvo.  —  Quanto  alla  nerezza  pro- 
verbiale di  questo  uccello  ricordinsi  le  espressioni  dialettali  lomb. 
"  n'eger  come'n  skurhàtt  ,,  tose.  *  non  vedrebbe  un  corvo  in  un  sec- 
chio di  latte  „,  e  l'uso  del  nome  suo  a  indicare,  sempre  però  in  tono 


1   NOMI   DEGLI   UCCELLI   NEI   DIALETTI   LOMBARDI  421 

Cygnus  olor.  Piera,  sia,  Bresc.  eia,  Crem.,  Gen.,  Tose, 
Nap.  cino,  Mod.  zeTi,  Sicil.  cinnii. 

Falco,  falk'et,  falk,  etc.  Secondo  lo  Zambaldi,  che  s'attiene 
alla  vecchia  etimologia  Isidoriaca  (Cfr.  Ethhn.,  XII, 
Vn,  pag.  57),  dagli  artigli  a  falce  ;  secondo  altri,  dalla 
forma  falcata  delle  ali. 

Fringilla  coelebs.  Bresc.  frdiiyuen ,  Berg.  e  Mant.  frdnguel, 
Spezia  franyuéo,  Udine  frdnzell,  Crem.  frdnyol,  Genova 
fringudo,  Rav.  frangvell,  Nap.  frongillo,  frungillo  ^). 

Fulica  atra.  Pieni,  fola,  Tort.-Novi  fulaga,  Pav.  fulga, 
Crem.,  Br.  fàlega,  Varzi,  Tose,  folaga,  Parm.,  Mant., 
Mod.,  Rmg.  fólga,  Ven.,  Berg.,  Trent.  fólega,  Valdich. 
fólcola,  Roma  f alcova ,  Nap.  fólleca  ,  Lecce  fóddaca, 
Terra  d'Otranto  fóddreca,  Sard.  pùliga  -). 

Grus  communis.  Spezia,  Tose,  Piem.,  etc.  gru. 

Hirundo  rustica.  Br.,  Berg.,  Crem.  róndena,  Mant.  rondna, 
rondamna,  Pav,  ronddnena,    Nap.   rennen^lla   (*rende- 


di  disprezzo,  il  prete.  (Quest'uso  è  probabilmente  derivato  solo  dal 
color  nero  della  veste;  però  è  a  notare  che  forse  anche  il  costume 
dei  corvi  di  accorrere  ove  siano  delle  carogne  —  cfr.,  il  prov.  ital.  : 
Dove  son  carogne,  son  corvi.  Strafforello,  La  sapienza  del  mondo  — , 
e  cibarsene,  può  aver  fatto  pensare  ai  preti,  i  quali  pure,  per  il  loro 
stesso  ministerio,  tosto  accorrono  ove  sia  qualche  morto.  Certo  queste 
abitudini  del  corvo  lo  han  fatto  concepire  come  un  animale  molto 
sporco,  avido  e  di  malo  augurio,  come  ne  attestano  perfino  i  proverbi 
indostani:  "  Il  corvo,  se  trovasse  anche  un  lago  pieno  fino  all'orlo, 
pure  desidererebbe  di  bere  in  un  vaso  di  terra  —  Avete  mai  scacciato 
un  corvo  colla  mano  sporca  di  cibo?  —  Il  corvo  gracchiò  e  il  gufo 
ululò  „.  Vedi  Tagliabue:  Proverbi,  detti  e  leggende  indostani). 

')  "  Stark  aus  fringuilla  ist  it.  filunguello  „.  Diez,  op.  cit.,  pag.  590. 

^)  E  la  base  latina  va  forse  connessa  con  la  radice  greca  (paX  (cfr. 
fpaXapóq,  qpaXióq)  indicante  splendore,  che  invero  la  folaga,  pur  es- 
sendo tutt'altro  che  bianca,  anzi  nerissima,  come  di  solito  gli  uccelli 
acquatici,  ha  le  penne  assai  unte  e  quindi  alcun  poco  rilucenti. 

Studj  di  filologia  romanza,  IX.  27 


422  G.   BONELLI 

nella)  taÙaful^rfece,  Vicentino  róndina,  Gen.  rondala, 
Reg.  rindina  d'dkua,  Piem.  rùndiila,  riàndàla^YaMeì- 
lìna  rundena,  Piac.  róndana,  etc.  \). 

Hirundo  urhica.  Ancora  dello  stesso  nome  generico  scen- 
dono il  nome  napoletano  di  questa  specie,  il  semplice 
rennenflla,  i  sicil.  l'inninédda,  rinnina,  etc,  e  i  nomi 
accrescitivi,  cioè  quelli  del  cìjpselus:  rondu,  rondón, 
rondóne,  etc. 

Lanius  minor,  maior,  coUurio,  in  Toscana  e  sul  Napoletano 
velia,  verla,  averla  da  ^avelia,  *avkula,  avis  (Cfr.  Zam- 
BALDi,  op.  cit.). 

Ligurinus  [Chrysomitris  spinus).  Bresc.  lugeri,  Berg.  logarz, 
Belluno  lugret,  V dine  lujar,  Crem.  liigar'^M,  Pav.  legor'^l. 
Vie.  nogarm,  Gen.  liìgarin  (pi.  lugari).  Basso  Nov.  W- 
^M^/w,  Mil.  regorin,  Piem.  lugaén,  Ossola  rigorin,  Ca- 
dore Zu^er,  Mil.  regorin,  Civid.  Ziyer,  Nap.  Zé-cora, 
Reggio  lùgaro,  Mess.  Zwarw  ■^). 


')  Quanto  poi  alla  stessa  voce  hirundo,  essa  forse  fa  capo  alla  ra- 
dice ghar,  in  relazione  al  fatto  che  le  rondini  cacciano,  ghermiscono 
gli  insetti- 

*)  Avvertiamo  però  che  nessuno  dei  lessici  che  abbiamo  consultato 
(Freund,  Diction.  de  la  l.  latine;  Du  Gange,  Glofìsarium  m.  et  infimae 
latinitatis ;  Forcellini,  Totius  latinitatis  lexicon)  ci  offerse  la  parola 
ligurinus  in  questo  significato  di  uccello  ;  e  che  presso  gli  stessi  na- 
turalisti, a  es.  Linneo,  tale  nome  è  usato  non  già  a  indicare  l'uccello 
che  oggi  volgarmente  chiamasi  lucherino,  ma  il  verdone;  onde  si  può 
forse  sospettare  essere  la  voce  ligurinus  di  origine  popolare,  abba- 
stanza recente,  e  aver  dessa  indettata  quella  scientifica. 

Altri  nomi  che  il  popolo  adopera  a  designare  specie  che  non  sono 
quelle  allo  stesso  nome  corrispondenti  nella  scienza,  sono,  ad  esempio, 
calandra,  che,  mentre  volgarmente  indica  Vaiando  cristata,  presso  i 
naturalisti  serve  a  designare  l'allodolone  {melanocorypha  calandra),  e 
reattino  (reéiHo,  recàcco,  etc.)  che,  se  pare  debba  indicare  il  regulus, 
corrisponde  invece  al  troglodytes. 


I    NOMI   DEGLI    UCCELLI   NEI   DIALETTI    LOMBARDI  423 

Lusciola  luscinia.  Br..  Berg.  rosinol,  Mil.  rosnó,  Cuneo  arsimi, 
rausinól,  Crem.  liìsinóol,  Mant.  rosnó,  Pav.  rosonó,  Vie,  ros- 
sinnólo,  Gen.  rossinó,  Nap.  rusiMólo,  Reg.  rusinolo,  etc. 
Tose,  uhimiólo  (Qui  tali  nomi  noi  registriamo,  poieliè 
siamo  d'avviso  ehe  in  essi  tutti  s'abbia  a  ravvisare 
la  base  latina  ^)  e  non  già  l'allusione  al  colore  ros- 
siccio della  specie,  come  un  po'  ingenuamente  voleva 
il  Bellonius  2)). 

*)  Anche  lo  Zambaldi  li  deriva  dal  latino,  e  precisamente  da  una 
forma  *  htxi-cinia  che  vorrebbe  dire  "  uccello  che  canta  nel  crepu- 
scolo „,  denominazione  certo  assai  propria,  poiché  l'usignolo,  come 
è  noto,  ama  cantare  non  già  nelle  calde  ore  del  giorno,  ma  in  quelle 
della  sera  fino  a  notte  avanzata.  Cfr.  le  denominazioni  ingl.  the  night- 
ingaìe,  ted.  der  Nachtigall,  alle  quali,  da  noi,  risponde  la  siciliana 
nottuldnu. 

')  I  francesi,  ei  dice,  lo  chiamano  "  rossignol  en  pai-tie  pource  qu'il 
est  roux  :  lui  voyant  la  piume  rousse,  tirant  quelque  peu  à  la  couleur 
enfumée  „  (cap.  Du  rossignol,  lib.  VII,  op.  cit.). 

A  proposito  del  Bellonius  :  quando  egli  tratta  del  rousserole  in  un 
capitolo,  e  del  rossignol,  è  cosa  certa  che  avrà  inteso  designare  col 
primo  nome  una  specie  e  col  secondo  un'altra;  ma  se  non  v'ha  dubbio 
che  nel  capitolo  '  Du  rossignol  '  del  libro  VII  si  riferisca  al  vero  usi- 
gnuolo (infatti  vi  discorre  deiretimologia  latina  di  liicinia  '  uccello  che 
canta  all'oscuro  '  da  Incus  ombra),  non  si  può  però  affermare  ch'egli 
nell'altro  capitolo  parli  sempre  d'un  diverso  uccello,  e  perché  vi  cita 
la  frase  colla  quale  Aristofane  intese  probabilmente  di  tradurre  il 
canto  appunto  dell'usignolo  (essa,  negli  'OpviBe^,  è  messa  in  bocca 
all'upupa,  èiToip,  che  chiama  a  consiglio  le  diverse  specie  d'  uccelli 
imitandone  i  diversi  canti;  suona  così:  Topo  Topo  Topo  Topo  TÌ5-KiKaPaO 
KiKKoPaO-  Topo  Topo  Topo  Topo  XiXiXiì),  c  perché,  scusandosi  di  non 
trascrivere  i  motti  francesi  foggiati  a  proposito  dei  melodiosi  gor- 
gheggi del  rousserole,  dice  che  i  contadini,  soliti  a  udirlo  cantare, 
"  ont  tellement  retenu  son  chant,  qu'  ils  en  ont  fait  des  chansons  si 
impudiques  à  la  pronontiation,  qu'il  ne  seroit  licit  les  écrire,  non 
seulement  les  penser,  sinon  à  gents  effrenez,,;  notizia  questa  che  ci 
fa  ricordare  come  anche  da  noi,  in  Lombardia  —  ve'  combinazione 
—  corra  sulla  bocca  del  popolo  una  frase  che,  senza  essere  proprio 
*  à  la  pronontiation  impudique  '  è  certo  poco  pulita  (camizi  cùrt  curt 
ciirt  . . .  mostr'  i  ciàp  ciàp  cidp  ciap  . . .),  e  la  finale,  pronunciata  con 


424  G.    BONELLI 

Oriolus  galbula.  Dal  nome  generico  ^)  il  piemontese  loriól,. 
il  nizzardo  awiù,  il  toscano  rigogolo  (da  auriyalbulus?); 
dallo  specifico,  il  bresc,  galheder,  il  beig.  gallar,  il 
crem.  galpéder,  il  sondr.  gard'e,  il  pav.  galb'e,  il  nova- 
rese mèrlo  garhél,  il  lucchese  góbulo,  l'abbruzzese  grà- 
volo,  etc.  Di  colori  verde  e  giallo  chiassosi  —  le  ali  del 
maschio  nere  —  quasi  lucenti  ;  onde  forse  che  nel 
gergo  bresciano  si  usi  tale  nome  -)  a  indicare  i  con- 
tadini, come  quelli  che  amano  nei  loro  vestiti,  quasi 
sempre  appunto  di  color  verde,  la  tinta  vivace  e  sgar- 
giante.   Per  verità,  atteso   il  colore  giallo  e  il   nome 


una  certa  cadenza,  ritrae  felicemente,  inutile  dirlo,  appunto  il  cauto 
dell'usignolo.  Si  deve  dunque  sospettare  che  il  Bellonius  in  quei  due 
capitoli,  credendo  di  trattare  di  due  diverse  specie,  abbia  in  realtà 
sempre  discorso  del  vero  usignuolo,  o  ritenere  che  sotto  il  nome  roìts- 
serole  abbia  indicato  la  Sylvia  turdoides  (uccello  che  pure  in  dialetti 
italiani  è  detto  usinuólo  d'acqua,  Napoli;  usinolo  di  canne.  Cuneo; 
e  che  il  Savi  dice  in  francese  la  rausserolle)  ma  che  l'abbia  qua  e  là 
confusa  colla  luscinia^  Pensi  ognuno  quello  che  meglio  gli  pare;  a 
noi  ci  basta  aver  rilevato  che  anche  il  vecchio  Bellonius  si  occupò 
dell'etimologia  del  nome  usignuolo,  e  che,  probabilmente,  anche  il  po- 
polo francese  tradusse  il  canto  di  questo  squisito  cantore  in  arguta 
frase  onomatopeica. 

'j  La  stessa  voce  latina  oriolus  è  però  già  una  derivazione  dalla 
piena  aureolus,  alla  quale  quindi  vanno  ricondotti  i  nomi  italiani  come 
i  francesi,  ai  primi  tanto  somiglianti,  talvolta  perfettamente  uguali. 
(Cfr.  auriol,  oriol,  uriot,  loriol  (nel  qual  nome  1'  l  non  è  altro  che 
l'articolo  cementatosi  al  sostantivo),  gloriot,  etc.  (Rolland,  op.  cit., 
pag.  230);  e,  quanto  al  significato,  il  nome  che  ha  a  Sondrio:  merlo 
aduró). 

^)  Accanto  a  quello  di  persele  (pesca):  nomignolo  che  non  riusciamo 
a  bene  spiegarci,  giacché,  se  in  qualche  modo  può  sembrare  che  sia 
stata  l'ingrata  pelurie  della  pesca  il  motivo  che  lo  suggerì  per  de- 
signare scherzosamente  il  sempremai  ruvido  e  rozzo  contadino,  è  pur 
vero  che  a  proposito  della  pesca  corre  appunto  sulla  bocca  del  po- 
polo —  e  chi  sa  fino  da  quando  —  un  proverbio  che  fortemente  scon- 


I   NOMI    DEGLI    UCCELLI   NEI   DIALETTI    LOMBARDI  425 

latino  galbuliis  o  gahjulus  ^)  non  tornano  difficili  a  spie- 
garsi i  nomi  volgari  di  questo  uccello;  tuttavia,  non 
vi  si  potrà  in  nessun  modo  sospettare  una  radice  te- 
desca gelb?  -)  (Savi,  op.  cit.,  I,  pag.  190). 

Phasìanus  colchìcus.  Lomb.  fcóà,  fa'zan,  Tose,  fagiano,  Cor- 
sica fasici  nu. 

Passer  Italiae.  Bresc.  pàssera  grósa,  pàssoyt,  Mant.  pdsara 
nostrana,  Gen.  pdssura,  Savona  passila^  Lucca,  etc. 
passero. 


sigila  dal  pelare  la  pesca  :  "  all'amico  pela  il  fico,  al  nemico  pela  la 
pesca  ,.  —  0  si  dovrà  forse  intendere  il  suddetto  nomignolo  come 
risultante  di  due  parole  '  per  sek  '  insieme,  coll'andar  del  tempo,  in 
siffatta  guisa  cementatesi  da  aver  perduto  colla  vera  pronuncia  l'an- 
tico significato  di  '  pera  secca  '  e  cioè  di  cosa  buona  a  nulla  ? 

Anche  questa  seconda  spiegazione  non  avanziamo  che  molto  timi- 
damente ;  poiché  a  noi  stessi  sembra  non  poco  arrischiata,  e  pensiamo 
non  sia  qui  forse  da  interpretare  la  detta  parola  nel  significato  di 
frutto,  ma  di  pianta,  e  voglia  così  appunto  ricordare  —  poiché  il 
pesco  è  una  pianta  di  solito  storta,  tutta  ad  angoli,  gommosa  —  la 
proverbiale  ruvidità  contadinesca. 

')  Plinius,  Naturalis  historia,  XXX,  28:  "  Avis  icterus  vocatur  a  co- 
lore, etc.  Hanc  puto  latine  vocari  galgulum  „. 

-)  Sarebbe  cosa  curiosa  a  conoscere  per  quale  ragione  mai  codesto 
uccello  venga  scherzosamente  detto  in  parecchi  luoghi  del  Piemonte 
e  del  Veneto  compare  (compare  péreu,  barba  perù,  compare  piéro, 
barba  piéro  (Trev.));  ma  in  proposito  il  Savi  nulla  ci  dice  e  neppure 
il  Belon,  benché  non  solo  da  noi,  ma  eziandio  in  Francia,  ricorra  per 
il  golo  l'epiteto  di  compare.  Vedasi  infatti  la  frase  che  molti  cam- 
pagnuoli  francesi  s' immaginano  di  udirsi  cantare  da  esso  :  "  c'est  le 
compero  loriot,  qui  manges  les  cerises,  et  laisse  le  nojaux  „  (a  gu- 
stare il  quale  scherzo  occorre  sapere  che  i  rigogoli  sono  delle  ciliege 
ghiotti  in  modo  straordinario,  come  però  anche  dei  fichi,  onde  che, 
a  riguardo  di  questi  ultimi,  i  contadini  toscani  credano,  secondo  il 
Savi  ne  avverte  (I,  357},  sentirsi  chiedere  dal  golo  "  0  contadino, 
è-matùrolofi'co?  ,).  Solo  il  Rollandne  discorre;  ma  della  sua  ipotesi, 
che  noi  non  crediamo  di  poter  condividere,  vedasi  nell'  Appendice, 
nota  li. 


426  G.    BONELLI 

Così  pure,  sempre  dalla  stessa  base  passer,  i  nomi  del 

Passe)'  montanus.  Bresc,  Berg.,  Cremori,  passera  hiùerlna^ 

Mant.  pdsara  bosarhia,  Pav.  passaréi,  Gen.  passUr'^ta, 

Sav.  passuéta,  Tose,  passera  mattùgia,  Nap.  passavo  de 

pertuso  ^).  * 

Ficus  maior,  *piculiis,  ^pic'lus,  pikkio  (Tose),  Mil.  picds^ 
Crem.,  Mant.  pik,  Pav.  picoss,  Vie.  pigózzo,  etc. 

Monacus  hortensis.  È  quest'uccello  il  beccafico  o  bigione  dei 
Toscani,  e  quindi  la  ficedula  degli  antichi  abitatori  del 
Lazio,  al  quale  nome  latino  tornano  esattamente  tutte 
tre  le  denominazioni  ch'esso  ha  a  Napoli  :  ficétola,  fo- 
cétola,  fucétola. 

Regulus  ignicapillus.  Gen.  reginéta,  Nap,  riginiello. 

Serinus  hortulanus.  Aless.  siaén. 

Starna  perdix.  Piem._,  Com.,  Crem.,  Bresc,  Friuli  pernis^ 
Ven.  per  uzze,  Tose,  Ossola,  Boi.  starna,  Novi  pernis 
stèrna,  Parm.  permea,  Nizz.  perdis,  Gen.  sterna. 

Sturnus  vulgaris.  Bresc,  Berg.  stornel,  Crem.  stiirléen,  Man- 
tova  stórlo,  Pav.  stóren,  Vie  storlm,  Gen.  strunelo, 
Spezia  sturnéo,  Bassano  stridio,  Pad.  strialo,  Nap.  stùrno. 
Tose  stórno. 

Syrmium  aluco.  Bresc,  Berg.  lok,  Gen,  ùko,  Nov.  oluk,  Mi- 
lano tirli'ik,  Pad.  alóco,  Spezia  anco,  Tose  allocco. 

Turdus  merula.  Bresc,  Berg.,  Crem.,  Mant.  m'irlo  (così  pure 

')  Alla  base  latina  passer  (la  quale,  a  nostro  avviso,  più  che  al 
tema  ^Jrtrf-guizzare-,  deve  far  capo  a  quello  di  /)a^volare-;  efr.  TréroiLiai, 
petere,  etc.)  si  riducono  anche  i  nomi  iva^ncesi:  prasse,  prache,  eparse, 
passe,  etc,  mentre  gli  altri  come  moine,  moineau,  moneau,  moinnof,  etc. 
e  i  femminili  moiniche,  etc,  trovano  lor  ragione  nel  colore  delle  penne 
dell'uccello,  colore  che  ricorda  il  vestito  de'  monaci  {moines).  Cfr. 
Rollano,  op.  cit.,  II,  154. 


I    NOMI   DEGLI   UCCELLI    NEI    DIALETTI   LOMBARDI  427 

a  Vie,  Gen.,  Fir.,  etc);  Pav.  nizral,  Piac,  Parm.  mérol, 

Mod.,  Boi.  mérel^  Nizz.  mérlu,  Nap.  miérolo,  Sicil.  m^rrw, 

Catanz,  miédduru,  etc. 
Turdus    miisicus,  Bresc,  Berg.,  Crem.  duri,   Novara   tàrod, 

Mantov.  e  Pav.   lord,  Vie.  e  Tose,   tórdo,    Gen.  tnrlo, 

Nap.  tiirdo,  Sard.  tradii. 
Turtur  ^)  tenera.  Pieni.,  Crem.,  Bresc.  turtura,  Novi  tiirdua, 

Varzi  tùrdra,  Parm.,  Mod.   to'rtra,  Gen.  ttirtua,    Piae., 

Ven.,  Tose,  tortora. 
Upupa  epops.  Bresc.,  Berg.,  Crem.  boba,  Ossola  buba,  Parma 

bùbla,  Boi.  pópla,  Rmg.  pi'ippa,  etc. 
Vanellus  cristatìis.  Mil.,  Boi.   vanetta.    Cfr.  i  nomi  francesi 

vanneaiix,  vaguoz,  vanéou,  banèou,  vanela,  etc.  ^). 

Uno  dei  pochi  uccelli  i  cui  nomi  italiani  hanno  a  base 
una  voce  gallica  è  Vathene  noctua.  Essa  infatti  è  chiamata 
in  piemontese  Hiiétta,  a  Novi  saétta,  a  Ossola  svétta,  in 
pavese  ziveta,  in  Valtellina,  a  Milano  sigu'eta,  a  Brescia, 
Berg.  si'^ta,  nel  Cremon.,  Mod.  ziveta,  Boi.  zìiétta,  Venez. 
zoétta,  etc,  Tose,  civetta,  nomi  tutti  facenti  probabilmente 
capo,  come  nota  lo  Zambaldi,  al  francese  chotiette,  diminu- 
tivo dell'antico  choe,  provenz.  cJiau,  che  pare  il  medio  te- 
desco choich  ^). 


*)  Voce  onomatopeica. 

^)  Il  Rollane!  vede  la  ragione  di  tali  nomi  nel  rumore  che  questo 
uccello  fa  colle  ali  quando  vola,  che  molto  somiglia,  secondo  lui,  al 
rumore  del  vaglio  in  moto  quando  staccia  il  grano. 

^)  Il  DiEz,  op.  cit.,  pag.  547,  ne  connetterebbe  la  radice  per  mezzo 
del  provenzale  con  quella  di  bubo,  voce  però  che  sotto  upupa  più  non 
ricorda. 


428  G.   BONELLI 

Però  anche  nel  nome  piemontese  della  tordella  (grira)  ^) 
si  dovrà  vedere  l'influenza  francese  ;  giacché,  come  è  noto. 
la  grive  è  appunto  il  nome  col  quale  i  francesi  indicano 
in  genere  i  tordi  (turdus  musicus)  e  specialmente  le  tor- 
delle {tnrdus  ptlaris,  turdus  viscivorus),  in  quanto  questi 
uccelli,  sullo  stomaco,  bianco,  son  picchiettati  di  nero  : 
"  Il  est  manifeste  que  la  grive  à  ainsi  esté  appellee  de  sa 
couleur;  car  encor,  pour  le  iourd'huy  diron  une  chose  gri- 
velee,  quand  nous  la  voyons  estro  tachee  de  noir  sur  le 
gris,  ou  autre  telle  couleur.  Aussi  n'y  à  il  oyseaux  plus 
madrez  devant  l'estomach,  que  sont  les  grives,  etc.  „ 
(Belon,  op.  cit.,  XXXI);  e  così  pure  nel  nome  novarese  del 
ciuffolotto  {buvreul)  che,  come  già  s'è  avvertito  alla  nota  1, 
pag.  381,  strettamente  connettesi  ai  francesi  bouvard.  bou- 
vreuil,  etc. 

b) 

Parimenti  in  alcuni  riscontrasi  una  radice  tedesca,  e  cioè 
nel  nome  comunissimo  del  yarridus  glandarius,  gazza  {gaza, 
gdda,  gasgia,  argdza,  etc),  che  infatti  pare  risalga  all'an- 
tico alto  tedesco  agalstra  (al  qual  nome  certo  fa  buon 
riscontro  appunto  quello  latino  di  garrulus);  in  quelli  della 
cannabina  linota  (la  fringilla  cannabina  del  Savi),  Brescia, 


')  E  siccome  questo  uccello  fa  il  suo  passo  autunnale  ad  inverno 
inoltrato,  così  il  nome  suo  è  diventato  sinonimo  di  freddo;  cfr.  le  lo- 
cuzioni ciap§  'l  griv,  ]ìi§  'l  griv,  che  significano  intirizzire,  e  il  pro- 
verbio francese  "  quand  on  entend  la  grive  chanter,  cherche  la  maison 
pour  t'abriter  ou  du  bois  pour  te  chauffer  ,.  —  Una  specie  poi,  che 
se  i  dialetti  indicano  come  schiettamente  invernale,  in  qualcuno 
ebbe  per  nome  quello  stesso  di  "  freddo  ,  "e  la  monti  fringilla  nivaU.i: 
Cuneo  frahguél  dia  fiocca,  nevarol.  Novara  frangxel  dia  iief,  frec'c',  etc. 


I   NOMI   DEGLI    UCCELLI    NEI    DIALETTI    LOMBARDI  429 

Berg.,  Cremon.,  Mantov.  fan'el,  Mil.,  Pav.  fan^f^  Sondr.  fìnl't; 
Vie.  faganélo,  Gen.  fanéto,  etc.  nei  quali  pare,  poiché  lo  si 
afferma  per  la  denominazione  piemontese  fmim  (vedi  il 
Dal  Pozzo,  Glossario  etimologico  piemontese),  si  debba  ve- 
dere l'influenza  della  voce  hanfling,  essa  certo  derivata  da 
quella  di  ìuoìf,  canape  (cfr.  i  nomi  francesi  linot,  linette, 
linotte,  ninotfe,  linegez,  liniéron,  etc.)  ;  nel  bellunese  krosnohel, 
udinese  krosnoU,  della  loscia  curvirostì'a,  derivanti  certo  dal 
tedesco  krumìnschnabel;  e  nel  novarese  steinvogel,  che  è  tal 
quale  la  voce  tedesca,  della  saxicola  oenanthe. 

Capitolo  IX. 
Nomi  ironici  o  scherzosi. 

Un'ultima  categoria  si  potrebbe  ancora  aprire,  e  questa 
dirla  dei  nomi  ironici.  Uno  solo  però  è,  ch'io  mi  sappia, 
l'uccello  che  ha  avuto  di  tali  denominazioni,  ed  è  il  troglo- 
diftes  parvulus. 

Esso,  che  è  chiamato  dai  toscani  skn'cciolo,  a  indicare 
il  grido  suo  che  può  somigliarsi  ad  uno  scricchiolìo  ^),  è  di 
tutti  gli  uccelli  il  pili  piccolo,  sì  che  lo  si  potrebbe  dire 
l'uccello  mosca  dell'Italia,  e  ricorda  assai  da  vicino  per  il 
colore  delle  penne,  e  la  forma,  e  la  proporzionale  lunghezza 
della  coda,  la  beccaccia,  la  scolopax  rusticola. 

Orbene:  questi  due  fatti,  della  piccolezza  e  della  somi- 
glianza alla  beccaccia,  hanno  ispirato,  per  così  dire,  quasi 
tutti  i  suoi  nomi  dialettali,  e  invero  noi  lo  troviam  detto 
a  Brescia   reati,   Berg.  regiisi,  Mil.  reotin,  Mant.  reatin  ;  a 

')  Cfr.  il  nome  frane,  cretcret. 


430  G.   BONELLl 

Verona  irnperatór,  Vere,  r^  di  iUéi,  Parm.  re  d'joslin,  Cuneo 
re  pcit,  recùcala,  Pisa  recdcco,  Bell,  regiìz,  Pad.  rebéto, 
Roma  r§  di  uccelli,  Messina  rizddu,  Regg.  rullìi;  e,  ancora 
a  Bergamo,  ove,  ricordiamoci,  la  beccaccia  è  detta  pala 
(quasi  la  gallina  del  bosco),  è  pur  detto  palina,  e  anche 
addirittui'a  re  di  poh,  precisamente  come  a  Cremona  e  a 
Belluno,  ove  la  beccaccia  è  detta  gallindzza,  egli  è  chiamato 
galinazén,  galinazéta.  E  taciamo  del  modesto  nome  man- 
tovano granin  d' fava,  e  del  messinese  pidicikkiii,  come  dei 
due  iperbolici  bresciano  e  bergamasco  trenta  pes  e  trenta 
pis  ^),  vogher.  cent-rubb.  Cfr.  i   nomi    francesi  nozeta  (ben 


*)  11  peso  vale,  come  misura,  otto  chilogrammi.  —  Questa  piccola 
esagerazione  dei  duecento  quaranta  chili  fa  ricordare  1'  antichissima 
favola  del  Neckam,  particolarmente,  credo,  stata  illustrata  dal  Meyer, 
e  viva  tuttora  oggidì,  del  reattino  che  all'aquila  avea  dichiarato  di 
saper  volare  piìi  alto  di  lei;  essa  per  tutta  risposta  batte  l'ali,  s'alza, 
si  leva,  si  perde  nelle  nubi,  solo  però  tanto  da  poter  ancora  al  basso 
far  sentire  la  sua  voce,  che  grida  sdegnosa  al  piccolo  prosuntuoso  : 
"  Chi  è  ora  più  alto  di  noi?  Ove  sei  che  neppur  ti  vedoV  „  —  "  Qui, 
e  piìi  alto  di  te  „  le  grida  egli  saltandole  dalla  testa  sulla  schiena. 
L'avea  essa  portato  fin  lassù  senza  accorgersene.  (Al  pari  di  tutte  le 
favole  varia  alquanto  e  secondo  i  luoghi;  come  l'abbiamo  accennata 
si  narra  in  Lombardia).  —  E  sempre  pare  che  il  popolo  abbia  nel 
reattino  impersonata ,  a  così  dire ,  l'astuzia ,  quell'  astuzia  che  sa 
districarsi  con  piccoli  accorgimenti  anche  da  gravi  impicci,  poiché 
scorrendo  quell'inesauribile  miniera  dei  prodotti  della  fantasia  e  co- 
scienza popolare  che  è  la  "  Biblioteca  delle  tradizioni  siciliane  ,  del 
Pitré,  troviamo  subito  (voi.  VI  della  serie  Novelle,  fiabe  e  racconti, 
pag.  188)  la  fiaba  Vaciduzzu  (nome  che"  certamente  deve  aver  ser- 
vito a  indicare  appunto  lo  scricciolo,  poiché  ancora  oggidì  lo  scric- 
ciolo è  chiamato  a  Messina  acidi'izzu  muska),  nella  quale  si  racconta 
che  essendosi,  a  cagione  d'un  temporale,  "  cumpàri  aéidùzzu  „  ripa- 
rato nella  tana  d'una  volpe,  questa  poi  lo  voleva  mangiare,  ma  egli 
se  ne  scampa  domandandole  la  grazia,  poi  che  proprio  pietà  non 
avea  di  lui,  di  farlo  morire  almeno  a  suo  piacere  "  e  senza  sinti'ri 
tantu  duluri  „.  Avendo  infatti  consentito  la  volpe,  il  reattino  le  dice: 


1   NOMI    DEGLI   UCCELLI    NEI   DIALETTI   LOMBARDI  431 

ricorda    il  nome  arenzanese    castanétta),  fabarelo,   e   i    sa- 
voiardi pei/  dr  hou  e  pet  de  boii. 

Forse  però,  oltre  il  harhagidnni  [strix  flammea),  per  il 
nome  suo  ossolano  bèlla  dònna,  anche  il  rondóne  {cypselus 
apiis)  si  potrà  qui  noverare,  e  cioè  qualora  nella  denomi- 
nazione genovese  sbirr  ^),  invece  di  vedere  in  qualche  ma- 
niera ritratto  il  suo  grido,  si  volesse  scorgere  l'intento 
scherzoso  di  chiamarlo  "  sbirro  „,  in  quanto  tutto  nero, 
grosso,  dal  volo  velocissimo  e  tortuoso  ^)  s'aggira,  in  pic- 
coli stormi,  quasi  ronda,  attorno  alle  alte  torri,  ai  vecchi 


"  Avt'ti  a  fare  accussi;  vi  kiùditi  l'ocki,  e  vi  gràpiti  (vi  aprite  V)  la 
viicca  bédda  grànni,  e  quànnu  io  vi  pózu'nta  la  lingua,  mi  dati  un 
skacciunéddu  e  m' aggiùttiti.  —  Resta  fatta!  —  rispiizicci  la  vurpi; 
e  ddicu  si  kiùdi  l'ócki,  e  si  mitti  cu  la  testa  all'aria  e  cu  tàntu  di 
yucca  aperta.  Cumpàri  Acidùzzu  allura  ppir  „  via  se  ne  scappa 
"  comm  'na  saitta  di  dda  gratta  ,.  —  E  come  ha  saputo  minchionare 
la  istessa  volpe,  tanto  meglio  un'altra  volta  si  sottrae  al  cane  cui  si 
era  in  una  passeggiata,  da  spensieratello  qual'  egli  è,  imprudente- 
mente accompagnato,  e  il  quale,  nel  ritorno,  trovandosi  ad  aver  fame, 
pretendeva,  cosa  da  nulla,  di  mangiarlo  {"  0  mi  duni  a  raanciihi,  o 
ti  manciù!  „).  Che  fa  lo  scricciolo?  pensa  e  ripensa,  ma  davvero  non 
trovava  scampo  veruno;  come  infatti  avrebbe  egli  mai  potuto,  po- 
vero uccellino  quale  era,  procurare  da  cena  a  quel  bestione  di  quel 
suo  compagno  di  viaggio?  Quand'ecco  che  vede  venire  alla  lor  volta 
un  "  picciutéddu  „,  un  ragazzetto  cioè  che  teneva  tra  le  mani  un  te- 
game di  "  pasta  'ncaciata  „.  Questa  potrà  ben  servire  e  meglio  di 
lui  a  sfamare  il  brutto  cane  ;  ma  come  fare  ad  averla?  —  Niente 
paura;  cumpàri  acidiizzu  è  d'ingegno  molto  pronto:  eccotelo  d'un 
volo  sul  tegame,  sulla  pasta  istessa:  "  lu  picciutéddu  vidennusi 
st'Acidiizzu  pi  davanti,  jétta  cu  'na  manata  pi  akkiappàrulu  ;  e  ddócu 
tiritùppiti  'n  terra  teànu  e  pasta  'ncaciata.  Cumpàri  Acidùzzu  va 
sùbbitu  mii  cumpàri  cani,  e  ci  dici:  —  Va,  saziativi,  a  ca  io  vi 
saliitu  —  „  che  anche  questa  volta  il  ripiego  l'ha  trovato. 

')  Belluno,  Feltre,  Cadore  sbiro,  Corsica  sbira,  splrlo. 

^)  Cfr.  il  nome  frane,  coupoven. 


432  G.   BONELLI 

edifizi,  ai  castelli  \)  ;  così  pure  lo  stiaccino  per  il  suo  nome 
umbro  di  predicatóre  —  probabilmente  stato  suggerito  al 
popolo  dalla  costante  abitudine  di  questo  uccello  di  posarsi 
sulla  vetta  dei  rami  più  alti,  e  di  là,  quasi  da  pulpito, 
fare  il  suo  gorgheggio  -)  — ,  e  Valiùzza  per  il  nome  di  bàlia 
che  le  vien  dato  non  nel  solo  Volterrano,  per  il  costume 
"  d'andar  visitando  i  nidi  degli  altri  uccelli,  per  cercare  i 
piccoli  insetti  che  vi  si  rifugiano  .,   (Savi,  II,   pag.  5). 

Tuttavia,  se  altre  denominazioni  che  si  possan  dire  ironiche 
forse  non  si  danno,  ricorrono  invece  piuttosto  frequenti  i 
nomignoli  scherzosi,  con  significato,  per  vero  dire,  più  o 
meno  esplicito,  come,  ad  esempio,  quelli  sardi  di  consiliére 
e  frate  gavinii  del  pettirósso;  quello  di  petegola  affibbiato 
dai  Veneti  aìVaccentor  —  forse  perché  questo  uccello  quasi 
di  continuo  emette  il  monotono  grido  suo  di  passo  "  giii  „  — : 
quello  anche  di  compare  pi'ero  pur  dai  Veneti  dato  al  rigo- 
golo; e  quelli  infine  della  ruticilla  tytis  che  dal  colore  ne- 
rastro delle  penne  è  detta  a  Como  covaróss  ferree,  Mo- 
dena mananèn,  Rover,  parolgt  (calderaio),  Nizz.  cuo-rùss 
pinatie,  Capri  codirósso  prevetariéllo ,  Girg.  cùda-rùssa  car- 
bonara. 

Ma  —  tornando  ancora  allo  scricciolo  —  notiamo  come 


*)  Nel  caso,  la  denominazione  la  si  potrà  suppoiTe  voce  dotta  pas- 
sata nel  popolo. 

*)  Ricordiamo,  non  tanto  però  per  ironia  che  contenga,  quanto  per 
la  stranezza  sua,  il  nome  pavese  rik  e  pgver  indicante  Vacrorephalus 
arundinaceus  (la  sylvia  turdoides  del  Savi)  o  canareccione.  E  strano 
lo  diciamo,  giacché  per  quale  trapasso  logico  o  ideologico  siasi  esso 
mai  potuto  dare  a  questo  uccello  non  si  vede,  onde  bisogna  ammet- 
tere con  C.  Cattaneo  {Noi.  sulla  Lombardia,  I,  366)  che  tal  nome  gli 
sia  stato  dato  perché  sembra  ripetere  le  due  voci.  Cfr.  il  nome  frane. 


1    NOMI    DEGLI   UCCELLI    NEI    DIALETTI    LOMBARDI  433 

dei  dialetti  che  abbiamo  preso  a  considerare  a  riguardo  di 
questo  uccello  riesca  particolarmente  notevole  il  berga- 
masco, come  quello  che  gli  assegna  ben  otto  nomi  ^)  ;  e  ci 
duole  di  non  potere,  ora  almeno,  riunire  tutte  le  denomi- 
nazioni di  questo  uccello  nelle  singole  regioni  d'Italia,  come 
altri  fece,  ad  esempio,  della  lucciola  ^),  poiché,  crediamo, 
tornerebbe  interessante  vedere  da  quanti  punti  di  vista, 
e  quanto  imaginosamente  sia  stato  dal  popolo  considerato 
questo  "  piccolo  re  „  ^).  Forse  però  nessuna  città  ci  offri- 
rebbe otto  nomi  come  Bergamo;  ma  ciò  pur  servirebbe  a 
chiarire  che  di  tutte  le  regioni  italiane,  per  questo  rispetto 
dei  nomi  ornitologici,  la  più  interessante  sia  la  settentrio- 
nale, e,  delle  città  sue,  Bergamo,  la  montanara. 


')  Onomatopeico  :  cerr 

Dalla  stagione  :  oseli  del  frecc 

Dall'abitudine  di  volare  tra  le  siepi  : 

buza-séss,  sbiiza-séss,  re  de  séss. 
< 

Ironici  :  regusi,  polina,  re  di  póle,  trenta  pis. 
*)  Salvioni,  Lampyris  italica. 

^)  Anche  in  Francia  :  voi  des  oiseaux,  petit  roi,  reipeti,  retalet,  rehet, 
rehetin,  récouchet,  etc.  (Rolland,  op.  cit.,  II,  pag.  288). 


'434  G.    BONELLl 


PARTE   SECONDA 


Considerazioni  intorno  al  genere 
dei  nomi  ornitologici. 

E  ora  che  dei  nomi  abbiamo  terminato  la  rassegna  —  la 
quale,  a  chi  per  poco  la  studi,  mostra  come  la  maggior 
parte  delle  denominazioni  ornitologiche  rilevi  il  colore  del- 
l'uccello, una  minore  il  canto,  e  come,  per  conseguenza, 
dei  criteri  direttivi  nella  formazione  dei  nomi  ornitologici 
s'abbia  a  ritener  principale  quello  dell'indicazione  del  co- 
lore ^)  —  ci  si  permetta  d'avanzare  circa  la  diversità  del 
loro  genere,  un'ipotesi  che  a  noi  sembra  degna  d'appoggio, 
perché  in  nulla  contraria  a  verun  principio  linguistico,  anzi 
tale  che  si  può  confermare  con  un  discreto  numero  di  casi 
favorevoli  che  noi  oseremmo  chiamare  prove. 

S'è  visto  come  le  denominazioni  ornitologiche  non  siano 
tutte  di  un  medesimo  genere,  ma  alcune  maschili,  altre 
femminili  ;  del  quale  fatto  se  in  certi  casi  ci  possiamo  ren- 
dere facilmente  ragione  col  nome  istesso  —  laddove,  ad 
esempio,  esso  è  un  composto,  cioè  risulta  dalla  somma  di 
due,  un  sostantivo  e  un  aggettivo,  il  quale  ultimo  è  ben 
naturale  che  concordi  col  primo  — ,  in  molti  altri  casi  invece 


')  Mentre  i  nomi  indicanti  il  canto  sommano  —  per  restringerci^ 
s'intende,  a  quelli  soltanto  da  noi  considerati,  che,  per  altro,  se  non 
sono  proprio  tutti  gli  usati,  sono  almeno,  crediamo,  i  principali  —  a 
circa  200,  quelli  ritraenti  i  colori  sommano,  essi  soli,  quanto  com- 
plessivamente tutti  gli  altri  indicanti  il  cibo,  le  abitudini,  i  luoghi, 
e  cioè  a  circa  330. 


1   NOMI   DEGLI   UCCELLI   NEI    DIALETTI    LOMBARDI  435 

non  lo  comprendiamo,  giacché  non  si  sa  proprio  vedere  il 
motivo  della  denominazione  femminile  piuttostoché  maschile 
0  viceversa.  Così,  ad  esempio,  se  di  leggieri  si  comprende 
perché  il  monaciis  atricapilhis  sia  stato  detto  con  nomi 
maschili  cdpo-neger,  capo-niger,  cap-néger,  cdo-négro,  capo- 
négro  etc,  e  d'altra  parte  la  ruticilla  phoenicurus  con  nomi 
femminili  cùa-róssa,  cóa-róssa,  etc,  non  si  vede  con  altret- 
tanta chiarezza  il  perché  VantJms  arboreus,  Vaccentor  ino- 
dularis,  il  buteo  vidgaris,  etc,  etc,  abbiano  denominazioni 
femminili,  mentre  degli  uccelli,  possiamo  dire  la  maggior 
parte,  ha  nomi  maschili. 

Ora:  noi  crediamo  di  poter  sostenere  che  in  tali  casi 
questo  fatto  della  varietà  del  genere  dipende  dalla  evidenza 
del  sesso  delle  singole  specie  d'uccelli,  e  precisamente  che 

la  denominazione  maschile  è  propria   agli   uccelli  dei 
quali  si  rileva  con  facilità  il  sesso; 

la  femminile  a  quelli  —  invece  —  che  è  difficile,  —  o 
addirittura  impossibile,  se  non  ricorrendo  all'esame  anato- 
mico, —  stabilire  se  maschi  o  femmine.  —  Ciò  almeno  ci  con- 
ducono a  credere  le  denominazioni  lombarde,  che,  quante 
ci  è  stato  possibile,  abbiam  cercato  di  raccogliere  e  studiare. 
ISIè,  del  resto,  crediamo  che  tale  criterio  si  possa  allar- 
gare sì  da  comprendervi  anche  i  nomi  usati  nelle  altre 
parti  d'Italia^  giacché  in  essi  piìi  non  ci  pare  di  ravvisarlo 
sì  bene  come  nei  Lombardi;  fatto  questo  che,  se  da  prin- 
cipio rese  noi  stessi  dubitosi  della  nostra  congettura  —  sem- 
brandoci cosa  strana  che  un  criterio  linguistico  potesse 
presentarsi,  quasi  sporadica  apparizione,  solo  in  qualche 
luogo  d'uno  stesso  distretto  — ,  appresso  però,  riflettendo 
come  il  criterio  che  noi  sosteniamo  presupponga  nelle  pò- 


436  G.   BONELLI 

polazioni  che  lo  devono  aver  applicato  una  diffusa  e  sicura 
conoscenza  dell'avifauna,  anziché  strano,  trovammo  naturale. 
Infatti,  per  non  parlare  delle  isole  e  dell'Italia  meridio- 
nale, dove  ancor  oggi,  fortunatamente,  sono  scarsissimi  i 
modi  ben  organizzati  dell'aucupio,  in  tutta  l'Italia  nordica 
la  passione  per  la  caccia  minuta  —  e  quindi  la  conoscenza 
del  mondo  ornitologico  —  non  è  veramente  radicata  e  diffusa 
se  non  in  Lombardia,  ed  in  questa  di  gran  lunga  in  modo 
pili    spiccato  a  Bergamo  e  a  Brescia  ^).    Già    nella  stessa 

')  E  a  documeutare  con  qualche  esempio,  se  possiamo  così  espri- 
merci, che  tale  tendenza  non  è  cosa  solo  dell'oggi,  ma  risale  sino  a 
tempi  assai  remoti,  non  avremmo  che  a  far  nostra  la  nota  n.  28 
dello  Zamboni,  Memorie  intorno  alle  i^ubhliche  fabbriche  2yiìi  insigni  della 
città  di  Brescia,  Brescia,  1778  ("  Non  si  può  negare  che  presso  ai 
nostri  lombardi  fino  dagli  antichi  tempi  l'aucupio  non  fosse  un  eser- 
cizio per  cui  essi  avevano  della  passione,  poiché  etc.  „),  o  riferirci  a 
qualche  documento  bresciano,  come,  ad  es.,  a  quello  della  prima  metà 
del  sec.  XIII  del  monastero  di  s.  Giulia  (Arch.  di  St.  di  Milano),  nel 
quale  atto  si  parla  appunto  di  un  dominus  Petrus  preshyter  ecclesiae 
de  Gotenengo  ch'era  stato  visto  più  volte  euntem  ad  venationes  cum 
sparaveriis  et  canibus,  o  ad  altri,  pur  dello  stesso  fondo  archivistico, 
del  sec.  XIV,  nei  quali  ricorre  frequente  menzione  di  caccie  "  vena- 
tiones „  e  vi  s'incontrano  spesso  nomi  di  persona  e  di  località  ricor- 
danti l'aucupio,  ad  es.,  Otto,  Johannes  da  la  teza  —  ubi  dicitur  sub 
durdario,  etc,  o  agli  stessi  Statuti  della  città.  Ma,  per  non  attar- 
darci in  simili  riflessioni,  qui  a  noi  di  importanza  secondaria  e  che 
pur  vorrebbero,  nel  caso,  ricerche  piìi  estese  di  quelle  che  non  siano 
state  le  nostre,  ci  basterà  richiamare  piuttosto  l'attenzione  di  chi 
legge  al  fatto  che  gli  stessi  nomi  delle  due  forme  fondamentali  di 
uccellanda  le  indicano  sorte  prima  che  altrove  a  Bergamo  appunto 
e  a  Brescia:  paretaio  o  bergamasca,  e  brescianella.  Vedansi  anche  i 
libri  di  LoDov.  Bettoni,  La  caccia  nella  riviera  benacense,  e  di  Gius.  So- 
LiTRo,  Benaco,  nei  quali  pure  si  discorre  dell'antichità  e  importanza 
delle  caccie  e  uccellande  della  provincia  di  Brescia;  e,  riguardo  ai 
primi  anni  del  700,  nei  quali  si  può  dire  che  nella  provincia  di  Brescia 
le  uccellande  pullularono,  vedasi  la  storia  del  Cazzago,  il  quale  quasi 
a  riprova  dello  straordinario  aumento,  nota  che  già  nel  '722  si  cominciò 
a  lamentare  la  diminuzione  degli  uccelli,  segnatamente  dei  fringuelli, 
dei  tordi  e  delle  allodole. 


1   NOMI   DKGLI   UCCELLI    NEI   DIALETTI    LOMBARDI  437 

Milano,  ad  esempio,  il  popolo  conosce  pochissimo  gli  uccelli; 
sicché  non  è  raro  sentirlo  chiamare,  indifferentemente,  "" pas- 
seritt  „  fringuelli,  calenzoli ,  lecore,  etc. ,  etc,  e  stimare 
d'ugual  valore  i  cardellini  e  i  fanelli. 

Gli  è  perciò  che  non  ci  fa  meraviglia  che  nelle  altre  re- 
gioni d'Italia,  tra  i  criteri  direttivi  nella  formazione  dei 
npmi  ornitologici  non  sia  entrato  questo  che  abbiamo  enun- 
ciato e  che  c'è  parso  di  sorprendere  nei  dialetti  lombardi. 
Tuttavia  nel  Piemonte,  nel  Veronese,  nel  Veneto  e  in 
qualche  altro  luogo  troviamo  bene  spesso  i  nomi  d'ugual 
genere  dei  lombardi,  benché  di  questi  a  diversa  base;  tan- 
toché non  crediamo  inutil  cosa,  pur  restringendo  la  nostra 
affermazione  ai  dialetti  di  Brescia  e  di  Bergamo,  aggiungere 
nella  rassegna  che  ora  facciamo  delle  varie  specie  e  loro 
nomi   bresciani  e  bergamaschi,  anche  quelli  di  tali  regioni. 

Non  tutti,  a  ogni  modo,  a  cagione  del  loro  vario  scopo 
e  significato,  si  possono  considerare  come  governati  dal 
suesposto  criterio,  ma  soltanto  quelli  di  circa  venticinque 
specie  per  il  genere  femminile,  e  di  una  dozzina  d'altre 
per  il  maschile,  numeri  però  questi  non  insignificanti 
quando  si  considerino  in  riguardo  a  quello  di  ottanta,  che 
è,  all'incirca,  il  complessivo  delle  specie   da   noi  studiate. 

Ma  vediamo  la  cosa  più  per  minuto,  cioè    consideriamo 

codesti  nomi  popolari   tra   loro  accostandoli  e  in   rispetto 

alle  specie  da  essi  indicate. 

Accentor  modularis.   Bresc.  niùrithia,  Berg.   matela,    Crem. 

passera    matélla,   Vie.    moréta,   Ven.   briméta,  petegola, 

Bell,  negróla  ^). 

*)  Solo  i  peritissimi  sanno  riconoscere  dalla  maggiore  accentuazione 
"  del  colore  azzurrognolo  del  petto  quali  siano  di  questa  specie  gli  in- 
dividui maschi.  Il  Savi  direbbe  che  non  si  distinguono  affatto. 

Studj  di  filologia  romanza,  IX.  28 


438  G.    BONELLI 


Acrocephalus  anmdmaceus.  Bresc.  pàssera   can^lera,   Crem. 
pàssera  canéra,  Vie.  zélega  palugdna,  Ven.  canaróssa  ^). 


*)  A  Napoli  è  detta  con  nomi  maschili  "  focetolóne  d'acqua,  rusi- 
nuólo  d'acqua  ,..  —  Per  verità  noi,  come  già  abbiamo  avvertito,  cre- 
diamo che,  in  questa  nostra  ricerca  del  criterio  che  le  popolazioni 
possono  aver  seguito  nel  foggiare  maschili  anziché  femminili  le  de- 
nominazioni ornitologiche,  più  che  altro  interessino  i  nomi  in  uso 
nell'Italia  superiore,  e,  ancora  piìi  specialmente,  i  lombardi,  come 
quelli  della  regione  che  non  solo  ora  pivi  di  tutte  le  italiane  è  por- 
tata da  naturale  tendenza  alla  caccia,  ma  già  fino  da  tempi  passati 
(vedi  nell'Appendice  la  nota  I);  e  perciò  siamo  d'avviso  che  assai 
minore  importanza  convenga  attribuire  a  quelli  delle  altre  parti  di 
Italia,  come  a  dire  la  meridionale  e  le  isole,  poiché  in  queste  l'at- 
tenzione del  popolo  fu  piuttosto  rivolta,  vuoi  per  la  postura  gene- 
ralmente a  mare,  vuoi  per  altro,  alla  pesca  che  non  alla  caccia,  o,  se 
a  questa,  alla  grossa  selvaggina  non  a  quella  de'  piccoli  uccelli  (vedi 
lo  studio  del  signor  B.  Puntoro,  Usi  venutovi  in  Italia,  che  ben  può  dirsi 
un'abbastanza  ampia  ed  esatta  descrizione  delle  varie  forme  d'aucupio), 
onde,  di  necessità,  che  più  antichi  e  ineriti  intenditori  dell'avifauna  siano 
i  settentrionali  anziché  i  meridionali  (vedasi  nell'Appendice  la  nota  II). 
Ed  ecco  perché  in  generale  poco  ci  curiamo  delle  denominazioni 
pugliesi,  napoletane,  sarde,  etc,  sia  che  possano  tornare  a  riprova 
di  quanto  da  noi  si  sostiene,  sia  che  sembrino  contraddirvi.  Per 
mostrare  tuttavia  come  bene  spesso  anche  tali  contraddizioni  siano 
apparenti,  ci  basti  osservare,  ad  esempio,  in  questo  caso  dell'a- 
crocei)halus,  che  se,  mentre  dappertutto  è  chiamato,  conforme  al 
principio  da  noi  posto,  con  nomi  femminili,  a  Napoli  ha  nomi  ma- 
schili, questi  non  ci  devono  fare  difficoltà,  poiché  si  spiegano  benis- 
simo quando  si  ricordi  che  esso  nel  colore  delle  penne  somiglia  un 
po'  al  beccafico  —  che  a  Napoli  è  appunto  detto  focétola  —  e,  più 
ancora,  all'usignuolo  (tantoché  nel  Piemonte,  a  Cuneo,  ebbe  il  nome 
"  re  di  ransinói  „).  Quale  meraviglia  quindi  se,  attesa  anche  la  sua 
abitudine  di  vivere  vicino  ai  corsi  d'acqua,  v'è  denominata  "  foceto- 
lóne d'acqua  „  e  "  rusinuólo  d'acqua  „?  —  Che  poi  da  un  positivo 
"  focétola  „  (del  quale  femminile  ci  si  può  render  ragione,  anche  la- 
sciando da  parte  la  base  latina,  col  ricordarci  che  del  beccafico  il 
maschio  non  distinguesi  dalla  femmina)  siasi  avuto  l'accrescitivo  ma- 
schile "  focetolóne  „  detto  dell'  acrocejyhalus,  del  quale  pure  non  si 
distinguono  i  sessi,  non  crederemmo  sia  a  maravigliare,  poiché  anzi 


I    NOMI   DEGLI    UCCELLI   NEI   DIALETTI    LOMBARDI  439 

Alauda  arvensis.  Bresc.  sarlócla,  Berg.,  Maiit.,  Vie.  lódola, 
Crem.  lodala,  Gen.  lóudum,  Spezia  viindrda,  Tose,  al- 
lòdola, Nap.  cuccidrda,  Lecce  terranóla  i). 

Alauda  cristata.  Bresc,  Berg.,  Crem.,  Vie,  etc.  calandra, 
Ven.  capehia. 

Authus  arboreus  2).  Bresc.  «^5r?//wa,  aivina,  Berg.  diirdhia, 
guina,  iguùia,  Crem.  durdina,  Mant.  dordiua,  Pav.  rfor- 


ci  sembra  costante  tendenza  del  popolo  fare  maschili  gli  accrescitivi, 
quasi  a  meglio  indicare  la  maggior  grossezza  del  volatile  (Cfr.  per 
i\  dialetto  bresc.  i  generici  "  uzilu,  barkù,  fomnu' ,^.  etc,  e  gli  specifici 
"  becadelu,  colombàss,  passerót,  gaz'itfi  ,  sguissitfi'  lùgerót,  poianù, 
rondù.  sarlodù,  tuinót  „  etc).  Infatti  criterio  generale  nella  distinzione 
dei  sessi  è  che  nei  maschi  i  colori  sono  più  vivaci  e  la  grossezza 
maggiore  che  non  nelle  femmine;  e  pertanto  qui,  ad  esempio,  vo- 
lendosi determinare  una  specie,  che  nel  colore  molto  ad  un'altra  as- 
somigliavasi,  ma  ne  era  più  grossa,  con  un  nome  che  questa  ricor- 
dasse, s'è  foggiato  l'accrescitivo,  e,  appunto  perché  tale,  maschile 
del  nome  suo.  Cfr.  anche  "  cua-róssa  „  e  "  ca-rósso  ,  (corossolone)i 
ove  s'ha  perfino  la  sconcordanza  grammaticale  dell'aggettivo  dal  nome. 
(Per  verità  anche  non  pochi  diminutivi  sono  maschili  che  pure  si 
sarebbero  potuti  aspettare  femminili,  ma  in  essi  forse  intervenne  a 
determinare  il  genere  maschile  qualche  speciale  ragione,  come,  ad 
esempio,  quella  della  piccolezza  che,  secondo,  per  così  dire,  la  co- 
scienza linguistica  del  popolo,  meglio  sembra  rendersi  con  denomi- 
nazioni terminanti  in  i,  onde  necessariamente  riescono  esse  pure  ma- 
schili; vedansi  "  ali,  stili,  reati,  tui  „,  etc.  e  le  comuni  "  spaciugi  , 
accanto,  ma  preferita,  a  ^  spaéiugina  „  per  dire  '  poca  cosa,  cosa  pic- 
cola       fumni  „,  etc). 

')  Non  si  hanno  criteri  per  distinguere  i  maschi  dalle  femmine  di 
questa  specie,  e  forse  perché  all'uccellatore  tale  distinzione  tornerebbe 
mutile. 

-)  Pietra  di  paragone  del  discernimento  e  dell'esperienza  dell'orni- 
tologo potrebbesi  dire  questo  uccello,  poi  che  anche  i  più  consumati 
uccellatori  rimangono  talvolta  dubbiosi  e  incerti  nel  ritenerne  dati 
individui  maschi  0  piuttosto  femmine.  Vari  sono  i  criteri  che  la 
scienza,  per  così  dire,  venatoria,  suggerisce  in  proposito,  ma  essi  stessi 
sono  alquanto  incerti  e  taluno  empirico  affatto,  quasi  staremmo  per 
dire  superstizioso.  Due,  se  non  ridicoli,  incerti,  sono  l'uno  quello  che 


440  G.    BONELI.I 

déna,  tordéna,  Cuneo  grassetta,  Varzi  sira,  Gen.,  Tose. 
tordina,  Nov.  vina,  Bell,  pitaréla,  Luce,  agnina,  An- 
cona favarella,  Pai.  linguinédda  cantatnra. 

Antìius  pratensis.  Brese.  sguisseta,  Berg.  croata,  Crem.  guiz- 
zetfa,  Mant.  sguiseiina,  Piem.  vaineta,  Ossola  cinasma^ 
Gen,  Vida,  Vie.  sguizéta,  Vere,  skozzétta.  Yen.  fistaréla, 
Mod.  spipléna,  Tose,  pispola,  Cat.  zinzincula  ^). 

Aniìius  Richardi.  Bresc.  pi'Qpa,  piqssa,  sahbiunina,  Piemonte 
piurìisa,  Tose,  sahhionina  ^). 


indica  maschi  le  tordine  aventi  la  seconda  penna  dell'estremo  del- 
l'ala d'una  data  lunghezza,  l'altro  quello  secondo  il  quale,  delle  tor- 
dine, maschi  sono  soltanto  quelle  che  hanno  il  nervo  della  piccola 
penna  bianca  centrale  del  sottocoda  colorato  in  nero.  L'unico  invece 
dei  criteri  che  sembra  di  qualche  serietà  e  meritare  quindi  che  gli 
si  aggiusti  fede,  credo  sia  quello  della  lunghezza  dello  sterno,  lun- 
ghezza che  nell'individuo  maschio  sarebbe  di  un  centimetro  e  mezzo, 
nella  femmina  di  un  solo  ;  ma  siccome  cogli  anni  lo  sterno  cresce,  così 
anche  quello  delle  femmine  adulte  quasi  tocca  la  lunghezza  di  quello 
dei  maschi,  onde  pur  questo  criterio,  che  a  tutta  prima  può  sembrare 
semplice  e  decisivo,  si  chiarisce  incerto. 

')  Attorno  a  questo  anthus  poco  s'è  industriata  l'osservazione  degli 
uccellatori  per  iscovrire  se  e  quali  segni  speciali  abbiano  i  maschi,  onde 
ancor  meno  si  sa  giudicare  in  proposito.  (Mai  una  volta  in  quindici 
e  più  anni  che  attendo  con  amore,  sin  troppo,  alla  pratica  ornito- 
logia, mi  riuscì  di  riscontrare  in  tale  anthus  le  strie  rosee  di  cui  parla 
il  Temminck  quali  distintivi  de' maschi;  meno  male  che  neppure  il 
Savi  le  ha  mai  potute  verificare:  sono  quindi  in  buona  compagnia. 
Del  resto  lo  stesso  Temminck  le  asserisce  solo  per  i  maschi  adulti 
nel  tempo  degli  amori).  Tale  trascuranza  del  sesso  è  derivata  dal 
servire  all'uccellatore  tanto  la  pispola  f.  che  la  pisp.  m.;  sta  bene  che 
questa,  quando  venisse  tenuta  per  l'anno  successivo  saprebbe  gor- 
gheggiare il  canto  d'amore,  ma  troppo  delicati  sono  tali  uccelli  perché 
si  possa  ordinariamente  riescire  a  tenerli  in  gabbia  piìi  di  qualche 
mese  ;  e  d'altra  parte  quelle  di  passo  non  volano  mai  sì  alto  che  non 
.s'arrivi  ad  attirarle  e  farle  posare  ove  si  vuole  pur  coi  richiami  gio- 
vani dell'anno,  qualche  zimbello  e  il  fischio. 
2)  Vedi  nota  1,  pag.  439. 


I    NOMI    DEGLI    UCCELLI    NEI    DIALETTI    LOMBARDI  441 

Buteo  vulgaris.  Bresc.  poiana,   Berg.  pója,    Crem.  piijdna, 

Mant.  podna  M. 
Corvus  pica.  Bresc.  gaza  de  la  cm  lónga,  Berg.  gdha  Iddra, 

Sacile   cazzala,  Basso  Piem.   Idja,  Nov.   gdlia ,    Feltre 

gdda  -). 
Emheriza  cirlus.  Bresc.   spiónsa,   Berg.  zéa,  Mant.  piónsa, 

Nizz.  siga  ^). 
Fidica  atra.  Bresc,  Crem.  ffdega,  Berg.  fólega,  Mant.  fólga, 

Nap.  fólleca,  Lecce  fóddaca  *). 
Garrulus  glandarius.  Bresc,  Berg.,  Mant.,  Pav.  gaza,  k  ca, 

Berg.,   Pav.   berta  ^),   Tose,    Crem.    gazza,  Vie    gaza, 

Bell,  gdda,  Gen,  gdzena,  Nap.  caidzza,  cóla  '^). 
Hirundo  rustica.  Bresc,  Berg.,  Crem.  róndena,  Mant.  ron- 


')  Di  esso  l'uccellatore  ben  poco  o  nulla  si  cura,  onde,  probabil- 
mente, che  anche  qui  non  si  abbiano  norme  per  distinguere  i  maschi 
dalle  femmine. 

■^)  Vedi  nota  precedente, 

^1  I  maschi  hanno  la  stria  della  gola  alquanto  più  nera  di  quella 
delle  femmine.  Quanto  poi  all'altra  emheriza,  la  citrinella,  non  si  sa- 
prebbe ben  dire  se  torni  facile  la  distinzione  nel  sesso  (certo  non  evi- 
dente, poiché  alle  volte  occorre,  per  chiarire  se  un  dato  individuo  di 
tale  specie  sia  o  non  sia  maschio,  alzargli  le  penne  della  testa  e  ve- 
dere se  di  sotto  sono  gialle),  giacché,  se  i  maschi  adulti  molto  dif- 
feriscono per  l'accentuazione  dei  colori  dalle  femmine,  non  così  può 
dirsi  dei  giovani,  onde  sembrano  aver  ragione  d'essere  e  le  denomi- 
nazioni maschili  bresc,  cremon.,  mant.,  pav.  squajàrt,  smajàrt,  sma- 
jard,  spajiird,  e  le  femminili  berg.  spajarda,  pajeròla,  paenina,  pa- 
garàna,  pajaràna,  pajanjta. 

*)  Vedi  nota  1. 

")  Anche  in  Francia  "  par  familiarité  „  —  la  gazza  infatti  è,  come 
lo  storno,  l'uccello  che  si  lascia  di  solito  girare  per  casa  colle  ali  leg- 
lermente  spuntate  —  "  on  lui  a  donne  différents  prenoms  d'  homme 
ou  de  femme  :  jaque,  jaquette,  dame  jaicòtte,  etc,  „.  Rolland,  op.  cit., 
Il,  132. 

')  Vedi  nota  1. 


442  G.   BOXELLI 

danlna,  l'ondna,  Pav.  rónddnena,  Vie.  róndina,  Genova 
rondala,  Rom.  rhidina  ^). 

Lanius  collurio.  Bresc.  ga:^arpta,  Berg.  gazala,  Mil.  (jasg^tta., 
Crem.  sgazzetta,  Mani,  gaza  ràbida,  Pav.  garzaróhy 
sgaziróla,  Piem.  dérna.  Vere,  spagdssa,  Siena  cdstrica^ 
castrQkkia,  Arezzo  vdstrica,  Rmg.  ferlgtta.  Tose,  averla,. 
Friuli  gidrla,  Nap.  quérola,  Leece  paggigneca ,  Catan- 
zaro grudra. 

Motacilla  alba.  Brese.  boarqta^  Berg.  balargta,  Crem.  bua- 
rotta,  Mant.  boartna,  Pav.  boaléna  ^). 

Fariis  maior.  Bresc.,  Mant.  speranstna.  Chiari  muritina^ 
Berg.  monegina,  paraSÓla,  paissóla,  Crem.,  Pav.  paras- 


')  Vedi  nota  1,  a  pagina  precedente. 

')  Grande  difficoltà  a  distinguere  in  questa  specie  i  sessi  credo  che 
non  vi  sia  ;  onde  i  nomi  suoi  si  dovrà  forse  spiegarli  come  sorti  fem- 
minili per  il  bisogno  di  non  confondere  questa  specie  con  l'altra,  la 
flava,  la  quale,  per  affinità  fisiologiche,  per  le  comuni  abitudini,  etc, 
ha  nomi  a  base  e  significato  uguali  ai  suoi  (cfr.  boari,  buarén,  boalén,...). 

A  Vicenza  ci  pare  venga  chiamata  "  sguazzaróto  „,  come  a  dire 
"  uccello  dello  sguazzo  „  (e  invero  tale  motacilla  frequenta  le  praterie 
irrigate,  le  marcite,  i  fossati,  ogni  luogo  insomma  ove  sia  dell'acqua), 
nel  qual  caso  crediamo  si  possa  ritenere  che  a  cotal  nome  vicentino 
vada  sottinteso  quello  generico  à'uccello;  giacché,  piii  della  voce 
latina  —  ricordiamoci  della  nota  derivazione  di  attarda  da  avis-tarda 
—  l'italiana  dovette  esser  presente  alla  mente  del  popolo;  onde  anche 
potrà  darsi  che  alcuni  nomi  siano  maschili  anziché  femminili  appunto 
perché  da  principio  essi  altro  non  siano  stati  che  aggettivi  del  nome 
generico  '  uccello  '  —  eie  denominazioni  ornitologiche  sono  eviden- 
temente aggettivali  —  i  quali  siano  andati  a  mano  a  mano  sostan- 
tivandosi. 

(11  Rolland  spiega  i  nomi  francesi  delle  motacillae  "  boujeireto, 
semeur  ,  osservando  che  esse,  siccome  di  solito  cercano  il  cibo  nella 
terra  appena  smossa,  si  trovano  nei  campi  "  en  méme  temps  que  le 
laboureur  et  le  semeur  „.  Non  varrebbe  tale  spiegazione  anche  per 
i  corrispondenti  nomi  italiani  "  boarótta,  boari  „,  etc.V) 


1   NOMI    DEGLI    UCCELLI   NEI   DIALETTI    LOMBARDI  443 

sóla,  Gen.  pa7'issÓa,  Piem.  sinsula,  Piner.  lérda,  Ver- 
celli priìssa  grossa,  Ver,  sperónzola,  jpotaséca,  Casent. 
fiaskétta,  Lucca  cincipgtola,  Fir.  cingallegra,  Nap.  par- 
rfJla,  Pai.  muna'cédda  ^). 

Parus  minor.  Brescia,  Crem.  duina,  Mant.  speransinéta, 
Piem.  speranzina  d'  montana,  Gen.  parissoléta. 

Passer  montanus.  Bresc.  pàssera  biizerina,  Berg.  pàssera 
hiizeróla,  Crem.  pàssera  buzarma,  Mant.  passera  boha- 
rz'na,  Vie.  m^giaróla,  Gen.  passùrétà,  Piem.  passera 
d'sdles  miarina,  miaróla,  Tose,  passera  mattùgia. 

Petronia  stulta.  Bresc.  passera  m,iintanma ,  Como  passera 
greca,  Ver.  pdssara  montanara.  Boi.  pdssra  maréina. 
Tose,  passera  Idgia. 

Scolopax  rusticola.  Bresc.  drsia,  Berg.  póla,  Crem.  gallinazza, 
Mant.  pisdcara,  Pav.  gallindssa,  Como  pizza-lunga, 
Parm.  pizzdcra,  Tose,  beccdccia. 

Sylvia  cinerea.  Bresc.  goheta,  Berg.  ciarda,  Mant.  ciciarela, 
Tose,  sterpdzzola. 

Turdus  pilaris.  Bresc.  gardena  bajaróla,  cidcola,  Berg.  ésga, 
viscéra,  gardéna,  viskdrda,  Crem.,  Mant.  gardéna,  Vi- 
cenza baiaréla,  Gen.  tordéla,  Parm.  columbén'na,  Spezia 
sturUnga,  Rmg.  sizéc'cia,  Casent.  ce'zéna,  etc.  ^j. 

Turdus  viscivorus.  Bresc.  gardéna  grosa,  tresa,  Berg,  dressa, 
Crem,  durdàssa,  Voghera  dressla,  Piac.  stordéla,  Mod. 
sturdéda.  Boi.  gerlada,  Nizz.  séra,  Gen.   turdéua,    Fir. 


')  Il  maschio  si  distingue  solo  per  una  maggiore  ampiezza  della 
bolla  nera  del  ventre. 

*)  "  En  general  parmi  les  Grives,  les  màles  et  les  femelles  sont  à 
peu  près  de  méme  grosseur,  et  également  sujets  à  changer  de  cou- 
leur  d'une  saison  à  l'autre  ,.  Chenu,  op.  cit.,  Ili,  pag.  4. 


444  G.   BONELLI 

tordiéra,    Roma   tordiccia,  Sinig.   tordégola,   Catanzaro 
turda,  etc. 
Upupa  epops.  Bresc,  Berg.  boba,  Crem.  bobba,  Ossola   bii- 
bola,  buba,  pupa,  Valt.  biìbola,  Parra,  bubla,  Boi.  pópla, 
Trento  pura,  Nizz.  pùtega,  Tose,  Kom.  upupa  ^). 
Queste  adunque  le  specie  de'  cui  individui  il  sesso    non 
si  riconosce  con  facilità,  e  che  hanno  denominazioni  fem- 
minili. 

Veniamo  ora  a  quelle  con  nomi  maschili  -),  avendo  cura 
di  notare  quali  esteriori  differenze,    e  se  facili   ad  avver- 
tire, intercedano  tra  i  maschi  e  le  femmine  loro. 
Cannabina  linota.  Bresc,  Cremon.  fanel,  Berg.  ocan'^l,  Pavia 
fanet,  Vie.  faganelo,  Gen.  faneto  ^),  Pieni,  linqt,  giaiet, 
Valt.  fink,  Verona  fain'el,  Rover,  fadan'el  (a  Nizza  però 


')  Non  paia  troppo  naturale  e  quasi  necessario  che,  ad  esempio, 
le  basi  fulica,  upupa  si  siano  conservate,  e  che  quindi  al  solo  fatto 
della  derivazione  latina  si  deva  far  risalire  il  genere  femminile  dei 
nomi  citati;  poiché  allora  femminili  dovrebbero  essere  pur  quelli, 
ad  es.,  del  fringuello  e  del  merlo,  i  quali  invece  anche  nei  dialetti 
sono  maschili. 

^)  Tali  per  propria  natura,  come,  ad  es.,  ocanél;  e  non  per  ragioni 
di  derivazione  o  altro,  come  l'accrescitivo  '  sguissitù  '. 

^)  Dal  qual  nome  o,  meglio,  dal  doppio  senso  che  può  avere,  quando, 
nel  pronunciarlo,  leggermente  si  stacchi  la  prima  sillaba,  trae  ori- 
gine il  furbesco  proverbio  genovese  "  el  fa-néto  u  ciù  bèlo  uzélo  „. 
—  A  proposito  del  dialetto  genovese  possiamo  anche  notare  come 
in  esso  il  nomignolo  di  ìuerlo  valga  "  uomo  furbo,  persona  accorta  ,. 
(cfr.  "  el  ze  un  merlóto  ,  =  non  gliela  si  fa  tanto  facilmente),  e  ciò, 
e  a  giusta  ragione,  perché  i  merli  sono  astutissimi  e  dalla  vista  molto 
acuta,  l'opposto  di  quello  che  significa  negli  altri  dialetti  e  in  ita- 
liano. (Vedi  Appendice,  nota  IV).  E  sarebbe  certo  interessante  sjHegare 
come  mai  il  nome  di  cotale  uccello  abbia  potuto,  così  a  torto,  venir 
assunto  quale  sinonimo  di  minchione,  e  come,  in  pari  tempo,  siasi, 
quasi  nella  sola  Genova,  conservato  il  valore  che  ben  gli  spetta. 


I    NOMI    DEGLI    UCCELLI    NEI    DIALETTI    LOMBARDI  445 

sembra  sia  detto  con  nome   femm.  lifìóta),  Pisa  ìuou- 

tnnéllo,  Siena  grlcciolo,  etc. 

I  maschi  lianno  il  petto  macchiato  rosso  sangue;  le 

femmine  di  color  grigio.  —  Evidenti. 
Carduelis  elegana.   Bresc.  raari  ^),   Berg.   Reveri,    Cremona 

lavarèn,    Mant.    gardlin,   Pav.    ravaréi,  Vie.   gardelin, 

Cren,  cardelin,  etc. 

I  maschi   hanno  le  piccole  cuopritrici    dell'ali   nere 

lucenti  ;  le  femmine  invece  grigio-nerastre.  —  Si  distin- 
guono quindi  con  poca  evidenza. 
Coccothraustes  vulgaris.    Bresc.    sfrikiì,    Berg.,    Pav.   frizn, 

Cremon.  sfrizón,  Vie.  frizón,  Gen.  fi'ezùn,  Boi.  spisón, 

Rmg.  farsón,  Friuli  frisótt. 

Nei  maschi  il  pileo  —  la  parte  superiore  della  testa  — 

è  fulvo-castagna,  nelle  femmine  olivastro.  —  Evidenti. 
Crysomitris  spintis.  Bresc.  Ingerì,  Berg.  logarl,  Cremon.  lu- 

garen,  Pav.  legorél,  Vie.  nogarin,  Piac.  ligoréin,  Parma 

logar'pi,  Ven.  lugaro,  Bell,  liigro  -). 

Nel  maschio  il  pileo  è  nero,  e  il  petto  giallo;  nella 

femmina  sono  grigi  l'uno  e  l'altro.  —  Evidenti. 
Fringilla  coelebs.  Bresc.    frangiien,  Berg.,   Mant.    frànguel, 

Cremon.  frangol,  Vie.  finco,  Gen.  fringu'elo,  Bell,  zarà- 

tolo,  Roma  spincióne,  etc. 


')  Richiamiamo  ancora  qui  l'attenzione  di  chi  legge  su  questo  nome 
che,  mentre  pare  che  sia  la  forma  dialettale  del  nome  toscano  '  ra- 
perino '  (Serinus  hortulanus),  designa  invece  il  cardellino. 

^)  Le  due  denominazioni  napoletane  lécora  per  la  f.,  lécora  capa- 
néra  per  il  m.,  rispondono  forse  l'una  ad  un  primo  periodo  di  tempo 
nel  quale,  di  tale  specie,  non  si  sapeva  distinguere  i  m.  dalle  f ,  l'altra 
ad  uno  posteriore,  nel  quale,  avendo  l'osservazione  insegnato  che  i 
maschi  anno  il  pileo  nero,  si  trovò  naturale  e  opportuno  distinguerli 
anche  nel  nome. 


446  G.    BONELl.I 

Il  maschio  ha  il  petto  rosso  ;  la  femmina  lo  ha  bianco, 
—  Evidenti. 
Fringilla  mo)itifri)t(jilla.  Bresc.  monta,  Berg.  montami,  Cre- 
mona  muntali,   Mant.,  Vie.    montdn,    Gen,  barbar^sko, 
Tort.  montanhi,  Bell,  montano,  Friuli  pacanóso. 

Il  maschio  ha  la  testa  giallo  ruggine  striata  di  nero  ; 
nella  femmina  è  giallo  -  biancastra  ^). 
lAgurinus  chloris.  Bresc,  Cremon.  amaròt,  Berg.  verdù,  Pie- 
monte, Gen.  verdim,  Valt.,  Parm.  verdón,  Yen.  cerànto. 

Il  maschio  ha  le  penne  del  ventre  e  alcune  delle  ali 
gialle;  la  femmina  all'incontro  di  colore  verdastro  sbia- 
dito. —  Evidenti. 
Oriolus  galbida.  Bresc.  galheder,  Berg.  galber,  Cremon.  gal- 
péder,  Pav.  galbé,  Gen.  garbé,  Piem.  skalombéo,  ardsdn, 
Piac.  sgarber.  Boi.  argéib. 

Il  maschio  ha   la  testa  e  il    petto   di   color   giallo 
dorato;    la    femmina   tutte   le  penne  di   colore   verde 
sbiadito.  —  Evidenti. 
Passer  Italiae.    Berg.   passerai,    passerà,    Vicent.    zelegótto, 
Bell,  panegàss. 

E  cosa  molto  facile  distinguere  in  questa  specie  i 
sessi;  giacché  qui  le  femmine,  oltre  ad  avere  i  colori 
in  generale  ammorzati,  mancano  completamente  della 


')  Di  questa  specie  vi  sono  due  varietà,  una  alquanto  più  gi-ossa 
dell'altra,  e  nella  piccola  distinguere  il  sesso  è  un  po'  meno  facile, 
perché  i  colori  pur  ne'  maschi  sono  ammorzati.  Non  si  hanno  deno- 
minazioni speciali;  però,  sullo  stesso  territorio  bresciano,  alla  pianura 
il  nome  è  monta,  gli  alpigiani  invece  chiamano  tale  uccello  frazarol, 
frazarola  (probabilm.  =  "  fag^iarola  „  come  a  dire  "  uccello  più  spe- 
cialmente proprio  della  regione  dei  faggi  „). 


I    NOMI    DEGLI    UCCELLI    NEI    DIALETTI    LOMBARDI  447 

stria  nera  sotto  la  gola,  stria  che  hanno  solo  i  maschi  ^). 

Pyrrula  europaea.  Bresc.  sobigt,  Berg.  siflgt^  slglgt,  siuÌQt, 
Cremon.  sifùlót,  Mant.  siibigt,  Pav.  suflQt^  Como  fjemun, 
Vie.  finco  subÌQto,  Gen.  sigiirùn,  Valt.  ciftil^t,  Boi.  stuflgt, 
Ver.  zionzolo,  Friuli  sifilgt,  Rover,  cimpel,  etc. 

Nei  maschi  i  lati  del  collo,  il  petto,  l'addome  e  i 
fianchi  sono  colorati  in  roseo;  invece  nelle  femmine  in 
cenerino.  —  Evidenti  -). 

Serinus  hortulaniis.  Bresc.  verdarl,  Berg.  sverzeri,  Cremona 
verdulén,  Pav.  sgarhéi,  Piem.  snis,  Novi  serin,  Parm.  vi- 
darén,  Mod.  raparén,  Boi.  verzaréin,  Rmg.  verzlin, 
Ven.  frisarin,  frigorhi,  Bell,  sfredelin. 

Mentre  nel  maschio  la  testa  e  il  collo  sono  di  color 


')  Pare  in  molti  dialetti  questo  uccello  ha  nomi  femminili,  cosa 
che  sembra  contrastare  con  quanto  noi  sosteniamo;  senonché  giova 
forse  osservare  che  tali  nomi  sono  di  solito  in  corrispondenza  a  quelli 
dell'altra  specie  di  passero  (passer  montanus),  della  quale  altrove  s"è 
appunto  detto  che  solo  a  stento  e  con  incertezza  si  possono  distin- 
guere i  maschi  dalle  femmine.  Infatti  il  nome  bresciano  ■*  passera 
grósa  „  risponde  a  quello  pur  bresciano  della  mattugia  "  pass,  pic- 
cola „  ;  così  —  per  tacere  delle  denominazioni  piemont.  ■*  pàssra  d'mu- 
ràja,  pàssra  turéla  „,  pavese  "  passera  de  colombéra  ,,  etc.  —  il 
"  pàssra  da  cop  „.  modenese  si  deve  al  fatto  che,  mentre  il  p.  mon- 
tanus è  più  schiettamente  salvatico  (cfr.  i  nomi  suoi  "  pàssra  d'sàles, 
pass,  boskaiòla,  pass,  gabbarola,  pass,  di  siàmp ,  pàsseru  di  cam- 
pana ,,  etc.  e  i  frane.  "  moineau  de  bois,  moineau  des  champs,  moi- 
neau  sauvage  „,  etc),  questo  invece  annida  anche  sui  tetti,  nelle  co- 
lombaie, nei  crepacci  dei  muri,  sui  campanili,  e,  quasi  con  petulanza, 
scende  perfino  nelle  rumorose  vi(f  delle  città.  —  Vedi  nc\Y Appendice 
la  nota  III.  —  (Però  ne  la  mattugia  è  a  tal  punto  propria  dell'aperta 
campagna  che  non  se  ne  diano  anche  di  quelle  che  pongono  il  lor 
nido  nelle  città,  ne  la  reale  è  esclusivamente  sedentaria  —  come  pure 
la  vorrebbe  il  Savi  per  la  Toscana  —  che  di  settembre  non  se  ne 
vedano  branchi  di  passo \ 

■)  Cfr.  anche  Savi,  Ornitol.  ital.,  Il,  192. 


448  G.    B0NEM,1 

giallo  vivace,  nella  femmina   sono   bianco -giallicci  *). 

Turdus  iliacus.  Bresc,  Crem.  spinarti  Berg.  sdiircU,  Milano 

dressin,  Vie.  tordéto,  Gen.  tordo  corsésko,  Vere,   ufìak, 

Mod.  ■sifiét,  Boi.  taiird  sassa7',  Ven.  sikarin,  Friuli  sgrisul. 

Nei  maschi  le  cuopritrici    inferiori   delle   ali    e    dei 

fianchi  sono  di  color  fulvo  acceso;  nelle  femmine  smorto. 

Turdus  menda.  Bresc,  Vie,  Gen.,    Mant.   etc.  m'irlo,  Ber- 
gamo nierel,   Pav.  mirai,  Xizz.  mérlu. 

Il  maschio  ha  le  piume  nero-lucenti  e  il  becco  giallo- 
rosso  (cfr.  il  nome  leccese  apposito  per  il  maschio 
"  pizzi-giallo  „,  a  fianco  a  "  menda  ,,  per  la  femmina, 
e  i  nomi  veneziani  "  merlo  négro  „  e  "  méi-la  „);  la 
femmina  è  bigia  e  il  becco  suo  cenerino. 

Ed  ecco  così  segnate  anche  le  specie  che  sono,  come 
dimostrano  i  loro  nomi  dialettali,  generalmente  considerate 
maschili,  ma  ecco  pure  avvertite  le  marcate  differenze  che 
intercedono  tra  i  loro  rispettivi  individui,  maschi  e  femmine. 

Prima  però  di  chiudere  questa  nota  e  ripetere  quanto 
già  abbiamo  insinuato,  vale  a  dire  che  ci  sembra  non  ca- 
suale combinazione  che  i  nomi  dialettali  maschili  appar- 
tengano in  prevalenza  a  quelle  specie  ornitologiche  delle 
quali  si  ravvisa  con  facilità  il  sesso,  le  femminili  a  quelle 
colle  quali  ciò  torna,  se  non  impossibile,  parecchio  difficile, 
schiettamente  confessiamo  che  alcune  se  ne  danno,  cinque, 
le  quali  sembrano  opporsi  al  criterio  che  noi  vorremmo 
stabilire.  Infatti  Verithacus  rubetra,  la  hiriiudo  urbica,  la 
lusciola   luscinia,    la  pratincola   rubicola   e    lo    sturniis  vid- 

')  Savi,  op.  cit.,  p.  175. 


I    NOMI   DEGLI    UCCELLI    NEI    DIALETTI    LOMBARDI  449 

gai'is  ^)  hanno   generalmente  nomi   maschili,  e  pure  d'essi 
0  non  è  facile  o  impossibile  stabilire  il  sesso  ^). 

Tuttavia,  a  nostro  avviso,  tali  nomi  non  devono  fare 
eccessiva  difficoltà,  giacché,  quali  noi  li  conosciamo,  sono 
probabilmente  alterati  dalla  loro  forma  originaria,  onde 
nemmen  più  scorgiamo  cosa  abbiano  voluto  significare,  o 
solo  con  grande  incertezza.  E  invero  :  non  è  forse  possibile 
che  i  nomi  bresciani  dell' erithacus  "  sheset,  sbiset  „  voglian 
porre  in  rilievo  il  costume  di  tale  uccello  di  vivere  nelle 
siepi,  entrarvi  e  sbucarne  colla  maggior  facilità  3),  preci- 
samente come  i  bergamaschi  "  piciàl,  peciaróss  „  ^),  quello 
genovese  "  pe'cieto  „,  etc,  notano  dell'uccello,  quale  parte 
che  più  delle  altre  spicca,  il  petto? 

')  Anche  i  nomi  del  tordo,  del  quale  pure  non  si  può,  se  non  per 
via  anatomica,  nemmeno  dai  più  periti  ornitologi,  riconoscere  il  sesso, 
sono  maschili;  ma  è  anche  evidente  che  sono  tali  per  la  persistenza 
della  base  latina,  come  altri,  ad  es.  quelli  della  quaglia,  per  la 
stessa  ragione  si  sono  mantenuti  femminili.  Troppo  furono  usati  co- 
desti nomi,  tiirdus,  quaquila,  etc.  —  forse  anche  quello  di  sturmis  — 
perchè  i  dialetti  potessero  sottrarsi  alla  loro  influenza. 

^)  Il  Savi  crede  di  poter  distinguere  anche  nelle  pratincole  i  maschi 
dalle  femmine;  ma  laddove  dice  che  queste  differiscono  "  solo  per 
avere  il  bianco  un  po' sudicio  e  il  lionato  meno  vivace  „,  avverte 
pure  che  tali  diversità  si  rilevano  appena  negli  individui  adulti  e  in 
primavera,  quando  cioè,  essendo  il  tempo  degli  amori,  maggiormente 
si  accentua  la  colorazione  delle  penne,  o,  per  dirla  con  gli  ornitologi, 
quando  gli  uccelli  sono  in  abito  da  nozze. 

')  Sarebbe  quindi  questo  nome  un  appellativo  nel  quale  tuttora, 
benché  impallidito,  si  dovrebbe  scorgere  il  significato  di  shùzél  da 
"  sbùzà  „,    bresc.    per    "  sbucare  „;    e    sai-ebbe   sorto    maschile,  cioè 

sbisét  „  anziché  "  sbiséta  „,  forse  per  non  confondersi  col  nome  del- 
Vanthus  pratensis  "  sguiséta  „. 

*)  Pur  sul  territorio  di  Bergamo,  per  es.  a  Clusone,  è  detto  anche 
mikeU,  ma,  probabilmente,  perché  le  prime  avanguardie  di  tale  specie 
nel  passo  autunnale  arrivano  circa  la  fine  di  settembre,  e  il  29  è  il 
giorno  appunto  di  S.  Michele. 


4")0  G.    BONELLI 

Così  pure  ìldrundo  urhica  è  chiamata  dai  Toscani  con 
felice  denominazione  "  balestrùccio  „,  poi  che  questo  uccello, 
infaticabile  volatore,  rende  appunto  somiglianza,  quando 
vola,  d'una  saetta,  d'una  balestra,  e  per  la  rapidità  sua  e 
per  la  forma  delle  ali  e  della  coda;  orbene:  non  si  è  quindi 
tentati  a  vedere  anche  nel  nome  bresciano  "  dàrder  „  e 
nei  bergamaschi  "  dard ,  dat^dl  „  ^)  l' influenza  e ,  per 
meglio  dire,  la  persistenza  della  voce  dotta  '*  dardo  „  per 
"  freccia  „  ? 

Parimenti:  la  lusciola  luscinia,  l'usignuolo,  ha  in  tutti  i 
dialetti  nome  maschile  ^j,  eppure  è  noto  che  non  si  distingue 
l'usignuolo  femmina  dall'usignuolo  maschio  ;  ma  anche  qui 
forse  si  può  trovare  un  particolare  motivo  per  giustificare 
il  genere  del  nome.  E  infatti,  pur  lasciando  da  parte  che 
si  potrebbe  supporre  un  diminutivo  lusciniohiin  della  base 
latina,  il  quale  avrebbe  poi  date  le  voci  lombarde,  etc. 
"  losinól,  rosimi  „,  non  è  forse  probabile  e  naturale  che 
la  stessa  coscienza,  per  così  dire,  linguistica  del  popolo  si 
sia  ribellata  a  chiamare  con  un  nome  femminile   l'uccello 


*)  Valt.  dard,  Como,  Crem.  dàrden;  Piac,  Parm.  dàrdar,  Ver.  dar- 
darin  (secondo  E.  Arrigoni  Degli  Oddi,  Materiali  2ier  una  fauna  or- 
nitologica veronese,  "  Atti  del  R.  Istituto  Veneto  „,  1899,  detto  anche 
sijyrióto'',  Treviso,  balestréllo. 

-)  Berg.,  Bresc.  rosinol,  Crem.  lusinóol,  Mant.  rosnol,  Pav.  rosoùo, 
/  '  '  / 

Vie.  rossinólo,  Sav.  rossinò,    Tort.  ursiio,  Como  lisiiìo,    Valt.    rusiùó, 

Parm.  lesnòl,  Mod.  lusiiól,  Friuli  rusiiìùl,  Nizz.  russimi ,  Nap.  rusi- 
nuólo,  Regg.  rusiiiólo,  Sicil.  nottulanu,  Girg.  risiiiólu,  etc.  (Il  nome 
generico  siciliano  "  nottulanu  „  che  si  riferisce  al  costume  dell'usi- 
gnuolo di  cantare  di  notte,  richiama  i  due  nomi  della  emheriza  hor- 
tulana  piemontese,  Aless.  nottuàn,  Genov.,  Savona,  nuttuan,  i  quali 
pure  ricordano  essere  abitudine  anche  di  questo  uccello  di  ripetere  il 
suo  melanconico  gorgheggio  anche  di  sera  tardi  e  a  notte  inoltrata. 


I    NOMI    DEGLI    UCCELLI    NEI    DIALETTI    LOMHARDI  451 

cantore  per  eccellenza?  —  Doveva  ripugnare  troppo,  sembra 
a  noi,  trattare  come  femmina  —  e  le  femmine  degli  uccelli 
non  cantano:  emettono  solo  i  gridi  di  passo,  non  i  canti 
d'amore  —  l'usignuolo,  ed  eccolo  quindi  in  tutti  i  dialetti 
denominato  con  nomi  maschili. 

Sta  bene  che  non  altrettanto  facili  spiegazioni  si  potranno 
avanzare  per  lo  sturnus  vulgaris  e  per  la  pratmcola,  la 
quale  è  detta  a  Brescia,  Bergamo,  Cremona,  Ven.  "  maket  „, 
voce  che  proprio  non  sappiamo  vedere  cosa  significhi  i);  ma 
è  pur  vero  che  codeste,  a  ogni  modo,  sono  eccezioni,  che 
però  abbiamo  voluto  notare,  non  tanto  perché  delle  ecce- 
zioni si  dice  che  confermano  le  regole,  quanto  perché  ci 
parvero  quasi  tutte  spiegabili,  e  quindi  anche  meglio  con- 
validare il  principio  che  ci  sembra  di  poter  porre:  —  essere 
l'evidenza  del  sesso  un  criterio  direttivo  nella  formazione 
delle  denominazioni  ornitologiche  dialettali. 


•)  A  Cremona  si  suole  usare  tale  parola  anche  per  indicare  la  carne 
che  comincia  a  infracidire.  Ma  con  questo  significato  e  uso  ha  il 
nome  un  rapporto?  Non  crediamo;  tuttavia,  mentre  facciamo  osser- 
vare che  l'uccello  in  questione  è  qualche  volta  infestato  da  pidoc- 
chietti, ricordiamo  che  la  carne,  quando  appunto  prende  a  puzzare, 
si  viene  tutta  coprendo  di  vermi. 


452  G.    BONEl.LI 


A  PPENDIOE 


NOTE 

P.  —  Se  il  signor  E.  Filippini,  nell'incominciare  l'accurato  suo 
articolo  sugli  Usi  venatorl  nel  Folignate  {in  Archivio  per  le  tra- 
dizioni popolari,  anno  1899,  p.  216),  ci  fa  di  primo  colpo  cre- 
dere che  anche  laggiù  sia  la  caccia  tanto  difiPusa  e  passionatamente 
esercitata  come  da  noi  *),  s'incarica  però  egli  stesso,  coi  dati  di 
fatto  che  vi  reca,  di  mostrarci  come,  pure  nel  Folignate,  sia  l'au- 
cupio  di  gran  lunga  meno  e  meno  bene  esercitato  che  non  quassù 
in  Lombardia.  Infatti  colà,  egli  stesso  ci  dice  (pag.  218),  non  si 
comincia  ad  uccellare  se  non  in  ottobre  (invece  da  noi,  se  non 
già  ai  quindici  d'agosto,  in  settembre,  e  ai  venti  di  tale  mese  al 
più  tardi;  cfr.  il  prov.  bresciano:  "  A  san  Mate  la  ret  en  pe  ,); 
non  tutti  coloro  che  uccellano,  anche  d'inverno  mantengono  i  ri- 
chiami, ma  preferiscono  la  maggior  parte  prenderli  a  nolo  al  mo- 
mento opportuno  da  appositi  venditori  (uso  questo  del  nolo  degli 
uccelli  in  Lombardia  affatto  sconosciuto,  poi  che  anzi  con  amore 
e  quasi  con  ambizione  ogni  proprietario  di  uccellanda  e  ogni  cac- 
ciatore "  di  capanno  „  suole  allevarsi  i  richiami  che  gli  occoiTono). 
Quei  venditori  si  fanno  pagare  per  il  semplice  nolo  di  pochi  frin- 
guelli sommette  di  gi'an  lunga  superiori  ai  prezzi  d'acquisto  normali 
della  Lombardia  (un  fringuello  buon  cantore,  sulle  piazze  di  Brescia 
e  di  Bergamo  si  paga  in  generale  tre  lire  ;  a  Foligno  invece  "  il 
prezzo  di  nolo  è  dalle  cinque  alle  otto  lire  l'uno,  quello  d'acquisto 


')  "  C'è  nel  Folignate  un  detto  popolare  che  dimostra  tutta  la  grande 
importanza  che  ha  in  quel  paese  la  caccia  in  genere:  "  Cruai  a  quell'uc- 
cello  che  passa  tra  Foligno  e  Spello  ,,  ecc. 


I   NOMI   DEGLI   UCCELLI    NEI   DIALETTI   LOMBARDI  453 

quattro  o  cinque  volte  di  più  „);  onde  ben  si  comprende  come  la 
caccia  venga  colà  esercitata  generalmente  solo   da   alcuni  signori. 

II*.  —  Del  resto,  o  noi  c'inganniamo,  o  gli  stessi  nomi  orni- 
tologici di  cotali  regioni  mostrano  come  in  esse,  s'intende  nel  po- 
polo, sia  poco  svolta  la  conoscenza  dell'avifauna,  e  ce  lo  mostrano 
colla  loro  povertà  di  basi  etimologicamente  diverse,  colla  loro  in- 
certezza di  significato,  colla  loro  imprecisione.  E  infatti  cos'altro 
mai  possono  indicare  se  non  quasi  infantile  povertà  di  lingua  i 
nomi  —  passero,  canerino,  tordo  —  usati  nelle  denominazioni  si- 
ciliane e  sarde  anche  per  uccelli  che  non  sono  né  tordi,  né  cane- 
rini,  né  passeri?  —  Vedansi  i  nomi  sardi  del  fringuello:  passareUu, 
passareddn  ;  del  fanello  :  x>assericii  ;  del  lucherino:  canariu  de  monti; 
del  verzelKno  :  canariu  hirdu  ;  del  golo  :  canariu  aresti,  can.  sal- 
vati cu  ;  quelli  sicil.  del  ciuffotto  :  passeru  americanu,  del  lodo!  ino  : 
passareddn  di  voscu,  ecc.  —  0  non  sembra,  considerando  tali  de- 
nominazioni, di  assistere  agli  sforzi  di  un  bambino,  che,  sapendo 
pronunciare  solo  poche  parole,  pure  s'industria,  variamente  fra 
loro  componendole,  di  esprimere  pensieri,  concetti,  che,  se  egli 
concepisce,  esse  in  proprio  non  contengono?  (Mostrate  invero  a 
un  ragazzetto,  se  già  non  li  vide,  un  canerino  e  un  fanello,  dite- 
gliene i  nomi,  poi,  senz'altro,  un  verzellino  e  un  luchei'ino,  ed  egli, 
che  delle  varie  specie  non  sa  rilevare  le  molte  e  intrinseche  diffe- 
renze, anzi  manco  sogna  vi  siano  più  specie  e  generi  degli  uccelli, 
c'è  a  scommettere  che  franco  ve  li  chiamerà  canerino  verde,  fanello 
giallo  —  cfr.  Lecce  :  lucher.  =  faninldru  giàllu  —  ;  insegnategli  che 
i  canerini  noi  li  abbiamo  generalmente  solo  allo  stato  domestico, 
nelle  gabbie,  e  poi  veda  in  campagna  un  rigogolo,  che  tosto  ve 
lo  indicherà  sclamando:  ecco  un  canerino  salvatico).  E  taciamo 
dei  nomi  assunti  per  più  d'una  specie,  come,  ad  es.,  di  quello 
leccese  pispanta  che  vale  per  la  tordina  e  per  lo  sguizzettone  ;  di 
quello  di  turdu  che  in  Sardegna  indica  tanto  il  tordo,  che  la  tor- 
della maggiore,  che  la  tordella  minore,  che  il  canareccione  ;  di 
quello  pur  sardo  di  passiriargia  che  pare  serva  indifferentemente 
a  indicare  tutte  quattro  le  specie  di  averle:  Lanius  maior,  minor, 
coUurio  e  auriculatus  ;  e  di  quello  infine  di  peuda  che  in  Corsica 
designa  e  la  calandra,  e  le  due  allodole,  e  i  tre  anthus\ 

IIP.  —  Non  in  tutte;  non  a  Brescia,  non  a  Bergamo,  proba- 
bilmente per  l'accanita  caccia  che  si  dà  in  queste  ad  ogni  uccello, 

Siiiij  di  filoloqia  romanza,  IX.  29 


454  G.   BONELLI 

onde  che  anche  i  passeri  ')  vi  sono  più  rari  di  numero,  e  di  gi-an 
lunga  più  timidi  e  sospettosi.  —  Si  ha  qui  una  delle  varie  prove 
della  ereditabilità  dei  sentimenti  negli  ammali,  confermata  e  ricon- 
fermata dalle  descrizioni  delle  interessanti  caccie  dello  Scheibler 
(Nuova  antologia,  giugno  1899),  là  dov'egli,  al  pari  d'altri  viag- 
giatori, avverte  come  sovente,  in  certe  regioni  abbandonate^  e  nelle 
quali  la  caccia  agli  uccelli  è  sconosciuta,  incontrasse  palombelle  e 
molti  altri  volatili  che  si  lasciavano  avvicinare  senza  ombra  di  diffi- 
denza (vedasi  anche  :  L'esprit  de  nos  bétes,  par  E.  Alix,  1890),  e 
dalle  relazioni  apfiunto  sui  passeri,  che  nei  parchi  di  Londra  e  negli 
Stati  Uniti  sono,  per  la  efficace  protezione  che  la  legge  loro  ac- 
corda, tanto  famigliari  che  non  è  raro  di  vederli  posare  sulle  spalle 
di  chicchessia,  e  venire  a  beccar  fuori  dalle  mani  dei  fanciulli  il 
pane  o  i  dolci. 

IV".  —  Per  verità  pare  che  anche  a  Siena  il  merlo  sia  tenuto 
nel  suo  giusto  conto,  poiché  d'un  furbo  di  tre  cotte  vi  si  suole 
appunto  dire  :  Eh  !  quegli  è  un  merlo  col  becco  giallo  !  ^)  ;  e  pa- 
rimenti in  qualche  altro  luogo  della  Toscana  sembra  sia  "  merlo  „ 
sinonimo  di  "   persona  furba  „  ^)  ;  ma  gli  è  però  anche  vero  che 


^)  Malgrado  la  loro  grande  fecondità,  che  già  in  marzo  e  ancora  in 
agosto  cominciano  e  durano  i  loro  amori  sempre  seguiti  da  numerose 
covate,  quegli  amori  così  vivaci  e  ardenti  che  han  fatto  del  passero, 
almeno  da  noi  e  in  Francia,  il  simbolo  del  lussurioso  ;  cfr.,  ad  es.,  le 
locuz.  caldo  come  un  x>asserino,  chaud  comme  un  moinean,  e  il  proverbio 
sardo  furfurinic  paga  vida,  che  vuol  dire  "  passerotto  vita  corta  „  (Spano, 
Vocabolario  sardo  italiano),  dove  furfurmu  è  usato  metaforicamente  ap- 
punto per  lussurioso.  (In  Inghilterra  simbolo  della  grande  fecondità  è  la 
cingallegra,  la  quale  pure,  per  vero  dire,  è  assai  prolifica.  Vedi  Chenu, 
op.  cit.,  120,  note  :  "  en  Angleterre...  il  a  passe  en  usage  de  donuer  le 
nomme  de  Mésange  à  toute  femme  qui  est  à  la  fois  très-petite  et  très- 
féconde). 

')  La  quale  espressione  letteralmente  significa:  merlo  maschio  adulto 
(Vedi:  Corsi  Zoologia  iwpolare  Senese,  in  Archivio  per  lo  studio 
delle    tradizioni    popolari). 

^)  Zambaldi,  Dizionario.  —  Così  pure  in  Francia,  ove  le  locuzioni  "  fin, 
rusé  comme  un  merle  ,  o  "  c'est  un  fin  merle  „  si  usano  per  "  rusé, 
adroit  compère,  fourbe  „ .  Cfr.  Rollano,  op.  e  voi.  cit.,  pag.  248.  Del 
resto,  fortuna  delle  parole  !  in  ligure  la  stessa  parola  ruffiano  non  è 


I    NOMI    DEGLI    UCCELLI    NEI    DIALETTI    LOMBARDI  455 

nel  linguaggio  comune  e  nella  coscienza  popolare  la  parola  merlo 
ha  un  significato  ben  diverso,  e  suona  qual  titolo  di  derisione  per 
tutte  le  persone  che,  troppo  ingenue,  si  lasciano  facilmente  ab- 
bindolare. 

Sarebbe  forse  questo  un  esempio  di  piìi  di  quelle  tante  esage- 
razioni che  per  ironia  significano  l'opposto  di  quanto  dicono  (come 
ad  es.  :  vali  un  Perù,  sei  un  Raffaello),  avremmo  cioè  forse  qui 
una  parola  che  dall'essere  usata  ad  esprimere  la  furberia  e  l'ac- 
corgimento, siasi  poi  tanto  consacrata  nell'uso  di  beffa  da  scadere 
completamente  dal  suo  originario  significato?  —  Anche  il  nome 
d'un  altro  uccello,  il  cucolo,  viene  assunto  per  ischerno,  e  forse 
anch'esso  si  potrà  spiegare  con  un  trapasso  affine. 

Si  sente  infatti  sovente,  ad  esempio,  fra  ragazzi  che  giocano, 
quando  l'uno  pretende  da  un  altro  qualcosa  di  troppo,  questi  gri- 
dai'e  al  primo:  cùco,  e  accompagnargli  la  parola  con  il  solito  al- 
legi'o  gesto  espressivo  ').  Ora,  gli  è  evidente  che  la  parola  "  cùco  „, 
pur  nella  sua  indeterminatezza  —  onde  non  si  saprebbe  ben  dire 
se  vada  riferita  a  chi  ascolta  o  a  chi  lo  dice,  —  equivale  in  tale 
circostanza  a  un  :"  Non  mi  becchi,  non  mi  pigli  ,  ;  ma  siamo  anche 
qui  alla  stessa  domanda  :  Ciico  ha  im  valore  reale  o  ironico  ?  e 
vuol  dire  furbo  o  minchione? 


punto  offensiva,  ma  lusinghiera,  come  appellativo  di  persona  sveglia; 
e,  ad  es.,  d'un  ragazzetto  furbo  si  dice  senz'ombra  di  spregio  :  "  Oh  ! 
el  ze  un  ruffianéto!  ,. 

')  Cfr.  l'espressione  francese  "  jouer  à  coucou  ,  che  significa  "  giocare 
a  nascondersi  ,  e  che  il  Rolland  (op.  cit.,  IP,  pag.  89)  spiega  colla  dif- 
ficoltà di  avvicinarsi  al  cucolo  ;  spiegazione  che  ci  richiama  alla  mente 
una  graziosa  piccola  poesia  di  Riickert,  della  quale  ci  permettiamo 
di  riferire  i  primi  versi,  per  quanto  possa  sembrare  leggerezza  en- 
trare nel  campo  della  letteratura  tedesca  proprio  a  proposito  del  cu- 
colo, uccello  particolarmente  caro  alle  popolazioni  germaniche  fino 
dai  tempi  più  remoti,  e  intorno  al  quale  il  materiale  illustrativo  è 
perciò  grandissimo. 

Dieser  kukuk,  der  mich  neckt, 
Tief  im  VValdgestrauch  versteckt, 
Rechts  und  links  imd  liberali 
Hor  'ich  seinen  fernen  Schall. 
Wo  ich  komme,  geht  er  fort, 
Bin  ich  hier,  so  ist  er  dort. 


456  G.   BONELLI 

Parrà  forse  cosa  strana,  ma  pure,  trattandosi  del  cucolo,  ci  tro- 
viamo assai  incerti  nel  decidere  poiclié  troppe  sono  le  particolarità, 
le  stravaganze,  i  misteri,  le  leggende  che  avvolgono  la  vita  di 
questo  uccello  '),  perché  si  possa  con  sicurezza  affermare  in  pro- 
posito alcuna  cosa.  —  Esso  infatti  è  quell'unico  uccello  che  nido 
non  costruisce,  ma  le  uova  depone  negli  altrui  ;  esso  è  il  privi- 
legiato che,  a  riuscire  nel  suo  intento,  fa  uova  piccolissime  e  va- 
riamente colorate  secondo  il  colore  di  quelle  dei  veri  proprietari 
del  nido  nel  quale  prudentemente  deporrà,  non  visto,  il  suo,  to- 
gliendone uno  ;  esso  è  il  solo  fortunatissimo  che  vede  allevarsi  e 
con  amore  la  prole  da  altri  genitori  (non  ostante  che  il  giovane 
cucolo  li  ricompensi  col  gettare  dal  nido  o  schiacciarvi  i  loro  veri 
figli,  e  appena  fatto  grande,  tosto  li  abbandoni  per  correre  dalla 
madre  che  nei  pressi  lo  attende;  onde  la  locuzione  francese  "  in- 
grate comme  un  coucou  „  ben  sarebbe  giustificata ,  se  invece  il 
Rolland,  II,  96,  non  la  facesse  derivare  dallo  strano  pregiudizio 
che  il  cucolo  nella  sua  voracità  mangi  perfino  e  il  padre  e  la 
madre)  ;  ^)  esso  infine  è  l'uccello  cui  da  tempi  immemorabili  e  in 
latitudini  diversissime  si  accorda  fama  di  oracolo  ^). 

Tutte  queste  cose  cui  abbiamo  accennato  parrebbero,  per  vero 
dire,  persuaderci  a  considerare  il  cucolo,  o,  meglio,  a  credere  sia 
esso  dal  popolo  stato  considerato  quale  uccello  accorto,  assai  destro, 
e  quindi  il  nome  suo  essere  stato  preso  quale  sinonimo  di  malizia. 
Ma  un'altra  ve  n'ha  che  diversamente  consiglia,  e  cioè  che  gli 
amori  dei  cucoli,  quanto  ardenti  e  impetuosi,  sono  altrettanto 
brevi;  onde  i  maschi  —  in  questa  specie  di  molto  più  numerosi 
delle  femmine  —  dopo  due  o  al  più  tre  giorni,  si  vedono  abban- 
donati dalle  loro  compagne  che    allegramente    si    volgono  a  con- 


')  E  naturalmente  intendiamo  parlare  del  cucolo  comune,  non  del 
cucolo  indicatore,  che  allora,  per  di  piii,  ci  troveremmo  in  quel  gine- 
praio di  questione:  se  il  cucolo  gridi  perché  l'uomo  venga  a  togliere 
il  miele  dai  favi  e  farne  a  lui  parte  ;  o  non  piuttosto  perché  vi  viene, 
e  quindi  lo  disturba  nella  sua  caccia  alle  api. 

■^)  Per  non  entrare  nella  serie  delle  citazioni,  che  sarebbe  infinita,  ne 
basti  una  sola  :  Encyclojìédie  d'histoire  naturelle  par  le  docteur  Cheno 
{Oiseaur,  l'  partie,  pag.  266,  etc). 

^)  Vedansi  ad  es.:  G.  De  Giacomo,  Pregiudizi  calabresi  (in  Arch.  cit., 
1894,  pag.  221)  ;  e  Lioy,  Piccolo  mondo  ignoto,  pag.  28. 


I    NOMI    DEGLI    UCCELLI    NEI    DIALETTI    LOMBARDI  457 

quiste  novelle.  —  E  non  è  forse  questa  una  circostanza  da  aver 
ben  potuto  nella  fantasia  popolare  effigiare  il  cucolo  quale  em- 
blema dello  scornato,  della  delusione?  ^)  —  Ecco  il  perché,  tosto, 
parlando  del  cucolo,  ci  siamo  detti  incerti,  non  abbiamo  cioè  sa- 
puto affermare  se  il  nomignolo  di  cuco  voglia  veramente  dire  destro 
o  malaccorto;  e  anche  altri,  noi  crediamo,  rimarrà  dubbioso,  poiché 
non  è  già  che  manchino  le  ragioni  per  sostenere  questa  o  quella 
supposizione,  sibbene  che  dall'una  parte  e  dall'altra  tali  ve  ne 
sono  che  riesce  impossibile  nettamente  persuadersi  di  questa  an- 
ziché di  quella  ^).  Ci  basti  l'averle  entrambe  accennate. 

[Anche  intorno  la  data  dell'arrivo  del  cucolo  —  mese  d'aprile  ^) 

')  Tra  i  parecchi  significati  che  anche  in  Francia  ha  il  nome  del 
cucolo  v'è  pur  quello  di  marito  ingannato.  Però  il  Rolland  non  lo 
spiegherebbe  colla  circostanza  che  ora  abbiamo  riferita,  ma  suppo- 
nendo che  sia  stato  vezzo  comune  schernire  i  mariti  sfortunati  col  far 
loro  il  verso  del  cucolo  (come  a  dire:  altiù  ha  posato  nel  vostro  nido) 
e  coU'andar  del  tempo  il  nome  dell'uccello,  poi  che  grido  e  nome, 
trattandosi  del  cucolo,  sono  la  medesima  parola,  sia  divenuto  il  no- 
mignolo dei    poveri  turlupinati. 

^)  Naturalmente  noi  qui  si  cercava  il  significato  metaforico  primo 
della  parola,  e  non  già  uno  qualunque  ;  poiché  allora  basterebbe  ri- 
cordarsi di  qualche  espressione  nella  quale  esce  talvolta  il  popolo  (ad 
es.:so  mi'ga 'n  cucu  eh!)  per  crederla  sinonimo  di  "  minchione  „. 

^)  Di  qui  la  denominazione  tecnica  di  lijchnis  fios  cuciili,  cui  fa  per. 
fetto  riscontro  l'italiana  "  fiore  del  cucolo  „,  a  una  delicatissima  —  se 
lo  sanno  i  botanici  che  la  vogliono  conservare  negli  erbari  —  diantea 
o  cariofilea  che  dir  si  voglia,  la  quale  fa  sua  miglior  fioritura  ap- 
punto nella  prima  quindicina  del  mese.  (Bisogna  dire  che  in  Francia 
questa  corrispondenza  tra  la  denominazione  scientifica  e  la  volgare 
non  vi  sia,  o  non  sia  tanto  chiara  e  precisa,  poiché  il  Rolland,  nella 
Faune,  indica  quale  pianta  chiamata  "  fiore  del  cucolo  „  una  primu- 
iacea,  anzi  la  stessa  primula  veris,  e,  nella  Flore,  alla  detta  denomi- 
nazione lychnis,  fa  egli  pure  corrispondere  —  oltre  la  spagnuola  fior 
del  cuclillo  e  la  galliziana  frol  d'o  cuco  —  la  frane,  la  fleiir  de  coucou, 
pain  de  coucou,  bohé  d'coucou,  nomi  che  ritornano  poi,  in  forma  ben 
poco  diversa  [paens  cucu,  pò  de  coucou,  herbe  au  coucou,  fléur  du 
coucou,  etc),  quali  denominazioni  volgari  della  oxalis.  Non  li  spiega 
però  come  dovuti  alla  presenza  del  cucolo  durante  l'epoca  della  fio- 
ritura, ma,  citando  il  Grimm,  dice  :  "  ou  pvétend  que  le  coucou  crache 
sur  cette  piante....  La  vérité  est  que  l'insect  appelé  Cicada  spumarla 
j  depose  son  écume  bianche,  vulgairement  appelée  chachat  de  coucou). 


458  G.    BONELLI 

—  s"è  sbizzarrita  la  fantasia  popolare  dettando  proverbi  e  sentenze 
in  prosa  e  in  metro;  onde,  come  il  calabrese,  pieno  di  serietà, 
spiega  che  il  eucolo  non  costruisce  il  nido  per  la  semplice  ragione 
che,  distratto  com'è  dalle  cure  di  profeta  —  tutto  il  giorno  deve 
dare  responsi,  ora  in  un  luogo,  ora  in  un  altro,  —  non  gli  rimane 
tempo  (cfr.  Db  Giacomo,  Pregiudizi  calabresi);  così  il  veneziano, 
per  quanto  con  ragioni  più  alla  buona,  spiega  gli  eventuali  ritardi 
dell'arrivo  del  noto  uccello: 

"  Ai  9to  de  aprii  —  El  ciico  a  da  venir  ; 
E  se  noi  vien  ai  oto  —  Di  ke  l'è  prézo  o  ke  l'è  morto; 
E  se  noi  vien  ai  diéze  —  L'è  prézo  per  le  siéze; 
E  se  noi  vién  ai  vinti,  —  L'è  prézo  in  fi  forminti, 
E  se  noi  vién  ai  trenta  —  El  pastór  l'à  maiià  co  la  polenta  ,. 
Cfr.  Rollano,  op.  cit.,  IP,  pag.  89]. 

V'*.  —  Ma  anche  il  canto  d'amore  del  fringuello  fu  studiato 
e  analizzato,  e,  poiché  vario,  se  ne  distinsero  otto  tipi  fondamen- 
tali, e  in  ognuno  un  preludio,  un  trillo,  un  finale,  e  perfino  si 
diede  a  ogni  ripresa  un  nome  particolare  (vedi  Chenu,  op.  cit., 
V,  294).  Si  cercò  pure  d'interpretarlo;  e,  ad  esempio,  a  Orléans 
si  suol  dire  che  il  fringuello  canta:  "  je  suis  le  fils  d'un  riche 
prieur  »,  nella  Lorena:  "  fi!  fi  !  les  laboreux,  j'vivrons  ben  sans  eux  „, 
a  Parigi  invece,  "  oui,  oui,  oui,  oui,  oui,  je  suis  un  bon  citoyen  „  '), 
frasi  tutte  che  però,  inutile  dirlo,  sono  ben  lungi  dal  rendere  fe- 
licemente il  vibrato  e  rotondo  gorgheggio  del  fringuello.  Da  noi  *), 
a  Bergamo  e  a  Brescia,  certo  con  minor  poesia,  ma  forse  con 
maggior  verisimiglianza,  i  tre  canti  d'amore  principali  si  rendono 
colle    frasi:    clQ  - 'do  -  ciQ,  harha'ccibig  —   ciò -ciò-  ciò,   ci'ccisbéo 

—  cfo  -  ciò  -  ciQ,  brid'ccio,  delle  quali  quest'ultima,  che  è  la  meno 
frequente,  pare  la  piti  graziosa,  ed  è  certo  nelFaucupio  la  più  effi- 
cace. —  Efiìcace  a  sua  volta  l'espressione  colla  quale  il  popolo 
indica  ciò;  usa  del  verbo  credere,  onde,  ad  es.,  dice  che  "  a  quel 
fanello  si  crede,  a  quest'altro  no  „  ;  oppure  che  a  quel  fanello  — 


')  Vedasi  il  Rolland,  op.  cit.,  IP,  179. 

^)  Nel  Piemonte  (cfr.  Pinoli,  in  Arch.  per  le  tradiz.  pop.)  si  dice 
che  l'irrequieto  fringuello  canti  :  sing,  sing,  sing,  singsént-mi'la-li're 
per  mai'idè-mia-fi'a  ! 


I    NOMI    DEGLI    UCCELLI    NEI   DIALETTI    LOMBARDI  459 

cioè  al  SUO  canto  —  i  fanelli  vanno  dietro,  e  a  questo  no,  espres- 
sioni, ripeto,  felici  e  ben  trovate,  poi  che  in  verità  ne'  gorgheggi 
de'  vari  uccelli  devonsi  vedere  altrettante  manifestazioni  de'  loro 
sentimenti,  e,  come  a  dire,  piccoli  discorsi. 

Noi  non  crediamo,  e  avremo  altrove  occasione  di  ripetei'lo,  che 
gli  uccelli  abbiano  grida  imploranti  aiuto,  ma  troviamo  pur  tut- 
tavia, ne'  loro  vai-i  canti  e  gorgheggi,  particolari  espressioni  oltre 
quelle  che  soglionsi  dire  "  d'amore  ,.  Hanno  infatti  tutte  le  specie 
que'  fischi  brevi  e  di  solito  tronchi  che  si  chiamano  voci  d'ap- 
pello o  di  passo,  e  che  sono  comuni,  a  differenza  de'  gorgheggi 
d'amore,  a  entrambo  i  sessi.  Quasi  tutte  hanno  inoltre  grida  di 
spavento  e  grida  di  dolore,  e  alcune,  gli  è  certo,  anche  voci  di 
allarme  e  voci  esprimenti  particolare  soddisfazione  ').  Il  fringuello, 
ad  es.,  —  e  intendiamo  ogni  individuo  di  tale  specie  —  ha  per 
lo  meno  sei  diverse  voci: 

due  d'appello  (una  più  specialmente  propria  a  quando  spicca 
il  volo,  e,  in  generale,  a  quando  vola  —  l'altra  a  quando  si  posa), 

queDa  d'amore  o,  meglio,  canto  d'amore, 

quella  di  dolore,  tagliente  (che  nel  fringuello  pare  uguale  a 
quella  di  spavento), 

quella  propx'ia  del  pulcino,  cioè  del  fringuello  appena  nato 
(la  quale,  molto  somigliando  al  grido  del  passero,  è  detta  pas- 
serino), 

e  una  sesta  della  quale  non  si  saprebbe  indicare  con  sicu- 
rezza lo  scopo  ").  Alcuni  fringuelli  poi  hanno  ancora  due  altre 
voci,  delle  quali  se  una  pare  sia  Finvito  fatto  dal  fringuello  ma- 
schio e  adulto  ai  piccoli  ad  uscir    dal    nido  e    seguirlo,  l'altra  si 


'j  Lo  squittire  delle  tordelle,  ad  esempio,  pare  che  sia  appunto  una 
espressione  di  grande  contentezza.  Vedasi  Chenu,  op.  cit.,  IIP,  7.  Però 
la  dev'essere  anche  di  dolore,  poi  che  più  volte  la  sentimmo  emessa 
da  tordelle  ferite. 

'^)  Alludiamo  a  quel  mormorio  che  comunemente  si  crede  essere  il 
canto  di  primavera  gorgheggiato  a  voce  bassa  e  non  chiara,  poi  che 
viene  emesso  almeno  per  una  quindicina  di  giorni  prima  del  vero  canto 
spiegato,  ma  che  in  realtà  ha  così  poca  somiglianza  al  canto  che  torna 
lecito  supporre  abbia  lo  scopo,  piìi  che  di  risvegliare  la  memoria,  di 
ammorbidire  e  rendere  agili  le  corde  vocali,  nel  lungo  silenzio  del- 
l'inverno fatte  pigre  e  dure. 


460  G.    BONELLI 

capisce  ancor  meno  e  può  ritenersi  tutt'al  più  come  un  grido  di 
ricerca  e  quasi  di  vaga  interrogazione  *).  '        • 

VI".  —  Non  ci  soddisfa  la  spiegazione  del  RoUand  (op.  e  voi. 
cit.,  pag.  230)  :  "  on  l'appelle  ainsi  parce  qu'il  est  censé  chanter: 
compère  loriot  „  ;  ci  sembra  impossibile  che  con  tali  due  parole 
si  sia  voluto  rendere  il  canto  del  golo  '^).  Penseremmo  piuttosto 
che  anche  l'uso  del  nome  compare  quale  adiettivo  di  questo  uc- 
cello si  deva  attribuire  a  quello  spirito  di  famigliarità  col  quale 
l'uomo  considera  e  tratta  le  co§e  che  più  da  vicino  lo  circondano 
come  altrettanti  suoi  famigliari  ^),  Infatti  se  anche  oggi  indaghiamo 
quale  preciso  sig^iificato  abbia  il  nome  di  compare  quando  non  è 
usato  nel  senso  di  padrino,  troveremo  che  esso  indica  sempre  qual- 
cuno che  sta  dietro,  che  vien  dopo,  passato  il  pericolo  o  la  fatica, 
a  godersela  generalmente  alle  spaUe  altrui  ;  ed  ecco  che  allora  si 
offre  spontanea  la  supposizione  che  al  contadino  o,  meglio,  all'or- 
tolano, deva  essere  uscito  di  bocca  quale  adiettivo  al  golo  il  no- 
mignolo di  compare,  come  a  quell'ospite  che,  senza  avere  nessun 
diritto,  non  manca  mai  di  capitare,  quasi  a  mensa  imbandita,  nel 
di  lui  campo,  tosto  sian  mature  le  ciliegie  o  i  fichi. 


')  Un  mio  fringuello  sovente  smette  il  canto  d'amore  e  attacca  questo 
altro  (che  vien  pure  emesso  solo  nel  periodo  dell'amore)  se  colla  voce 
gli  imito  il  grido  di  passo.  Però  tale  osservazione,  per  quanto  più  volte 
ripetuta,  non  può  avere  molta  importanza,  perché  fatta  in  condizioni 
artificiali,  cioè  su  di  un  fringuello  prigioniero,  in  uno  stato  quindi 
nel  quale  va  perduta  la  genuina  rispondenza  del  canto  al  sentimento. 

—  Infatti,  per  continuar  a  parlare  dei  fringuelli,  non  è  raro  che  essi, 
mentre  che  dalla  loro  gabbia  allegramente  sfringuellano,  senza  nes- 
suna ragione,  d'improvviso  sospendano  il  canto  per  attaccare  i  più 
sgradevoli  sibili  di  spavento  e  insistervi  per  qualche    buon  minuto. 

—  (Intorno  al  linguaggio  degli  uccelli  vedi  anche  la  traduzione  te- 
desca dell'opera  di  Gaexer,   The  speech  of  Monkeys  fatta  da  Marshall). 

^)  Tale  spiegazione  non  si  può  accettare  non  foss'altro  perché  fa- 
rebbe credere  che  anche  la  parola  "  loriot  „  sia  stata  foggiata  a  ri- 
trarre il  canto  dell'uccello,  mentre,  come  lo  stesso  Rolland  conviene 
e  spiega,  non  è  che  una  derivazione  della  voce  latina  aureohis. 

')  Si  ricordi  l'uso  della  parola  "  amico  „  per  indicare  "  furbo  che 
se  la  gode  ,,  e  la  locuzione  "  è  qui  l'amico  „,  dove  l'amico  è  il  gatto 
0  il  cane  che  si  fa  avanti  e  vuol  qualcosa  da  rosicchiare. 


I    NOMI   DEGLI    UCCELLI    NEI    DIALETTI    LOMBARDI  461 

YII''.  —  Uno  sguardo  all'opera  del  Rolland,  e  subito  si  ri- 
leva quanto  imaginosamente  i  francesi  abbiano  ritratto  e,  come  si 
suol  dire,  interpretato  i  canti  degli  uccelli;  le  nostre  poche  locu- 
zioni e  aneddoti,  a  confronto  delle  loro  poesie,  ritornelli,  proverbi, 
leggende,  sono  ben  misera  cosa. 

Ora,  che  la  causa  di  questo  fatto  sia  proprio  da  vedere  tutta 
in  una  maggiore  spigliatezza  della  fantasia  del  popolo  francese  non 
crederemmo,  poiché  ci  pare  che  anche  la  stessa  lingua  francese 
vi  abbia  non  poco  cooperato.  Chi  infatti  vorrà  negare  che  a  petto 
dell'italiana  non  sia  la  francese  co'  suoi  numerosi  e  frequenti  dit- 
tonghi e  colle  sue  parolette  brevi  di  gran  lunga  più  armoniosa  ? 

Gli  è  quindi,  secondo  noi,  per  questo  motivo  che  i  nostri  vicini 
d'oltr'alpe,  se  colla  fantasia  hanno  saputo  sì  graziosamente  rica- 
mare attorno  alle  abitudini  e  costumi  degli  uccelli,  hanno  anche 
spesso  tentato,  e  non  sempre  infelicemente,  di  renderne  il  canto 
con  argute  frasi  onomatopeiche. 

Chi,  ad  esempio,  non  conosce  l'allodola,  quella  musicista  dei 
campi,  che,  tranne  i  giorni  più  cupi  del  più  freddo  inverno  e,  nella 
state,  l'ore  della  maggior  canicola,  sempre  li  allegra  di  sue  vibranti 
note;  che  comincia  il  melodioso  canto  nel) 'alzarsi  lentamente  a  volo, 
per  non  cessarlo  se  non  quando,  d'improvviso,  quasi  da  folgore 
colpita,  a  terra  ritorna?  Ebbene  l'allodola,  mentre  in  Italia,  che 
noi  almeno  si  sappia,  a  nessuna  ben  diffusa  leggenda  ha  dato  ori- 
gine, né  col  suo  volo  ardito,  né  col  suo  armonioso  canto,  in  Francia 
invece  trova  graziosamente  e  iu  varia  guisa  quello  spiegato  e  questo 
reso  e  in  racconti  e  in  locuzioni  e  in  proverbi.  Si  pretende  infatti 
colà,  ad  esempio,  che  l'allodola  cominci  il  suo  canto  pregando  Dio 
di  lasciarla  salire  e  promettendogli  di  non    più    bestemmiarlo  — 

jìirara'i  jm,  jurarai  pìi,  Dioìi —  ma  che    appena    arrivata    in 

alto,  acciecata  dal  suo  orgoglio,  torni  al  peccato  antico,  onde  Iddio 
sdegnato  di  nuovo  la  precipita  al  basso:  —  coìitre ! coutre !  — 

Così  pure,  perché  mai,  quasi  unica  eccezione,  mentre  tutti  gli 
uccelli  dormono,  l'usignuolo  rompe  colla  sua  potente  voce  gli  alti 
silenzi  della  notte?  —  Nessuna  spiegazione  trovo  data  di  questo 
fenomeno  naturale  dal  popolo  in  Lombardia  *);  nella  Francia  in- 


')  Una,  per  verità,  vi  è,  ma  pochissimo  ditt'usa  ;  ed  è  quella  data 
dalla  frase  bresciana  a  intento,  per  così  dire,  onomatopeico,  poi  che 
anche  vuol  ritrarre  il  canto  dell'usignuolo  :  camiza  curta,  braga  lónga, 


462  G.   BONELLI 

vece  ecco  la  fantasia  popolare  creare  o  almeno  appropriarsi  la  gra- 
ziosa Tavoletta  che  spiega  la  veglia  dell'usignuolo  narrando  conae 
questi  una  notte,  essendosi  esso  pure  addormentato,  l' insidiosa 
vitalba  ')  lo  abbia  crudelmente  allacciato  nelle  sue  spire,  ed  ecco 
anche  la  favella  duttile  prestarsi  a  renderne  il  lamentevol  canto  : 

Dormirai  pu,  dormirai  pu,  p)u,  pu me  toursonna'io  ìa  vi. 

(Né  si  creda  per  quanto  siamo  ora  venuti  dicendo  che  i  fran- 
cesi conoscano  bene  l'avifauna  e  meglio  di  noi,  che,  al  conti'ario, 
i  nomi  stessi,  coi  quali  indicano  le  varie  specie,  lasciano  ben  ca- 
pire come  superficiale  non  solo,  ma  confusa  e  incerta  sia  nel  po- 
polo di  Francia  la  conoscenza  degli  uccelli.  Quanti  nomi  indiffe- 
rentemente usati  per  indicare  specie  diversissime!  Che  enormità 
dire  beccafico  —  becfigue    -  Yanihus  arboreusl)'^). 


donnarés  antèra  (volentieri),  tua  go  póra  di  bis,  bis,  bis...,  nella  quale 
(che  riteniamo  posteriore  a  quella  altrove  ricordata  —  camizi  cUrt, 
ciirt,  ecc.,  —  poi  che  pure  in  questa,  ma  senza  verun  nesso  logico,  ri- 
corre il  pensiero  della  camicia  corta)  è  certo  a  notare,  come  suppo- 
sizione felice,  il  timore  dell'usignuolo  di  cader  preda  di  qualche  biscia 
insidiosa,  giacché,  se  dobbiam  credere  a  quanto  si  narra,  la  stessa 
vipera,  leggermente  tremolando  la  propria  lingua,  riesce  a  trarre  a 
sé  l'usignuolo,  che,  credendo  di  scendere  a  beccare  un  verme,  le  si 
getta  e  caccia  in  gola. 

*)  È  questa  pianta  una  rampicante,  e  precisamente  la  ranuncolacea 
clematis,  detta  "  erba  dei  poveri  „  poi  che  per  un  principio  caustico 
della  sua  clorofilla,  se  viene  sfregata  sulla  pelle,  in  breve  tempo  vi 
fa  sorgere  vesciche  che  s'aprono  in  piaghe,  le  quali  senza  essere  molto 
dolorose,  dispongono  a  compassione  chi  le  vede  ;  e  alcuni  poveri  la  co- 
noscono bene  (bresc.  idàse  *viddse  =  ritaccie). 

^)  Così  pure  non  crediamo  di  poter  condividere  il  giudizio  di 
H.  CoupiN(in  Revue  scienti  fi  qu  e,  Le  chant  des  oiseaux,  ìslsc.  20  a\)vi\e 
e  4  maggio),  che  solo  in  Francia  si  sia  tentato  d'imitare  il  canto 
degli  uccelli.  Esso  ci  sembra  un  po'  troppo  esclusivo,  e  qualcosa  son 
pure  —  per  tacere  dei  ritornelli  e  delle  frasi  colle  quali  anche  da  noi 
si  tentò  di  rendere  alcuni  gorgheggi,  frasi  e  ritornelli,  per  conoscere 
i  quali  il  detto  studioso  non  ha  che  da  scorrere  l'opera  dell'illustre 
folklorista  di  Francia,  il  Rolland,  che  quasi  di  continuo  noi  abbiamo 
citata  —  qualcosa  son  pure,  diciamo,  le  espressioni  dialettali  bresciane 
baia  e  guind  delle   tordelle,  binda   del  verdone,  ciopezd   e   fincià   del 


I   NOMI   DEGLI   UCCELLI   NEI   DIALETTI    LOMBARDI  463 

Vili"'.  —  Di  tutti  gli  uccelli  uno  dei  più  noti  è  di  sicuro  il 
tordo;  già  Marziale  e  Orazio,  per  non  dire  che  di  due  soltanto, 
ne  parlavano  con  compiacenza,  e  meritamente  sentenziavano  in  suo 
favore  : 

Inter  aves  turdus,  si  quis  me  iudice  cevtet, 
Inter  quadrupedes  gloria  prima  lepus. 

(Marziale). 
Obeso  nil  melius  turdo. 

(Orazio). 

Eppure  è  proprio  il  tordo  uno  degli  uccelli  che  si  conoscon  meno, 
giacché,  oltre  a  non  esservi  per  lui,  finora,  nessunissimo  criterio  che 
insegni  a  distinguere  gli  individui  maschi  da  quelli  femmine,  ci  offre 
un  particolare  grido,  del  quale  quanto  bene  conosciamo  gli  effetti, 
altrettanto  è  difficile  spiegare  la  causa.  Tale  grido  è  il  chioccolio 
che  il  tordo  emette  quando,  prigioniero,  gli  si  mostri  la  civetta 
0  gli  compaia  improvvisamente  dinanzi  alcuna  persona,  quando 
insomma  qualche  spauracchio  gli  si  appresenta  ;  onde  parrebbe  di 
dover  subito  concludere  essere  tale  grido  la  sua  espressione  del 
timore,  se  due  considerazioni  non  facessero  difficoltà;  l'una  che  già 
un  altro  è  veramente  suo  grido  di  paura,  la  seconda  che  al  chioc- 
colìo i  tordi  anziché  fuggire  come  sembrerebbe  verosimile  se  fosse 
un  grido  di  timore,  accorrono  subito,  sempre  e  tutti,  e  cercano 
d'andare  proprio  là  d'onde  il  grido  è  partito.  Dunque?  allora  cosa 
vuol  significare?  '). 


fringuello,  éipà  o  sipà  del  tordo,  cridà  delle  tordine,  cnigià  o  grucià 
del  montanello,  grinà  del  tordo  sassello,  martelà  del  frusone,  piketà 
del  pettirosso,  p/«««  dell'allodola,  sìjbià  del  merlo,  le  quali — e  certo 
non  saranno  esse  sole  le  italiane  —  in  un  vocabolario  della  lingua 
ornitologica,  ben  potrebbero  stare  a  paro  delle  francesi  roucouler 
della  tortora,  coucailler  della  >5Uàglia,  croasser  del  corvo,  coucouler 
del  cuccio,  jmpider  dell'upupa,  tintinrr  della  cingallegra  e  turluter 
dell'allodolino. 

')  Riconosciamo  noi  per  i  primi  che  quando  parliamo  degli  animali 
e  ci  abbandoniamo  alle  ipotesi  sulle  cause  dei  loro  atti,  abitudini, 
costumi,  siamo  inconsapevolmente  tratti  in  un'  insidia,  in  quella  di 
supporre  che  anche  gli  animali  abbiano  le  nostre  passioni  o  almeno 
che  queste   e  queste  sole  possansi  dare  tra   di  essi:   in  altre  parole 


464  G.    BONELI.l 

Persomi  molto  avvisata  in  simili  cose,  e  che  abbiamo  in  pro- 
posito interrogato,  ci  espresse  il  dubbio  che  esso  non  corrisponda 
a  un  senso  di  allegra  maraviglia  che  il  tordo  proverebbe  alla  vista 
della  cosa  strana  che,  per  la  prima  volta  o  quasi,  dinanzi  gli  si 
agita.  Ma  è  mai  ciò  possibile V  che  un  povero,  timidissimo  uccello  ') 
da  qualche  ora  o  tutt'al  più  da  un  giorno  prigioniero  in  piccola 
gabbiuzza,  o  che  ancora  trovasi  di  sorpresa  ingarbugliato  nella  rete, 
digiuno,  possa  concedersi,  per  così  dire,  il  divertimento  di  abban- 
donarsi a  festose  esclamazioni  alla  vista  dell'odiata  civetta  ''')  o  del 


siamo  tratti  a  riflettere  i  nostri  sentimenti  anche  fuori  di  noi  e  pre- 
tendiamo di  spiegare  al  lume  di  essi  pur  la  vita  del  restante  mondo 
animale.  Così  ora  nel  quesito,  per  così  dire,  di  psicologia  ornitologica 
che  ci  siamo  proposti,  l'insidia  suddetta  ci  conduce  a  parlare  di  paura, 
affetto,  allarme,  contento,  terrore,  ecc.  e  cioè  di  emozioni  e  sentimenti 
che  mentre  sono  a  noi  propri,  nessuno  ci  può  assicurare  corrispondano 
anche  agli  stati  d'animo,  se  la  parola  non  è  troppo  grossa,  degli  uc- 
celli. Ma  d'altra  parte,  se  vogliamo  intenderci,  è  pur  necessario  pro- 
cedere per  verisimiglianza  e  analogia;  e  quindi,  poi  che  sembra  evi- 
dente che  i  principali  sentimenti  nostri  si  trovano  anche  negli  altri 
animali,  usiamo  pure  per  essi  delle  parole  corrispondenti,  fatti  però 
guardinghi  a  non  prenderle  che  come  espressioni  generali,  e  a  non 
escludere  che  altre  emozioni  si  possano  dare,  ad  es.  negli  uccelli, 
che  noi  non  abbiamo. 

')  La  timidezza  dei  tordi  è,  presso  i  Sardi,  addirittura  proverbiale. 
Infatti,  in  quello  specchio  fedele  della  vita  del  montanaro  sardo  che 
sono  i  romanzi  di  Grazia  Deledda,  più  e  più  volte  ricorre  il  nome 
di  tordo  fatto  sinonimo  di  persona  timida  ;  vedansi  ad  es.  le  frasi  : 
"  Aquile,  bisogna  essere,  non  tordi  „  —  "  Sei  giovine,  sei  sano,  va  e 
guarda  in  faccia  la  vita:  sii  aquila,  non  tordo  „  —  "  Bisogna  essere 
uomini,  bisogna  essere  aquile  e  non  tordi  ,  (Elias  Portolu,  eap.  VI). 

^)  Nessuno  certo  dubiterà  essere  la  civetta,  come  del  resto  tutti  i 
rapaci,  dagli  uccelli  odiata,  i  quali,  se  anche  prima  non  la  conobbero, 
quando  nelle  sue  notturne  spedizioni,  aiutata  dal  traditore  silenzio 
delle  morbide  penne,  va  a  spopolare  i  nidi,  pure,  grazie  a  quel  prov- 
vido intuito  0  segreta  intelligenza  che  si  suole  chiamare  istinto,  tosto 
la  vedano,  tosto  sentono  in  essa  il  loro  nemico  :  nemico  però  di  giorno 
non  temuto,  che  anzi  beffato,  come  quello  i  cui  occhi  soltanto  nella 
tenebra  sanno  discernere,  e  quindi  son  fatti  ciechi  alla  luce  del  sole. 
(I  moti  che  la  civetta  fa  colla  testa,  e  che  tornano  a  chi  li  vede  tanto 
goffi  e  ridicoli,  altro   non  sono  che  tentativi    da   parte   della   povera 


I    NOMI    DEGLI    UCCELLI    NEI    DIALETTI    LOMBARDI  465 

crudele  che  viene  a  schiacciargli  la  testa?  Ma  allora  perché,  quando 
è  libero,  alla  vista  dell'uomo,  tosto,  immancabilmente,  fugge  ? 

Sarà  un  grido  d'allarme  implorante  soccorso.  —  A  nostro  av- 
viso neppure  questa  congettui'a  è  possibile  ;  poiché,  pur  lasciando 
da  parte  che  noi  non  conosciamo  nei  nostri  uccelli  nessun  vero 
grido  d'aiuto  *),  e  quindi  non  ci  è  permesso  supporre  tale  questo 


cieca  di  sottrarsi  allo  sfolgorio  che  la  offende.  Ei-ra  quindi  chi  li  crede 
frutto  di  apposito  ammaestramento).  È  perciò,  pare  a  noi,  un  senti- 
mento di  rivincita  quello  che  anima  gli  uccelli  (in  modo  speciale  le 
Sjjltnae  e  gli  Erithachi)  quando,  di  giorno,  vedendo  la  civetta,  anziché 
fuggire,  vi  accorrono  e  con  petulanza  le  volano  dattorno  e  le  sbat- 
tono le  ali  sul  viso;  è  lo  spirito  di  vendetta  che  fa  sua  comparsa 
anche  in  questo  piccolo  mondo. 

(E  tale  spirito  è  probabilmente  la  causa  anche  del  codazzo  di  allo- 
dole più  0  meno  numeroso  che  di  solito  accompagna  i  falchi  e  le 
poiane,  codazzo  però  che  sempre  sovrasta  il  rapace  e  sta  attento  a 
non  mai  avvicinarglisi  di  troppo,  più  ancora,  a  non    venirgli   sotto). 

')  Veramente  lo  Chenu  (op.  cit. ,  IIII,  p.  120j,  trattando  delle  cin- 
gallegre —  mésanges  —  scrive  che  esse,  quando  sono  prese,  mordono 
vivamente  le  dita  dell'uccellatore  :  *  les  frappent  à  coups  de  bec  re- 
doublés  et  rappellent  à  grands  cris  les  oiseaux  de  leur  espèce,  qui 
accourent  en  foule  „,  ecc  ;  cosa  però  della  quale  noi  non  sapremmo 
attestare,  e  che  ci  sembra  si  possa  forse  spiegare  colla  semplice  ten- 
denza dei  singoli  individui,  più  o  meno  viva  secondo  le  diverse 
specie,  ma  vivissima  appunto  nelle  cingallegre  (come,  in  generale,  in 
tutti  gli  uccelli  che  di  solito  viaggiano  a  coppie),  a  non  mai  lasciarsi  ; 
onde  in  realtà  quando  un  qualsiasi  cacciatorello,  di  due  cingallegre 
ne  ha  preso  una,  novanta  volte  su  cento  prende  anche  l'altra,  poi  che 
questa  non  sa  staccarsi  dal  luogo  ov'è  arrivata  colla  compagna,  e 
quindi  non  si  allontana,  ma  torna  sulla  stessa  pianta,  sullo  stesso 
ramo,  ove,  come  appunto  poco  prima  la  sua  compagna,  cade  anch'essa 
a  sua  volta  vittima  o  prigioniera. 

Così  delle  averle  si  potrebbe  forse  pensare  che  abbiano  un  grido 
d'aiuto,  poi  che  tormentandone  una  in  modo  che  strilli,  se  altre  ve 
ne  sono,  tosto  compaiono.  Ma  anche  qui  non  oseremmo  affermare  sia 
il  grido  una  vera  invocazione  d'aiuto,  poi  che  anche  quando  sono 
libere  le  averle  lo  emettono  ben  di  frequente  (cfr.  il  n.  napol.  qué- 
rold)  nei  loro  non  radi  alterchi  (cfr.  il  n.  mant.  gaza  rabida)  vuoi  per 
il  possesso  di  una  femmina,  o  per  le  solite  riluttanze  di  questa  ai 
violenti  desideri  dei  maschi,   vuoi  per  altro  ;  onde    si    può    supporre 


466  G.   BONELLI 

del  tordo,  ma  grida  di  sémplice  allarme  (insigni  esempi  ce  li  of- 
frono i  corvi  e  gli  storni,  nei  quali  si  hanno  anche  vere  e  proprie 
scolte),  come  va  che  i  tordi,  mentre  accorrono  al  chioccolìo,  fug- 
gono quando  sentono  strillare,  cioè  quei  gridi  che  davvero  sono 
di  paura  e  di  dolore?  Ma  se  il  tordo  avesse  un  gi-ido  col  quale 
far  venire  in  aiuto  i  suoi  compagni,  di  certo,  anziché  vanamente 
strillare,  questo  emetterebbe  quando,  ad  esempio,  ferito  in  un'ala 
non  può  sfuggire  al  cacciatore  che  viene  a  prenderlo,  o  quando 
già  la  callosa  mano  lo  stringe  del  villano  uccellatore. 

Né  maraviglia  adunque,  né  desiderio  d'aiuto  esprime  il  tordo 
allorché  manda  tale  grido.  Cosa  vorrà  quindi  esso  dire?  —  Non 
crediamo  di  esser  noi  quelli  che  riuscu-emo  a  dare  una  spiega- 
zione che  tutti  persuada,  e,  paghi  di  aver  esposta  la  questioncina, 
ce  ne  staremmo  zitti,  se  una  ipotesi,  per  quanto  strana  e  ardita, 
non  ci  si  presentasse  con  insistenza  alla  mente  quale  spiegazione 
possibile  e  forse  unica. 

Anzitutto  noi  osserviamo  che  il  tordo  allo  stato  libero  di  na- 
tui'a  chioccola  pochissimo:  di  solito  appena  quando  attacca  i  gor- 
gheggi d'amore,  e  qualche  volta  quando  rinviene  taluno  di  quegli 
utilissimi  vermi  che  sono  i  lombrici,  i  quali  tornano  a  lui  cibo 
tenero,  abbondante  e  sopra  tutti  squisito  ')  ;  e  che  se  pare  che 
allo  stato  libero  quasi  tutti  i  tordi  emettano  a  mezza  voce  tale 
grido,  gli  è  cosa  provata  che  artificialmente  si  riesce  a  provocarlo 
solo  in  pochissimi  (a  taluni  con  un  mezzo,  ad  es.  colla  civetta; 
ad  altri  con  un  altro,  ad  es.  agitando  loro  dinanzi  e  da  vicino 
un  fazzoletto  quasi  con  esso  li  si  volesse  colpire)  ;  e  inoltre  che 
anche  questi  pochissimi  che  si  è  riesciti  a  far  chioccolare  non  tutti 
però  ripetono  tale  grido,  ma,  a  intervalli  di  pochi  istanti,  lo  cam- 
biano in  quello  di  terrore,  nel  quale  appresso  sempre  poi  per- 
sistono. 


che  anche  quando  accorrono  al  grido  di  una  loro  simile  ferita,  cre- 
dano piuttosto  di  venire  a  prender  parte  a  una  contesa  o  a  un  gioco, 
anziché  di  portare  aiuto.  E  del  resto  a  che  servirebbe  negli  uccelli 
siffatta  tendenza?  Potrebbe  realmente  mai  un  uccello  soccorrere  un 
altro  uccello? 

')  Chi  conosce  il  lombrico  capirà  tosto  come  sia  lecito  supporre  nel 
grido  del  tordo  che  lo  vede,  da  corto,  tutto  snodandosi,  quasi  incre- 
dibilmente allungarsi,  anche  l'espressione  d'un  senso  di  maraviglia,  e, 
vorremmo  dire  se  la  parola  non  fosse  troppo  umana,  di  riso. 


I   NOMI   DEGLI    UCCELLI    NEI   DIALETTI    LOMBARDI  467 

Ora  :  se  la  prima  avvertenza  non  ci  lascia  dubbio  che  il  chioc- 
colìo è  per  sé  grido  di  soddisfazione,  la  seconda  a  noi  pare  sug- 
gerire che  esso,  quando  provocato  artificialmente,  altro  non  sia 
che  grido  sbagliato  cioè  emesso  invece  di  quello  di  spavento.  Ed 
ecco  allora  spiegato  come  non  lo  mandino  tutti  i  tordi,  e  quelli 
pm-e  che  lo  emettono  dopo  qualche  tempo  lo  cambino  in  quello 
di  spavento,  e  come  ad  esso  gli  altri  tordi  accorrano  in  fretta  e 
quasi  avidamente.  Ed  ecco  anche  il  perché,  mentre  noi  stessi  ab- 
biamo dianzi  notato  che  la  nostra  congettura  sapeva  di  ardito  — 
poi  che  il  dire  che  la  natura  sbaglia  non  può  a  meno  di  colpire 
e  parere  temerità  *)  —  pure,  considerata  la  natura  del  tordo  quale 
è  timidissima,  e  come  l'uomo  stesso,  allorquando  è  colpito  da  im- 
provviso spavento,  emette  grida  inarticolate,  voci  che  per  signi- 
ficato punto  non  rispondono  all'occasione,  in  altre  parole,  non  sa 
piìi  quel  che  dice  né  quel  che  fa,  non  ci  è  poi  sembrata  tale  nostra 
congettura  tanto  inverosimile  da  non  poter  venir  presa  in  qualche 
considerazione  ^). 

D'"    GrIUSEPPE   BONELLI. 


*)  Però  è  tutta  questione  d'intendersi.  Anche  il  dire  che  non  è 
vero  che  la  natura  non  faccia  salti,  potè  sembrare  audacia  senza 
pari;  ma  quando  si  dichiarò  che  sostenendo  che  anche  nella  natura 
si  diano  salti,  altro  non  s'intende  dire  se  non  che  nella  serie  dei  fe- 
nomeni tali  se  ne  presentano  per  l'intervento  di  misteriose  cause 
nuove,  che  non  sarebbe  stato  possibile  prevedere,  poi  che  troppo  di- 
versi dai  loro  precedenti  (ricordinsi  ad  es.  i  gatti  senza  coda  del- 
l'isola Man,  le  pecore  merinos  dalla  lana  in  modo  straordinario  fioc- 
cosa e  delicata),  tosto  si  comprese  non  essere  già  un'eresia  quanto 
si  affermava,  ma  verità  sicura  e  ferma  al  pari  di  tante  altre. 

Così  nel  caso  nostro,  le  leggi  di  natura  si  presuppongono  violate 
solo  apparentemente  ;  poiché  non  è  forse  pur  naturale  che  talora  anche 
nel  bruto,  quando  estremamente  atterrito,  cessi  la  rigorosa  con-ispon- 
denza  dei  gridi  alle  emozioni  ?  —  E  del  resto,  non  si  sbagliano  gli 
uccelli,  quando,  vedendosi  di  lontano,  si  credono  della  medesima 
specie  e  si  chiamano  —  ad  es.  i  tordi  le  allodole,  le  pispole  i  frin- 
guelli —  per  tosto  cessare  dal  canto  appena  si  siano  riconosciuti  di 

specie  diverse  ? 

^)  Il  Filippini,  nel  già  citato  suo  articolo  intorno  agli  usi  venatori 

del  Folignate  (Arch.  per  le  trad.  pop.:  fascic.  IP,  1899),  dopo  aver 


468         G.   BONELLI    -    I    NOMI    DEGLI   UCCELLI   NEI    DIALETTI    LOMBARDI 

detto  che  per  la  caccia  ai  tordi  occorrono  anche  delle  civette,  osserva 
che  queste  per  sé  non  sono  richiami,  ma  che  l'uccellatore  se  ne  serve 
come  di  spauracchi  insieme  con  qualche  falco  per  far  squagliare  i 
tordi  che  sono  in  gabbia,  onde  quelli  che  passano,  credendo  di  es- 
sere inseguiti  da  qualche  animale  di  rapina  scendano  e  s'infrattino 
nel  boschetto.  —  Abbiamo  qui,  come  si  vede,  una  nuova  spiegazione, 
la  migliore  forse  di  tutte  quelle  finora  proposte,  per  quanto  non  ci 
dichiari  come  un  grido  per  sé  di  gioia  venga  emesso  sotto  l'impres- 
sione dello  spavento,  come  mai  i  tordi  all'udire  questo  grido,  appunto 
per  isfuggire  l'immaginato  pericolo,  accorrano  proprio  là  donde  esso 
è  partito  (e  non  quale  allarme  di  pericolo  lontano,  ma  quale  espres- 
sione di  pericolo  vicino),  e  fuggano  invece  quando  sentono  quello 
solito  e  vero  di  paura. 


BULLETTINO  BIBLIOGRAFICO 


RECENSIONI 

A.  Zenatti,  Il    trionfo  d'Amore   di    Francesco   da  Barberino,  Catania, 
Tip.  Sicula  di  Monaco  e  Mollica,  1901. 

Nei  fascicoli  di  luglio  ed  agosto  della  Rirista  d'Italia,  l'A.  aveva 
già  inserito  un  suo  studio  sul  Trionfo  d'Amore  ed  altre  allegorie  di 
F.  da  Barberino,  nel  quale  tratteggiava  la  figura  di  questo  poeta, 
cresciuto  in  mezzo  all'artistica  e  fine  società  fiorentina,  mostrandocelo 
in  relazione  col  tempo  suo,  dando  qualche  cenno  dell'influenza  che 
su  lui  poterono  avere  i  moralisti  francesi,  e  soprattutto  studiando  il 
concetto  che  egli  ebbe  dell'amore  in  rapporto  a  quello  di  altri  poeti 
e  filosofi  del  periodo  delle  origini;  lavoro  specialmente  notevole  per 
molte  osservazioni  argute  e  geniali,  per  copiosi  ed  utili  riscontri, 
ed  alcune  notizie  nuove.  L'autore  si  è  fermato  specialmente  a  trat- 
tare della  figurazione  d'Amore  e  degli  attributi  che  il  Barberino  dà 
al  dio.  Ed  io  non  intendo  rivolgergli  rimpi-overo  per  ciò  che  non  ha 
voluto  fare;  ma  dirò  tuttavia  che  è  rimasto  in  me  insoddisfatto  il 
desiderio  di  veder  da  lui,  che  mostra  tanta  competenza  nel  trattar 
codesto  argomento,  toccata  anche  un'altra  questione  che  non  credo 
sia  stata  ancor  posta.  Donde  venne  al  Barberino  la  concezione  del 
Trionfo  quale  è  rappresentato  nel  codice  originale,  con  Amore  caval- 
cante per  gli  azzurri  del  cielo  e  con  quella  serie  ordinata  di  persone 
raffigurate  in  basso,  in  atto  di  ricevere  i  colpi  del  dio?  Oltre  il  con- 
fronto con  l'altro  trionfo  del  Barberino,  quello  di  Morte,  sarebbe 
stato,  credo,  specialmente  interessante,  a  proposito  di  codesta  rap- 
presentazione di  messer  Francesco,  il  cercare  donde  essa  deriva  e 
qual  posto  viene  a  prendere  nella  storia  della  figurazione  del  trionfo.  A 
buon  conto  il  Trionfo  di  Morte  avrebbe  potuto  richiamare  alla  mente  le 
danze  macabre,  dalle  quali  può  essere  derivato  l'uso  delle  rappresen- 
tazioni pubbliche  dei  trionfi,  così  di  Morte  come  anche  d'Amore;  "  che 
—  per  dirla  con  lo  Zenatti  stesso  —  Amore  e  Morte  ijon  vanno  in- 
sieme solo  nei  versi  del  Leopardi  „. 

La  nuova  pubblicazione  dello  Zenatti,  fatta  co'  tipi  della  Tip.  Si- 
cula di  Catania,  ci  mostra  soltanto  una  redazione  anteriore  dello 
stesso    studio,  di   cui   finora  s'è  discorso.  È  un   tardivo  omaggio  per 

Sladj  di  filologia  romanea,  IX.  30 


470  BUI.LETTINO    HIULIOGUAFICO 

nozze;  e  trova  principalmente  in  ciò  la  sua  ragione;  poiché  ili  nuovo 
essa  contiene  soltanto  parecchie  note,  ed  oltre  alcuni  estratti  del  com- 
mentario inedito,  l'edizione  del  testo,  quale  è  dato  nel  cod.  barherino 
oi'iginale,  e  che  l'autore  chiama  "  il  testo  del  Trionfo  ,.  Ma  sebbene 
il  componimento  di  Messer  Francesco  sia  veramente  da  classificare 
tra  i  trionfi,  mi  sembra  tuttavia  che  sarebbe  stato  opportuno  conser- 
vare il  titolo  di  Tractatus  che  ad  esso  dette  il  Barberino  e  che  ci  ri- 
vela il  carattere  didattico  della  composizione. 

Ora  codesto  tractatus  era  già  conosciuto  per  l'edizione  che  nel  1898 
ne  fecero  i  proff.  Federici,  Grimaldi  ed  Hermanin  (Il  trattato  d'Amore 
di  messer  F.  da  B.,  per  Nozze  Gigli-Agostini,  luglio  moccciic,  Roma, 
Forzani);  e  sebbene  gli  editori  sieno  incorsi  in  parecchie  inesattezze, 
come  fu  avvertito  anche  nella  Romania  (gennaio  1899,  pag.  162),  esse 
non  erano  tuttavia  tali  da  far  sentire  il  bisogno  di  una  edizione 
nuova.  Ne  il  nuovo  editore,  che  pure  ha  corretto  molti  passi  errati 
nella  prima  edizione,  è  riuscito  ad  evitare  esso  stesso  alcune  ine- 
sattezze ed  errori  parecchi.  Tra  questi,  spigolando  qua  e  là,  noto  a 
pag.  74  :  "  proprietatis  ad  suhiectum  ,  corr.  :  suhstantiam  ;  pag.  75  : 
"  substinet  illum  in  comis  ,  corr.  :  etiam  equus,  e  a  proposito  di  questo 
lapsus  osservo  che  VA.  ha  una  tendenza  speciale  a  vedere  Amore  in 
atto  di  tirare  pe'  capelli;  infatti  anche  nella  miniatura  che  rappresenta 
Amore  spezzato  e  una  donna  uccisa  dalle  saette  di  Morte  (è  ripro- 
dotta nel  mio  articolo  su  Le  miniature  dei  codd.  barber.  dei  Doc. 
d'Amore,  Estratto  daìV  Arte,  voi.  V,  Roma,  Danesi,  1901,  pag.  31), 
egli  vide  "  Amore a  piedi,  in  atto  di  tirare  una  donna  per  i  ca- 
pelli ^  !  ;  pag.  75  :  "  discurrere,  et  enim  cum  freno  teneri  „  corr.  :  e 
contra;  pag.  87:  "  bonum  voluimus  dare  loqui  ,  corr.:  voluerunt; 
pag.  87  :  "Et  propter  casum  „  corr.  :  pone  ;  pag.  88  :  "  cum  videatur 
et  vulnera  et  rosas  a  latere  „  corr.:  rcicere;  pag.  88:  "et  die  domi- 
cello  :  non  miraris  si  aversitatibus  torqueris  ,  corr.  :  et  die  domi- 
celli  non  curantis,  scilicet  adversitatibus  torqueri;  ecc.  E  cosi  nei 
brani  che  egli  cita  in  nota,  a  pag.  9:  "  tertio  scribentium,  figu- 
rantis  ,  leggi  :  tertio  scribentium  quarto  figurantis  :  pag.  15  :  "  hit 
et  alii  „  corr.:  hinc  et  alii;  ecc.  Ed  anche  nel  testo  italiano,  come 
al  verso  2  della  4''  gobola  dove  l'A.  invece  di  "  toccando  il  duol  ch'è 
tale  „  che  è  la  lezione  buona,  data  anche  dal  Federici,  ecc.,  legge  : 
"  tratando  (V)  il  duol  corale  ,.  Ma  mentre  noto  codesti  errori  mi  attra- 
traversa  la  mente  una  dolorosa  preoccupazione  :  come  potrò  evitarli 
io  nella  edizione  completa  dei  Documenti,  che  .sto  preparando  '?  Che 
gli  errori  sono  inevitabili  nella  copia  di  questo  codice,  scritto  in  let- 
tera minutissima  e  guasto  talora  in  modo  da  richiedere  piuttosto 
l'opera  d'un  divinatore  che  d'un  paleografo. 

Fra  le  note  che  l'A.  aggiunge  nella  seconda  edizione  del  suo  studio. 


RECENSIONI  471 

mi  fermerò  su  quella  a  pag.  10,  nella  quale  egli  riprende  la  questione 
della  data  della  composizione  dei  Documenti,  questione  che  fu  già  am- 
piamente trattata  dal  Thomas  (Frane,  da  B.  et  la  littérature  provengale 
en  Italie  au  m.-d.  Paris,  Thorin,  1883,  pp.  67-72),  il  quale  concludeva 
che  l'opera  fu  scritta  durante  il  soggiorno  del  Barberino  in  Provenza 
(1309-1313).  L'A.  sostiene  l'opinione  opposta,  ammettendo  che  i  Docu- 
menti furono  incominciati  ed  anzi  quasi  compiuti  prima  del  1309, 
riportandosi  a  quanto  disse  il  Renier  (Giornale  st.  della  leti,  ital.,  Ili, 
pp.  98-99),  e  mettendo  di  nuovo  in  campo  la  prova  classica  che  fu 
data  già  nella  sua  edizione  dei  Documenti  dall'Ubaldini;  ed  è  che  il 
Barberino  a  carta  24  ci  dice  che  egli  lavorò  per  ben  16  anni  intorno 
alle  glosse,  le  quali,  non  essendo  posteriori  al  1313,  saranno  state 
incominciate  verso  il  1297,  se  non  prima;  e  il  testo  allora  non  po- 
teva non  essere  già  stato  in  parte  composto.  Ma  sì  il  Thomas  che 
il  Renier  hanno  già  validamente  dimostrato  che  in  quel  passo  non 
si  parla  del  commento  quale  noi  l'abbiamo,  ma  del  materiale  pel 
commento,  che  potè  esser  raccolto  anche  prima  che  i  Documenti  fos- 
sero scritti. 

L'A.  si  illude  sulla  chiarezza  della  questione  che,  secondo  me,  non 
è  affatto  risoluta.  Il  Thomas,  escluso  l'argomento  dell'Ubaldini,  so- 
steneva la  sua  ipotesi  rifacendosi  al  brano  delle  glosse  in  cui  il  Bar- 
berino, scusandosi  di  non  avere  in  Provenza  finito  il  Reggimento  perché 
non  aveva  i  "  quaternos  interlineatos  illius  operis  ,,  afferma  :  "  hec 
michi  ab  amore  iniuncta  proposui  fini  dare  „,  cioè  "  résolut  de  ter- 
miner  les  Doc.  pendant  qu'il  était  en  France  ,  (pag.  68),  ed  aggiunge 
la  testimonianza  dell'altro  passo  in  cui  è  detto  che  il  liber  fu  fan- 
datus  in  Provenza.  Il  Renier  opponeva:  fini  dare  vuol  dir  terminare 
e  per  terminare  bisogna  aver  cominciato;  ed  inoltre  la  parola  firn- 
datus  si  riferisce  al  codice  barberiniano,  non  al  libro  dei  Documenti. 
Ed  aveva  ragione,  quantunque  il  liber  fundatus  in  Provenza  non  sia 
il  cod.  barb.  xlvi-18,  ma  l'altro  cod.  pure  barberiniano  da  me  rinve- 
nuto e  nel  quale  ho  riconosciuto  la  copia  del  poema  eseguita  in 
Francia,  perché  in  essa  sono  i  disegni  di  mano  del  Barberino,  il 
quale  —  secondo  la  sua  stessa  testimonianza  —  non  avendo  colà  tro- 
vato il  pittore  che  lo  intendesse,  dovè  disegnar  da  sé  stesso  le  sue 
allegorie;  e  soggiunge:  "  poterunt  hinc  {cioè  in  Italia)  et  alii  {cioè  i 
pittori  italiani)  meis  servatis  principiis  reducere  meliora  (scilicet  : 
i  disegni  miei)  „.  E  a  proposito  di  questo  brano  il  nostro  A.  seguendo 
la  lezione  erronea  che  ne  dette  il  Thomas,  il  quale  leggeva,  in  luogo 
di  hinc  et  alii,  hii  et  alii,  congettura  che  lì  sieno  indicati  i  pittori 
provenzali  ed  italiani  ed  afferma  che  il  ms.  barb.  xlvi-18  fa  mi- 
niato da  pittori  provenzali  ed  italiani  (pag.  16).  Il  liber  fundatus 
in    Provenza  è  dunque    il  nuovo  cod.  barb.  xlvi-19;  ma  ciò  non   di- 

Studj  di  filologia  romanza,  IX,  30* 


472  BULLETTINO    BIBLIOGRAFICO 

strugge  l'obiezione  del  Eeuier,  perché  il  Barberino  ci  avverte  che 
dell'opera  sua  fece  non  meno  di  quattro  copie,  e  prima  di  questa  ve 
ne  poterono  essere  anche  altre. 

Nulla  dunque  che  ci  dia  una  sicurezza.  11  pni  dare,  che  secondo  il 
Renier  dovrebbe  togliere  qualsiasi  dubbio,  non  ci  parla  chiaro  neppur 
esso,  perché  prova  soltanto  che  messer  Francesco  si  proponeva  di  finir 
l'opera  prima  di  ritornare  in  Italia;  ma  non  eselude  che  ad  essa 
possa  aver  dato  principio  in  Provenza.  D'altra  parte  il  Thomas  stesso 
citava  due  bi-ani  delle  chiose  dove  è  detto  coi  termini  più  precisi  : 
"  Hec  regula  f;icta  fuit  ab  amore  in  terra  de  Bedoino,  in  comitatu 
Venesis  ,  ;  "  in  provincia  Provincie  fuit  hoc  promulgatum  ,  :  ed  io 
aggiungerò  anche  un  terzo  luogo,  sfuggito  al  Thomas,  dove  si  attesta 
che  la  parte  di  Industria  (la  2*  fra  le  12  in  cui  è  divisa  l'opera)  fu 
finita  durante  il  viaggio  per  Carpentras;  il  fatto  è  riferito  all'Industria 
stessa,  che  "  cum  esset  in  cammino  complevit  apud  Carpentraxium 
partem  suam  „. 

Quello  dunque  che  finora  si  pub  affermare  con  certezza  è  solo 
questo:  che  per  lo  meno  dieci  fra  le  dodici  parti  in  cui  si  dividono  i 
Documenti  furono  composte  in  Provenza,  dove  fu  fundata  la  copia, 
miniata  dal  Barberino  stesso,  che  contiene  tutto  il  testo  volgare,  una 
piccola  parte  del  testo  latino,  e,  solo  nella  prima  pagina,  il  commen- 
tario, sebbene  per  esso  si  sia  sempre  lasciato  lo  spazio  vuoto,  che 
"  amor  cui  omnia  presentia  sunt  tempore  promulgationis  documen- 
torum  istorum  previdit  quod  glose  huic  operi  suo  circumponi  debe- 
bant  ,.  Dopo  il  ritorno  dalla  Francia  il  Barberino  compose  il  com- 
mentario e  scrisse  il  codice  barb.  xlvi-18,  che  lo  contiene,  e  fece 
adornare  questa  nuova  e  definitiva  copia  di  finissime  miniature  da 
un  pittore  sicuramente  italiano,  rimasto  finora  ignoto. 

Francesco  Egidi. 

G.  Bertoni,  Nuove   rime  di    Bordello   di   Goito  (Estr.  dal  Giorn.  Stor. 
della  Ietterai,  ital.,  1901,  voi.  XXXVIII). 

Si  afferman  qui  ancor  meglio,  pare  a  me,  l'acume  e  l'assennatezza 
e  disciplina  di  metodo,  di  cui  il  B.  avea  già  precedentemente  dato 
prova.  Parlo  anche  di  assennatezza,  perché  a  proposito  di  Bordello, 
intorno  al  quale  la  curiosità  dei  critici  par  sia  destinata  a  non  mai 
acquetarsi,  non  facile  era  a  chi  aveva  materiale  nuovo  tra  le  mani, 
non  contravvenire  al  senso  della  misura  nel  formare  ipotesi  ed  im- 
postare argomentazioni  :  e  il  B.  non  vi  contravvenne,  a  parer  mio, 
pur  non  essendo  sempre  tali  le  sue  conclusioni  che  il  lettore  abbia 
ad  accontentarsene  pienamente. 

Il  primo  componimento,  qui  pubblicato  e  illustrato  dal  B.,  è  una 
tenzone    tra   Bordello   e  Joanet  [d'Albusson]  ch'egli    crede   composta 


RECENSIONI  473 

alla  corte  di  Azzo  VII  d'Este,  prima  che  l'avventuriero  di  Goito  si 
recasse  a  quella  dei  San  Bonifazio,  quando,  dunque,  egli  era  ancor  gio- 
vanissimo. E  tal  conclusione,  pur  riconoscendo  io  quanto  a  prima 
vista  appaja  probabile  l'identità  del  "  Marqes  ,  del  v.  10  con  quel 
d'Este,  suscita  nell'animo  mio,  che  pur  vorrebbe  accoglierla,  dei  dubbj 
non  facili  a  rimuovere.  L'Albusson  rinfaccia  a  Bordello  la  voce  ch'egli 
*  prende  l'altrui  „,  che  "  la  povertà  lo  conduce  in  giuUeria  „,  che 
"  molto  si  biasima  il  suo  mendicare  in  Lombardia  „  ;  e  Bordello  gli 
risponde  che  "  d'altrui  non  prende  se  non  la  moglie  ,,  che  doni  non 
accetta  se  non  "  per  crescere  giullari  d'arnese  „,  ecc..  E  l'identico 
linguaggio,  d'accusa  e  di  difesa,  risuona  nello  scambio  di  sirventesi 
occorso  tra  Peire  Bremon  e  Sordello,  quando  questi  già  da  molti 
anni  era  in  Provenza  e  vi  s'era  maturato  d'anni,  d'onori  e  di  ric- 
chezze, e  bene  aveva  il  diritto  di  offendersi  e  difendersi  dall'accusa 
d'esser  semplicemente  un  giullare.  Lì  anzi  s'invoca  da  Peire  Bremon 
a  testimoniare  di  ciò  ch'era  stato  Sordello  in  Lombardia  proprio 
Joanet  d'Albusson,  come  ben  ricorda  il  B.,  il  quale  Joanet  qui,  nei 
vv.  Pos  ioglars  non  es,  coni  prezes,  \  Sordel,  antan  draps  del  Marqes  ? 
sembrerebbe  alludere  per  proprio  conto,  come  sull'autorità  di  lui  v'al- 
lude il  Bremon,  a  cose  non  presenti;  e  negli  altri  Sordel,  vostre  men- 
digar  I  Blastn'  om  fori  en  Lombardia  farebbe  cosa  superflua  a  precisar 
la  regione  nella  quale  si  parla  dell'accattonaggio  di  Sordello,  se,  es- 
sendo essa  la  patria  stessa  di  Sordello,  questi  non  ne  fosse  ancor  mai 
uscito. 

Da  una  stanza  poi  d'un  componimento  di  eu  Reforzat,  già  diplo- 
maticamente edita  in  questi  Studi  (fase.  23,  pag.  456),  ed  ora  re- 
stituita in  assai  probabile  lezione,  arguisce  il  B.  come  certa  l'andata, 
alla  quale  io  primo  accennai  per  poi  dubitarne,  di  Sordello  in  Por- 
togallo, non  molto  dopo  la  sua  partenza  d'Italia.  Egli  si  sarebbe  anzi 
precisamente  recato  al  santuario  di  S.  .Jacopo  di  Compostella,  j)er 
quel  caminho  francez,  che  fu  come  il  canale  d'immissione  della  poesia 
di  Francia  e  di  Provenza  nella  penisola  iberica:  e  itinerario  piìi  con- 
veniente per  un  giullare  o  trovatore  non  si  saprebbe  immaginare.  E 
se  la  stanza  va  letta  così  come  il  R.  la  ristora,  se  ne  dedurrebbe 
anche  che  laggiù  capitò  Sordello  dopo  "  aver  fatto  fuggir  di  notte  una 
certa  donna  dal  suo  ostello  ,  ;  e  mi  par  che  esageri  in  prudenza  il 
B.  quando  esita  a  riconoscervi  Cunizza,  Più  ragionevoli  sarebbero  le 
esitazioni  davanti  alla  restituzione,  che  a  ogni  modo  fa  onore  all'a- 
cume di  chi  la  propone,  del  testo:  che  il  v.  3  che  il  B.  legge  q'el 
fes  de  nueg{z)  de  san  albero  fugir,  letto  con  tutta  fedeltà  all'origi- 
nale, qel  fes  d'enuegz  (corr.  de  nueg'ì),  ecc..  darebbe  luogo  a  un  vero 
e  proprio  rivolgimento  di  senso.  Questo  dico,  quantunque  nessun 
più  di  me,  per  congruenza   all'opinione  già  altra    volta    manifestata 


474  BULLETTINO    BIBLIOGRAFICO 

sulle  cause  che  spinsero  Sordello  fuori  d'Italia,  sia  portato  a  ravvi- 
sare nei  versi  di  Reforzat  un'allusione  al  ratto  d'una  donna. 

E  non  meno  importante  per  la  biografìa  del  trovatore  di  Goito  è 
il  frammento,  qui  dato  in  edizione  critica,  del  sirventese  de  Peire  de 
Castelnou  :  due  stanze,  nella  prima  delle  quali  si  loda  il  conte  Beren- 
gario di  avere  ospitato  ed  onorato  nella  propria  corte  *  monsignor 
Sordello  „  :  che  *  se  non  gli  fosse  stato  cortese  ed  amorevole  da  prin- 
cipio, già  non  lo  avrebbe  trattenuto  presso  di  se,  e  non  saprebbe 
uomo  ora  suo  pregio  e  valore  „.  Nella  stanza  che  a  questa  precede,  e  fu 
dal  Bertoni  diplomaticamente  pubblicata  nel  fascicolo  citato  di  questi 
Studi,  a  p.  464,  si  celebra  re  Carlo  che  ha  vinto  in  campo  re  Man- 
fredi: e  non  v'è  bisogno  di  troppo  appuntar  gli  occhi  sul  modo  come 
dall'una  all'altra  si  trapassa,  per  conseguir  la  certezza  che  qui  si  vuol 
far  onore  a  Sordello  come  a  chi  ebbe  onorevol  parte  nella  battaglia 
di  Benevento.  E  ch'egli  l'avesse  avuta,  io  avevo  già  per  altra  via  di- 
mostrato anni  fa  (1),  ed  era  poi  parso  al  B.  confermato  dalla  tornada 
del  sirventese  del  Gattilusio  da  lui  anteriormente  pubblicato  (2).  Che 
se  ben  si  ponga  mente  ai  versi  di  Pietro  de  Castelnou  or  ora  da  me 
tradotti  : 

e  si  nois  fos  cortes  e  plazentiers 
al  comenzar  (3),  noi  retengra  estiers, 
ni  no  saubr'om  son  pretz  ni  sa  valensa, 

si  inclinerà,  penso,  a  riconoscere  com'io  avessi  pur  colto  nel  vero 
quando  conclusi  che  solo  le  benemerenze  acquistatesi  sul  campo  di 
Benevento  potettero  nell'opinione  pubblica  elevar  tanto  Sordello,  che 
un  papa  s'inducesse  a  farne  oggetto  principale  d'un  proprio  breve. 

Nella  penombra  dì xm" Appendice  relega  il  Bertoni  un  testo  in  vol- 
gare italico,  ultimo  nel  manoscritto  Campori,  del  quale  egli  tenta 
anche  la  ricostituzione  critica.  Buono,  a  parer  mio,  il  ragionamento, 
col  quale  lo  si  costringe  entro  al  sec.  XIII  e  alla  zona  dialettale  lom- 
bardo-veneta :  non  ben  solido,  invece,  l'altro  sul  quale  si  vuol  fon: 
dare  la  probabilità  d'un'attribuzione  a  Sordello.  Sia  pure  che  l'au- 
tore dovesse  essere,  come  Sordello  fu,  un  trovatore  di  mestiere, 
"  esperto  nella  poesia  di  Provenza  „,  e  italiano  e  "  nato  nella  Lom- 
bardia 0  nel  Veneto  o  anche  in  una  località  posta  tra  la  regione  ve- 
neta e  lombarda  ,  ;  ma  alla  possibilità  di  determinarlo  nella  persona 


(1)  Cfr.  il  mio  Sordello  di  Goito,  Halle,  1896,  p.  60. 

(2)  In  Studi  e  ricerche  sui  trovatori  minori  di  Genova,  Torino,  1900, 
p.  55. 

(3)  Suppl.  \_el]  per  evitar  1'  iato,  assai  duro,  tra  retengra  e  estiers? 


RECENSIONI  475 

di  Sordello  non  si  giunge,  e  non  giunge  di  fotte  il  B.,  se  non  in  virtù 
del  noto  passo  del  De  Vulgari  Eloquentia  ch'è  (quando,  s'intende,  non 
si  giudichi,  com'io  lo  giudicai,  corrotto  o  lacunoso,  o  l'una  e  l'altra 
cosa  insieme)  l'unica  testimonianza  invocabile  a  favore  di  poesie 
scritte  in  volgare  italico  da  Sordello.  Ma  in  quel  passo  si  discorre 
di  Sordello  come  di  quegli  "  qui,  tantus  eloquentie  vir  existens,  non 
solum  in  poetando,  sed  quomodocunque  loquendo  patrium 
vulgare  deseruit  ,.  0  come  mai  d'un  fatto  di  carattere  così  generale 
s'avrebbe  ora  la  prova  in  questo  testo,  il  cui  autore,  già  nel  bel  prin- 
cipio, dichiara: 

ben  è  razo  qu'eo  faza 
un  sirventes  lonbardo, 
qe  del  provenzalesco 
no  m'acresco? 

Ma  qui  parla  qualcuno  che  per  una  volta  tanto  fa  uso  del  dialetto 
lombardesco;  e  i  versi  che  immediatamente  seguono: 

e  fora  cosa  nova, 
c'un  no  trova 
sirventes  lombardesco, 

oltre  a  confermare  e  precisar  codesto,  dimostran  anche  che  l'autor 
del  sirventese,  a  guardarsi  intorno,  non  avrebbe  trovato  alcuno, 
neppur  Sordello,  il  quale,  non  che  "  quomodocumque  loquendo  „,  ma 
anche  solo  "  poetando  „  usasse  il  lombardesco. 

Ma  basti  di  ciò,  e  seguan  qui  poche  osservazioni  di  carattere  er- 
meneutico su  alcuni  passi  dei  testi  provenzali. 

Al  n.  I,  v.  18,  1.  eus  o  eu' s.  Ibid.  v.  32,  1.  noi.  —  Al  n.  II,  vv.  30-31, 
ingegnosa  è  la  restituzione  con  cui  si  tenta  di  colmare  la  lacuna 
estendentesi  ai  due  versi;  ma  forse  poco  verosimile  nella  sua  seconda 
parte.  Ibid.  v.  38,  restituisci,  più  probabilmente,  [gazanhar],  che  ben 
s'accorda  con  quel  che  immediatamente  precede  e  segue,  dovendo  dal 
tutto  risultar  l'usata  ed  abusata  antitesi  :  meglio  esser  perdere  presso 
la  donna  amata  che  guadagnar  presso  un'altra  (cfr.,  p.  es.,  anche  ri- 
spetto all'uniformità  dell'espressione,  Peire  Vidal  in  Lex,  Roin.  II, 
276':  mais  am  ab  lieis  mescabar  \  Qii'ab  autra  joy  conquistar).  —  Al  (1) 


(1)  Buona  mi  pare  l'argomentazione  colla  quale  il  B.  crede  di  dover 
riportare  al  1233  questo  sirventese  (p.  12);  ma  non  vi  scorgo  l'im- 
portanza, che  il  B.  vi  ravvisa,  per  precisare  i  rapporti  che  "  furono, 
pare,  molto  buoni  „  (ibid.)  tra  il  Conte  di  Provenza,  Raimondo  Be- 
rengario, e  Sordello.  Su  ciò  non  credo  sia  mai  caduto  dubbio. 


476  BULLETTINO    RIBLIOGRAKICO 

n.  Ili,  vv.  2  f  20  coir.  noi.  Ibid.  vv.  41-45.  Pel  v.  43  avevo  già  pro- 
posto in  questi  Studi,  fase.  24,  p.  164,  la  correzione  vostre  nou,  inten- 
dendo che  il  là  del  v.  43  si  risolvesse  in  ian,  e  il  tutto  si  leggesse 
così  :  Humils,  fizels,  amoros  \  si  tot  mi  sui  desamatz,  \  gentils  domna, 
ja'n  forzatz  \  vostre  nou  cors  envejos  \  quem  venz'ab  doussa  paria,  e 
s'interpretasse  :  "  umile,  fedele,  amoroso,  quantunque  non  amato, 
donna  gentile,  (pregovi)  vogliate  sforzarne  il  vostro  giovin  corpo  vo- 
luttuoso (e  qui  s'avrebbe  in  sostanza  la  perifrasi  con  cors  in  luogo  del 
pronome  personale),  ad  avanzarmi  in  dolce  corrispondenza  amorosa  ,; 
dove,  come  del  resto  anche  nella  lezione  data  dal  B.,  è  notabile  quel- 
Venvejos  col  valore  di  "  eccitante  la  voglia  „,  "  voluttuoso  ,,  che  il 
li&vy  sospettava  in  un  passo  di  Sordello  (cfr.  Suppl.-Wtb.  s.  envejos). 
Ibid.  V.  48.  Nel  fase,  or  citato  di  questi  Studi  io  avevo  proposto  la 
correzione  in  fermat  che  mi  pareva  convenientissimo  al  senso  (cfr. 
Rambaut  de  Vaqueiras,  nel  Contrasto  colla  donna  genovese,  presso 
Appel,  Chr.  p.  131:  s'es  mos  cors  en  vos  fermatz)  e  artiSciosamente 
combinato  in  bisticcio  con  ferm,  così  com'è,  nello  stesso  verso,  cor 
con  coral.  Ibid.  vv.  51-56;  interpungerei  in  modo  affatto  diverso  e, 
se  non  m'inganno,  pivi  conveniente  al  senso  di  tutta  la  stanza:  e  si 
valors  s'umelia,  \  gentils  donna,  qim  defen  \  vostre  non  iove  cors  gen,\ 
pois  ren  deh  comtes  nom  citai;  |  ni  tur  guerra  vernazal  \  no  voil,  ecc.. 
—  Al  n.  V,  V.   7,  corr.  plazentiers.  C.  d.  L. 

C.  Appel.  Wiederum  zu  Jaufre  Rudel  (Sonderabdruck  aus  dem  Archiv 
fiir  das  Studium  der  neueren  Sprachen  und  Literaturen,  Band  CVII, 
Heft  8/4). 

L' Appel  propone  dell'  "  amor  di  terra  lontana  ,,  che  anima  tutto  il 
canzoniere  del  signor  di  Blaja  e  che  pareva  ridotto  in  fumo  di  leg- 
genda dalla  critica  sapiente  ed  acuta  di  G.  Paris,  una  nuova  spiega- 
zione, che,  strana  a  prima  vista,  desta  poi  nell'animo  del  lettore,  a 
mano  a  mano  che  il  ragionamento  dell' Appel  procede,  un  interesse 
ognor  crescente.  La  donna  misteriosa,  per  cui  a  Rudello  tutto  il  cuor 
doleva,  sarebbe  ne  più  ne  meno  che  la  Vergine  Maria;  alla  quale 
in  via  diretta,  secondo  l'Appel,  meglio  che  a  qualsiasi  donna  terrena, 
per  quanto  lontana  dal  trovatore,  si  lasciano  riferire  alcuni  passi  del 
canzoniere  di  Rudello;  ed  in  via  indiretta  si  lascian  riferire  altri,  nei 
quali  sentimenti  ed  immagini  dell'amor  terreno,  anche  in  ciò  che  ab- 
biano di  piìi  ardito,  voglion  essere  adattati  alla  Signora  dei  cieli  ; 
come,  del  resto,  avvenne  presso  molti  trovatori,  di  epoca  più  tarda. 

Ma  ingegnosamente  nota  l'Appel  esservi  nel  canzoniere  di  Rudello 
anche  qualche  tratto  il  quale,  pur  sembrando  aver  radice  in  un  amor 
terreno  e  nelle  relazioni  del  poeta  con  yna  donna  in  carne  ed  ossa, 
è,  per  chi  ben  guardi,  in  contraddizione  stridente  con  quelle  che  eran 


RECENSIONI  477 

condizioni  fondamentali  dell'amor  trovadorico.  11  "  marito  „  che  Ru- 
dello  evoca  {Pro  ai,  v.  17)  non  e  il  solito  "  geloso  ,,  e  nella  stanza 
settima  di  Belh  m'es  resfius  compar  l'unico  fratello  di  donna  amata 
che  ci  sia  dato  rintracciare  in  tutta  la  lirica  occitanica.  Or  non  si  avran 
qui  degli  stralci  da  quella  complicata  genealogia  nella  quale  la  mi- 
stica medievale  si  dilettava  d'impigliar  Maria,  madre  figlia  del  proprio 
figlio,  e  via  dicendo? 

Come  questi,  molti  sono  i  passi  che  l'A.  riesce  più  o  meno  age- 
volmente a  spogliare  di  quanto  potrebbero  aver  di  ripugnante  alla 
sua  tesi:  esser  nella  poesia  di  Rudello  adombrato  non  solo  un  amor 
di  terra  lontana,  ma  un  amor  da  terra  lontano;  tanti,  direi,  che  nella 
somma  costituiscano  tutto  il  piccolo  canzoniere  di  Rudello.  E,  ripeto, 
tutto  l'insieme  dà  molto  da  pensare. 

Tuttavia,  lo  studio  di  G.  Paris,  dal  quale  uscì  così  malconcia  la 
poetica  storia  di  Rudello  e  della  principessa  di  Tripoli,  poneva  in 
sodo,  tra  i  particolari,  questo,  che  il  motivo  dell'amor  lontano,  il 
quale  ha  in  un  dei  canti  del  signor  di  Blaja  tutta  l'aria  di  volere 
informar  di  sé  un  gioco  di  spirito,  si  ripete  poi,  senza  che  certo  possa 
voler  nascondere  un  fondo  mistico,  in  trovieri,  trovatori  e  minnesinger 
posteriori.  E  a  codesto  io  per  mio  conto  avrei  da  aggiungere,  se  pur 
altri  già  non  l'ha  notato,  che  all'amor  di  donna  non  vista  accenna 
già  quel  burlone  di  Guglielmo  IX  [Amigii'ai  ieu,  no  sai  qui  s'es,  \  qii'anc 
non  la  vi.  .  ||  Anc  non  la  vi  et  am  la  fori;  ||  quan  non  la  vey,  be  m'en 
deport;  ||  No  sai  lo  luec  ves  on  s'esta,  \  si  es  en  pueg  o  es  en  pia)  (1), 
in  quel  suo  canto  enigmatico  ch'egli  stesso  definisce  %in  vers  de 
dreyt  nien,  e  la  cui  ultima  stanza  anche  per  un  amor  terreno  sarebbe 
cosa  troppo  pepata.  E  un  accenno  se  ne  trova  pure  nel  ben  noto 
vers  di  Peire  d'Alvernhe  [Contr' aisso  nC agrada  'l  ptarers  \  d'amor 
lonhdan'...)  (2),  un  accenno  fuggevole,  ma  ben  distinto  che  contribuisce 
a  testimoniare  della  stabilità  di  un  tale  motivo,  fuori  d'ogni  mistica 
intenzione,  nel  repertorio  della  lirica  trovadorica.  C.  d.  L. 

Paolo  Sav.t-Lopez,  La  novella   provenzale   del  pappagallo,  Napoli,  tip. 
della  R.  Università,  1901. 

Di  questa  graziosa  novella  si  conoscevan  due  redazioni:  la  più 
lunga,  contenuta  in  R  (Bibl.  Naz.,  ms.  fr.j  22.543),  sarebbe  stata,  se- 
condo il  Bartsch,  l'originaria;  secondo  lo  Stengel,  all'incontro,  quella 
pili  breve,  contenuta  in  J  (Bibl.  Naz.  di  Firenze  F,  4,776),  della  quale 
l'altra  non  sarebbe  stata  che  un'amplificazione  o,  meglio,  un  prolun- 


(1)  Cfr.  Appel,   Chr.,  p.  80. 

(2)  Cfr.  l'ediz.  Zenker,  in  Romanische  Forschungen,  XII,  746. 


478  BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO 

gamento.  A  sostegno  dell'opinione  propria  allegava  in  verità  il  Bariseli 
fatti  d'un  più  preciso  carattere  :  e  cioè  che  il  frammento  della  no- 
vella contenuta  in  G  (Ambros.  R,  71  sup.)  va  precisamente  fino  al 
verso  dove  incomincia  la  divergenza  tra  J  ed  i?,  e  che,  d'altra  parte, 
v'è  una  così  sensibile  concordanza  di  lezione  tra  G  e  J,  per  questo 
tratto  comune,  da  doverne  arguire  che  ambedue  provengano  da  una 
fonte  comune  mutila;  e  che  quel  che  di  più  reca  il  secondo  dei  due 
sia  im'aggiunta  arbitraria  di  copista.  Il  che  spiegherebbe  anche  l'ano- 
nimia della  redazione  J;  laddove  in  5  è  fatto  il  nome  dell'autore 
Arnaut  -de  Carcasses. 

Il  S.-L.  s'è  accinto  all'opera  della  reedizione,  mettendo  a  profitto 
anche  il  breve  frammento  riccardiano  che  die  alla  luce  il  Wesselofsky, 
non  che  quello  di  D  (codice  Estense),  di  cui,  come  del  resto  anche 
di  G,  àie  le  varianti  il  Napolski,  e  l'altro,  sfuggito  a  tutti  finora,  e 
contenuto  in  altra  parte  di  G.  Quest'ultimo  risponde  a  quello  offerto 
da  D  in  quanto  comprende  precisamente  l'ultima  parte  (sessanta- 
cinque versi)  della  redazion  più  breve,  nella  quale  ultima  parte,  per 
la  sua  intonazione  lirica,  avea  già  lo  Stengel  fiutato  un'aggiunta. 
Quale  miglior  prova  della  ragionevolezza  di  tal  sospetto  che  ritrovar 
tutto  quel  brano  come  cosa  a  se,  vale  a  dire  come  un  bell'esemplare 
di  domnejaire,  in  due  manoscritti,  e  in  uno  anzi  (in  G^)  proprio  dopo 
la  nota  canzone  dello  stesso  genere  dovuta  ad  Arnaut  de  Marueil 
Domna  genser'ì  Da  questi  particolari  d'ordine  esteriore  e  dall'unifor- 
mità di  tono  epico  e  dall'armonia  che  in  ogni  sua  parte  ci  offre  la 
redazione  di  R,  risulterebbe  confermata  l'opinione  del  Bartsch,  che 
quella  definì  originaria. 

Non  si  saprebbe  qui  contraddire  il  S.-L.,  al  quale  appena  mi  par- 
rebbe si  potesse  rimproverare,  nel  processo  del  suo  ragionamento,  il 
difetto  di  prolissità  che  si  accentua,  s'io  non  mi  inganno,  nell'altra 
parte,  accurata  del  resto  anch'essa  e  ricca  di  buoni  materiali,  ove, 
allo  scopo  di  rimuovere  il  sospetto  di  una  diretta  fonte  orientale  o 
greca  per  la  novella  di  Arnaut,  s'indagan  le  propaggini  della  leg- 
genda dell'uccello  messaggero  d'amore,  ed  eventualmente  anche  in- 
cendiario. Della  romanza  dello  stornello  di  Marcabruno  e  di  quella 
dell'usignuolo  di  Pietro  d'Alvernia,  e  dei  possibili  rapporti  tra  l'una 
e  l'altra  non  breve  discorso  avea  fatto  di  recente  lo  Zenker;  e  pur 
avendo  qualche  cosa  di  diverso  da  dire,  avrebbe  potuto,  a  parer  mio, 
esser  più  conciso  il  S.-L.  che  infine  veniva  a  toccarne  solo  per  in- 
cidenza. La  concisione  giova  in  ispecial  modo  là  dove  sono  in  gioco 
dati  di  fatto  d'ordine  materiale  occorrenti  a  dimostrare  i  rapporti 
tra  varj  manoscritti;  e  nel  caso  speciale  del  S.-L.  aggiungerò  che, 
essendo  continuamente  in  gioco  delle  cifre,  egli,  per  quel  suo  certo 
orrore  dall'espression  breve  e  precisa,  obbliga  ad  ogni   pie  sospinto 


RECENSIONI  479 

il  lettore  ad  un  lavoro  di  calcolo  per  accertare  a  quale  manoscritto 
quelle  cifre  si  riferiscano  (1). 

Questo  si  accenna  non  già  per  menomare  i  pregi,  che  certo  pre- 
valgono sui  difetti,  del  lavoro  del  S.-L.  ;  ma  appunto  perché  si  vor- 
rebbe che  tali  pregi  non  fossero  neppur  minimamente  offuscati  da 
difetti  di  perspicuità  materiale.  E  sono  ben  contento  di  poter  subito 
aggiungere  che  assai  ragionevole  mi  par  quel  tanto  che  l'A.  scrive 
intorno  alla  persona  di  Arnaut  de  Carcasses.  Egli  rigetta  quel  ohe 
arbitrariamente  fu  affermato  da  dizionarj  biografici  e,  dal  David,  nel- 
VHistoire  Littérairc;  e  mette  avanti  l'ipotesi  che  Carcasses  possa  voler 
denotare  non  una  regione,  ma  un  minuscolo  villaggio  a  cinquanta- 
cinque chilometri  da  Carcassonne. 

Segue  quindi  il  testo  in  disposizione  congrua  a  quanto  l'A.  ha  di- 
mostrato nella  introduzione.  Vi  si  dà  prima  il  testo  di  R,  notandosi 
in  calce  le  varianti  che  per  piìi  o  men  breve  tratto  offrono  gli  altri 
manoscritti;  poi  la  seconda  parte  di  J,  da  cui  però  si  stralcia,  per 
isolarlo  come  cosa  originariamente  a  sé,  il  domnejaire,  ricostituito  sui 
mss.  DGJ. 

Certo,  la  novella  esce    così    ristorata   dalle  mani  del  S.-L.;  e  non 


(1)  Nella  pagina  prima  leggo:  "  Frammenti  della  novella  si  leg- 
gono ."«.Itrove  [altrove,  intendi,  che  nel  ms.  R]  :  i  primi  centoventi- 
cinque  nell'Ambrosiano  G  ;  una  cinquantina  di  versi...  nel  ms.  Riccar- 
diano  2756»..;  tutta  la  fine,  a  cominciar  dal  verso  Eu  amanz  iur  e 
promet  a  vos  nell'Estense  D  „.  Or  quei  "  centoventicinque  „  parreb- 
bero da  computare  secondo  la  numerazione  del  testo  di  R  che  è  il 
fondamentale,  e  voglion  essere  invece  secondo  quella  di  G  che  il  let- 
tore non  ha  sott'occhio,  essendo  tale  ms.,  per  questo  primo  tratto, 
utilizzato  solo  per  le  varianti,  e  al  quale  poi  in  prosieguo  (p.  42) 
l'A.  assegna  la  cifra  di  novantotto  versi,  lasciando  al  lettore  un  non  lieve 
sforzo  da  compiere  per  intendere  che  quei  novantotto  di  G,  per  via 
di  lacune  o  raccorciamenti,  corrispondono  in  somma  ai  centoventi- 
quattro  (o  centoventicinque?)  di  J.  Di  quel  che  fosse  la  "  cinquan- 
tina di  versi  „  del  Riccardiano  il  lettore  si  farebbe  subito  un'idea  piìi 
determinata,  se  il  S.-L.  gli  dicesse  che  son  tanti  da  corrispondere  in 
sostanza  al  tratto  di  R  che  va  fino  al  v.  85;  e  che  con  quel  "  tutta 
la  fine  „  s'intenda  parlar  dell'ultimo  tratto  di  J'e  non  di  R\\  lettore 
non  riesce  che  ad  accertar  piìi  tardi.  Così  pure,  a  p.  34,  sci-ive  il 
S.-L.:  "  Lo  Stengel  osservò  che  in  J '\  ver.si  dal  numero  189  in  poi...  ,, 
e  quella  cifra  parrebbe  riferirsi  al  testo  J  che  il  lettore  avesse  sot- 
t'occhio tutto  intero  ;  mentre  nel  fatto  non  può  risultare  che  da 
un'operazione  aritmetica  ch'egli  deve  fare  aggiungendo  ai  primi  cen- 
toquaranta del  testo,  dato  secondo  il  ms.  R,  i  primi  quarantanove 
della  continuazione  di  J  che  è  data  a  parte.  E  aggiungerò  ancora 
che  non  è  se  non  con  parecchio  stento  che  il  lettore  riesce  a  preci- 
sare dove  nella  redazione  di  J  incominci  il  tratto  del  domnejaire  che 
il  S.-L.  stampa  pure  a  sé.  Due  asterischi  sarebbero  bastati. 


480  BULLETTINO   BIBLIOGRAFICO 

son  davvero  molte,  e  son,  credo,  quasi  tutte  imputabili  alla  fretta  che 
sicuri  segni  di  sé  rivela  in  piìi  punti  del  lavoro  (anche  nelle  Osserva- 
zioni in  fondo  al  lavoro,  ove  si  mescono  alle  note  esejjetiche  alcune 
grammaticali,  la  cui  superfluità  avrebbe  certo  sentita  il  S.-L.  per 
poco  che  vi  avesse  pensato  su)  le  inesattezze  rimaste  nel  testo  dopo 
che  l'A.  l'ebbe  munito  à'xxn  errata-corrige.  Tre  volte,  a  pag.  53,  v.  79, 
a  p.  65,  vy.  11  e  13,  leggo  un  votre  che  vorrà  esser  corretto  in  vostre; 
e  .vedo  costantemente  adottata  dal  S.-L.  la  grafia  no  y  (p.  51,  v.  40; 
p.  57,  V.  187;  p.  61,  v.  312)  che  direi  irrazionale.  —  Il  vertutz  di 
p.  53,  V.  91,  io  inclinerei  a  intendere  piuttosto  che,  come  fa  il  S.-L. 
(cfr.  Osservazioni  al  testo  della  novella,  p.  77),  per  "  le  virtù  dell'amore  „, 
per  quelle  di  Antifanor  che  il  pappagallo  per  prima  cosa  (cfr.  p.  49, 
vv.  11-14)  ha  messe  sotto  gli  occhi  della  donna;  e  qui,  ordinatamente, 
alla  donna  ostinata  nel  rifiuto  egli  imputerebbe  di  far  torto  al  dip 
d'amore,  ad  Antifanor  (nelle  sue  virtù)  che  è  poi  quello  che  piìi  ha 
ragione  di  dolersene,  e  a  lui,  il  disinteressato  mediatore.  —  'A  p.  56, 
v.  160,  la  lezione  per  esperatz,  che  ristorerebbe  il  ritmo  e  darebbe  un 
senso  accettabile,  contravviene,  secondo  del  resto  riconosce  lo  stesso 
S.-L.,  alla  sintassi.  D'altronde,  il  senso  stesso  parrebbe  richieder  piìi 
propriamente  una  parola  che  significasse  "  inosservato  „,  "  non  visto  ,, 
ovvero  "  sicuro  „,  "  senza  sospetto  ,.  —  La  correzione  done  a  p.  57, 
V.  174,  era  già  in  Bartsch,  Chr.,  come  v'era  pure  la  grafia  encar\ 
coll'apostrofo  che  direi  superfluo.  —  A  p.  58,  v.  231,  il  S.-L.  stampa 
l'enpenray,  come  già  stampò  il  Bartsch',  e  vorrà  dargli,  pare,  (cfr.  p.  80, 
alla  nota  corrispondente  al  passo),  come  avrà  voluto  darglielo  il  Bartsch, 
il  valore  di  "  accendere  „;  ma  sarebbe,  credo,  l'unico  esempio  dell'uso 
di  quel  verbo  col  valore  attivo  di  "  accendere  „  fuor  di  metafora. 
Avrebbe  quindi  meritato  d'esser  posto  in  rilievo.  —  A  p.  59,  v.  240, 
il  S.-L.  adotta  la  lezione  del  codice  prendran  che  il  Bartsch,  avendo 
letto  prendian,  credè,  già  per  ragion  del  ritmo,  di  dover  correggere 
in  prendon.  Ma  la  correzione  del  Bartsch,  opportuna  perché  s'abbia  la 
ripetizione  identica,  voluta  dall'autore,  del  v.  186,  mi  parrebbe  anche 
necessaria  pel  senso  :  dovendosi  intendere  che  "  nessuna  notte  (le 
gaite)  posano  „  e  non  già  che  "  nessuna  notte  poseranno  ,.  —  L'as- 
semamen  di  p.  59,  v.  262,  la  cui  verosimiglianza  ben  riesce  a  dimo- 
strare il  S.-L.  nella  nota  corrispondente,  appar  legittimata  in  qualche 
modo  dal  Glossaire  Occitanien  che  registra  "  assemamen  =  préparatif  „. 
—  Pel  corrieri  di  p.  61,  v.  305,  s'acqueta  il  S.-L.  all'interpretazione 
di  "  corriere,  messo  „  ;  laddove  rP>rdmannsdòrff'er,  Eeimwdrterbuch, 
p.  171,  pensa  a  un  "  corrigium  „.  Ma  non  sarà  invece  per  correi  = 
armatura?  Antifanor  s'è  recato  all'appuntamento  "  de  son  r/arnimen 
adobatz  ,  munito  d'elmo  e  d'usbergo  non  che  di  schinieri  di  feri'O  e 
speroni  d'oro  e  buona  spada  (cfr.  p.  58,  vv.  213-18);  e  giunto  presso 


RECENSIONI  481 

alla  torre  (cfr.  vv.  241-44)  è  disceso  da  cavallo,  "  a  pauzat  son 
garnimen,  de  pres  son  cavai,  tot  entier  ,,  tenendo  con  sé  solo  la  spada; 
e  se  ne  torna,  ad  opera  compiuta,  contento  come  un  figlio  di  re  (come 
una  pasqua,  diremmo  noi),  dopo  aver  anche  avuto  il  tempo  di  ri- 
prender la  sua  armatura  :  che  bello  non  sarebbe  stato  perder  le 
proprie  armi,  fosse  pure  in  un'avventura  d'amore.  —  Dopo  i!  v.  807 
non  credo  sia  la  lacuna  che  il  S.-L.  immagina;  anzi  credo  che 
il  V.  E  per  los  maritz  castiar  sia,  come  del  resto  lo  stesso  S.-L.  so- 
spetta (cfr.  p.  81),  in  stretta  dipendenza  dal  precx  di  v.  307,  il  quale  forse 
non  a  torto  il  S.-L.  (cfr.  p.  40)  inclina  a  intendere  per  "  esortazioni  „. 
—  A  p.  63,  V.  51,  sarà  il  caso  di  lasciar  cavalier,  benché  nomina- 
tivo singolare,  sol  perché  altrove,  in  posizione  di  rima,  la  redazione 
di  J  ci  dà  la  prova  di  trascurar  la  flessione  ?  —  Ibid.  a  v.  60  don  man 
non  sarà  da  correggere  in  deinan?  e  intendere:  "  e  pregovi  che  la 
mia  domanda  (di  presto  rivedervi)  non  mi  (dativo  etico)  dimenti- 
chiate per  amor  del  marito  „  ?  —  L'ultimo  verso  del  domnejaire  (p.  67), 
quando  pur  abbia  quel  carattere  speciale  che  il  S.-L.  (p.  35)  gli  at- 
tribuisce, non  si  potrebbe  ridurre  alla  giusta  misura  e  alla  regolarità 
grammaticale,  correggendo  nquest  in  cestz'ì  C.  d.  L. 

N.  ZiNGARELLi,  Lo  Romaus  de   San    Trofeme  (extrait    des  Annaìes  du 
Midi,  tome  XIII),  Toulouse,  1901. 

Lo  Z.  pone  a  fondamento  della  sua  edizione  il  manoscritto  13514 
(fondo  francese)  della  Nazionale  di  Parigi,  che  quasi  per  intiero  con- 
tiene il  pio  racconto,  non  senza  però  mettere  a  profitto  gli  altri  pa- 
recchi, che  ce  ne  han  conservato  frammenti  più  o  meno  estesi  e 
guasti,  pur  troppo,  nella  lezione;  e  col  riscontro  di  questi  egli  fu  in 
grado  di  proporre  miglioramenti,  spesso  certi,  arditi  forse  a  volte, 
ma  quasi  sempre  degni  di  considerazione. 

D'altronde,  il  testo,  in  cui  ogni  regola  di  declinazione  è  trasandata 
e  abbondano  capestrerie  prosodiche,  morfologiche  e  fonetiche  (qual- 
cuna di  queste  ultime  offrì  già  materia  a  notevoli  osservazioni  di 
P.  Meyer),  è  tale  che  dell'opera  dell'editore,  la  quale  dal  già  fatto  si 
lascia  prevedere  in  tutto  diligente,  si  potrà  con  assai  miglior  agio 
giudicare  quand'egli  avrà  pubblicato  le  illustrazioni  e  note  che  ci 
promette. 

Mi  farò  lecito,  a  ogni  modo,  di  notare  fin  d'ora  che  il  crasacci  del- 
Vexplicit  del  manoscritto  della  Nazionale  di  Parigi  va  certamente  letto 
transacti,  non  lìassati;  che  forse  a  v.  234  sarebbe  meglio  leggere  en 
quasar,  che  offrirebbe  evidente  riscontro  colla  lezione  del  v.  223;  al 
V.  249  sarà  da  correggere  las  in  la;  i  vv.  377-80  vorran  forse  esser 
letti  così:  E  poyra  si  far  —  so  elh  respondet  —  |  Qiie  man  p)alais  ni 
mahitation  |  Sie  apelat  niayson  d'orasion  ?  A  v.  590  potrà  adottarsi  la 
lezione    del    codice    i   a    comensat,    con    una    risultanza   d'iato  punto 


482  BULLETTINO    BIBLIOGRAFICO 

strana  in  un  tal  testo;  al  v.  605  l'altra  aquel'ayya;  a  v.  614  l'altra 
lo  n'eniportaran,  non  essendo  il  solo  caso  di  n'  {==  inde)  proclitico  nel 
testo;  a  v.  620  l'altra  Que  en;  a  v.  641  l'altra  E  aytan...;  a  v.  673 
l'altra  E  entro;  e  al  v.  674  la  correzione  proposta  dallo  Z.  sarebbe 
forse  da  completare  con  un  no  preposto  ad  era.  C.  d.  L. 

Vincenzo  Crescixi,  liamhaldo  di  Vaqueiras  e  Baldovino  imperatore,  Ve- 
nezia, 1901  (estratto  dagli  Atti  del  Reale  Istituto  Veneto  di  scienze, 
lettere  ed  arti,  tomo  LX,  parte  II). 

S'ha  qui  l'edizion  critica,  e  la  versione  letterale  e  l'illustrazione, 
ampia  e  quanto  si  possa  desiderare  accurata,  del  sirventese  di  Ram- 
baldo  di  Vaqueiras  che  G.  Bertoni  pubblicò  diplomaticamente,  di  sul 
manoscritto  Campori,  nel  fascicolo  23  di  questi  Studi,  a  pp.  429-30. 
Non  ci  voleva  meno  della  molta  familiarità  che  il  C.  può  vantare 
colla  vita  e  coll'opera  poetica  di  Rambaldo,  e  conseguentemente 
anche  colla  storia  della  quarta  crociata,  per  giungere  alla  restitu- 
zione certa  dei  non  pochi  passi  profondamente  guasti.  Non  facili  dav- 
vero erano  le  correzioni  del  cotne  di  v.  14  in  comte;  deìVe  leuos  di 
V.  56  in  Nevelos;  del  dozelet  cors  di  v.  57  in  doz'electors;  e  una  volta 
fiutate  e  additate  tra  il  viluppo  degli  avvenimenti  storici,  esse  si  fan 
subito  larga  strada  nella  coscienza  del  lettore  e  gittano  sul  complesso 
del  componimento  una  luce  piena  che  invano  ci  attenderemmo  dalle 
allusioni,  ben  più  agevoli  a  cogliere,  all'imperatore  Baldovino  nella 
prima  stanza  e  al  maresciallo  Goffredo  di  Villehardouin  e  a  Milo  di 
Breban  nella  tornado.  Queste  ci  permettono  di  riferire  a  colpo  d'occhio 
il  sirventese  al  di  là  di  quei  capitali  avvenimenti  che  furono  la  presa 
di  Costantinopoli  e  la  incoronazione  di  Baldovino;  ma  il  ricco  com- 
mento del  Crescini  (troppo  ricco,  quasi  direi)  che  incalza  vittorioso 
la  parola  ristorata  del  poeta,  ed  ogni  particolare  da  essa  accennato 
assiepa  con  bei  riscontri  di  brani  storici  originalmente  allegati  o 
riassunti,  riesce  a  circoscriver  la  composizione  del  sirventese  tra  il 
giugno  e  il  luglio  del  1204. 

Qualche  osservazione  saltuaria,  ora,  intorno  al  testo.  Pel  v.  21  sarà 
risolutamente  da  adottare  la  lezione  che  il  C.  propone  come  prefe- 
ribile nella  tabella  delle  Correzioni  e  che  io  avevo  già  proposta  in 
questi  Studi,  fase.  24,  p.  160.  —  11  v.  23  nell'edizione  C.  suona:  e 
gart  se  q'al  seti  tort  non  hais,  e  vien  tradotto  :  e  si  guardi  che,  a  suo 
torto,  ei  non  discenda.  Ma  il  codice  legge:  e  gart  se  quel  seu  tort  non 
hais,  e  la  correzione  di  seu  in  en  oltre  a  togliere  ogni  stento  al  senso, 
che   sarebbe:  "  e  guardisi    ch'egli    in  torto  non  cada  ,  (1),   verrebbe 

(1)  La  correzione  ch'io  propongo  parrebbe  render  possibile  anche 
l'altra  di  òois  in  biais;  ma  contro  questa  sta  il  jìuiatz  es,  intenzio- 
nalmente antitetico,  del  verso  seguente. 


NOTIZIE  483 

anche  resa  probabile  dal  fatto  che  il  copista  par  facesse  un  vero 
sciupìo  di  s  a  sproposito  (cfr.  al  v.  36  hlancs,  comanz,  els;  al  v.  37 
els  turcs  els  pajans  els  persans;  e,  con  maggior  conformità  al  nostro 
caso,  al  V.  58  f:els  in  luogo  di  sei  o  sii).  —  Pei  vv.  29-30  io  non  ho 
ne  un'interpretazione  migliore  ne  un'altra  lezione  da  proporre;  ma 
così  come  sono  non  mi  danno  un  senso  soddisfacente,  anzi  mi  han 
l'aria  di  contraddirsi  l'un  l'altro.  E  la  contraddizione  dovè  sentire  e 
quindi  voler  evitare  il  C.  quando,  pur  volendo  egli  tradurre  alla  let- 
tera, non  osò  qui  tradurre  :  "  che  se  perde  quelli  che  con  lui  stanno, 
tardi  si  faran  di  sua  casa  „  ;  ma  in  luogo  di  "  perde  „  adoperò  "  s'a- 
liena „.  Cd.  L. 

C.  Salvioni.  Dell'antico  dialetto  pavese  (Estr.    dal   Bull,  della  Soc.   pa- 
vese di  St.  patria,  A.  II,  fase.  1°  e  2°,  1902). 

Fondandosi  sopra  tre  scritture  indubbiamente  pavesi,  l'A.  giunge  a 
riconoscere  le  peculiarità  per  le  quali  il  pavese  antico  si  contrappone 
al  dialetto  sincrono  della  Lombardia.  Il  riconoscimento  frutta  alla 
scienza  un  risultato  inatteso.  Il  S.  infatti  restituisce  a  Pavia  l'antica 
Leggenda  verseggiata  di  S.  Maria  Egiziaca,  pubblicata  da  T.  Casini 
nel  Giorn.  di  filol.  romanza  (III,  89  segg.),  e  da  lui  creduta  franco- 
veneta. L'attribuzione  a  Pavia  è  confermata  dalla  soscrizione  che 
si  legge  in  fondo  al  poemetto:  Arpino  Broda,  notaio  a  Porta  Parte 
(Pavia),  del  quale  ci  resta  ancora  qualche  atto.  Restituzione  ancor  più 
importante,  trattandosi  di  testo  ben  altrimenti  copioso  e  piìi  genuino, 
è  quella  della  nota  parafrasi  del  Neminem  laedi  xisi  a  se  ipso  di 
S.  Giovan  Grisostomo,  pubbl.  dal  Foerster  nel  voi.  VII  àoìV Archivio 
glottologico,  sulla  provenienza  della  quale  pendeva  ancora  incerto  il  giu- 
dizio del  Foerster  stesso,  dell'Ascoli  e  del  Meyer-Lubke.  II  S.  correda 
il  suo  lavoro  di  annotazioni  fonetiche  e  morfologiche,  di  glossario  e 
di  un  saggio  de'  testi. 


NOTIZIE 


—  L'episodio  di  Bordello  e  V apostrofe  all'Italia  s'intitola  una  lettura 
dantesca  tenuta  dal  professor  Filippo  Palleschi  agli  alunni  della  scuola 
normale  di  Pisa  e  pubblicata  a  Lanciano,  Carabba,  1901.  Vi  si  vuol 
dimostrare  come  nella  fiera  apostrofe,  nonostante  la  sua  veemenza, 
precisamente  si  delineino  le  idee  politiche  di  Dante;  e  vi  si  dà  prova 
di  una  larga  conoscenza  della  letteratura  dantesca  in  genere  e  di 
quella  sordelliana  in  ispecie.  Se  l'A.  avesse  avuto  notizia,  e  non  gli 
sarebbe  stato  possibile  per  ragion  di  tempo,  delle  pubblicazioni  di 
G.  Bertoni  (cfr.  sopra  a  p.  474),  avrebbe  avuto  buona  prova  della 
presenza  di  Bordello  alla  battaglia  di  Benevento,  di  cui  dubita  forte 
a  p.  45,  n.  36. 


484  BULLETTINO    BIBLIOGRAFICO 

—  Il  D'  Giuseppe  Flechia  inserì  nel  voi.  XXXIX  del  Giorn.  star, 
della  lett.  ital.,  pp.  180  sgg.,  una  sobria  e  succosa  nota  su  Galega  Pan- 
zano  trovatore  genovese,  un  cui  componimento,  scritto  alla  vigilia 
della  battaglia  di  Tagliacozzo,  avea  recentemente  tratto  dal  ms.Campori 
il  Bertoni  (cfr.  questi  Studi,  fase.  23,  p.  468)  e  il  cui  nome  avea  per 
felice  induzione  restituito  lo  stesso  Bertoni  nella  sua  forma  italiana 
(cfr.  StitdJ  e  ricerche  sui  trottatori  ndnori  di  Genova,  p.  23,  n.  2).  La 
nota  del  Flechia  reca  documenti  che  provano  irrefragabilmente  l'aver 
Galega  Panzano,  della  nobile  famiglia  di  questo  nome,  coperto  onorevoli 
uffici  in  patria  circa  l'epoca  a  cui  il  componimento  del  ms.  Cam- 
pori  si  lascia  riferire. 

—  Da  alcune  settimane  è  uscito  il  fascicolo  13"  del  Provenzalisches 
Suppleinent-  ÌVorterbuch  di  Emil  Levy,  che  arriva  sino  alla  fine  della 
lettera  F,  e  chiude  il  volume  terzo.  Il  volume  quarto  si  estenderà 
fino  alla  lettera  L  inclusa. 

—  Tra  i  lavori  di  volgarizzazione  che  si  vengon  facendo  intorno 
alla  letteratura  francese  del  medio  evo,  merita  di  essere  segnalato 
l'elegante  volumetto  in  cui  il  sig.  G.  Michaut  ha  messo  in  francese 
moderno  VAucassin  et  Nicoìette,  quel  gentile  idillio  che  fu  una  delle 
prime  fioriture  della  lingua  d'o>7.  La  traduzione  è  presentata  ai  let- 
tori da  J.  Bedier,  nome  caro  ai  romanisti  e  che  basta  a  raccoman- 
dare il  libro. 

—  II  D.  R.  Kiessmann  ha  pubblicata  la  prima  parte  delle  sue 
Untersuchungen  i'iber  die  Bedeutung  Elepnorens  ton  Poitou  fi'ir  die  Lit- 
teratnr  ihrer  Zeit  (Bernburg,  1901).  E  un  lavoro  scarno  e  che  non 
mostra  piena  conoscenza  delle  fonti.  L'A.  però  ha  il  merito  di  aver 
vòlta  l'attenzione  su  quella  donna  che  tanta  parte  ebbe  nello  svolgi- 
mento della  letteratura  aulica  del  sec.  XII,  e  non  si  può  non  aspettare 
con  vivo  desiderio  il  compimento  dell'opera  sua. 

—  II  professore  Vincenzo  de  Bartholomaeis  ha  recentemente  scoperto 
un  trattato  didattico-morale  in  prosa  provenzale  del  sec.  XIII  o  del 
XIV,  dal  titolo  Lo  libre  de  la  doctrina  }meril,Q  si -pto-^onQ  Ai  ■pnhhVic^xc 
in  questi  Studj  la  notizia  del  manoscritto  e  larghi  estratti  di  esso  con 
illustrazione  linguistica  e  letteraria. 

—  II  Prof.  L.  Biadene,  avendo  trovato  un  altro  manoscritto  dei 
Carmina  de  inensibus,  già  pubblicati  in  questi  Studj,  nel  fascicolo 
prossimo  darà  il  risultato  della  sua  collazione. 

—  Egidio  Gorra  ha  pubblicato  (Bologna,  Zanichelli,  1902)  la  tra- 
duzione italiana  del  libro  di  A.  Bassermann,  Orme  di  Dante  in  Italia 
(2'  ediz.).  L'opera  del  Bassermann  è  abbastanza,  e  non  da  ieri,  nota, 
perchè  qui  se  ne  discorra;  ma  non  sappiam  fare  a  meno  di  rivolgere 
una  parola  di  lode  viva  al  traduttore,  il  quale,  accingendosi  a  divul- 
gare il  robusto  ed  agile  libro  tedesco,  ebbe  coscienza  di  efficacemente 
concorrere  all'opera  di  disinfezione,  di  cui  ogni  dì  \nù  si  sente  la  ne- 
cessità, contro  la  micrologia  di  tanti  fra  gli  innumerevoli  dantofili 
dei  nostri  giorni  e  del  nostro  paese. 


NOTIZIE  485 

—  A.  Farinelli  ha  pubblicato  nel  fascicolo  di  febbraio  della  Rivista 
d'Italia  un  frammento  dell'opera  non  ancor  compiuta  su  "  Dante  in 
Francia  ,,  nel  quale  acutamente  s'indaga  l'efficacia  di  Dante  sul- 
l'opera letteraria  di  Margherita  di  Navarra. 

—  È  uscito  (Bologna,  Romagnoli,  1902)  il  volume  delle  poesie 
amorose  di  Guittone  d'Arezzo,  criticamente    edite  da  FI.   Pellegrini. 

—  Come  primo  volume  della  serie  di  Documenti  di  storia  letteraria 
che  la  giovane  Società  filologica  romana  intende  pubblicare,  è  uscito 
Il  Libro  delle  tre  Scritture  e  il  Volgare  delle  Vanità  di  Bonvesin  da 
Riva,  a  cura  di  Vincenzo  de  Bartholomaeis. 

—  Nella  Bibliotheca  luridica  medii  aevi,  che  si  stampa  a  Bologna 
a  cura  del  prof.  A.  Gaudenzi,  il  voi.  Ili  contiene  fra  altre  cose  il 
Liber  de  regimine  civitafum,  opera  simile  al  frammentario  Oculus  pa- 
storalis,  deila  quale  il  Davidsohn  aveva  dato  notizia  ed  estratti  nelle 
sue  belle  Forschungen  zur  iilteren  Gesch.  von  Florenz  I,  141,  164.  La 
edizione  fu  curata  dal  prof.  G.  Salvemini,  il  quale  ebbe  la  fortuna 
di  trovare  dell'opera  anche  un  secondo  ms.,  da  cui  si  apprende  il 
nome  finora  non  conosciuto  dell'autore.  Questi  fu  Giovanni  da  Viterbo, 
e  chiarita  la  patria  di  lui  rimane  omai  chiarito  abbastanza  anche  il 
fondo  dialettale  che  presentano  le  formolo  volgari  in  quel  libro 
inserite  e  che  pareva  molto  strano  in  un  testo  creduto  d'origine 
fiorentina. 

—  Il  prof.  V.  Vivaldi  ha  pubblicato  un  volume  su  La  Gerusalemme 
liberata  studiata  nelle  sue  fonti  (Trani,  1901).  Questo  non  è  un  rifaci- 
mento dello  studio  Sulle  fonti  della  Liberata,  dello  stesso  autore,  edito 
nel  1893  ;  ma  è  lavoro  affatto  diverso,  qui  essendosi  l'A.  proposto  di 
discutere  tutte  le  fonti  della  Liberata  indicate  sinora,  mentre  nell'altro 
volume  erasi  limitato  a  indicare  quante  reminiscenze  si  ti-ovino  nella 
Lib.  del  romanzo  cavalleresco.  E  nel  volume  uscito  testé  si  tratta  del- 
l'azione principale  del  poema;  in  altro  volume  jjoi  si  pubblicheranno 
i  Prolegomeni  allo  studio  completo  delle  fonti. 

—  Una  buona  nota  sui  primordj  della  novella  francese  ha  pubbli- 
cato il  prof.  K.  Vossler  nelle  Studien  zur  vergi.  Litteraturgesch.  del 
Kocb,  fase.  1°    del  voi.  II. 

—  Compiendosi  il  terzo  cinquantennio  dalla  fondazione  della  Società 
delle  Scienze  di  Gottinga,  Guglielmo  Meyer  di  Spira  ha  comuni- 
cato, nella  Festschrift  {B^vììn,  Weidmann,  1901),  la  scoperta  da  lui  fatta 
di  sette  nuove  carte  dei  Carmina  Burana,  che  giacevano  confuse  in 
mezzo  ad  altri  frammenti  nella  Biblioteca  di  Monaco  in  Baviera.  La 
illustrazione  di  quelle  tredici  pagine,  che  costituisce  la  parte  princi- 
pale dello  splendido  volume,  vuol  essere  segnalata  come  uno  dei 
contributi  più  cospicui  che  in  questi  ultimi  anni  furono  recati  alla 
letteratura  latina  del  medio  evo. 

—  Paul  Sabatier  ha  pubblicato  il  voi.  IV  della  sua  Collection  d'études 
et  de  documents  sur  Vhistoire  religieuse  et  littéraire  du  moyen  uge  (Paris, 
Fischbacher).  Questo  volume  contiene  gli  Actus  beati  Francisci  et  so- 


486  BULLKTTINO    BIBLIOGRAFICO 

ciontin  ejns  editi  a  cura  dello  stesso  Sabatier,  e  sebbene  non  offra 
una  edizione  critica  ma  soltanto  una  riproduzione  fedele  del  migliore 
fra  i  due  mss.  che  l'editore  potè  adoperare,  pur  il  suo  lavoro  anche 
così  sarà  utilissimo,  perché  rende  accessibile  a  ogni  studioso  il  testo 
di  cui  i  famosi  Fioretti  sarebbero  la  traduzione.  Alla  edizione  fanno 
corredo  ampie  illustrazioni  che  accrescono  notevolmente  il  pregio 
del  volume. 

—  Allo  stesso  Sabatier  dobbiamo  la  fondazione  in  Assisi  di  una 
Società  internazionale  di  studi  francescani  d'intento  esclusivamente 
scientifico,  la  quale  ha  iniziato  l'opera  sua  promovendo  in  quella  città 
la  formazione  di  una  grande  biblioteca  ove  si  raccoglieranno  tutte  le 
pubblicazioni  aventi  carattere  francescano,  e  ha  istituito  un  comitato 
con  rincarico  di  facilitare  agli  studiosi  forestieri  le  corrispondenze  e 
le  ricerche  su  cose  francescane. 

—  Nella  Rivista  Abruzzese  del  1901,  Suppl.  I,  il  dott.  G.  Finamore 
ha  pubblicato  una  serie  di  leggende  popolari  abruzzesi  raccolte  dalla 
tradizione  orale  su  Santa  Diodora,  San  Vito,  La  fonte  di  San  Franco, 
San  Silvestro. 

—  La  casa  editrice  Vallardi  ha  dato  alla  luce,  coll'intento  di  render 
servigio  ad  un  pubblico  assai  largo,  un  Dizionario  Etimologico  di  do- 
dicimila vocaboli  italiani,  derivati  dal  greco,  autori  A.  Amati  e  P.  E,  Guar- 
nerio.  Ci  pare  ch'esso  risponda  egregiamente  al  suo  scopo. 

—  Essendosi,  il  26  ottobre  1891,  festeggiato  in  Bonn  il  venticin- 
quesimo anniversario  dell'assunzione  di  W.  Foerster  alla  cattedra  già 
occupata  da  F.  Diez,  in  onore  dell'insigne  romanologo  vollero  amici 
e  scolari  mettere  insieme  un  volume  di  Beitrdge  zur  romanischen  und 
englischen  Philologie  (Halle,  Max  Niemeyer,  1902,  8°  gr.,  498  pagine), 
di  cui  ecco  il  sommario: 

Lang  Rudolf,    Die    indianischen  Elemente   im   chilenischeìi    Spanisch. 

—  Goldschmidt  Moritz,  Germanisches  Kriegswesen  ini  Spiegel  des  ro- 
manischen Lehntvortes.  —  Stengel  Edmund,  Fromondins  als  Kloster- 
hruder.  Episode  aus  der  Chanson  von  Gerbert  de  Mez  nach  11  Hss.  — 
Thomas  Antoine,  Hérec  de  Beaujeu,  maréchal  de  France,  et  les  derniers 
vicomtes  d'Anbusson.  —  Cloetta  Wilhelm,  Die  Entstehung  des  Moniage 
Guillaume  —  Cornu  Julius,  Das  Hohelied  in  Castillanischer  Sprache 
des  XIII  JaJirhunderts  nach  der  Handschrift  des  Escoriai  I.  i.  6.  — 
Zenker  Rudolf,  Die  Synagon-Episode  des  Moniage  Guillaume  IL  — 
Wahlund  Karl,  Eine  altprovenzalische  Prosailbersetzung  von  Brandans 
Meerfahrt.  —  Suchier  Hermann,  Die  Mundart  der  Strassburger  Eide. 

—  Forster  Max,  Ein  englisch-franzosisches  Rechtsglossar.  —  Baist 
Gottfried,  Variatianen  ilber  Roland,  2074,  2156.  —  Behrens  Dietrich, 
Zur  Wortgeschichte  des  Franzosischen.  —  Neumann  Fritz,  Lai.  anca 
altfrz.  oie-oue  und  Verivandtes.  —  Rajna  Pio,  Un  eccidio  sotto  Dago- 
berto  e  la  leggenda  epica  di  Roncisvalle.  —  Friedel  Victor  H.,  L'ar- 
rivée  des  Saxons  en  Angleterre  d'après  le  texte  de  Chartres  et  l'Historia 
Britonum.  —  Morsbach  Lorenz,  Die  angebliche  Originalitàt  des  friih- 
mittelenglischeti  "  King  Horn  „  nebst  einem  Anhang  ilber  anglo-fran- 
zosische  Konsonantendehnung .  —  Steffens  Georg,  Der  Kritische  Text 
der  Gedichte  von  Richart  de  Semilli.  Mit  den  Lesarten  aller  bekannten 


NOTIZIE  487 

Handschrìften.  —  Gaufiiiez    P^ugène,  Notes  sur  le  vocalisine  de  Meigret. 

—  Gròber  Gustav.  Eia  Marienmirakel.  —  Bùlbring  Karl,  Sidrac  in 
England.  —  T<?ndering  Fritz,  Die  logisch-schidende  Kraft  der  franzo- 
sischen  Graininatik,  Ein  Beitrag  zu  Methodik  des  franzósischen  Unterricìds. 

La  direzione  degli  Studj  si  associa  di  gran  cuore  alla  dimostrazione 
di  attetto  e  d'onore  a  cui  il  professore  di  Bonn  fu  fatto  segno  da 
parte  di  così  bella  e  larga  schiera  di  studiosi. 

—  Scritti  vari  di  filologia.  —  Il  2  febbraio  di  quest'anno,  compien- 
dosi, il  venticinquesim'anno  d'insegnamento  del  professore  E.  Monaci, 
antichi  scolari  ed  amici  vollero  offrirgli  un  volume  che,  sotto  il  titolo 
Scritti' vari   di  filologia,  contiene  le  seguenti  memorie: 

A.  Parisotti,  Idee  religiose  e  sociali  di  un  filosofo  greco  del  medio 
evo.  —  L.  Biadene,  //  collegamento  delle  due  parti  principali  della 
stanza  per  mezzo  della  rima  nella  canzone  italiana  dei  secoli  XIII  e 
A'/F.  —  P.  Egidi,  Bel  azioni  delle  cronache  viterbesi  del  secolo  XV 
tra  di  loro  e  con  le  fonti.  -  L.  Gauchat,  Sono  avuto.  —  F.  Pometti, 
Il  ruolo  dei  lettori  del  MD.LXVIIII-MD.LXX.  ed  altre  notizie  sul- 
l'Università di  Roma  (con  tavola).  —  C.  Manfroni,  Il  figlio  di  Lamba 
D'Oria.  —  M.  Pelaez,  Un  Detto  di  passione.  —  C.  A.  Garufi,  Sulla 
curia  stratigoziale  di  Messina  nel  tempo  normanno- svevo.  —  C.  Avogadro, 
Appunti  di  toponomastica  veronese.  —  E.  Maurice,  Di  alcuni  carmi 
sacri  di  Paolino  d'Aquileia-  —  F.  Guerri,  Inforno  ad  una  epigrafe  di 
S.  M.  di  Castello  in  Corneto  Tarquinia  (con  tavola).  -  C.  Trabalza, 
Una  laude  umbra  e  un  libro  di  prestanze.  —  G.  Predieri,  Serafino 
Aquilano  nei  manoscritti  dell' Antin ori.  —  V.  de  Bartholomaeis,  Un 
frammento  bergamasco  e  una  novella  del  Decamerone.  —  G.  S.  Ra- 
mundo,    Commodiano    e    la    reazione   pagana    di  Giuliano    l'Apostata. 

—  A.  Colasanti,  L'epitaffio  di  Benedetto  VII.  —  E.  Bovet,  Ancora  il 
problema  "andare,,.  —  P.  Tacchi  Venturi,  Corrispondenza  inedita  di 
L.  A.  Muratori  con  i  2>P-  Contucci,  Lagomarsini  e  Orosz  della  Com- 
pagnia di  Gesti.  —  G.  Grimaldi,  Una  lettera  di  Bernardo  Dovizi  di 
Bibbiena  a  Giulio  de'  Medici.  —  G.  Cappuccini,  L'eteroclisia  in  are  e  ire. 

—  0.  Antognoni,  L'epigrafe  incisa  sul  sepolcro  di  Dante.  —  G.  Maz- 
zatinti.  La  biblioteca  di  S.  Francesco  (tempio  Malatestiano)  in  Rimini. 

—  C.  de  LoUis,  Quel  di  Lemos).  —  V.  Tommasini,  Sulle  laudi  greche 
conservate  nel  Liber  politicus  del  Canonico  Benedetto.  —  C.  Segrè, 
Chi  accusò  il  Petrarca  di  magia.  —  V.  Rocchi,  Una  lettera  inedita  di 
papa  Urbano  VI  (con  tavola).  —  F.  Egidi,  Per  la  datazione  del  codice 
Casanatense  A.  I.  8  (233).  —  A.  Silvagni,  Un  ignoto  poema  latino  del 
secolo  XIII  sulla  Creazione.  —  G.  Croeioni,    Il    dialetto    di    Canistro. 

—  F.  Hermanin,  Il  miniatore  del  codice  di  S.  Giorgio  nell'Archivio 
Cajyitolare  di  S.  Pietro  in  Vaticano.  —  G.  Salvadori  e  V.  Federici, 
/.  /  Sermoni  d'occasione,  le  sequenze  e  i  ritmi  di  Remigio  Girolami  fio- 
rentino. IL  Ricerche  sui  sermoni  ai  Priori  della  città  (G.  Vitali).  III. 
Il  manoscritto  (con  tavola).  IV.  I  sermoni.  V.  Sequenze,  ritmi,  an- 
tifone, respnnsori,  versi.  VI.  Indice  degli  argomenti  dei  sermoni.  — 
E.  Carusi,  L'indizione  nella  datazione  delle  carte  2)r ivate  romane  dei 
secoli  VIII-XI.  —  T.  Morino,  Note  ed  appunti  sidla  letteratura  roma- 
nesca. —  P.  Spezi,  Di  alcuni  giudizi  sul  Belli.  —  A.  Tenneroni,  Di 
due  antiche  laude  a  san  Francesco  d'Assisi.  —  P.  Fedele,  Un  docu- 
mento fondano  in  volgare  del  secolo  XII.  —  P.  Tommasini  Mattiucci, 
Antiche  poesie  religiose  dell'Umbria.  —  E.  Modigliani,  Intorno  alle 
origini  dell'epopea    rf'Aspremont. 


488 


BULLETTINO    BIBl.IOGRAKICO 


—  Nella  stessa  occasione  (ì.  I.  Ascoli  dedicava  al  professor  Monaci 
lo  studio,  estratto  deWArchii-^io  Glottologico  Italiano,  col  titolo:  Ancora 
della  sibilante  tra  vocali  nel  toscano.  La  diti'erenzatra  i  due  proferimenti 
(e  cioè  s  sorda,  ed  s'  cioè  s  sonora)  è  dall'Ascoli  riportata  coll'abi- 
tuale  mirabile  sagacia  a  ragioni  etimologiche,  secondo  le  quali  la  sola 
serie  in  s  mette  capo  a  voci  latine  recanti  un  vero  e  proprio  -s- 
intervocalico,  mentre  l'altra  in  f  deriva  tutta  da  voci  in  cui  origina- 
riamente la  sibilante  era  preceduta  da  altra  consonante.  Non  man- 
cano invero  parole  dalle  quali  parrebbe  doversi  attendere  un'ostinata 
ribellione  a  queste  norme  fondamentali;  ma  la  poderosa  mano  del 
Maestro  riesce  pur  sempre  a  ridurle  alla  ragione. 


ERRATA-CORRIGE 


Pag. 

371 

riga 

15 

abanda 

41 

alauda 

372 

^ 

8 

. 

. 

. 

. 

9 

_ 

^ 

^ 

23 

. 

n 

376 

_ 

6 

sapienza 

380 

^ 

15 

Silvia 

Ji 

381 

- 

22 

piéttu 

382 

24 

turkma 

386 

^ 

19 

seue-róssolo 

n 

395 

^ 

3 

alauda 

V 

399 

^ 

5 

trentacingliris 

400 

„ 

23 

c'err 

410 

^ 

13 

sponsi 

^ 

412 

^ 

23 

ptràun 

•r 

415 

^ 

25 

alauda 

T) 

416 

^ 

1 

. 

, 

^ 

4 

, 

, 

^ 

. 

6 

r 

, 

„ 

, 

8 

,. 

, 

419 

. 

4 

gard'na 

12 

alanda 

^ 

^ 

?i 

23 

., 

K 

423 

^ 

20 

e  del  rossignol, 

425 

37 

nota  II 

, 

439 

, 

1 

alanda 

T 

r 

, 

4 

- 

, 

441 

, 

10 

k'ca 

„ 

445 

„ 

12 

spisón 

corr.      alauda 


sperienza 
Silvia 


piéttu 


turkina 

skue-róssolo 

alauda 

trentacingliris 

cerr 

spionsi 

petràun 

alauda 


gardéna 
alauda 

e  del  rossignol  in 

un  altro, 
nota  VI 
alauda 

kéca 
spinsón. 


Tipografia  VINCENZO  BONA.  ••  Via  Ospedale,  3,  Torino. 


IL  CANZONIERE   PROVENZALE  J 


Il  codice  di  rime  provenzali  J  fu  scoperto  dallo  Stengel 
che  lo  descrisse  e  ne  pubblicò  numerosi  saggi,  l'anno  1872, 
nella  Rivista  di  filologia  romanza  I,  pag.  25  e  sgg.  Le  sue 
indicazioni  servirono  poi  dì  base  a  Gustavo  Grober  per 
classificare  questa  raccolta  nella  gran  famiglia  dei  canzo- 
nieri provenzali  \),  e  del  testo  di  J  si  giovarono  pili  tardi 
lo  Schultz,  lo  Zenker,  il  Coulet,  pubblicando  criticamente 
il  primo  le  epistole  poetiche  di  Raimbaut  de  Vaqueiras  (e 
dopo  di  lui  il  Crescini),  il  secondo  le  rime  di  Folquet  de 
Romans,  e  l'ultimo  quelle  di  Guilhem  Montanhagol;  io 
stesso  ebbi  a  valermene  per  la  mia  edizione  delle  Novas 
del  papagay  -).   Ma   buona  parte  del  canzoniere  è  tuttora 


*)  Die  Liedersammlungen  der  Trouhadoiirs ,  in  Romanische  Stiidien, 
II,  337  segg. 

*)  Die  Briefe  des  Trobadors  Raimbaut  de  Vaqueiras  an  Bonifaz  I 
Marhgrafen  von  Monferrat;  zum  ersten  Male  kritiscli  herausg....  von 
Oscar  Schultz.  Halle  a.  S.,  1893.  Cfr.  anche  Crescini,  R.  de  V.  et  le 
marquis  Boniface  I  de  Monferrat,  in  Annales  die  Midi  XI,  417;  XII, 
433;  XIII,  141.  —  Die  Gedichte  des  Folquet  von  Romans,  herausg. 
von  RcDOLF  Zenker,  Halle  a.  S.,  1896  {Romanische  Bìbliothek,  N.  12); 
—  Le  troubadour  Guilhem  Montanhagol,  par  Jules  Coulet,  Toulouse, 
1898  {Bibliothèque  meridionale,  V^  serie,  t.  IV).  —  Savj-Lopez,  La 
Novella  Profetale  del  Pappagallo,  Napoli,  1901  (Estr.  dagli  Atti  della 
R.  Accademia  di  Archeologia,  Lettere  e  Belle  Arti,  Voi.  XXI). 

Studj  di  filologia  romanza,  IX.  31 


490  P.    SAVJ-LOPEZ 

inedita,  ne  lo  Stengel,  in  quel  suo  fugace  esame  di  un  mano- 
scritto che  si  proponeva  forse  d'illustrar  compiutamente 
più  tardi,  esaurì  per  tal  modo  la  materia,  che  moltissimo 
non  rimanga  oggi  a  dire,  o  anche  a  ridire  :  solito  privi- 
legio di  quelli  che  vengon  dopo  !  Non  sarà  dunque  inoppor- 
tuno tornare  sull'argomento,  e,  mettendo  in  luce  tutta  la 
raccolta,  indagarne  quanto  meglio  si  possa  la  costituzione 
e  le  fonti. 

Il  cod,  Conv.  Sopp.  F,  4,  776  della  Nazionale  fiorentina, 
pergamenaceo,  di  mm.  208  X  307,  proveniente  da  quel  con- 
vento, oggi  soppresso,  di  Santo  Spirito,  al  quale  il  Boc- 
caccio lasciò  morendo  affidati  la  sua  sepoltura  ed  i  suoi 
libri  '),  comprende  75  fogli  uniti  dall'  antica  legatura  in 
legno  coperta  di  cuoio  ;  ma  la  numerazione  moderna  ne 
conta  76,  tenendo  conto  della  guardia  che  fu  aggiunta  dopo. 
Nell'interno  della  legatura,  a  cui  aderisce  la  prima  parte 
del  doppio  foglio  di  guardia,  si  leggono  due  note  di  mani 

diverse  ;  la  prima  "  Iste  libe[r]  est  Io s  Latinj  primeranj 

depigljs  I  Ciuis  Fiorentini  „  ;  e  la  seconda  "  dipoi  detto  libro 
toccho  nelle  diuise  alatino  |  suo  figliuolo  ede  didetto  latino  „ . 
Le  note  sono  ripetute  sul  verso  della  guardia  sciolta  :  "  Questo 
libro  e  di  Giouannj   dj   Latino   di  primerano  |  depiglj.  chi 


')  Ma  non  per  questo  è  da  credere  che  abbia  appartenuto  al  Boc- 
caccio, non  trovandosene  notizia  in  quell'antico  catalogo  della  Bi- 
blioteca di  Santo  Spirito  che  il  Goldmann  ha  pubblicato  da  un  fram- 
mento Ashburnhamiano,  compilato  negli  anni  1450-51  [A.  Goldmann, 
Dì'ei  italienische  Handschriftenkataloge,  nel  -CentralblaU  filr  Bihìiothek- 
wesen,  anno  IV,  fase  4,  pagg.  137-155;  cfr.  la  recensione  del  Novati 
in  Giorn.  stor.  d.  lett.  it.,  X,  413  segg.].  In  una  divisione  di  esso  il 
Goldmann  sospettò,  ed  il  Novati  convenne,  di  riconoscer  parte  del- 
l'inventario boccaccesco;  ma  d'altronde  la  libreria  del  poeta  "  che 
aveva  già  sofferto  perdite  non  lievi  prima  di  essere  collocata  nei 
banchi  fatti  costruire  dal  Niccoli,  deve  averne  e  nella  seconda  metà 
del  secolo  XV  e  nel  XVI  sopportate  altre  che  ne  procurarono  lenta- 
mente la  dispersione  „  (Novati,  1.  e,  pag.  424).  Una  parziale  rico- 
struzione della  libreria  è  felicemente  riuscita  al  Dr.  0.  Heckkr, 
Boccaccio-Funde,  Braunsch-weig,  1902. 


IL   CANZONIERE    PROVENZALE    J  491 

lotruoua  siilo  renda  e  farà  bene  „  ;  e  ancora:  "Dipoi  Toccho 
detto  libro  nellediuise  alatino  Suo  figliuolo  „  ^). 

Il  f.  2  (secondo  la  numerazione  moderna,  alla  quale  mi 
terrò  d'ora  innanzi,  ma  che  in  realtà  è  il  primo  nella  ori- 
ginaria costituzione  del  codice)  contiene  l'indice  dei  capitoli 
delle  due  opere  italiane  che  seguono.  Viene  innanzi,  dal 
f.  3rt  al  f.  49  ò,  la  traduzione  che  Andrea  da  Grosseto  fece 
dei  trattati  morali  di  Albertano  da  Brescia  in  quattro  libri, 
e  che  di  sul  nostro  codice  pubblicò,  molti  anni  addietro,  il 
Selmi 2).  Comincia:  "  Come  homo  debbia  doma} re  la  lingua 
sua.  Aloncomingamento  et  almepo  et  |  ala  fine „;  ter- 
mina, mutilo,  in  principio  di  quel  capitolo  del  IV  trattato 
che  nell'edizione  del  Selmi  porta  il  n.  XXXI  e  nell'indice 
del  manoscritto  il  n.  XXVI:  "  dinaH9Ì  alagra«dine  perirà 
lo  fuco  (sic)  et  .  .  .  .  ,,.  Il  foglio,  che  è  l'ultimo  d'un  se- 
sterno {4:9  b),  ha  in  calce  il  richiamo  "  dinaw9Ì  alla  ,,  che 
non  ha  corrispondenza  perchè  in  testa  del  foglio  seguente 
principia  invece  l'altro  testo  italiano  (rubrica:  "  Questi  sono 
fiori  et  vita  di  |  filosafi  edaltrisauij  ediwperadori  „)  che  va 
fino  al  f .  57  a.  Comincia  :  "  Pittagora  fue  lo  primo  fìlosafo  „ , 
e  finisce:  "  maestro  per  lacaduta  delli  altri.  Explicit  Liber 
FiLOSOFORUM  „ .  Anche  sulla  base  del  nostro  codice  pubblicò 
i  Fiori  nel  1893  Hermann  Varnhagen,  dal  quale  il  codice 
stesso  venne  pur  sommariamente  descritto  ^).  Al  trattato 
d' Albertano  manca  dunque  l'ultimo  foglio,  e  su  questo  fatto 
avremo  occasione  di  ritornare. 

Seguono  bianchi  i  &.ò7b  e  58;  sul  wrso  di  quest'ultimo 


')  Non  dunque  lo  dava  Giovanni  al  figliuolo,  come  ebbe  a  scrivere 
lo  Stengel;  ne  codesto  Giovanni  portò  mai  il  cognome  Coi  che  lo 
Stengel  medesimo  gli  attribuì  per  inesatta  lettura  là  dov'è  scritto 
semplicemente  di  (1.  e,  pag.  25). 

^)  Dei  trattati  morali  di  Albertano  da  Brescia,  volgarizzamento  ine- 
dito  puhhl.  a  cura  di  Francesco  Selmi.  Bologna,  1873. 

^)  Ueber  die  '  Fiori  e  vita  di  Filosofi...  ecc.,  nebst  dem  italienischen 
Teste,  von  Hermann  Varnhagen,  Erlangen,  1893.  Tedi  la  descrizione 
a  pag.  VII,  vili,  IX,  con  la  riproduzione  del  primo  foglio. 


492  P.   SAVJ-LOPEZ 

si  legge  soltanto,  in  alto,  un  nome:  Lapo  churadi.  Ame;<.  Nel 
f.  59  rt,  oltre  una  ricetta  ed  uno  scongiuro  contro  le  ma- 
lattie del  cavallo,  di  mano  del  tardo  secolo  XIV,  si  legge 
ripetuto  il  nome  del  possessore:  "  Hic  liber  est  mei  latinj 
depillis.  qui  eum  i;menit  redat  ^ropter  dei  amorem  „.  Di 
fianco  alla  ricetta,  i  nomi  "  Lapo  danielli  „  e  "  Lapo  chu- 
radi ,, ,  entrambi  della  stessa  mano  ;  e  "  Lapo  churadi  „ 
appare  di  nuovo  scritto  ma  tosto  fatto  svanire  un  poco 
più  in  su. 

Col  f.  60  incominciano  le  poesie  provenzali.  Sono  com- 
plessivamente 14  fogli  scritti,  da  60  fino  a  quasi  tutto  73  ò, 
che  ha  in  bianco  soltanto  lo  spazio  di  nove  righe  della  se- 
conda colonna.  II  f.  74  a  contiene  in  alto  una  nota  com- 
merciale scritta  in  italiano,  fra  la  fine  del  sec.  XIV  e  il 
principio  del  seguente  ^),  ed  infine  dopo  i  fif.  746  e  75  che 
son  bianchi,  l'ultimo  contiene  alcune  ricette  latine  pei  mali 
del  cavallo,  dovute  alla  stessa  mano  che  scrisse  la  rac- 
colta provenzale  ^),  e  che  in  fondo  al  f.  76  è  dopo  le  parole 

xps  regnat 

xps  imperat 

aggiunse  la  declinazione  singolare  del  nome  tabernaculum 

Tabernaculuw 
Tabernaculi,  ecc. 

Le  poesie  provenzali  —  come  già  i  testi  italiani  —  sono 
scritte  in  doppia  colonna,  di  scrittura  piuttosto  fitta;  ogni 
colonna  comprende  cinquantuna  riga,  eccetto  le  due  del 
f.  62 a  che  ne  contano  cinquanta;  ogni  rigo  conta  in  media 
33-34  lettere,  perchè  i  versi  sono  scritti  in  continuazione 
e  solamente  divisi  da  un  punto:  fa  eccezione  una  sola 
poesia  —  la  novella  del  Pappagallo  —  dove  il  diverso  or- 


')  Anche  secondo  il  Varnhagen  :  "  ungefàhr  aus  derselben  Zeit  wie 
der  [kurze  italienische  Eintrag]  auf  Bl.  59 r.  ,,  cioè:  "  aus  dem  Ende 
des  vierzehnten  oder  dem  Anfange  des  fùnfzehnten  Jahrhunderts  „ 
(Op.  cit.,  pag.  vili). 

')  Di  queste  ricette  lo  Stengel  pubblicò  le  rubriche. 


IL  CANZONIERE   PROVENZALE   /  493 

dine  si  spiega  osservando  che  non  si  tratta  di  strofi  li- 
riche. Ogni  poesia  ha  ripetuto  in  testa  il  nome  dell'autore, 
di  color  rosso  ;  le  iniziali  mancano  e  nello  spazio  loro  de- 
stinato si  vede  in  piccolo  segnata  la  lettera  corrispondente. 
Ma  prima  di  venire  all'esame  del  contenuto,  bisogna  ora 
domandarsi  se  il  nostro  codice,  contenendo  scritture  di- 
verse di  indole  e  di  lingua,  fosse  originariamente  uno  come 
oggi  appare,  o  non  piuttosto  risulti  dall'accordo  posteriore 
di  due  parti  dapprima  indipendenti,  Tuna  italiana  e  l'altra 
provenzale.  Quest'ultimo  fu  il  parere  dello  Stengel,  ed  il 
Varnhagen  lo  segui  :  ma  l'interessante  questione  a  cui  altre 
questioni  si  annodano  non  va  così  presto  risolta.  Dirò  su- 
bito che  la  grafia  dei  testi  italiani,  generalmente  piìi  grossa 
e  meno  angolosa,  appare  diversa  da  quella  delle  rime  pro- 
venzali, sebbene  qua  e  là  venga  assottigliandosi  per  modo 
che  la  differenza  apparisca  un  po'  meno  evidente  :  cito,  per 
dare  un  esempio,  i  fogli  46-47.  Tuttavia  un  più  minuto 
esame  comparativo  fatto  per  l'appunto  nei  luoghi  di  mag- 
gior somiglianza  sembra  confermare  la  diversità  delle  scrit- 
ture '). 


')  Citerò  alcuni  esempi.  Nella  parte  italiana  a  e  scritto  in  tre  ma- 
niere diverse  :  o  l'asta  s'incurva  appena  leggermente  a  sinistra,  molto 
meno  che  nel  moderno  «i  tipografico;  o  curvandosi  si  chiude  in  modo 
da  formare  una  seconda  pancia  sovrapposta  alla  prima;  oppure  non 
s'incurva  per  nulla,  e  termina  all'altezza  della  pancia.  Il  testo  prov. 
ha  di  queste  forme  soltanto  la  prima  e  la  terza  :  questa,  che  divenne 
comune  in  Francia  nel  sec.  XIV,  appare  già  nel  sec.  precedente,  e 
Io  stesso  va  detto  di  a  con  la  doppia  pancia  (Cfr.  Éléments  de  pa- 
léographie,  par  le  Chanoine  Reusexs,  Louvain,  1899,  pag.  277).  —  La 
gamba  del  g  prov.  è  quasi  sempre  corta,  bruscamente  spezzata  nella 
curva  —  invece  nella  scrittura  italiana  è  ampia  e  forma  una  curva 
chiusa.  Lo  z  prov.  è  in  Andrea  da  Grosseto  e  ne'  Fiori  un  f.  Soltanto 
nel  p  prov.  l'estremità  inferiore  della  pancia  taglia  l'asta  verticale 
e  si  prolunga  alquanto  indietro;  l'asta  del  d  prov.  è  generalmente 
piìi  eretta,  ecc.,  ecc.  Notevoli  differenze  offrono  pure  le  maiuscole. 
Anche  il  segno  abbreviato  di  et  è  il  più  delle  volte  diverso  :  nell'ita- 
liano l'asta  verticale  all'estremità  superiore  s'incurva  appena  legger- 


491  P.    SAVJ-LOPEZ 

Ma  se  l'angolosità  della  seconda  è  tale  da  rivelare  in- 
contestabilmente una  mano  francese ,  come  parve  allo 
Stengel  ed  al  Thomas  ^),  né  anche  la  prima  si  salva  dal 
sospetto  di  gallicismo.  Una  dichiarazione  anonima  apposta 
modernamente  al  codice  vorrebbe  trovare  nello  stile  delle 
iniziali  e  nella  pergamena  stessa  i  segni  originari  della 
patria  francese  ;  anche  per  il  Varnhagen  le  grosse  iniziali 
dei  trattati  d'Albertano  hanno  carattere  francese  ^).  Ma  le 
pergamene  non  hanno  mai  particolarità  locali,  e  le  iniziali, 
quasi  sempre  posteriori  alla  scrittura,  potrebbero  essere 
state  eseguite  lungi  dal  luogo  originario  del  codice;  ne  è 
prudente  tener  conto  di*  quelle  unioni  o  disunioni  irrego- 
lari di  parole  che  parvero  così  notevoli  al  Varnhagen  ^). 
Senza  bisogno  di  questi  argomenti  malsicuri,  abbiamo  ra- 
gioni ben  più  forti  di  sospetto.  Francese  è  veramente  il 
segno  abbreviato  di  et,  che  è  bensì  alquanto  diverso  — 
quasi  sempre  —  da  quello  usato  nel  testo  provenzale,  ma 
pur  esso  divide  quest'ultimo  a  metà  con  quel  breve  taglio 
speciale  delle  scritture  di  Francia.  E  se  già  il  Varnhagen 
osservò  nel  testo  dei  Fiori  alcuni  gallicismi:  contraire^ 
faire,  che  scritto  talora  que,  da'  medesimi  Fiori  aggiungo 
un  taillare  corretto  poi  con  l'espunzione  di  i  francese  e  la 


mente  a  sinistra,  mentre  nel  prov.  vi  si  attacca  un'altra  asta  orizzon- 
tale, come  nel  nostro  numero  7.  La  distinzione  non  è  costante:  ma 
se  nell'it.  si  può  trovare  et  talvolta  in  forma  più  somigliante  a  quella 
del  testo  prov.,  in  questo  non  ricorre  mai  la  forma  propria  dell'altro. 
Noterò  ancora  che  il  prov.  ha  pochissime  abbreviature,  e  sempre  in 
fin  di  rigo,  e  relativamente  molte  ne  ha  l'ital.;  e  se  i  Trattati  ed  i 
Fiori  non  contano  che  47  righi  per  pagina,  51  ne  contano  le  poesie 
provenzali. 

*)  Stengel,  1.  cit.,  pag.  27  ;  Thomas,  Francesco  da  Barberino  et  la 
littér.  prov.  en  Italie  au  Moyen-ùge;  Paris,  1883,  pag.  99.  V.  anche,  per 
l'angolosità  della  scrittura  francese  nel  sec.  XIII,  Maurice  Prou,  Ma- 
nuel de  Paléographie  latine  et  francciise  du  VI^  au  XVIP  siede;  Paris 
(senza  data),  pag.  111-112. 

^)  Op.  cit.,  pag.  viii-ix. 

^)  Op.  cit.,  pag.  IX. 


IL   CANZONIERE   PROVENZALE   /  495 

giunta  di  i  italiano  talUare.  E  nella  traduzione  di  Albertano 
osservo  al  f.  Vòb  gardare,  dove  V  u  fu  aggiunto  sopra  in 
seguito;  al  f.  475  guerriare.  Nel  f.  6 a,  col.  2"  leggo:  "  Et 
inunaltro  luogo  disse:  la  garricita  cioè  le  garricite  dele 
femine  non  può  celare  neuna  cosa  „  :  dove  garricite  sembra 
essere  travestimento  francese  della  parola  italiana,  quasi 
un'illustrazione  della  medesima.  Sembra,  dico,  sebbene  gar- 
ricite non  apparisca  nel  lessico  francese  (nò  garricita  nel- 
l'italiano, del  resto);  io  non  saprei  spiegare  diversamente 
la  cosa. 

Diversa,  in  conclusione,  la  mano  italiana  dalla  provenzale  ; 
questa  sicuramente  d'oltralpe,  probabilmente  tale  anche  la 
prima,  e  l'una  e  l'altra  rimontanti  alla  fine  del  sec.XIII  ^). 
Giova  avvertire  che  Andrea  da  Grosseto  tradusse  i  trat- 
tati d' Albertano  a  Parigi,  nel  1268  ;  questo  egli  ripete  in 
fine  del  primo,  del  secondo,  del  terzo  libro;  questo  avrà 
ripetuto  nella  fine  perduta  del  quarto  che  è  mutilo,  come 
fu  visto  2). 

*)  Nessuno  finora  ha  accennato  all'età  della  seconda  parte;  rispetto 
alla  prima  la  nostra  determinazione  cronologica  è  su  per  giù  la  me- 
desima fatta  già  dal  Bartoli  [St.  della  leti,  ital.,  Ili,  217)  :  "  il  codice 
Magliab.  dei  Conventi  soppressi...  appartiene  indubbiamente  o  alla 
fine  del  sec.  XIII  o  ai  primi  del  XIV  „.  Lo  Stengel  (pag.  25)  ritenne 
i  testi  italiani  scritti  al  principio  del  secolo  XIV,  e  così  il  Varnhagen. 
Al  sec.  XIV,  più  generalmente,  li  fan  rimontare  il  Selmi  e  Gusta vRolin 
(Soffredi  del  Grathia' s  Uehersetzung  der  philosoi)ìiischen  Traktate  Alber- 
tano'svon  Brescia,  hex&Msg.  von  G.  R.  ;  Leipzig,  1898,  pag.  v). 'Appa- 
rentemente la  scrittura  provenzale  si  direbbe  più  antica  dell'altra,  ma 
vedremo  ch'essa  non  può  essere  anteriore  ;  del  resto  contenendo  i 
sirventesi  di  Peire  Cai'denal  non  potrebbe  essere  più  antica  degli 
ultimi  decenni  del  sec.  XIII. 

^)  In  fine  del  primo  libro  :  "  Qui  e  compiuto  lo  pHwo  libro  de  la 
dottrina  delparlare  et  deltaciere  fatto  da  albertano  giudice  et  auo- 
gado  dileggio  {sic)  dela  cata  {sic)  dibrescia  dela  contrada  di  santa 
gatha  translatato  et  uolgarÌ9ato  da    andrea   da    grosseto    ne    la   cita 

diparigi  ,  (f.  8  a).  In  fine  del  secondo  apparisce  la   data  :  " negli 

anni  didio  m.cc.lx.viij  „  (f.  26  b).  Il  nome  del  volgarizzatore  è  così 
scritto  in  fine  del  terzo  libro  :  "  Andrea  del  grosseto  „    (f.  42  a). 


496  P.    SAVJ-L0PE7. 

Non  abbiamo  nessuna  ragione  di  credere  che  innanzi  a 
noi  stia  l'autografo:  abbiamo,  anzi,  mille  ragioni  di  credere 
il  contrario  ;  ma  se  la  traduzione  d'Albertano  fu  scritta  a 
Parigi,  nessuna  meraviglia  è  che  in  Francia  si  continuasse 
a  trascrivere  questo  con  altri  testi  italiani  al  tempo  in  cui 
tante  donne  nostre  eran  per  Francia  nel  letto  deserte!  Ne 
va  dimenticato  che  Albertano  fu  ben  presto  tradotto  anche 
in  francese;  una  versione  del  sec.  XIII  è  manoscritta  nella 
biblioteca  Nazionale  di  Parigi,  dove  sono  anche  tre  codici 
del  Livre  de  Mellibée  et  Prudence  volto  in  prosa  francese 
intorno  il  1336  da  quel  Renaut  de  Louhans  che  tradusse 
anche  Boezio  M. 

Il  sospetto  che  il  codice  nostro,  scritto  com'è  in  due 
lingue  e  da  due  mani,  fosse  anche  composto  di  due  parti 
originariamente  distinte,  ed  accozzate  poi,  può  sembrar  fa- 
vorito dal  fatto  che  le  poesie  provenzali  cominciano  col 
primo  foglio  di  un  quinterno.  Il  trattato  d'Albertano  consta 
di  quattro  sesterni  —  del  foglio  mancante  avrò  a  ripar- 
lare —  i  Fiori  di  un  quinterno  con  bianchi  i  due  ultimi 
fogli  ;  il  canzoniere  provenzale,  infine,  di  un  quinterno  ed 
un  quaderno:  il  quinto  foglio  di  quest'ultimo  è  tagliato, 
tuttavia  già  sul  verso  del  precedente  (73)  era  finito  il  testo. 

Ma  erano  "in  realtà  due  parti  distinte?  Contro  queste 
varie  apparenze  si  leva  una  ragione  che  basta  a  distrug- 
gerle. Lo  Stengel  disse  che  i  fogli  delle  due  parti  non  sono 
numerati  -)  :  invece  l'intero  codice  ha  le  tracce  ancor  qua 
e  là  evidenti  di  un'antica  numerazione  abrasa,  che  per  noi 
è  molto  interessante.  Vediamo  che  fino  a  dodici  si  procede 
regolarmente:  ma  la  carta  tredicesima  (che  nella  num.  mod. 
è  quattordicesima)  mostra  le  tracce  appena  visibili  di  un 
XXV:  più  chiaro  segue  il  xxvj,  e,  cosi  via,  or  più  or 
meno  evidenti  continuano  i  vecchi  numeri  in  serie  ordinata 


')    Bibliothèque   imperiale,  Catalogne  des  manuscrits  fran^ais,  Tome 
premier,  Paris,  1868;  n.  578,  580,  813;  1142. 


')  L.  cit ,  pag.  25 


IL   CANZONIERE    PROVENZALE   J  497 

fino  a  xlvj,  sul  f.  35,  xlviij  sul  f,  37.  Poi  non  si  distingue 
più  nulla  0  quasi  per  un  pezzo;  ma  sul  f.  49  par  di  rico- 
noscere un  xxiiij,  e  sul  f.  53  fu  rispettato  l'antico  Ixiij  che 
appare  chiarissimo  ;  di  qui  innanzi  si  va  in  buona  regola 
fino  a  Ixx  (mod.  60)  dove  hanno  principio  le  poesie  pro- 
venzali, e  l'ordine  è  mantenuto  per  tutto  il  rimanente  del 
codice. 

Per  renderci  conto  della  numerazione  irregolare,  bisogna 
ammettere  che  i  vari  sesterni  di  Albertano  fossero  prima 
numerati  che  scritti  e  legati;  onde  avvenne  che  nella  le- 
gatura il  secondo,  co'  fogli  xiij-xxirij,  si  trovò  ad  esser 
quarto  ^),  e  cosi  leggiamo  quest'ultimo  numero  sul  qua- 
rantottesimo foglio  [12  X  4],  modernamente  segnato  49. 
Ma  non  basta.  Come  va  che  nel  seguente  quinterno  dei 
Fiori,  quattro  fogli  dopo,  si  legge  Ixiij  (mod.  53)  in  modo 
che  sul  primo  foglio  de'  Fiori  doveva  essere  un  Ix,  mentre, 
tenendo  conto  del  foglio  mancante  d'Albertano,  ci  aspette- 
remmo invece  un  50?  Mancan  dunque  non  un  foglio  solo, 
ma  undici  fogli,  dieci  dei  quali  contenevano  forse  un  testo 
smarrito?  Avverto  che  il  foglio  d'Albertano  non  poteva 
appartenere  a  quello  che  ora  è  il  quinterno  de'  Fiori  e  sa- 
rebbe stato  un  sesterno,  perchè  in  questo  caso  o  dovremmo 
trovare  l'altra  metà  corrispondente  che  verrebbe  ad  essere 
proprio  innanzi  alle  poesie  provenzali,  o  —  se  anche  questa 
fu  strappata  —  dovremmo  vedere  una  lacuna  nella  nume- 
razione. Invece  nessun  mezzo  foglio  è  rimasto,  e  la  nume- 
razione procede  regolarmente  dal  quarto  foglio  del  quin- 
terno al  primo  del  quinterno  seguente  —  prova  che  nulla 
manca  da  quella  parte. 

Abbiamo  così  stabilito  due  fatti  :  1)  il  codice  ha  una  nu- 


')  E  naturalmente  il  terzo  secondo,  il  quarto  terzo  (xlviij  =  36, 
mod.  37).  Noto  che  non  esiste  una  numerazione  speciale  dei  sesterni; 
i  numeri  che  si  leggono  in  alto  d'ogni  foglio  si  riferiscono  a'  vari 
trattati. 


498  P.    SA VJ- LOPEZ 

merazione  antica  e  saltuaria,  finora  inosservata  ^),  che  ri- 
monta a  quando  i  fogli  non  erano  ancora  scritti  ;  2)  questa 
numerazione,  della  stessa  mano,  procede  regolarmente  dalla 
parte  italiana  alla  provenzale.  Questa  è  prova  evidente  che 
il  codice  fu  uno  fin  dall'origine,  e  tutto  composto  allo  stesso 
modo  e  nello  stesso  tempo;  risulta  per  conseguenza  che  la 
parte  provenzale  è  integra,  cosa  di  che  si  poteva  dubitare 
—  e  ne  diremo  in  seguito  le  ragioni  —  se  la  si  conside- 
rava come  riunita  posteriormente  al  resto  del  codice. 

Del  cod.  J  si  occupò,  come  fu  detto,  il  Gròber  nel  suo 
studio  citato  sui  canzonieri  provenzali  ^).  J  —  egli  scrive  — 
è  ne'  primi  cinquantadue  numeri  una  raccolta  ordinata  se- 
condo i  poeti,  primo  de'  quali  si  trova  ad  essere  Peire 
Cardenal.  Bisogna  credere  questi  quattordici  fogli  avanzo 
di  un  canzoniere  più  ricco,  in  testa  del  quale  si  trovasse  un 
altro  poeta;  o  non  sono  essi  copia  di  un  canzoniere  ace- 
falo ?  Mancano  Guiraut  de  Borneilh  ed  altri  de'  maggiori. 
"Welcher  Kategorie  geordneter  Liederhandschriften  J^  bei- 
zuziìhlen  sei,  lilsst  sich  nicht  bestimmt  erkennen,.  —  Nel 
primo  sospetto  non  possiamo  consentire,  ora  che  un  esame 
più  minuto  di  quello  fatto  dallo  Stengel  ci  ha  rivelato  che 
la  parte  provenzale  non  e  indipendente,  ed  unita  all'italiana 
per  effetto  del  caso,  ma  fu  scritta  dopo  quella  sul  mede- 
simo codice;  bensì,  come  acutamente  vide  il  Grober,  J  può 
esser  la  copia  d'un'altra  raccolta  a  cui  mancasse  il  prin- 
cipio. 

Anche  delle  fonti  trattò  il  Grober,  giudicando  special- 
mente dalla  successione  e  dalle  attribuzioni  delle  poesie; 
dopo  aver  dimostrato  come  o  per  una  ragione  o  per  un'altra 
J  non  dipenda  direttamente  da  nessuno  dei  canzonieri  più 
antichi,  fu  tuttavia  indotto  a  sospettare  una  relazione  con 


*)  Lo  Stengel  (pag.  26)  che  non  s'accorse  della  numerazione  antica, 
scrisse  che  il  quaderno  dei  Fiori  era  prima  un  sesterno:  "  il  primo 
ed  ultimo  foglio  di  questo  sono  perduti  „. 

2)  Pag.  603  segg. 


IL   CANZONIERE    PROVENZALE   J  499 

R,  0  piuttosto  con  la  sesta  parte  di   R  (R'^),  dall' ordina- 
mento dei  sirventesi  di  Peire  Cardenal: 


J    n.     1       2      3      4 

5      6      7 

8      9      10 

11     12 

13 

Rs  n.  557  558  560  559 

576  577  578 

585  592  572 

570  569 

574 

e  da  una  certa  corrispondenza  nelle  canzoni  di  Peire  Vidal 
e  Ricliart  de  Berbezill  : 

P.V. 


J  n.    U 

15 

16 

17 

R'^  n.  530 

529 

528 

532 

R.d.B         J  n.    42       43       44 
R*5  n.  505     506     507 

Ya  inoltre  considerato  che  non  pure  la  serie  di  questi 
trovatori,  ma  quella  di  Folquet  de  Marseilha  comincia 
anche  nelle  due  raccolte  con  la  stessa  canzone,  e  1'  unica 
che  J  contenga  di  Folquet  de  Romans  è  di  lui  la  prima 
in  R^.  Parve  dunque  al  Grober  di  concludere  che  apparen- 
temente R*^,  dove  son  35  de'  numeri  di  J,  avesse  con  questo 
una  fonte  comune  r'';  altri  numeri  di  J  che  hanno  luogo 
in  altre  parti  di  R  si  trovavano  fors'anche  in  r'^,  da  cui  il 
copista  di  R  non  trascrisse  naturalmente  le  poesie  tra- 
scritte già  dalle  fonti  usate  per  le  parti  anteriori  della  sua 
raccolta.  E  poiché  infine  r*^  era  una  Folquet-Sanimlung,  bi- 
sognerà accostare  anche  J  a  questa  famiglia?  Questo  pure 
sospettò  il  Grober  ^)  :  "  ma  poiché  i  canti  di  Folchetto  co- 
minciano sul  f.  8  è,  sì  che  questi  non  si  trova  in  testa  della 
raccolta,  é  da  credere  che  o  il  copista  di  J  mutò  l'ordine 
della  sua  fonte,  oppure  ne  segui  una  seconda  nella  scelta 
di  colui  che  pose  per  primo  (Peire  Cardenal)  ., . 

Rimane  ora  a  vedere  se  la  lezione  di  J  confermi  queste 
acute  induzioni,  che  l'insigne  maestro  formò  con  la  sola 
scorta  che  gli  era  fornita  dai  caratteri  esterni  del  canzo- 
niere ancora  in  buona  parte  inedito.  Prenderemo  dapprima 
in  esame  per  questa  ricerca  il  sirventese  di  Peire  Cardenal, 
Las  amairitz,  ed  altri  due  editi  dall'Appel  senza  trar  par- 

')  Pag.  603,  605. 


500  P.  SAVJ-LOPEZ 

tito  di  J;  poi,  successivamente,  poesie  di  Raimbaut  de 
Vaqueiras,  Folquet  de  Romans,  Montanhagol,  già  critica- 
mente edite  col  sussidio  di  J,  le  canzoni  di  Peire  Vidal  che 
il  Bartsch  pubblicò  nel  1857  quando  J  era  ancor  scono- 
sciuto, una  canzone  di  Richart  de  Berbezilh  ed  infine  la 
novella  di  Arnaut  de  Carcasses. 

Un  sirventese  di  Peire  Cardenal  ha  particolare  impor- 
tanza per  mostrarci  qual  posto  vada  attribuito  a  J  nella 
discendenza  dal  "  Liederbuch  „  che  di  questo  tardo  trova- 
tore compilò  in  Nimes  maestro  Miquel  de  la  Tor.  Ora,  con- 
frontando le  varie  redazioni  di  Las  amairitz  troviamo  che 
J  ha  strettissimi  rapporti  con  I,  e  grandemente  si  discosta 
da  R*^.  Già  il  Grober  stesso  aveva  notata  una  particolar 
concordanza  di  I  e  J  nella  successione  delle  poesie  di  Peire 
Cardenal 

J  n.  1     2     3     4     5     6     7     8     9 
In.  123456789 

sebbene  qui  la  concordanza  venga  a  cessare: 

J     10     11     12     13 

I     38     40     42     46 

Il  serventese  che  ci  occupa  ha  nei  due  codici  ^)  il  mede- 
simo ordine  di  strofe,  che  rispetto  a  quello  tenuto  dal- 
l'AppeP)  indicherò  così:  132456:  e  tale  ordine  ricorre  an- 
cora in  A,  cui  mancano  tuttavia  i  due  versi  di  chiusa  [6]. 
La  corrispondenza  del  testo  in  J  e  I  è  appena  disturbata 
da  qualche  variante:  I  v.  11  queu  en  sai  un  q.;  v.  14 
quans;  v.  24  ano;  v.  26  lairos;  id.  aura  lo  cap;  v.  31 
aqiiest  d.  es  plus  cuna  s.;  v.  32  peti  lo  ;  v.  33  mos  obs  -  mos 
ohs  ;  V.  35  catrestan  pauc  coni  cani  de  r.  ;  v.  36  queu  di. 
Concordi  di  fronte  agli  altri  codici,  essi  soli,  appaiono  J  e 
I  in  vari  luoghi:  v.  17  sei  qui  (I  que)  la  enson  sol;  v.  19  e 

')  Non  parlo  di  K,  ch'è  in  diretta  relazione  con  I;  ne  di  d,  in  cui 
l'ordine  è  il  medesimo,  ma  che  è  più  recente  di  J  (Grobek,  1.  cit., 
pag.  604). 

')  Provemalische  Chrestomathie,  Leipzig,  1895,  pag.  114. 


IL   CANZONIERE    PROVENZALE   J  501 

la  moilhers  fan  ;  v.  23  que  dieus  sai  (I  sa)  lo  trameta  ;  v.  28 
tot  d.;  e  per  di  più  va  osservato  che  delle  varianti  su  ri- 
ferite talune  sono  semplici  errori  di  I,  come  al  v.  14,  24, 
Malgrado  molte  e  notevoli  differenze,  a  questo  gruppo  IJ 
s'accosta  talora  A:  comuni  ad  A  I  J  contro  gli  altri  codici 
sono  le  varianti:  v.  11  que  nac  un  plen  p;  v.  17  ben; 
V.  22  sor  re  ni  moilher.  Infatti  già  il  Grober  aveva  am- 
messo pei  sirventesi  cardinaleschi  di  A  IJ  una  fonte  co- 
mune (pag.  348).  È  notevole  che  al  v.  35  A  e  J  si  contrap- 
pongono, essi  soli,  agli  altri  codici:  car  atretan  coma  de  r. 
Negli  altri  luoghi  in  cui  J  si  discosta  da  I,  vediamo  a  volte 
una  lezione  isolata  :  v.  33  mon  at  -  mon  at  ;  v.  36  que  di. 
Bisogna  dunque  ammettere  per  J  e  I  una  fonte  comune, 
e  forse  per  J  qualche  mutamento  suggerito,  per  via  di 
collazioni  o  correzioni,  dalla  fonte  di  A.  Di  Peire  Cardenal 
la  Crestomazia  dell' Appel  citata  contiene  fra  l'altro  due 
sirventesi  di  quelli  che  J  ci  offre:  Li  clerc  si  fan  pastor 
(pag.  113)  e  Tostemps  azir  falsetat  et  enian  (pag.  114);  editi 
il  primo  secondo  A  C  D  M  R,  l'altro  secondo  A  C I M  R  e 
il  canzoniere  di  Kopenhagen  indicato  con  la  sigla  i.  Di  J 
l'Appel  non  s'è  giovato.  Il  confronto  mostra  sempre  con  la 
stessa  evidenza  una  strettissima  parentela  con  I.  Basti  ci- 
tare dal  sirventese  Lì  clerc  i  seguenti  esempi  :  v.  6  nelengri  ; 
v.  7  ves\  V.  8  cancx;  v.  12  las  cals;  v.  36  mancante;  v.41 
ses  faillir:  tutti  luoghi  ne' quali  IJ  o  soli  o  con  altri  s'ac- 
cordano in  modo  particolare.  Invece  se  al  v.  39  la  lezione 
di  J  è  isolata  [maior  per  aussor;  similmente  per  errore,  ai 
vv.  13,  18),  le  varianti  dei  versi  30  {paria)  e  47  {cusson 
rie)  sono  di  M.  Quanto  al  Tostemps  azir,  V  ordine  delle 
strofi  è  identico  in  IJ,  e  solo  in  essi;  ciò  che  mi  dispensa 
dall'insister  sui  raffronti,  de'  quali  cito  appena  i  più  rile- 
vanti per  l'affinità  dei  due  testi:  v.  14  neissigues  (così  i 
che  è  dello  stesso  gruppo);  v.  17  moltz  leucs;  v  24  qtiant 
hom  lo  fon;  v.  29  darai;  v.  31  tot  un  mon;  v.  36  paisserai; 
V.  43  vertadier;  v.  46  ni  lauszor  ni  pretz  ges;  v,  47  E  (J 
quans)  se  ditz  ben.  Non  manca  neppur  qui  qualche  discordia: 


502  P.   SAVJ-LOPEZ 

al  V.  4  I  si  allontana  con  Ai  [fort  per  tot),  al  v.  32  J 
concorda  con  Mi  [Sai  hueu  et  hueu).  Questi  riavvicina- 
menti valgono  soltanto  per  i  sirventesi  di  Peire  Cardenal 
e  ci  riconducono  verso  la  raccolta  di  Miquel  de  la  Tor  :  ma 
non  ci  rivelano  la  fonte  generale  di  J  che  non  fu  certa- 
mente quella  di  I  o  di  A.  Bensì  giovano  ad  allontanare 
fin  d'ora  il  sospetto  che  tal  fonte  generale  vada  cercata  in 
r'',  dove,  giudicando  da  R",  diverso  era  nel  sirventese  l'or- 
dine delle  strofi  e  diversissimo  il  testo.  Converrà  portare 
altrove  l'indagine  ed  interrogare  altre  fonti:  cominciamo 
dall'unica  canzone  che  J  contenga  di  Folquet  —  o  Falquet? 
—  de  Romans,  Quan  he  me  sui  apessatz  e  che  si  trova 
inoltre  ne'  codici  CEGrPRSYcf,  i  [ZtscJir.  f.  rom.  Ph.,  I, 
394),  t  (Meyer,  Daurel  e  Beton,  pag.  lxxxix):  quest'ul- 
timo non  contiene  che  tre  strofi.  De'  vari  codici  lo  Zenker 
indagò  ^)  le  relazioni  e  pervenne  a  distinguere  due  gruppi, 
de'  quali  a  noi  interessa  il  secondo  :  J  f  t  R  i,  a  cui  si  ag- 
giunge C  per  la  sua  nota  parentela  con  R,  senza  che  nel 
caso  presente  il  testo  ofifra  però  occasione  a  speciali  rav- 
vicinamenti. Nella  più  precisa  genealogia  che  lo  Zenker 
dà  poi  dei  vari  manoscritti,  J  è  specialmente  legato  a  C; 
tuttavia  per  una  variante  notevole  al  v.  55  [Preguem  dieu 
contro  il  comune  A  dieu  prec)  si  è  indotti  ad  ammettere 
l'uso  di  una  seconda  fonte  appartenente  ad  un  gruppo  di- 
verso. Aggiungerò  che  talora  il  testo  di  J  ci  presenta  una 
lezione  del  tutto  isolata,  com'è  al  v.  17,  47. 

Una  probabile  varietà  di  fonti  ci  vien  confermata  dalle 
epistole  0,  meglio,  dairepistola  di  Raimbaut  de  Vaqueiras 
a  Bonifacio  I  di  Monferrato:  di  questa  contiene  J  la  seconda 
e  la  terza  serie  in  ordine  inverso  rispetto  alla  successione 
stabilita  dallo  Schultz:  cioè  quelle  a  rima  -ai  e  -o,  che 
sono  invece  prima  e  seconda  come  il  Crescini  mostrò,  e  che 
si  leggono  inoltre  ne'  codici  C  E  R  -).  Rispetto  alla  II  (-o) 

')  Op.  cit.,  pag.  63  sgg. 

^)  Non  comprendo  perchè  lo  Sclmltz  (op.  cit.,  pag.  17),  dando  queste 


IL   CANZONIERE   PROVENZALE   J  503 

10  Schultz  avverte  una  stretta  relazione  fra  J  e  C  nella 
successione  e  nel  quasi  egual  numero  de'  versi,  nella  presso 
che  identica  modificazione  dei  nomi  propri,  negli  errori  co- 
muni di  fronte  a  E  R,  nei  frequenti  alessandrini  indiscreti 
che  si  introducono  ne'  due  codici  :  la  conclusione  è  insomma 
che  J  deriva  dalla  stessa  fonte  di  C  ^).  Tuttavia  qua  e  là 
J  si  allontana  da  C  per  accostarsi  invece  ad  E  (v,  10, 
40,  48),  a  ER  (v.  15,  23,  25,  26),  o  anche  a  R  soltanto 
(v.  19-20).  E  proprio  questo  ultimo  caso  induce  lo  Schultz  2) 
ad  ammettere  per  J  pili  d'una  fonte  :  "  ja  es  ware  gar  nicht 
absurd  zu  meinen,  dass  diese  Yorlagen  moglicherweise  CER 
gewesen  seien  „ .  Osserverò  soltanto  come*  l'accordo  con  R 
al  V.  19  che  allo  Schultz  parve  il  più  persuasivo,  in  realtà 
non  sia  punto  tale.  Per  il  v.  19  (E:  dartz  e  cairels  sagetas 
e  trenso)  se  ne  leggon  due  in  R  e  J  : 

R  dartz  e  sagetas  e  cairels  e  lanso 

lansas  e  brans  e  cotels  e  fausso 
J  dartz  e  cairels  sagetas  lanseo 

lansas  e  bran  e  coutel  e  fausso. 

11  v.  19  in  C  suona,  mutilo,  così:  dartz  e  cairels  e  fausso: 
viene  cioè  a  finire  con  l'ultima  parola  di  quello  che  in  J 
e  R  è  il  secondo  verso,  e  mi  par  chiaro  che  il  copista  di  C 
abbia  fuso  in  uno,  per  errore,  i  due  versi  ch'erano  anche 
nella  sua  fonte,  la  fonte  di  J  ;  forse  ingannato  dalla  somi- 


indicazioni  di  codici,  aggiunga  alla  sigla  J  le  parole  "  Theil  II  „,  e 
dica  in  nota,  parlando  di  J,  che  la  sua  "  seconda  parte  dev'essere 
stata  scritta  alla  fine  del  sec.  XIV  ,.  11  Grober  fece  la  distinzione 
J'  e  P,  ma  comprendendo  in  quello  le  poesie  intere  ed  in  questo  le 
cóblas  esparsas  —  ed  anche  tal  distinzione,  come  avvertì  il  Grober 
medesimo,  era  puramente  formale.  Non  voglio  credere  che  J  sia  chia- 
mato dallo  Schultz  "  seconda  parte  „  rispetto  ai  testi  italiani!  Anche 
la  determinazione  cronologica  non  ha  fondamento. 

')  Pag.  24. 

^)  Pag.  25. 


504  P.   SA VJ- LOPEZ 

glianza  di  cairels-cotels  saltò  senz'avvedersene  al  secondo 
verso,  del  quale  non  sopravvive  nel  suo  testo  che  l'ultima 
parola.  Non  metterei  dunque  un  tale  esempio  fra  quelli 
che  allontanano  J  dal  suo  più  stretto  parente,  e  così  l'in- 
tese anche  il  Crescini. 

Sulla  terza  serie  {-at:  la  prima  in  J)  non  occorre  in- 
dugiare; vediamo  rinnovarsi  l'accordo  fondamentale  con  C, 
cui  tuttavia  contrasta  qualche  accordo  particolare  con  E  R 
(v.  3  e  27).  Di  varianti  comuni  soltanto  a  J  ed  E,  lo  Schultz 
non  avverte  se  non  Veneuis  (v.  20)  che  suppone  in  qualche 
modo  derivato  da  Vencaus  degli  altri  :  ma  qui  lo  trasse  in 
errore  un  errore  dello  Stengel  (poi  corretto  dal  Crescini), 
che  lesse  eneuis  là  dov'è  scritto  encaus.  Solo  con  R  è  co- 
mune una  piccola  variante  di  nessun  conto  (v.  29).  Dirò 
infine  che  nell'una  e  l'altra  serie,  il  testo  di  J  si  discosta 
pili  0  meno  sensibilmente  da  tutti  gli  altri  in  vari  luoghi 
(II  V.   5,   8,   30,  43;  III  v.  21,  28)  i). 

Con  C  conviene  ancora  J,  quasi  sempre,  nella  canzone 
e  ne'  tre  sirventesi  di.  Guilhem  Montanhagol.  Pei  quali  ac- 
cennerò soltanto  a'  risultati  che  il  Coulet  raggiunse  dal 
confronto  dei  codici.  La  canzone  Noìi  an  tan  dig  li  primier 
trohador  è  contenuta  soltanto  in  C  J  R  -)  :  "  due  volte  sole 
J  s'accorda  con  R  contro  C:  altrove  concordano  invece 
sempre  C  J,  salvo  due  lacune,  qualche  leggiera  variante  e 
qualche  errore  speciali  di  J;  talune  di  queste  sembrano 
essere  corruzioni  del  testo  di  J.  —  ...  R  si  distingue  per 
buon  numero  di  lezioni  o  di  errori  particolari  „  ^). 

Il  serventese  Nulhs  om  no  ual  ni  deii  esser  prezatz  che 
si  trova  in  non  meno  di  tredici  manoscritti,  senza  parlar 
del  Breviari  d'amor  che  ne  riproduce  quattro  strofi,  avvi- 
cina per  la  sua  lezione  J  a   ET,  ma  non  tanto  che  questi 


')  Cfr.  per  queste  classificazioni  di  codici  anche  Appel  in  Zeitschrift 
filr  rom.  Phil.,  XVIII,  294. 

')  Due  strofe  son  riprodotte  nel  Breviari  d'amor  (a). 
^)  Op.  cit.,  pag.  110. 


IL   CANZONIERE   PROVENZALE   J  505 

con  ECfa  non  sembrino  tutti  derivare,  più  o  meno  diret- 
tamente, da  una  fonte  comune  ^)  ;  l' altro  sirventese  On 
mais  a  om  de  ualensa  si  legge  unicamente  in  C  J  per  in- 
tero -)  e  di  questi  osserva  il  Coulet  che  rimontano  ad  una 
medesima  fonte  ^).  Da  ultimo  il  sirventese  Qui  uol  esser 
agradans  ni plazens  (CDEFIJKRdef;  una  strofe  sola 
in  a)  sembra  avere  rapporti  un  po'  più  complicati  :  sei  co- 
hlas  con  la  tornada  si  trovano  bensì  soltanto  in  C  J  e  f , 
ma  in  ciascun  codice  varia  la  successione  strofica,  e  tutti 
paiono  indipendenti  l'uno  dall'altro,  sebbene  appartengano 
ad  un  ceppo  comune.  Lo  stesso  ordine  che  in  J  invece  si 
ritrova  nel  secondo  gruppo  affine  E  R,  cui  manca  tut- 
tavia una  cobla,  e  molte  lezioni  sono  comuni  ad  E  J  ^). 
Bisognerà  dunque  per  questo  sirventese  ammettere  una  du- 
plice fonte  del  tipo  C  ed  E,  come  s'è  fatto  per  le  epistole 
di  Raimbaut  de  Vaqueiras. 

Le  rime  di  Peire  Vidal  vengono  a  confermare  questi  ri- 
sultati :  e  basterà  prendere  in  esame  due  delle  quattro 
canzoni  di  J.  La  prima  —  Pueis  tornatz  sui  en  Proenssa  ^) 
—  varia  nell'ordinamento  delle  strofi  di  codice  in  codice  ; 
ma  la  medesima  disposizione  ricorre  in  J  E.  e,  fra'  codici 
adoperati  dal  Bartsch  '^),  soltanto  E  C  hanno  la  strofe  E 
pos  en  sa  mantenensa  che  è  anche  in  J.  Con  E  il  nostro 
codice  s'accorda,  contro  le  altre  redazioni,  ai  vv.  21,  27, 
33,  62  e  con  esso  ed  altri  insieme  ai  vv.  9,  12,  29,  32;  ma 
che  anche  una  fonte  tipo  C  fosse  presente  al  compilatore, 
si  desume  soprattutto  dal  v.  3  dove  la  lezione  bona  chanso 
è  comune  a  C  e  J  (anche  T)  contro  il  comune  gaia  e. 


')  Op.  cit,  pag.  139. 

^)  La  prima  strofe  è  in  P  come  cohla  esparsa;  due  strofe  sono  attri- 
buite da  a  a  Peire  Rotgier. 
3)  Op.  cit.,  pag.  147. 
*)  Op.  cit.,  pag.  160. 

°)  Baetsch,  Peire  Vidals  Lieder,  Berlin,  1857,  n.  13. 
«)  BCELMORSTe. 

Studj  di  filologia  romanza,  IX  32 


506  P.   SAVJ-LOPEZ 

La  seconda  canzone  Quant  hom  onratz  cleue  en  gran  pau- 
breira  i)  ha  generalmente  ne'  codici  lo  stesso  ordine  di  strofi 
che  J;  dalla  norma  comune  deviano  solamente,  fra  quelli 
che  il  Bartsch  confrontò  -),  C  S.  I  versi  50-55  non  si  leg- 
gono che  in  E  S  J  ;  ne'  due  primi  seguono  ancora  altre  due 
tornadas  che  mancano  a  J.  Ma  siccome  S  ha  diverso  l'or- 
dinamento delle  strofi,  è  chiaro  anche  questa  volta  un  di- 
retto rapporto  di  J  con  E.  Infatti,  molti  luoghi  ci  presentano 
concordi  i  due  codici,  ed  essi  soli,  in  opposizione  agli  altri: 
vv.  16,  21,  25,  31;  con  E  e  con  qualche  altro  insieme: 
vv.  3,  9,  32,  34,  41,  42. 

Ma  anche  per  questa  canzone  ci  converrà  ammettere  una 
duplice  fonte.  In  E  il  v.  28  corrisponde  al  v.  35  degli  altri 
codici:  als  mils  cairels  qu'ah  sos  bels  olhs  mi  lansa;  e  vi- 
ceversa il  35°  corrisponde  al  28°  degli  altri  :  e  ma  domnam 
ten  enaital  halansa.  Questo  scambio  non  ricorre  in  J,  dove 
però  il  verso  e  ma  donam  ecc.  si  trova  due  volte  ripetuto, 
ai  nn.  28  e  35,  si  che  l'altro  als  mils  cairels  non  v'appare. 
Questo  prova  che  pel  v.  28  il  copista  di  J  aveva  un  modello 
diverso  da  E,  mentre  una  fonte  di  E  gli  stava  innanzi  al 
V.  35,  ed  e' ne  riprodusse  la  lezione,  senz'avvedersi,  che 
in  tal  modo  veniva  a  ripetere  un  verso  già  introdotto  in- 
nanzi. Quale  sarà  ora  questa  seconda  fonte?  Ricordando  le 
canzoni  precedenti,  vien  subito  fatto  di  pensare  a  C,  e  in- 
vero di  tutti  i  luoghi  ove  J  viene  a  discostarsi  da  E  (vv.  1, 
4,  6,  9,  19,  26,  37,  48),  due  soli  non  convengono  con  la  le- 
zione di  C  (vv.  9,  19).  Noterò  da  ultimo,  fra  qualche  esempio 
d'indipendenza,  il  piìi  notevole:  l'ultimo  verso  in  J  (55): 
c'ap  nos  s'ente  en  Rainiers  e  na  Sanssa  è  sostanzialmente 
diverso  dalla  lezione  nota:  quar  no  s'en  te  mos  Rainiers 
en  halansa.  Chi  sia  questa  Sanssa  non  saprei  dire:  certo 
non  la   moglie   di   Barrai  de  Baux  visconte   di  Marsiglia 


*)  Bartsch,  op.  cit.,  n.  32. 
')  BCDELMOQRST. 


IL    CANZONIERE    PKOVE.NZAI-E   3  507 

[Rainiers]  che   era  chiamata  Azalais  e  che  Peire  nascon- 
deva sotto  il  nome  di  na  Vierna  ^). 

Di  Richart  de  Berbezilh  l'Appel  ha  pubblicato  secondo 
ABCDHIORU  la  canzone  Atressi  cnm  Vorifans  -)  che 
è  anche  in  J.  Questo  appartiene  indubbiamente  alla  famiglia 
di  C,  come  risulta  da'  luoghi  seguenti:  v.  7  el  rie  bobans; 
V.  11  prò  noni  te;  v.  13  mou  Joy  recobrar;  v.  23  merces; 
V.  29  bobans-,  v.  30  Mas;  v.  33  no  vai  re;  v.  37  que;  v.  41 
ab-ab;  v.  45  nier;  v.  48  conclus;  v.  54  [domna^.  Di  questi, 
i  vv.  7,  30,  48,  danno  nei  nostri  due  codici  una  lezione 
isolata;  altrove  si  accosta  ad  essi  quasi  sempre  R.  Al 
V.  47  vediamo  in  J  fuse  le  due  lezioni  di  R  (U)  e  degli 
altri:  Appel  «i  ab  dregz  huelhs  regardar,  R  de  nios  h.  es- 
gardar,  J  ab  mos  h.  dreg  gardar.  Il  legame  di  C  J  none 
però  nemmen  qui  molto  stretto  ;  lezioni  divergenti  in  C  sono 
al  V.  5  segrai;  v.  8  verays;  v,  29  E;  v.  42  iovens  e  beutatz. 
J  è  isolato  al  v.  6  mas  mos  faitz  ;  v.  44  aiustat  ;  v,  50  mas 
ma  dona;  v.  51  ar  torn  ves  lieis.  Y.  49  encus  J  R. 

Infine  la  novella  di  Arnaut  de  Carcasses  ci  trascina 
sopra  un  tutt'altro  terreno.  Coni'  io  ho  dimostrato,  la  re- 
dazione di  J  è  formata  dall'unione  arbitraria  di  due  com- 
ponimenti diversi.  Al  copista  di  J  o  della  sua  fonte  stava 
dinanzi  un  testo  mutilo  delle  Xovas  del  Papagay,  che  si 
fermava  al  v.  140  (124  di  J).  Per  tirare  innanzi,  quel  co- 
pista un  po'  ha  continuato  a  suo  modo  indovinando  quel 
che  logicamente,  date  le  premesse,  doveva  accadere  nel  testo 
originale  (v.  125-188  di  J);  ma  per  concludere  si  è  servito 
di  un  domnejaire  (v.  189  sgg.)  che  faceva  alla  meglio  al 
caso  suo.  Quello  stesso  principio  mutilo  si  trova  in  G,  il 
quale  ebbe  con  J  comune  la  fonte,  e  forma  con  esso  un 
gruppo    indipendente    contro    l'intero    racconto    di    R.    Il 


')  Risultati  in  complesso  non  diversi  si  hanno  dalla  quarta  canzone 
Plus  quel  paubres  (37*  del  Bartsch).  Un  po'  diversamente  stanno  le 
cose  per  la  terza:  Quant  om  es  (23*  del  Bartsch). 

')  Op.  cit.,  pag.  70. 


508  P.    SAVJ-LOPEZ 

» 

domnejaire  si  trova  isolato  in  DG;  la  relazione  di  J  seb- 
bene indipendente  ha  maggiore  affinità  questa  volta  con 
D  contro  G;  ma  pur  qualche  luogo  ci  fa  pensare  ad  una 
fonte  di  tipo  G. 

* 
*  * 

Concludendo,  senza  parlare  delle  rime  di  Peire  Cardenal 
che  derivano  più  o  men  direttamente  dalla  raccolta  di 
Miquel  de  la  Tor,  troviamo  nel  rimanente  di  J  un  rapporto 
abbastanza  stretto  con  C  e  con  E.  Non  è  a  parlare  di  vere 
dipendenze  :  le  due  grandi  raccolte  non  hanno,  fuor  che  nel 
testo  delle  rime,  altra  somiglianza  di  successione  o  di  con- 
tenuto col  piccioletto  J;  e  se  invece  R*^,  come  vedemmo, 
ha  con  J  qualche  affinità  nella  successione  delle  poesie, 
l'affinità  scompare  quando  si  confrontino  le  varie  lezioni^ 
sebbene  r*'  —  la  fonte  di  R'^  —  sia  anche  fra  le  fonti 
di  C  ^).  Mi  sembra  tuttavia  ben  confermata  da  questa  ri- 
cerca l'ipotesi  del  Grober,  che  J  come  R*^,  come  C,  come  E, 
sia  in  origine  o  piuttosto  derivi  da  una  Folquet-Sammlung, 
se  anche  esso  Folchetto  non  sia  più  in  testa  della  rac- 
colta -).  Certo  J  ebbe  con  C  e  con  E  qualche  fonte  comune, 
ma  una  fonte  che  tante  ragioni  ci  additano  come  remota. 
Il  suo  contenuto,  per  la  parte  delle  poesie  intere,  si  ri- 
trova presso  che  tutto  in  C,  al  quale  manca  la  sola  no- 
vella del  Pappagallo.  Inoltre  il  n.  34  viene  in  C  falsamente 
attribuito  ad  Aimeric  de  Belenoi. 

Per  le  coblas  esparsas,  dove  son  comprese  e  poesie  intere 
e  strofi  di  canzoni  ^),  la  ricerca  sarebbe  vana  ;  tanto  più 
che  molte  cobbole  non  si  leggono  altrove  che  in  J.  Il  Grober 
non  potè  indicare  alcuna  fonte:  e  chi  voglia  vedere  come 


')  Groder,  pag.  576  segg. 
*)  Grobkr,  pag.   603. 

^)  Parte  di  queste   riconobbe   lo  Stengel;   parte   ancora   il   Grober 
(pagg.  651-652). 


IL   CANZONIERE    PROVENZALE   J  509 

stanno  le  cose,  non  ha  che  ad  esaminare,  per  esempio  delle 
altre,  la  cobbola  a  drut  de  bona  donila  tank,  la  quale  è  poi 
nient'altro  che  la  quarta  strofe  nella  canzone  di  Peire  Vidal 
Xeus  ni  gels  M.  Il  quarto  verso  in  J  offre  un  notevolissimo 
accordo  con  0  T  nella  lezione  comune  nos  rancur  nis  lanh: 
il  sesto  dà  un  altro  accordo  non  meno  notevole  con  L  M  : 
que  meszura  d'amor  fruitz  es  ^). 


Della  mia  trascrizione  non  ho  altro  a  dire,  se  non  che 
ho  cercato  di  riprodurre  il  testo  con  la  piìi  rigorosa  fe- 
deltà, rispettando  anche  di  rigo  in  rigo  le  linee  del  mano- 
scritto, per  evitar  l'arbitrio  involontario  di  qualche  unione 
o  disunione  di  parola  nel  trascriver  di  seguito  il  passaggio 
da  una  linea  alla  linea  seguente.  Soltanto  se  qualche  raris- 
sima volta  il  punto  che  divide  i  versi  appariva  spostato  o 
dimenticato,  ho  voluto  correggere  perchè  la  lettura  non 
diventasse  anche  piìi  incomoda  e  diffìcile  che  ora  non  sia. 

Compio  in  tìne  con  lieto  animo  il  dovere  di  porgere  qui 
vive  grazie  al  prof.  Pio  Rajna,  il  quale  m'è  stato  così  largo 
de'  suoi  preziosi  suggerimenti,  ed  al  Direttore^  della  Biblio- 
teca Xazionale  di  Firenze,  che  m'ha  liberalmente  concesso 
di  poter  studiare  il  codice  ben  lungi  da  Firenze  e  dall'Italia. 

Strassburg  i.  E. 

Paolo  Savj-Lopez. 


^)  Bartsch,  op.  cit.,  n.  27. 

')  Ecco  le  lezioni  del  Bartsch  :  v.  28  no  si  tì-ebalh  tiis  lanh  ;  v.  .30  amors 
es  mezur'  e  ìuerces. 


510  P-    SAVJ-LOPEZ 


n.  1.  Peire  cardenal.  (f.  la  [60],  col.  1^). 

t  Ostems 

azir  falsedat  et  enian. 

et  abuertat  et  abdreg 

mi  capdel.  e  si  per  so 

uauc  atras  ho  auan. 

no  men  rancur  ans 

mes  tot  bon  e  bel.  qu 

els  uns  dechai  leial 

tatz  maintas  ues.  els 
autres  sors  enians  e  malafes.  e  si  tant  es 
CODI  per  falsedat  mon.  daquel  montar  deisse/i 
pueis  enprion. 
1        i  ricome  an  piatat  tan  gran,  de  lautra 
gen  com  ac  cayms  dabel.  que  mais  uolon 
tolre  que  lop  no  fan.  e  mais  mentir  que 
toszas  de  bordel.  sils  crebauatz  endos  luecx  ho 
en  tres.  nous  cuidases  que  uertatz  neissigu 
es.  mai  mensonias  don  an  alcor  tal  fon.  que 
sobreuers  com  aiga  de  toron. 
m     ains  baros  uei  enmoutz  luecx  quei 

estan.  plus  falssamen  que  ueires  en  anel. 
e  qui  per  fis  los  te  failh  autretan.  com  si 
un  lop  uendia  per  anhel.  quar  ilh  non  son 
de  lei  ni  de  pes.  ans  foron  fait  alei  de  fals 
poges.  on  par  li  eros  e  li  flors  enredon.  e  noi 
trobom  argen  cant  hom  lo  fon. 
d       es  aurien  entrol  soleilh  colgan.  fauc  ala 
gen  un  couinen  nouel.  al  leial  home  da 
rai  daur  un  beszan.  sii  desleials  mi  dona  un 
clauel.  et  un  mare  daur  donarai  alcortes. 
sii  deschauzitz  mi  dona  un  tornes.  al  uer 
tadier  darai  daur  tot  un  mon.  sai  hueu  et 
hueu  des  mensongiers  quei  son. 


IL   CANZONIERE    PROVENZALE   J  511 

t        ota  la  lei  quel  mais  de  las  gens  an.  escriu 

rieu  enfort  petit  de  pel.  enla  meitat  del 

polgar  de  mon  gan.  els  proszomes  passe 

rai  dun  gastel.  quar  ia  pels  pros  non  fora 

quars  com-es.  mas  si  fos  hom  que  los 

maluatz  pagues.  cridar  pogratz  eno  garda 

setz  on.  uenes  maniar  li  proszorae  del 

mon. 
s       el  que  no  ual  ni  te  prò  per  semblan, 

pros  ni  ualen  no  tanh  que  hom  lapel.  ni 

uertadier  quans  met  dreg  ensoan.  quan 

ueritat  ni  uertat  non  les  bel.  quar  qui 

fai  mal  ni  tort  raszos  non  es.  quen  cueilha 

grat  ni  lanszor  ni  pretz  ges.  quans  se  ditz 

be  un  reprochier  pel  mon.  sei  cuna  ues 

esdorga  autra  non  ton. 
a       totas  gens  die  enmon  siruentes.  que  si 

uertatz  e  dreitui-e  merces.  no  gouernon 

home  enaquest  mon.  ni  sai  ni  lai  non  (f.  la,  col.  2*). 

ere  ualors  laon. 

n.  2.  Peire  cardenal. 

d  un  siruentes  faire  nom  tueilh.  e 

dirai  uos  raszon  perque.  car  azir 
tort  aissi  com  sueilh.  et  am  dreit  si 

eom  fis  ancse.  e  qui  caia  autre  teszor. 

hieu  ai  leialtat  enmon  cor.  tan  quene 

mie  men  son  li  desleial.  e  si  per  so  mazi 

ron  nomen  qual. 
o       nplus  domes  ueszon  mei  hueilh.  don 

meins  pres  las  gens  e  mais  me.  et  on  plus 

los  sec  peitz  lor  uoilh.  et  on  mais  los  aug 

meins  lor  ere.  et  onplus  intre  enlor  demor. 

meins  ai  de  plaszer  enmon  cor.  que  si 

pogues  uiure  de  mon  quabal.  ia  non  uol 

gra  sezer  alor  fogal. 
d       els  ricx  maluais  baros  mi  dueilh.  quar 

son  tan  de  maluestat  pie.  mal  mes  quar  li 

mortz  nols  acueilh.  epeitz  quar  enuida  los 


512  P.    SAVJ-LOPEZ 

te.  e  mal  mes  quan  maluatz  hom  mor.  car 

la  maluestatz  qua  elcor.  no  mor  abel  tot 

ensems  per  engal.  que  non  restes  abson 

fìlh  alostal. 
m     ainta  quarta  uei  e  maint  fueilh. 

ont  trop  escrig  que  si  conte,  que  bora 

aszir  tort  et  ergueilb.  e  laisse  mal  e  fassa 

be.  mai  trastotz  lo  mons  dor  en  or.  ba 

uirat  lalre  enson  cor.  que  bom  laisse  lo  be 

e  fassal  mal.  el  dreit  azir  et  am  lo  tort  mor 

tal. 
b       en  camia  siuada  per  iueilb.  e  teriacla 

per  uere.  et  enguilla  per  enadueilb.  qui  lais 

sa  dieu  per  auol  re.  tant  uai  trassion  ba 

uil  for.  que  si  lom  que  plus  na  elcor.  la 

traszia  enpla  mercat  uenal.  noilb  darla 

meszailba  del  quintal. 
t       racbors  sin  uos  tricba  non  mor.  la 

maluestat  quauetz  elcor.  uos  menara  a 

fort  maluais  ostai,  ostai,  cane  non  fo  us  que 

non  anes  amai. 

n.  3.  Peire  quardenal. 

a  ne  non  ui  breto  ni  baimier.  ni 

grec  ni  escot  ni  gales.  que  tant 
mal  entendre  fezes.  com  fai  home 

lag  mensongier.  quaparis  nona  latinier. 

si  uol  entendre  ni  saber.  cora  men  ni  cora 

ditz  uer.  que  deuis  non  laia  mestier. 
q       uentendre  non  pot  bom  parlier.  can 

sa  paraula  non  es  res.  que  saber  pot  bom  que 

fals  es.  qual  frug  conois  bom  lo  frucbier. 

aissi  com  bom  sent  pudor  de  femorier.  al 

flairar  ses  tot  lo  ueszer.  aissi  fai  lo  mentirs 

parer,  lo  fals  coratge  torturier.  (f.  Ib,  col.  1*). 

d       aquels  sai  bieu  un  trentenier.  que 

bieu  entendre  non  puesc  ges.  quals  es 

lor  uoler  ni  lor  pes.  quel  parlar  noi  ual 

un  denier.  nilb  fes  noi  fai  mas  enpaiti 


IL   CANZONIERE    PROVENZALE   /  513 

er.  que  cant  im'on  lo  remaner.  adoncx 

uolon  ailhors  tener,  perquieu  lor  sagra 

men  non  quier. 
t       al  sai  que  na  lo  plen  tarzier.  e  gieta 

las  en  tres  e  tres.  XX  lo  iom  e  seissens  lo 

mes.  aissi  que  lan  son  set  meilher.  anc  no 

ui  tan  pauc  monestier.  on  tan  grans  res 

pogues  quaber.  et  aura  ni  aitant  lo  ser. 

com  si  non  issis  huei  ni  hier. 
m     estrai  de  mensonias  obrier.  laers  es  purs 

e  francx  e  fres.  tro  uos  laues  eluentre  mes. 

don  eis  menten  pel  fals  fumier.  e  uos  si 

coilli  fals  monedier.  monedas  ablo  fals  uo 

ler.  fals  digz  perque  deues  auer.  de  la  falsso 

bra  fals  loguier. 
i       ra  men  do  e  cossirier.  non  pas  pel  dan  quei 

dei  auer.  mas  quar  li  fals  cuidon  ualer.  eilh 

maluatz  si  fan  bobansier. 

n.  4.  Peire  qnardenal. 

n  On  ere  que  mos  ditz.  auols  hom  los 

entenda.  ni  tank  siarditz.  que  al  fag 
ma  estenda,  quar  sos  esperitz.  uol 
quental  re  senprenda.  on  pretz  es  peritz. 

qui  ques  uol  len  reprenda,  e  neguns  escritz. 

non  quer  que  len  defenda,  ni  clamors  ni 

critz.  ni  iai  siauzitz.  dreitz  ni  esiauzitz. 

quades  dieu  non  ofenda.  ab  faitz  deschau 

zitz. 
1        a  magei's  ualors.  eilh  meilbers  quel 

mon  sia.  es  dons  e  seeors.  lai  on  merces  lo 

guia,  mai  als  toledors.  acui  sens  par 

folliar.  e  blasme  lauzors.  e  tortz  faitz  gailh 

ardia.  es  anta  honors.  et  enueitz  corteszia. 

es  donars  dolors.  e  tolre  doussors.  e  chans 

lautruis  plors.  e  iois  lautruis  feunia. 

e  lautruis  clamors. 
e       ras  podes  uezer.  dauci  home  que  cuda. 

quel  cuia  ualer.  quant  no  ual  ni  aiuda. 


514  P.    SAVJ-LOPEZ 

mai  alcap  del  ser.  queilh  cocha  es  uenguda. 

don  part  son  auer.  si  com  causza  perduda. 

que  non  pot  tener,  e  deues  saber.  si  agues 

poder.  que  la  ueillia  remuda,  uolgra  retener, 
h       om  quar  not  soue.  mentre  uius  en 

bobanssa.  consi  ni  de  que.  fus  faitz  en  co 

mensanssa.  esouenha  te.  enta  gran  benan 

anssa.  que  fai  ni  deue.  tot  quaut  metz 

enla  panssa.  eregarda  be.  ta  uida  e  balanssa, 

on  uai  ni  don  uè.  quar  si  de  uil  re.  fus  (f.   Ib,  col.  2'). 

faitz  lo  coue.  que  tornes  en  estanssa.  sor 

deior  gran  re. 
e       que  uos  enpar.  de  ricome  can  pessa. 

engran  tort  afar.  et  enpauca  despessa,  el 

meilhor  esgar.  com  hi  es  terra  messa,  consi 

pot  Guidar,  que  dieus  ni  dreitz  ni  messa,  lo 

deia  gardar.  ni  quan  uai  pregar,  dieu  da 

uan  lautar.  qual  uot  ni  qual  promessa,  li 

uai  prezentar. 
q       ui  uai  dieu  pregar,  e  re  no  uol  far.  de 

ren  cane  dieu  diessessa.  pauc  li  deu  dieus 

dar. 

n.  5.  Peire  quai-denal, 

1  o  mons  es  aitals  tornatz.  quels  fa 

itz  gouerna  poders.  e  las  paraulas 
uolers.  els  pensamens  uanitatz.  e 

falsezal  sens.  e  los  cors  abellimens.  que  drei 

tura  ni  uertatz.  no  gouernon  mai  agratz. 

ans  son  ses  deuer.  li  fait  eilh  dig  eilh  uoler. 
s       i  tolre  fos  quaritatz.  eque  mensonia 

fos  uers.  e  si  pezars  fos  plaszers.  et  ergu 

eilhs  bumelitatz.  e  tortz  chauzimens.  et 

enueis  ensenhamens.  e  mais  uolers  amis 

tatz.  assatz  son  de  poestatz.  que  pogron  ca 

ber.  abdieu  peraital  poder. 
m      as  aquel  faitz  es  pasatz.  que  tolen  au 

truis  auers.  ni  de  raubar  laicx  e  clers. 

eprenden  las  lieretatz.  e  quassan  las  gens. 


IL    CANZONIERE    PROA'ENZALE    J  515 

nes  hom  adieu  plazens.  ni  sains  ni  be 

nauratz.  ans  es  fols  dessenatz.  qui  cuida 

ualer.  peraitals  faitz  amantener. 
q       uan  tortz  e  desleialtatz.  son  ensems  e 

nondeuers.  hi  deu  esser  mais  espers.  car 

aitals  es  lo  mercatz.  que  als  destruzens.  deu 

uenir,  destruimens.  e  dreitz  non  es  encol 

patz,  quan  merce  ni  piatatz.  noi  pot  prò 

tener,  lai  uai  dreitz  tort  dequazer. 
d       ieus  e  bona  uolontatz.  garnis  los  pros 

els  aders.  de  uertutz  e  de  sabers.  e  de  ualens 

faitz  onratz.  els  fai  entendens.  e  cortese 

conoissens.  e  larcx  e  gent  ensenhatz.  et  amo 

ros  e  priuatz.  que  jjuescon  plaszer.  alui  can 

los  uol  auer. 
e       t  es  ben  deszazematz.  qui  no  uol  ualer. 

sauals  ab  sol  lo  violer. 

n.  6.  Peire  cardenal. 

q  Ui  uol  auer.  fina  ualor  enteira.  ab 

dire  uer.  et  abdveg  far  la  quieira.  ab 
prò  tener,  lai  ont  sera  nesseira.  car 

per  ualer.  es  hom  ualens  ateira.  e  cuidon 

sen.  esser  ualen.  que  uns  non  sap  la  fiei 

ra.  on  hom  la  uallor  uen. 
n       ous  cuides  pas.  ualors  uenha  de  bada.        (f.  2a  [61],  col.  1*). 

ans  es  asas.  maintas  ues  quar  coraprada. 

mas  li  maluas.  non  compron  denaii'ada. 

enans  son  las.  de  la  raieia  iornada.  donan 

meten.  plazers  fazen.  es  ualors  recaptada. 

e  maluestatz  tolen. 
g       rans  ergueilhs  es.  e  grans  desconoissens 

sa.  quis  fenh  cortes,  enonfai  captenenssa. 

lai  on  merces.  non  fai  frug  ni  semens 

sa.  ni  neguns  bes.  en  el  no  pren  naisen 

sa.  pauc  ha  de  sen.  qui  per  nien.  cui 

desser  de  ualenssa.  e  noi  fai  bastimen. 
b       astimen  fai.  eualenssa  emui-a.  sei 

que  satrai.  abualor  e  satura,  cui  uertatz 


516  P.    SAVJ-LOPEZ 

piai,  e  merces  e  dreitura.  e  sai  e  lai.  sec 
raszo  e  meszura.  mas  tan  dolen.  trop  enla 
gen.  que  daquo  nonan  cura,  perque  uà 
lors  deissen. 

d       eissen  ualors  edechai  cascun  dia.  et  en 
ian  sors.  e  nais  e  multiplia.  e  mor  amors. 
elmon  e  nais  feunia.  et  es  lauzors.  blasmes 
e  sens  folia.  e  sei  qui  men.  azessien.  e 
trahis  e  galla,  renila  sauiamen. 

m      as  qui  si  X'en.  ental  couen.  ges  la  fou 
dat  mia.  non  uoilh  dar  pel  sieu  sen. 

n.  7.  Peire  quardenal, 

r  AszoDS  es  quieu 

mesbaudei.  e  sia  iauzens  e  gais.  el 
tems  quan  fiieilhe  flors  nais.  et  un 
siruentes  desplei.  quar  leialtatz  ha  uencut. 
falsedat  enona  gaire.  que  liieu  ai  auzit 
retraire.  cus  fort  trachers  ha  perdut. 
son  poder  e  sa  uertut. 

d       ieus  fa  e  farà  e  fei.  si  coni  es  dous  e 

uerais.  dreitz  als  pros  et  als  sauais.  emerce 
segon  lor  lei.  quar  ala  paiha  uan  tut.  len 
ganat  e  lenganaire.  si  com  abel  a  son 
fraire.  queilh  trachor  seran  destrut.  e  li 
trahit  he  uengut. 

d       ieu  prec  que  trachors  barrei.  e  los 

degol  els  abais,  aissi  com  fes  los  algais.  car 
son  de  peior  trafei.  quar  aisso  es  ben 
saubut.  que  peger  es  trachers  que  laire. 
atressi  com  hom  pot  faire.  de  conuers 
monge  tondut.  fai  hom  de  trachor  pen 
dut. 

d       e  lops  e  de  fedas  uei.  que  de  las  fedas 
son  mais,  eper  un  austor  que  nais.  son 
rail  perdis  fequeus  dei.  azaisso  es  cono 
gut.  que  hom  murtriers  ni  raubaire. 
non  plas  tant  adieu  lo  paire.  ni  tant 
non  ama  son  frut.  com  fai  del  poble 


IL   CANZONIERE    PROVENZALE    J  517 

menut.  (f.  2a,  col.  2"). 

a       ssatz  pot  auer  arnei.  e  quauals  fer 

rans  e  bais.  e  tors  e  murs  e  palais.  ricx 

hom  sol  que  dieu  renei.  doncx  ben  ha  lo 

sen  perdut.  aquel  acui  es  ueiaire.  que  to 

len  lautriù  repaire.  cuides  uenir  asalut. 

nilh  don  dieus  quar  ha  tolgut, 
q       uar  dieus  te  son  are  tendut.  e  trai 

aqui  on  uol  traire.  e  fai  lo  colp  que  deu 

faire.  ha  quec  si  com  ha  mergut.  segon 

ueszi  ho  uertut. 

n.  8.  Peire  quardenal. 

1  as  amairis  qui  encolpar  las  uol. 

respondon  gen  afor  de  nalengri.  lu 
na  fai  drut  quar  estai  enauiol.  lau 

tra  lo  fai  quar  paubreira  laussi.  lautra 

un  uieilh  e  di  quilh  es  tozeta.  lautra  es 

grans  et  ha  unpauc  garssi.  lautra  nona 

sobrecot  de  bruneta.  lautra  na  dos  e  fai  lo 

autressi. 
g       ran  festa  fa  mas  ges  ben  non  la  col. 

qui  bueus  emblatz  ni  tolgutz  hi  aussi. 

quien  sai  tal  un  que  nac  un  plen  pairoL 

entorn  nadal  mas  non  uoilh  dii-e  qui. 

aquo  es  quarns  que  ges  he  non  es  neta. 

quarn  desleials  que  la  leis  contradi.  aqwel 

hom  es  plus  pecx  quenfan  que  teta.  que 

cuionran  qualendas  enaissi. 
b       en  ha  guerra  sei  qui  la  enson  sol.  e 

plus  prop  la  qui  la  a  son  coissi,  quan  lo 

maritz  e  la  moilhers  fan  dol.  so  es  guer 

ra  peior  que  de  ueszi.  quien  sai  tal  un  que 

sera  part  toleta.  nona  sorre  ni  moilher 

ni  coszi.  que  ia  disses  que  dieus  sai  lo  tra 

meta,  ans  quan  sen  uai  lo  plus  hiratz 

sen  ri. 
s       US  paubres  hom  ha  emblat  un  lensol. 

lah'es  sera  et  anara  cap  eli.  e  sus  ricx  hom 


518  P.    SAVJ-LOPEZ 

ha  emblat  mereuiroi.  bira  cap  dreg  tot 

denan  costanti,  paubre  lairo  pent  bom 

peruna  ueta.  epent  lo  tals  qua  emblat 

un  rossi,  aquel  dreitz  non  es  dreitz  coni  sa 

geta.  quel  ricx  laires  pendal  lairo  mesqui. 
a       mon  at  chant  et  amon  at  flauiol.  car 

bom  mas  bieu  non  enten  mon  lati,  car 

autretan  coma  de  rossinhol.  enten  la  gen 

de  mon  chantar  que  di.  mas  bieu  non 

ai  lenga  fresza  ni  breta.  ni  sai  parlar  ila 

mene  ni  angeui.  mai  maluestatz  que  los 

eissalabeta.  lor  tol  ueszer  qui  es  fals  nies 

fi. 
a       ra  mes  mal  que  fols  bom  sentremeta. 

de  mon  cbantar  quar  sei  fag  son  porsi.  (f.  2b,  col.  1*). 

n.  9.  Peire  quardenal. 

1  i  clerc  se  fan 

pastoi".  e  son  aussizedor.  e  semblam 
de  santor.  quan  los  uei  reuestir.  e 

prent  ma  souenir,  de  nelengri  cun  dia. 

uolc  ues  un  pare  uenir.  mai  pels  cancx  (\He 

temia.  pel  de  mouto  uestic.  abque  los 

escarnic.  pueis  manget  e  trazic.  las  cals 

que  labelbc. 
r       eis  emperador.  due  comte  e  eomtor.  e 

quaualier  ablor.  solon  lo  mon  regir.  eras 

uei  poseszir.  et  ba  clers  la  senboria.  ab 

toke  et  ab  trabir.  et  abipoei'azia.  ab  forssa  et 

abprezic.  etenon  sa  fastic.  qui  tot  non  lur 

bo  gic.  et  er  fait  quant  que  tric. 
a       issi  com  son  maior.  son  abmeins  de 

ualor.  et  abmais  de  foUor.  et  abmeins  de 

uer  dir.  et  abmais  de  mentir,  et  ab  meins 

de  clerssia.  et  abmais  de  failbir.  et  ab  meins 

de  paria,  dels  fals  clergues  bo  die.  quanc 

mais  tant  enemic.  bieu  adieu  non  auzic. 
q       uan  son  en  refreitor.  no  mo  tene  aszo 

nor.  qua  la  taula  maior.  uei  los  cussos 


IL    CANZONIERE    PROVENZALE    J  519 

assir.  epremiers  ses  failhir.  auias  graut 

uilania.  quar  hi  auszon  uenir.  et  hom  no 

los  en  tria.  pero  anc  no  lai  uic.  paubre 

cusso  mendic.  sezer  latz  cusson  rie.  daiso 

los  uos  esdic. 
j        a  nonauion  paor.  alcaicx  ni  almassor. 

que  abas  ni  prior.  los  anon  enuazir.  ni 

lors  terras  sazir.  que  atans  lor  seria,  mas 

sai  son  encossir.  del  mon  consi  lors  sia. 

ni  coni  enfrederic.  gitesson  de  labric.  pe 

ro  tals  laramic.  cane  fort  no  san  iauzic. 
e       lergues  qui  uos  ehauzie.  ses  fello  cor 

enic.  enson  couide  failhie.  cane  peior  gen 

non  uir. 

n.  10.  Peire  quardenal. 

a  Questa  gens  quan  son  enlor  gai 

esza.  parlon  damor  e  non  sabon  qwe 
ses.  quar  finamors  mou  de  gran 

leialesza.  e  de  frane  cor  gentil  e  benapres. 

et  els  cuidon  de  luzuria.  e  de  tort  que  bo 

namors  sia.  mas  enderier  ho  poirion  ues 

zer.  que  lur  amor  uiron  enmal  uoler. 
e       ort  cug  quieu  sai  ques  corta  de  lar 

guesza.  abeortz  seruirs  abeortz  dos  abcortz 

bes.  abcortamor  et  abcorta  franquesza. 

abeortz  perdos  et  ab  eortas  merces.  cort 

abcorta  corteszia.  et  ab  corta  doussa  paria. 

e  car  son  cort  li  ioi  e  li  plaszer.  peraco 

deu  lo  nom  de  cort  auer. 
m     as  hieu  quier  coi-t  ques  descort  ab  erue  (f.  2b,  col.  2*). 

sza.  eque  sacort  abtotz  fis  faitz  cortes,  e 

quen  bon  pretz  pueg  per  fina  proesza. 

e  quan  que  cost  so  sia  sos  conques.  cort 

de  mil  amicx  amia,  on  fals  ni  frag  nos 

fadia.  cort  que  sacort  la  ualor  ab  uoler. 

elgaug  abdreg  eldonar  abdeuer. 
q      ui  men  souen  e  ere  que  hom  lo  cresza. 

abgen  ses  sen  lauszara  si  meteis.  quel  uen 


520  P.   SAVJ-LOPEZ 

despen  enluec  dautra  riquesza.  don  pren  nien 
sei  cui  ren  ha  promes.  engal  li  ual  hoc  que 
fadia.  quen  qual  caital  mercadaria.  denian 
penran  aisso  podon  saber.  cuidan  auran 
nien  alcap  del  ser. 

q       uè  fan  lenfan  daquella  gen  englesza. 

quauan  no  uan  guerreiar  ab  franses.  mal 
an  talan  de  la  terrengolmesza.  tiran  hiran 
conquistar  gastines.  ben  sai  que  lai  en 
normandia.  dechai  e  chai  lor  senhoria.  car 
Ics  quarlos  ueszon  enpatz  sezer.  antos  es 
tos  qui  trop  pert  per  temer. 

1        e  pros  dels  pros  me  plazeria.  el  mal  dels 
mais  si  sauenia.  quental  ostai  estauc  ma 
tin  e  ser.  quen  uoilh  atras 
tot  mon  uoler. 

n.  11.  Peire  quardenal, 

t  Ostems  uir  cuidar  ensaber.  ecamge 

so  cug  per  so  sai.  e  lais  mentir  per 
dire  uer.  e  azir  tort  e  dreitz  mi  piai, 
e  blasme  mal  e  lausze  be.  emostre  ioi  e  dol 
escon.  e  soi  companhs  de  bona  fé.  e  car 
es  abme  ablieis  son. 

p       er  so  nai  peszar  eplaszer.  emen  hirasc 
emen  apai.  e  nai  amor  e  maluoler.  abtal 
que  mal  ni  be  nom  fai.  eper  aisso  hieu  non 
am  re.  e  azir  ensesto  damon.  quan  en  re 
fai  so  ques  coue.  ensesto  escorga  e  ton. 

p       eraisso  nom  puesc  tener,  quieu  non  di 
ga  daquel  de  lai.  que  dieus  lo  degra  deca 
zer.  aissi  com  el  los  autres  dechai.  eque  tro 
bes  aitai  merce,  com  trobon  aquels  quel 
confon.  quan  los  destrui  no  sap  perque.  e 
los  fai  fugir  no  sai  on. 

m     as  qui  pogues  lo  cor  uezer.  del  maluais 
ricome  sanai,  hom  hi  uira  tan  fer  auer 
que  feira  paor  et  esglai.  eper  so  quar  hom 
no  uè.  lo  maluais  uoler  desziron.  la  gran 


n. 


IL   CANZONIERE    PROVENZALE   J  521 

maluestat  qua  ense.  trobes  ')  escriuta  sus  el  fron. 

aluais  ricx  hom  de  gran  poder.  que  gew 

uest  e  mania  e  iai.  enon  uol  als  autres 

ualer.  sembla  lo  rie  que  hom  retrai,  que 

maniaua  agran  esplei.  e  uestia  lo  meilhs  del  (f.  3a  [62],  col.  1*). 

mon.  e  non  donaua  son  eonre.    deissendet 

enufern  prion. 

e  las  doas  uias  com  te.  uos  farai  enten 

dre  quals  son.  luna  fai  mal  lautra  fai  be. 

luna  uai  aual  lautra  amon. 


12.  Peire  cardenal. 

a  Tressi  com  per  fargar.  es  hom  fa 

bres  per  raszo.  es  hom  laires  per  em 
blar.  etrachers  per  trassio.  car  daquelo 
bra  com  fai.  enuai  us  noms  el  neschai. 
quieu  tal  ensai.  que  so  auzaua  dire,  per 
so  que  fai.  forapelatz  trahire. 

t       rachor  sol  hom  cassar,  ependre  com  fai 
lairo.  mai  eras  los  te  hom  quar.  en  fai  se 
nescalc  ho  bailo,  e  sus  grans  prelatz  hi  chai. 
dun  fort  gran  trachor  aerai,  aura  esmai. 
quel  puesqua  el  luec  assire,  que  sia  don  e 
senher  e  regire. 

q       uan  trachor  troba  son  par.  daquel  fai 
son  companho.  quar  atrassion  portar,  lan 
ops  trachor  e  gloto.  e  quan  lus  trahis  aisai. 
e  lautra  trahis  ailai.  quan  lus  lai  uai.  lau 
tren  fai  lo  martire,  quan  lus  las  di  lau 
tres  tanh  quo  albire. 

b       en  es  fols  qui  cuia  far.  aquo  que  ano 
fag  non  fo.  quieu  cug  trachors  castiar.  e 
trac  ben  mal  enperdo.  que  si  dieus  no  los 
dechai.  mais  ner  que  danhels  enmai.  que 
quant  lus  trahis.  abfag  et  abaussire.  lautre 


*)  Sottosegnato  da  puntini  :  una  postilla    marginale    d'altra  mano 
corregge  portes. 

Studj  di  filologia  romama,  IX.  33 


522  P.   SAVJ-LOPEZ 

abdigz  elautre  abescrire. 
e        naelaic  se  fan  iotglar.  del  saber  de  gaime 

lo.  per  so  es  dig  corti  si  gar.  si  col  prouerbi 

despo.  qua  not  fies  enclergue  ni  en  lai.  qua 

crezatz  cun  pauc  retrai,  so  sai  alpremier 

trahire.  que  loniamen  ho  aues  auzit  dire. 
S       iruentes  ades  ten  uai.  on  ti  uoilhas  e 

di  lai.  quami  non  piai  trassion  ni  trahire, 

quis  uoilham  nam  equis  noilham  nazire. 

n.  13,  Peire  cardenal. 

u  N  seruentes 

fauc  enluec  de  iarar.  e  chantarai 
per  mal  eper  feunia.  de  maluestat 

que  nei  sobremontar.  e  dequazer  ualor  e 

corteszia.  quieu  uei  als  fals  los  fis  amones 

tar.  et  als  laii-ons  los  leials  prediquar.  els 

desuiatz  mostron  als  iutz  la  uia. 
e       nganatz  es  enson  cuiar.  fols  hom  quieu 

cuiaua  quengans  e  bauzia.  fezes  son  don 

dequazer  e  mermar.  mai  arals  sors  e  creis 

e   multiplia.  merauilh  me  sanquar  no  uan 

raubar.  pueis  maluestat  ama  hom  e  ten 

quar.  e  leialtat  te  hom  afantaumia.  (f.  3a,  col.  2*). 

g       lotz  enperier  non  uol  ueszer  son  par. 

e  li  clerc  an  aquella  glotonia.  quentot 

lo  mon  no  uolrion  trobar.  home  mai  els 

que  tengues  senhoria.  quels  feiron  leis  per 

terras  gaszanhar,  com  poguesson  creissere 

non  mermar.  ades  fai  prò  un  petit  de  bai 

lia. 
a       btantas  mas  ueis  clergues  essaiar.  que 

tot  lo  mon  er  lor  on  que  mal  fia.  quar  els 

lauran  abtolre  ho  ab  dar.  ho  ab  perdon 

ho  abipocrazia.  ho  abapsout  ho  ab  beui'e 

ho  abmaniar.  ho  ab  prezicx  ho  abpeiras 

lansar.  ho  els  abdieu  ho  els  ab  diablia. 
e       ngostia  digatz  ma  nazemar.  que  si 

defendre  se  uol  de  clerssia.  meilhs  quen  lui* 


IL   CANZONIERE   PROVENZALE   J  523 

fag  se  gart  enlur  parlar,  ho  sique  no  de 
badas  sarmaria.  quel  traszon  so  don  hom 
nos  pot  gardar.  que  quant  autre  fan  en 
ganas  fargar.  et  ilh  engans  per  maior  ma 
histria. 
n       on  ans  dire  so  que  els  auszon  far.  mai 
anc  rascas  non  amet  penchenar.  ni  els  ho 
me  qui  lor  dan  lur  castia. 

n.  14.  Peire  uidal. 

p  Ueis  tornatz  sui  en 

proenssa.  et  ama  dona 

sap  bo.  ben  dei  far 

bona  chanso.  siuals 

per  reconoissenssa.  cap 

seruir  et  abonrar.  con 

quer  hom  de  bon  se 

nhor.  don  ebenfait  et 

honor.  qui  bel  sap  te 
ner  enquar.  perquieu  men  uoilh  esforsar. 
e       sei  que  longatendenssa.  blasma  fai  gran 
failhiszo.  quaran  artus  li  breto.  on  auion 
lur  pliuenssa.  et  hieu  per  Ione  esperar,  ai 
conquis  abgran  doussor.  lo  bais  que  forssa 
damor.  mi  fes  ama  dompnenblar.  car  ar 
lom  denhautreiar. 
e       quar  anc  no  fis  failhenssa.  soi  enbona 

sospeisso.  quel  maltraitz  torna  enpro.  pos 
lo  bes  tan  gen  comenssa.  e  poiran  sen 
conortar.  en  mi  tug  lautramador.  sap 
sobresforssiu  labor.  trac  de  neu  freida  fuec 
dar.  et  alga  doussa  damar, 
s       es  pecat  pris  penedenssa.  et  ai  quist  ses 
tort  perdo,  e  pres  de  nien  gent  do.  etrac 
dira  benuolenssa.  e  gang  entier  de  pio 
rar.  e  damar  doussa  sabor.  e  soi  arditz  per 
paor.  e  sai  perden  gaszanhar.  e  quant  soi        (f.  3b,  col.  1''). 
uencutz  sobrar. 
e       stiers  nonagra  guirenssa.  mas  car  sap 


524  P-  savj-i.opez 

que  uencutz  so.  see  ma  dona  tal  raszo. 
que  uol  que  uencut  la  uenssa.  quaisis  deu  apo 
derar.  francumelitat  abricor.  e  quar  non 
trop  ualedor.  cap  lieis  me  puescaiudar.  mai 
precx  emerce  clamar. 

e       pueis  ensa  mantenenssa.  aissi  del  tot 

mabando.  ia  nom  deu  dire  de  no.  que  ses 
tota  retenenssa.  sol  sieus  per  uendre  per 
drar.  e  totz  hom  fai  gran  follor.  que  di 
quieu  me  uii*  ailhor.  mais  am  ablieis  mes 
quabar.  quabautra  dona  conquistar. 

b       el  rainier  per  ma  crezenssa.  non  sai 
par  ni  companho.  que  tug  li  ualen  ba 
ro.  ualon  sotz  nostra  ualenssa.  e  pos  di 
eus  uos  fes  ses  par.  eus  det  me  per  ser 
uidor.  seruirai  uos  de  lauszor.  e  dalre  cant 
Ilo  poirai  far.  bel  rainier  quals  es  sius 
par. 

n.  15.  Peire  uidal. 

q  Uant  bom  onratz  deue  engran 

paubreira.  qua  estat  ricx  e  de  gran 
benananssa.  de  uergonha  no>?  sap 
re  que  se  queira.  ans  ama  mas  sofrir  sa 
malananssa.  perques  mager  merces  epl«s 
francs  dos.  quant  bom  fai  be  apaubre 
uergonhos.  qua  mains  dautres  quan  en 
querre  fizanssa. 

q       uieu  era  ricx  e  de  bona  man  eira,  tro 
ma  dona  mi  tornet  en  erranssa.  que 
mes  mala  saluatge  guerreira.  e  fai  pecat 
quar  aissim  deszenanssa.  quen  mi  non 
troba  nuilhas  ocbaiszos.  mas  quar  li 
soi  fizels  et  amoros.  e  daquest  tort  nom 
uol  far  perdonanssa. 

e       sa  guerra  es  mi  tan  sobransieira.  que 
sim  fai  mal  non  puesc  penre  uenianssa. 
que  sieu  li  fug  ni  camge  ma  quareira. 
denan  mos  hueilhs  uei  sa  bella  semblans 


IL    CANZONIERE    PROVENZALE   J  525 

sa.  perquieu  noilh  sci  del  l'agir  poderos 

ni  del  tornar  perque  men  fora  bos.  plaitz 

et  aitals  quelai  agues  onranssa. 

blieis  nom  ual  forssa  ni  genlis  quieu 

quieira.  plus  qua  lenclaus  quea  de  mort 

duptanssa.  que  trai  dedins  etrauque  fai 

arquieira.  encontra  lost  pren  de  traire 

ismanssa.  mas  lautrarquier  de  fors  es  plws 

ginhos.  quel  far  premier  peraquel  luec 

rescos.  ema  donam  te  enaital  balanssa. 

Ihes  tant  doussa  franque  plazenteira.  ab 

cortes  digz  et  ab  bella  semblanssa.  per  (f.  3b,  col.  2"). 

quieu  nonai  poder  quieu  men  sofeira. 

plus  que  lauzels  ques  lai  uoiritz  part 

firanssa.  qnant  hom  lapella  et  el  respon  coi 

tos.  sap  que  mortz  es  per  son  cor  uolontos. 

ema  donam  te  enaital  balanssa. 

ort  ai  quar  anc  lapelei  mensongei 

ra.  mas(mas)  drutz  coitatz  nona  sen  ni 

membranssa.  capavic  no  muer  car  tan 

mes  uertadeira.  que  lonhat  ma  de  la 

paubresperanssa.  oii  liieu  era  alas  oras 

ioios.  eras  remane  damor  e  de  ioi  blos.  si 

ffauffz  entiers  no  men  fai  acordanssa. 

hanso  uai  ten  albon  rei  part  creu 

eira,  qui  de  bon  pretz  nona  elmon  eganssa. 

sol  plus  francx  fos  ues  midons  de  quabrei 

ra.  que  dautra  re  non  fai  desmezuranssa. 

e  tot  rics  hom  quan  destrui  sos  baros. 

nes  meins  amatz  eprezatz  del  plus  pros. 

et  hieu  ho  die  quar  li  port  finamanssa. 

a  uierna  hieu  nom  clam  ges  de  uos. 

mai  ben  magrops  plus  adreitz  guiszardos. 

del  Ione  aten  on  auiesperanssa. 

raire  ben  uoilh  que  mantenham  los 

pros.  e  confondam  los  maluais  enuios. 

cap  nos  sen  te  enrainiers  e  na  sanssa. 


526  p.  SAVI-LOPEZ 

n.  16.  Peire  uidal. 

q  uant  hom  es  en  lautrui 

poder.  non  pot  tot  son  talan  com 
plir.  ans  laue  souen  agequir.  per 

lautrui  gi-at  lo  sieu  uoler.  doncx  pueis  en 

poder  me  soi  mes.  damor  segrai  los  mais 

els  bes.  els  tortz  els  dreitz  els  dans  els  pros. 

quaissi  mo  comanda  raszos. 
q       uar  qui  al  setgle  uol  quaber.  main 

tas  ues  laue  asufrir.  so  queilh  desplas  ab 

gent  cubrir.  ab  semblanssa  de  noncaler. 

e  pueis  quant  uè  qua  sos  luecx  es.  con 

traisel  que  laura  mespres.  non  sia  flacx 

ni  nuailbos.  quengran  dreg  notz  pauc 

docliaizos. 
p       retz  eiouen  uoiUi  mantener,  e  bonas 

donas  obeszir.  e  la  cortesza  gen  seruir. 

hieu  nonai  gran  cura  dauer.  empero  sieu 

poder  agues.  nones  coms  ni  ducx  ni  mar 

ques.  a  cui  meilhs  plagues  messios.  ni  me 

ins  se  pac  dauol  baros. 
b       ona  dompna  dieu  cug  ueszer.  can 

lo  uostre  gen  cors  rerair.  e  pos  tan  uos 

am  eus  deszir.  grans  bes  man  deuriesca 

zer.  caissi  ma  uostramors  con  ques.  e 

uencut  e  lassat  e  pres.  cap  tot  lo  setgle 

que  mieus  fos.  mi  tenrieu  paubres  ses  uos.    (f.  4a  [63],  col.  1"). 
d       ompna  quan  uos  ui  remaner.  e  mau 

enc  de  uos  apartir,  tan  mangoisseron  li  sos 

pir.  capauc  nomauenc  aquazer.  ai  doussa 

dona  franqua  res.  uailham  abuos  dieus  e 

merces.  retenetz  mi  e  mas  chansos.  si  tot 

peszal  cortes  gelos. 
t       ant  ai  de  sen  e  de  saber.  que  dal  tot  sai 

mon  meilbs  chauzir.  e  sai  conoisser  egrazir. 

quim  sap  onrar  e  quar  tener,  etenc  ma 

lus  dels  genoes.  cap  bel  semblan  gai  e  cor 

tes.  son  alur  amicx  amoros.  a  als  enemicx 

erguilhos. 


IL   CANZONIERE    PROVENZALE    /  527 

s       el  que  pot  enou  uol  ualer.  com  no  sesfor 

sa  del  morir,  pueis  que  la  mortz  noi  denhau 

sir.  per  far  enuei  e  desplazer.  et  es  trop 

lag  dauol  pages.  cant  recueilh  las  rendas 

els  bes.  cors  poirit  abcor  uermenos.  uiu 

ses  grat  de  dieu  e  de  nos. 
e       mperaire  soi  hieii  dels  genoes.  et  ai 

hunaital  fieu  conques.  ques  auinens  e 

bels  e  bos.  e  soi  amicx  dels  borboilhos. 
d       ona  per  uos  am  narbones.  emolinas  e 

sauartes.  castella  elbon  rei  anfos.  de  cui 

soi  caualier  per  uos. 

n.  17.  Peire  uidal. 

p  Lns  quel  paubres  que  iai  el  rie 

ostai,  que  noncas  planh  si  tot  ha 
gran  dolor,  tan  tem  que  torn  aze 

nuei  al  senbor.  no  maus  planher  de  ma 

dolor  mortai,  bem  dei  doler  pos  ellam  fai 

ergueUh.  que  nuilha  re  tan  non  deszir 

ni  uoilb.  sauals  daitan  non  laus  clam 

ar  merce,  tal  paor  ai  que  non  senuei  de 

me. 
a       issi  com  sei  que  badai  ueirial.  queilh 

sembla  bel  contra  la  resplandor.  cant  hi 

eu  lesgar  nai  alcor  tal  doussor.  quieu 

men  oblit  per  lieis  cui  uei  aitai,  bem 

bat  amors  ablas  uergas  quieu  cueilh. 

quar  huna  ues  enson  reial  capdueilh. 

lemblei  un  bais  don  alcor  mi  soue.  ai 

quan  mal  uiu  qui  so  quama  non  uè. 
s       i  maiut  dieus  pecat  fai  creminal.  ma 

bella  dona  quar  ilh  nom  secor.  quilh  sap 

queuliei  ai  mon  cor  emamor.  tan  quieu 

no  pens  de  nuilhautre  iomal.  doncx 

perquem  sona  tan  gen  ni  macueilh. 

pues  prò  nom  te  daisso  don  plus  mi  du 

eilh.  e  cuiam  doncx  aissi  lonhar  de  se. 

nono  deu  far  quar  peramor  maue. 


528  P.    SAVJ-LOPEZ 

e       aissi  ma  tot  ma  dotapnen  son  cabal. 

que  sim  fai  mal  ia  nom  naura  peior.  quel      (f.  4a,  col.  2*). 

sieus  plazers  ma  tant  doussa  sabor.  que 

ges  del  mieu  nom  remembra  nim  cai. 

non  es  nuilh  iorn  samor  elcor  nom  bru 

eilh.  perqviai  tal  gaug  quan  la  ueszon 

mei  hueilh.  e  quar  mos  cors  pensa  de  son 

gran  be.  quel  mon  non  uoilh  ni  deszir 

autra  re. 
s       abetz  perqueilli  port  amor  tan  cerai. 

quar  anc  non  ui  tan  bella  ni  gensor. 

ni  tan  bona  don  tenb  quai  gran  ricor. 

quar  soi  amicx  de  dona  que  tan  ual.  e 

si  ia  uei  quensems  abmis  despueilh.  meilhs 

mestara  qual  senhor  deissidueilh.  que  ma» 

te  pretz  cant  autre  sen  recre.  enon  sai 

plus  mas  aitan  nai  iaufre. 
a       Is  quatre  reis  despanhestai  mot  mal. 

quar  no  uolon  auer  patz  entre  lor.  quar 

autramen  son  ilh  de  gran  ualor.  adreit 

e  frane  e  cortes  e  leial.  sol  que  daitan  gen 

sesson  lor  escueilh.  que  uiresson  lur  guer 

ren  autre  fueilh.  contra  la   gen  qiie  nostra 

lei  non  ere.  tro  quespanha  fos  tota  duna 

fé. 
b       els  castiatz  senhor  per  uos  mi  dueilh. 

quar  nous  uei  e  quar  midons  nom  uè. 

na  uierna  cui  am  de  bona  fé. 
h       ieu  die  lo  uer  aissi  com  dir  lo  sueilh. 

qui  ben  comenssa  epueissas  sen  recre.  me 

ilhs  li  fora  que  non  comenses  re. 

n.   18.  Folquet  de  romans. 

q  Uan  ben 

mi  soi  perpensatz.  totz  lals 

es  nien  mai  dieus.  com 

laissa  alos  e  fieus.  e  las  au 

tras  eretatz.  eilh  ricors  del 

setole  maluatz.  non  es  mas 


IL   CANZONIERE    PROVENZALE   J  529 

traspassamens.  percom  deu  esser  teruens. 

e  leials  ses  totz  enganz.  que  cascuns  em 

uianans. 
q       uaitan  test  coni  boni  es  natz.  mou  e 

uai  coma  romieus.  aiornadas  et  es  grieus. 

lo  uiatges  so  sapcbatz.  que  cascuns  uai 

enlaisatz.  ues  la  mort  caurs  ni  argens. 

no  len  pot  esser  guirens.  equi  mas  fai 

uiu  dans.  ses  dieus  mas  fai  de  sos  dans. 
e       tu  quaitiu  que  faras.  que  conoisses 

mal  e  be.  fols  biest  si  non  ti  soue.  don 

hiest  mogutz  ni  on  uas.  sin  ta  uida  ben 

no  fas.  tu  mezeis  tiest  escarnitz.  e  si  sen 

part  lesperitz.  cargatz  dels  pecatz  mortals. 

ta  mortz  es  perpetuals. 
d       oncx  gara  com  obraras.  mentre  que  ui  (f.  4b,  col.  1*). 

dat  soste,  quen  pauc  dora  sesdeue.  (\He  bom 

mor  enun  traspas.  per  com  non  deu  esser 

las.  de  ben  far  quan  nes  aizitz.  quenbreu 

dora  er  failbitz.  lo  iois  daquest  setgle  fals. 

qua  totz  es  mortz  comiuals. 
n       on  ia  freuol  ni  fort.  que  tant  sapcba 

descremir.  qua  la  mort  puesca  gandir. 

quilb  non  gara  agur  ni  sort.  dreg  ni 

meszura  ni  tort.  quaitan  tost  pren  lo  me 

ilbor.  elplus  bel  col  sordeior.  enegus  bom 

per  mal  plag.  nos  pot  gardar  del  sieu  trag. 
e       u  noi  sai  mas  un  conort.  cai  com  pens 

de  dieu  seruir.  e  ques  garde  de  failbir.  men 

tre  que  uai  ues  la  mort.  quapassar  nos  er 

alport.  on  tug  passon  abdolor.  li  rei  e  lem 

perador.  e  lai  trobarem  atrazag.  lo  ben  el 

mal  caurem  fag. 
p       reguem  dieu  per  sa  doussor.  que  nos  fas 

sa  tant  donor.  quens  gart  de  mortai  agag. 

trol  sieu  plazer  aiam  fag. 

n.  19.  Aimeric  depeguilba. 

q  Ui  sofrir  sen  pogues. 


530  P.   SATJ-LOPEZ 

bon  fora  com  sestes.  que 

ia  pueis  non  blasmes. 

so  que  lauzat  agues. 

pero  ses  tot  prò  dan.  e 

ses  seiorn  afan.  e  ses  aiu 

da  fais.  uolrieu  portar 

mais,  que  deszonor  su 

frii*.  don  nom  pogues 
partir,  ni  men  auzes  ueniar.  nono  poiria 
far.  e  sia  prò  uenianssa.  quis  part  de  fai 
samanssa. 
s       ui  men  partit  non  ges.  ans  men  so 

uè  ades.  de  lieis  tant  mestai  pres.  del  cor  so 
que  ma  pres.  si  soi  partitz  daitan.  qua  tot 
lo  meins  pensan.  mespres  sos  faitz  sauais. 
qnar  huna  on  creis  e  nais.  bes  plus  com  now 
pot  dii".  lam  fai  deszabellir.  ede  raon  cor 
lonbar.  e  sim  fai  tant  amar,  cane  enplus 
greu  balanssa.  non  fo  andrieus  de  franssa. 
e       aissi  com  sers  ho  pres.  sui  sieus  liegers  con 
fes.  non  fo  tan  leu  conques.  qual  traire  de 
son  gan.  sa  bella  ma  baiszan.  mintret  tan 
aquel  bais.  quel  cor  del  cors  mi  trais.  al  re 
torn  dun  sospir.  perquel  uiurel  morir,  mi 
fai  ensems  mesclar.  et  hom  nos  pot  gar 
dar.  ni  cobrir  de  sa  lanssa.  damor  pos  dreg 
la  lanssa. 
e       non  er  ni  non  es.  ni  cug  com  anc  trobes. 
en  dona  cane  nasques.  ses  totz  mais  tans 
de  bes.  perquades  onquieu  man.  humils  e       (f  4b,  col.  2*). 
merceian.  li  soi  fis  euerais.  si  quen  re 
nom  biais.  e  sieu  abgen  seruir.  ni  sufren 
ab  blandir,  noi  puesc  merce  trobar.  ia  nos 
deu  bom  fizar.  mais  enbella  semblanssa.  ses 
penh  bo  ses  fizanssa. 
d       ompna  saisius  prezes.  com  mi  pres  nius 
forses.  amors  ni  merceges.  si  com  sol  far 
merces.  uos  magratz  fin  talan.  nom  tenhas 
ensoan.  si  tot  mai  lo  pel  sais.  quel  cors  es 


IL   CANZONIERE    PROVENZALE    J  531 

frecs  e  gais.  e  sai  bos  faitz  grazir.  et  onram 
ens  chauzir.  e  so  ques  tanh  selar.  e  sol  dai 
sest  pensar,  mi  fezes  perdonanssa.  anc  dals 
noilh  fis  pezanssa. 
1        a  rayna  ses  par.  elienor  sap  far.  e  dir  so 
don  senanssa.  tot  iorn  e  creis  sonranssa. 

n.  20.  Aimeric  de  peguilha. 

q  Uar  fui  de 

duracondanssa.  ues  uos  alcoraensamen. 
tanh  quen  prendatz  ueniamen.  ab 

brau  respos  ho  ablanssa.  quans  quieus  a 

mes  mames  uos  ses  enian.  et  hieus  tornei 

bona  dompnen  soan.  per  tal  que  ma  trahit 

ses  desfizanssa. 
s       ieus  fui  ala  comensanssa.  fals  araus 

am  finamen.  e  sai  quem  dires  souen.  que 

fraitura  dautramanssa.  me  fai  uenir  ues 

uos  humelian.  equieu  uos  uauc  minten  e 

galian.  eges  nous  am  enfaitz  mai  en  sem 

blarssa. 
d       e  gran  forfag  gran  uenianssa.  so  di 

dreitz  per  iutgamen.  emerces  di  eissamen. 

de  gran  tort  gran  perdonanssa.  abdui 

son  enmaint  luec  dun  semblan.  et  enma 

int  luec  uan  se  contraria,  quar  dreitz  au 

si  emerces  apitanssa. 
d       oncx  si  dreg  ni  uostronranssa.  gardatz 

nil  mieu  failhimen.  ia  nomaures  chauzi 

men.  quals  mais  dona  dreitz  malanans 

sa.  quel  failhimen  quieu  fis  ues  uos  tan 

gran,  e  lonramen  quaues  sobra  mi  tan. 

creisson  mamor  emermon  mesperanssa. 
p       ueis  conoisses  ses  duptanssa.  quieu  failhi 

nessiamen.  nous  sia  lo  mais  enmen.  mas 

del  be  aiatz  niembranssa.  si  prò  nom  faitz  si 

uals  nom  tenhatz  dan.  e  del  benfait  siel 

uostre  talan.  quieus  atendrai  senes  dezespe 

ranssa. 


532  P.   SAVI-LOPEZ 

r       ei  darago  quii  uostre  gai  semblan.  uè 

pot  ben  dir  de  bon  pair  bon  enfan.  quar  bon 
pretz  cueilh  sei  que  semenonranssa. 

n.  21.  Aimeric.  (f.  5a  [64],  col.  1»). 

a  Des  uol  de  laondanssa. 

del  cor  la  boqua  pai'lar.  doncx  pueis  tan 
parli  damar,  ben  puesc  dire  ses  duptans 

sa.  ma  dompnal  mieu  ps^rlamen.  quieu  am 

de  cor  finamen.  mas  ges  enlieis  nom  creiria. 

per  digz  si  plus  nom  fazia. 
q       uar  non  sap  ama  semblanssa.  dompna 

meilhs  amor  lauszar.  que  tan  pauc  enuoilho 

brar.  molt  mac  bella  comensanssa.  ues 

quem  paga  de  nien.  siei  bueilli  man  embl 

at  lo  sen.  ab  tan  bella  mahistria.  quen  fan 

plaszer  ma  follia, 
m      anc  non  ui  fìnamanssa.  ses  alques  de 

folleiar.  ni  ioi  damor  ses  preiar.  ni  ses  mal 

trag  gran  onranssa.  equar  abmeins  donra 

men.  ses  plus  son  mei  pensamen.  sofre  pl»s 

leu  totauia.  lafan  doblar  cascun  dia. 
e       t  hieu  dobli  la  balanssa.  quadoble  tene 

lieis  plus  quar.  totz  iorns  caissi  sai  doblar. 

doblamen  ma  malananssa.  mai  assatz  doblet 

plus  gen.  tristans  quan  bec  lo  pimen.  car 

el  gaszanhet  samia,  peraquo  quieu  pert 

la  mia. 
s        ouen  mi  dona  peszanssa.  ues  quem  fai 

tart  alegrar.  eforam  greu  adurai\  mai  la 

mors  elesperanssa.  mi  ten  alques  iauzen. 

tot  uoilh  siason  talen.  queissamen  sis  seria. 

si  tot  non  mo  uolia. 
n       abiatritz  nous  sabria.  tant  lauszar  co 

US  couenria. 

n.  22.  Aimeric  de  peguilha. 

s  El  que  sirais  ni  guerreiabamor.  ges 

que  sauis  non  fai  almieu  semblan. 


IL   CANZONIERE    PROVENZALE   J  533 

quar  de  guerra  nei  tart  prò  e  tost 
dan.  egiierra  fai  tornar  mal  enpeior.  engu 
eiTa  trop  perquieu  non  la  uolria.  uiutat  de 
mal  e  de  ben  carestia,  mai  finamors  si  tot 
me  fai  languir,  ha  tant  de  ioi  quem  pot 
leu  esiauzir. 

ueilli  plaszer  son  plus  que  lenuei  damor. 
eilh  be  queilh  mal  eilh  seiorn  que  lafan. 
eilli  gaug  queilh  dol  eilh  leu  fais  queilh 
peszan.  eilh  prò  queilh  dan  son  plus  eilh 
ris  queilh  plor.  non  die  aissi  del  tot  que 
mais  non  sia.  el  mais  com  na  ual  mais  q«<e 
sin  gueria,  quar  qui  ama  de  cor  non  uol 
languir  *).  del  mal  damor  tant  es  dous  per 
sofrir. 

ncaras  ti'op  mais  de  be  enamor.  quel 
uil  fai  quar  el  nessi  gen  parlan.  elesquas 
lare  eleial  lo  truan.  elfol  saui  elpec  conois 
sedor.  e  lerguilhos  domesguezumelia.  e  fai 
de  dos  cors  un  tan  ferm  los  lia.  percom         (f.  5a,  col.   2*). 
nos  deu  aszamor  contradir,  pueis  tan  gen 
sap  esmendar  efenir. 
ieu  lai  seruit  prò  nai  cambi  damor.  ab 
que  ia  plus  nonagues  mas  aitan.  quen 
mains  luecx  ma  fait  tan  aut  e  tan  gran. 
don  ia  ses  lieis  non  pograuer  honor.  e 
maintas  ues  me  gart  de  uilania.  que  ses 
amor  gardar  nomen  sabria.  e  mains  bons 
motz  me  fai  pensar  e  dir.  que  ses  amor  noi 
sabriauenir. 

ona  dompna  de  uos  tenli  e  damor.  sen 
e  saber  cor  e  cors  motz  e  chan.  esieu  ren  die 
queus  sia  benestan.  deuetz  nauer  lo  grat 
e  la  lauszor.  uos  e  amors  quem  das  la  mays 
tria.  e  si  ia  plus  de  be  no  men  uenia.  prò 
nai  cambi  segon  lo  mieu  seruir.  sii  plus  hi 
fos  ben  saupral  plus  graszir. 

')  Corretto,  con  altro  inchiostro,  in  guerir. 


534  p.  SAVj-i.oPEZ 

e       hansoneta  uai  teu  de  part  mi  e  damor. 

albon  albel  alcortes  alprezan.  acui  sopleion 

lati  et  alaman.  eilh  sieruon  com  bon  empe 

rador.  sobrels  maiors  ha  tant  de  senhoria. 

hoDor  e  pretz  larguesze  cortezia.  sen  e  saber 

conoissensse  iauzir.  rie  de  ricor  per  rie  pretz 

enrequir. 
b       ona  dompna  la  genser  es  que  sia.  uas 

uos  azor  esoplei  nueit  e  dia.  iamais  de  uos 

nom  uoilb  partir,  quentot  lo  mon  non 

pogra  meilhs  chauzir. 

n.  23.  Aimeric  depeguilha 

s  I  com  lalbre  que  per  sobrecargar.  fr 

auli  si  mezeis  epert  son  frug  e  se. 
ai  hieu  perdut  ma  bella  dompne 

me.  emos  engenhs  ses  fraitz  per  sobramar. 

pero  si  tot  me  sol  apoderatz.  ane  iorn  non 

fis  mon  dan  azessien.  anseis  cug  far  tot  so 

que  faue  absen.  mai  er  conose  que  trop 

sobral  foudatz. 
e       non  es  bo  eom  sia  trop  senatz.  que  asa 

zos  non  segua  son  talen.  e  si  noia  de  cascu 

mesclamen.  nones  bona  sola  luna  meitatz. 

que  besdeue  hom  per  sobre  saber.  nessis 

enuai  maintas  ues  foUeian.  perque  seschai 

com  an  enluec  meselan.  sen  abfoudat  quiu 

sap  gen  retener. 
1        as  quieu  nonai  mi  mezeis  enpoder.  ans 

uauc  mon  dan  enqueren  esercan.  e  uoilh 

trop  mais  perdre  e  far  mon  dan.  abuos  dona 

eabautra  conquezer.  cancse  cug  far  enaq?<est 

dan  mon  prò.  equesauis  enaquesta  follor. 

pero  alei  de  fol  fin  amador.  maues  ades  on 

plus  mi  faitz  mal  plus  bo. 
n       on  sai  nuilh  oc  perquieu  des  uostre  no.  (f.  5b,  col.  1*). 

pero  souen  tornon  mei  ris  enplor.  et  hieu 

com  fols  ai  ioi  de  ma  dolor,  e  de  ma  mort 

quan  uei  uostra  faisso.  col  balezi  cap  ioi  sa 


IL   CANZONIERE    PROVENZALE   J  535 

net  aussir.  quant  elmirailh  se  remiret  es 
ui.  tot  autressi  es  uos  mirailhs  ami.  que 
mausizetz  quan  uos  uei  nius  remir. 
e       nous  en  qual  quan  mi  uezetz  morii',  en 

ans  ho  faitz  de  me  tot  autressi.  com  de  lenfan 
quabun  maraboti.  fai  hom  del  plor  sebrar 
edepartir.  epueis  quant  es  tornatz  enalegrier. 
et  hom  lestrai  so  queilh  donet  eilh  tol.  et  el 
adoncx  plox'e  fai  maior  dol.  mil  aitans  plus 
que  non  fes  de  premier. 

n.  24.  Aimeric  de  peguilha. 

e  Xamors  trop  alques  enquem  refranh. 

qualmeins  damors  mais  ho  bes  nom  so 
franh.  ni  hieu  per  mal  nom  luenh 

damors  nim  franh.  conplus  maussi  plus 

ues  amors  mafranh.  enon  conosc  camors  ues 

mi  safranha.  niszieu  damors  nonai  poder 

quem  franha.  res  nom  sofranh  sol  camors 

nom  sofranha.  quar  ses  amors  no  sai  enqu 

em  refranha. 
d       amor  nom  puesc  partir  camors  mi  pren. 

e  quan  men  cug  emblar  plus  mi  repren. 

abun  esgart  don  mos  cors  sescompren.  qu 

em  fai  uenir  de  lieis  encui  menpren.  mai 

ason  dan  non  cuges  quieu  menprenda.  ni 

per  autra  mos  fis  cors  sescomprenda.  don  hom 

per  fals  amador  mi  reprenda,  quen  lieis  es  tot 

silh  platz  quem  lais  hom  prenda, 
e       aissi  soi  faitz  del  tot  alsieu  coman.  que 

nuilha  re  non  desdic  quellam  man.  pero  duw 

be  la  prec  que  nom  desman.  qual  comensar 

mi  promes  del  deman.  don  fai  pecat  huei 

mais  que  nom  demanda,  e  grans  merces 

siuals  que  nom  desmanda.  mas  hieu  tene 

be  i^er  desman  si  nom  manda,  pero  asatz 

qui  non  desditz  comanda, 
e       n  lieis  son  tug  li  bon  aip  com  retrai,  es 

tiers  que  greu  promet  e  leu  estrai,  perqui 


536  P.    SATJ-LOPEZ 

eu  non  puesc  sufrir  lo  mal  quieu  trai,  si 

calque  be  amors  no  men  atrai,  mas  pero  mal 

ho  be  qual  quem  natraiha.  sofrii-ai  tot  que 

ia  per  mal  quen  traiha.  noraestrairai  dam 

ors  qui  ques  nestraia.  ni  ia  nuilh  teras  non 

iioilh  com  mo  retraia. 
d       onen  uos  ai  mon  cor  tan  fin  e  ferm. 

que  ges  nonai  poder  quieu  len  desferm.  abans 

uos  iur  sobre  sains  eus  aferm.  con  plus  vaen 

cug  partir  plus  mi  referm.  e  si  merces  q?/<?ls 

partimens  referma,  per  chauzimen  enuos  (f.  5b,  col.  2*). 

plus  nosaferma.  totz  mos  afars  si  destrui  es 

desferma.  cautra  mas  uos  non  uoilh  que 

mestei  ferma. 
1        adreitz  guilhem  malespina  referma,  don 

e  dompnei  si  que  cascus  aferma,  que  de  bon 

pretz  nos  lassa  nis  desferma.  percom  enlui 

deu  tener  proua  ferma, 
n       a  biatriz  dest  tant  es  fine  ferma,  quel 

uostre  sens  nos  camia  nis  desferma.  don  uos 

tre  laus  si  meilhui-e  saferma.  epueis  mos 

cbans  emos  digz  ho  referma. 

n.  25.  Aimeric  de 

peguilha. 

e  Yssamen  com  lazimans. 

tirai  fer  eltrai  ues  se.  tiramors  mon 
cor  iase.  ques  forseis  eplus  tirans.  e  mos 
fols  cors  autressi.  quar  es  forsatz  forsa  mi.  per 
quieu  aforssa  deuos.  donaus  am  totas  sazos. 

p       ero  maltraitz  ni  afans.  nom  deszenanssa 

nim  te.  de  uos  seruir  meilhs  de  be.  cals  quem 
sial  pros  ol  dans.  mas  fait  mauetz  ancessi. 
mon  cor  que  per  uos  maussi.  quem  soliesser 
fis  e  bos.  mai  era  mes  fals  e  ginhos. 

q       uieu  soliesser  clamans.  de  mos  hueilhs 

plus  dautra  re.  mai  eram  clam  permafe.  de 
mon  fals  cor  mil  aitans.  quer  nonai  cor  sous 
afi.  qual  prim  quem  uis  et  hieu  uos  ui.  sem 


IL   CANZONIERE   PROVENZALE   J  537 

blet  de  mi  arescos.  et  hieu  remas  ses  cor  blos. 
u       as  uos  fis  iias  mi  tiTians.  es  mos  cors  e 

sabes  perque.  quar  neguna  nos  capte.  tan 

gen  ni  es  tan  pai'lans.  ni  acueilh  tan  gen 

ni  ri.  e  sabes  quals  ni  conssi.  qual  partir 

lauols  elpros.  nes  ses  uostre  dan  ioios. 
t       ant  es  cueinde  benestans.  que  la  genser 

es  com  uè.  elpretz  aissi  cos  coue.  es  segon  la 

beutat  grans.  percamors  chauzi.  quar  es  ph<s 

final  plus  fi.  et  liieu  plus  fins  auos.  e  plus 

leials  cane  mais  fos. 
q       uar  soi  plus  fizels  amans.  enom  biais  en 

re.  non  per  mi  mas  per  merce,  uos  fos  pros 

dompna  prezans.  qnem  fetses  rie  de  mesqui. 

sol     daitan  pues  nom  cambi,  sufres  quieus 

am  emperdos.  et  er  grans  lo  guiszardos. 
t        otz  lo  mons  sacordapmi.  ues  on  quieu  an 

enaissi.  quel  ricx  reis  ualens  namfos.  es  de  to 

tas  bontatz  bos. 

n.  26.  Aimeric  de  peguilha. 

m  Aintas  ties  soi  enqueritz.  encortz  consi 

uers  non  fatz.  perquieu  uoilh  siapelatz, 
e  sia  lors  lo  chausitz.  chanso  ho  uers  a 
quest  chans.  erespon  als  demandans.  com  non 
troba  ni  sap  deueszio.  mas  quan  lo  nom  en 
tre  uers  e  chanso. 

q       uieu  ai  motz  mascles  auzitz.  e  chansone     (f.  6a  [65],  col.  1*). 
tas  asatz.  e  motz  femenins  passatz.  euersetz 
bons  e  grazitz.  e  cortz  sonetz  e  trotans.  ai  auz 
itz  euersetz  mains.  e  auzida  chansoneta  ab 
Ione  so.  els  motz  dambdos  dun  gran  elcaszimto. 

e  sieu  en  soi  desmentitz.  quaissi  non  sia  uertatz. 
non  er  hom  per  mi  blasmatz.  si  per  dreg  mo 
contraditz.  ans  ner  sos  sabers  plus  grans.  entr 
els  bos  el  mieus  mermans.  si  daissom  pot  uew 
ser  segon  raszo.  quieu  nonai  ges  tot  lo  sen  sa 
lamo. 

q       uar  es  de  son  luec  issitz.  dompneis  que  ia 

Stuàj  di  filologia  romama,  IX.  34 


538  P-   SAVJ-LOPEZ 

fon  prezatz.  me  soi  alques  desuiatz.  damar  tan 
nestauc  marritz.  quentramairis  e  amans.  ses 
mes  US  pales  engans.  quenganan  ere  lus  lau 
tre  far  son  prò.  enon  garden  tems  ni  pei'que 
ni  co. 

q       uieu  ui  ans  que  fos  faiditz.  sius  fos  peram 

or  donatz.  us  cordos  quadreit  solatz.  nissia  cortz 
e  conuitz.  perquem  par  que  dur  dos  tans.  us 
mes  no  fazia  us  ans.  quant  renhaua  dompneis 
ses  ochaiszo.  greu  es  qui  uè  coni  es  e  sap  com 
fo. 

m     as  non  es  tant  relenquitz.  si  tot  me  soi 

deszamatz.  quien  non  sia  enamoratz.  de  tal  ques 
sime  razitz.  de  pretz  tant  quami  es  dans.  pu 
eis  la  ualors  el  semblans.  son  assemblat  entan 
bella  faisso.  com  noi  pot  plus  pensar  meilhu 
raszo. 

a       bels  cors  cars  gen  noiritz.  adreitz  e  gent 

faisonatz.  quieu  non  soi  (soi)  ges  tant  arditz. 
quieus  prec  que  mames  enans.  uos  ciani  mer 
ce  merceians.  sufres  quieus  am  enous  quier 
autre  do.  eia  daquest  nom  deuetz  dir  de  no. 

n       a  biatritz  dest  lenans.  de  uos  mi  piai  ques 
fai  grans.  qua  uos  lauszar  si  son  mes  tug 
li  bo.  perquieu  abuos  dam-i  mon  uers  eh  anso. 

n.  27.  Aimeric  de  peguilha. 

d  Aisso  don  bom 

ba  loniamen.  ben  dig  entrels  conois 
sedors.  sin  ditz  pueis  mal  uilanamen. 
es  atot  lo  meins  deszonors.  caisel  que  si  mez 
eis  desmen.  del  ben  qua  dig  no  mes  paruen. 
des  ques  trobatz  ben  dizen  fals.  quel  deiom 
creire  dizen  mais. 

s       i  dieisses  alcomensamen.  los  mais  ans  quel 
ben  dig  fos  sors.  dieissero  plus  cubertamen, 
e  sembla  uer  apluszors.  mas  pero  benaue  so 
uen.  caisso  com  ere  blasmar  defen.  doncx  non 
es  dome  ques  aitals.  lo  bes  digz  bos  nil  mal 


IL   CANZONIERE    PROVENZALE    J  539 

digz  mais. 
e       US  quen  dis  be  i^remeiramen.  que  de  bas 

aut  poget  amors.  endis  apres  mal  sotilmen.     (f.  6a,  col.  2"). 

per  far  semblar  sos  mais  peiors.  eper  plus 

enganar  la  gen.  abi^rouerbis  dauratz  de 

sen.  et  abparauletas  uenals.  uol  far  creire 

del  ben  ques  mais. 
n       on  es  bes  qui  sap  dauinen.  segon  lo  mon 

so  ques  ualors.  e  quis  garda  de  failhiinen.  on 

plus  pot  e  creis  sas  lauszors.  si  es  mas  non 

pot  far  nien.  si  nona  laministramen.  damor 

ques  maistre  leials.  quensenha  triar  bens  de 

mais, 
q       uel  cors  nais  on  araors  senpren.  ensems  ar 

dimens  e  paors.  quensauiesza  lardimen.  euol 

pilha  gen  las  folors.  epueis  es  arditz  eissamen. 

de  larguesza  e  densenhamen.  e  uolpilhs  desca 

seza  e  dals.  que  fos  uilania  ni  mais. 
p       er  som  par  qui  ditz  mal  uilanamen. 

del  mahistre  qui  donai  sen.  com  siom  ualens 

e  quabals.  ni  com  se  pot  gardar  de  mais, 
q       uar  ual  plus  e  conois  e  sen.  na  ioana  dest 

et  enten.  uoilh  segon  lo  dreg  iutge  quals.  deu 

boni  dir  damors  bens  bo  mais. 

n.  28.  Guiduisel. 

s  I  bem  partes  mala  dompna  de  uos. 

non  es  raszos  quieu  me  parta  de 
chan.  ni  de  solas  quar  farla  sem 
blan.  quieu  fos  biratz  daquo  don 
sui  ioios.  ben  fui  hiratz  mai  eras 
men  repen.  quar  apres  ai  del  uostrensenbauien. 
com  puesca  leu  camiar  ma  uolontat.  perque 
ras  cban  daquo  don  ai  plorat. 
p       lorat  nai  bieu  eilh  magers  ocbaiszos.  uec 

mi  de  tal  que  nos  nira  chantan.  que  mi  non 
es  si  tot  sen  uai  gaban.  anta  ni  dans  ni  lieis 
honors  ni  pros.  si  ma  camiat  perun  nessia 
men.  lui  camiara  benleu  plus  follamen. 


540  P-    SAVJ-LOPEZ 

perquieu  noilh  sai  daquest  camge  mal  gr 

at.  quilh  caniiara  tro  aial  cors  camiatz. 
a       dreg  fora  si  tot  non  es  raszos.  que  si  do 

na  fezes  re  malestan.  com  lan  seles  els  bes 

traisses  enan.  mas  eras  es  camiadaquilh  sa 

zos.  perqueus  deues  gardar  de  failhimen. 

auos  ho  die  entotas  ho  enten.  que  si  faitz 

mal  ia  nous  sera  selat.  ans  enuol  hom  mais 

dire  de  uertat. 
t       ant  quant  hom  fai  so  que  deu  es  hom 

pros.  etan  leials  com  se  garda  denian.  per 

uos  ho  die  qui  hieu  lauzei  antan,  quant 

eral  digz  uertadiers  elfaitz  bos.  ges  peraisso 

non  deues  dir  quieu  men.  si  tot  eras  nous 

tenh  per  tan  ualen.  quar  qui  laissa  so  qua 

gen  comensat.  nona  bon  pretz  peraco  ques 

passat.  (f.  6b,  col.  1*). 

m      ala  dompna  anc  non  cugei  que  fos.  que 

sius  perdes  non  mo  tengues  adan.  mas  laeu 

ilhir  don  uos  sabias  tan.  el  gens  parlars  e 

lauinens  respos.  uos  fazion  sobre  totas  ualen. 

mai  araus  tol  foudatz  lacuilhimen.  el  gens 

parlars  ques  niesclatz  ab  barat.  et  enbreumew 

uos  perdi-es  la  beutat. 
m     ala  dompna  fait  maues  enuios.  emal 

dizen  don  nonagra  talan.  quar  conosc  be 

quamal  mo  tornaran.  ensera  meins  prezada 

ma  chansos.  e  non  per  so  si  tot  mai  Ionia 

men.  uostre  uoler  uolgut  enteiramen. 

queras  mes  tant  azenuei  toi*nat.  non  pu 

esc  ben  dir  que  uos  fassas  foudat. 
m      ala  dompna  la  beutat  el  iouen.  aues 

abuos  e  cortezie  sen.  e  gardatz  ho  com  aues 

comensat.  si  nono  faitz  perdut  aues  lo  grat. 

n.  29.  Raimbaut  de  uaqweiras. 

e  Ram 

requer  sa  costume  son  us. 

amors  perquieu  piane  e 


IL   CANZONIERE    PROVENZALE    J  541 

sospir  e  ueilh.  qua  la  gen 

sor  del  mon  ai  quist  conseilh. 

em  di  quieu  ara  tan  aut 

com  puesqnensus.  la  me 

ilbor  dona  era  met  ensa 
fizanssa.  conor  e  pres  mer  e  pi'os  e  non  dans. 
e  quar  ilhes  del  raon  la  plus  prezans.  ai  mes 
enliei  mon  cor  emesperanssa. 
ne  non  amet  tan  aut  com  hieu  negus, 
ni  tan  pros  dona  e  quar  noi  trop  pareilh. 
menten  enlei  e  lam  alsieu  conseilh.  mais 
que  tibis  non  amet  priamus.  que  iois  e 
pres  sobre  totas  lenanssa.  quilbes  als  pros 
plazens  hiacondans.  e  als  auols  aberguilbos 
semblans.  largues  dauer  e  de  duracondanssa. 
ne  persaual  cant  enla  cort  dartus.  tolc 
las  armas  alcauaUer  uei'meilb.  non  ac  tal 
gaug  com  hieu  del  sieu  conseilh.  emfai  mo 
rir  si  com  muer  tantalus.  que  som  ueda 
daquem  donabondanssa.  midons  ques  pros 
cortesze  benestans.  rique  gentils  ioues  e 
gen  parlans.  e  de  bon  sen  e  de  bella  sembl 
anssa. 

ella  dona  aitant  arditz  e  plus,  fui  can 
uos  quis  la  ioia  del  quabeilh.  equem  dasetz 
de  uostramor  conseilh.  non  fo  del  saut  de 
tir  emenadus.  mas  amicx  quai  mais  de  pr 
etz  e  donranssa.  quendreg  damor  fo  lardim 
ens  plus  grans.  mas  ben  deu  far  tandar 
dit  uostramans.  morrai  per  uos  ho  naurai 
benananssa.  (f.  6b,  col.  2*). 

a  mon  ergueilh  noni  blasme  ni  mencus. 
sim  luenh  per  liei  daurengue  del  monteilh. 
caissim  don  dieus  de  son  bel  cors  conseilh.  que 
plus  ualen  nuilhs  hom  de  lieis  non  uis.  que 
sera  reis  dane  la  terrò  de  franssa.  lonhera 
men  per  far  lo  sieu  conian.  quen  lieis  ai  tot 
mon  cor  e  mon  talan.  et  es  la  res  onplus  ai  de 
fìzanssa. 


542  P.   SAVJ-LOPEZ 

b       el  quaualier  enuos  ai  mesperanssa.  quar 

uos  es  del  mon  la  plus  prezans.  e  la  plus  pros 
non  mi  deu  esser  dans.  quar  uos  non  mi  des  con 
senh  e  fort  fermanssa. 

n.  30.  Raimbaut. 

e  Issamen  ai  guerreiat  abamor.  com 

francx  uassals  guerreiab  ma)  senhor. 
queilh  tol  sa  terra  tort  perquel  gner 
reia.  equan  conois  queilh  guerra  prò  noilli  te. 
pel  sieu  eobrar  uè  pueis  asa  merce,  et  hieu  ai 
(ai)  tan  de  ioi  eobrar  enueia.  quazamors  quier 
merce  del  sieu  pecat.  emon  ergueilh  torn  en 
bumelitat. 

g       aug  ai  trobat  merce  de  la  gensor.  quem 
restam-a  lo  dan  quai  pres  ailhor.  que  samis 
tat  per  plag  damor  mautreia.  ma  bella 
dona  e  gent  absim  rete,  empromet  tan 
perquel  reprochier  ere.  com  di  qui  ben  gue 
rreia  ben  plaideia.  abamors  ai  enchantan 
guerreiat.  tan  capmidons  nai  meilhor  plag 
trobat. 

e       Imon  nona  rei  ni  emperador.  quen  lieis 
amar  nonagues  fag  donor  quar  sa  beutat 
e  son  pretz  senlioreia.  sobre  totas  las  jDros 
dompnas  com  uè.  emeilhs  senanssa  e  plus 
gen  si  capte.  emeUhs  acueilh  e  meilhs  parie 
dompneia.  emostrals  pros  son  sen  e  sa  beu 
tat.  saluan  souor  erete  de  totz  grat. 

d       ompna  ben  sai  si  merce  nom  secor. 

quieu.non  uailh  tan  queus  tanhazamador. 
que  tan  uales  per  que  mon  cor  feuneia.  car 
non  puesc  far  tan  ricx  faitz  eous  coue.  das 
mi  quieus  am  mai  per  tan  nom  recre.  de 
uos  preiar  que  uassals  pos  desreia.  deu  pò 
nher  tan  que  fassa  colp  onrat.  perquieus 
enquis  pos  magues  conseilh  dat. 

V       ostri  bel  hueilh  plaszen  galiador.  ris 

zon  daquo  don  hieu  sospir  eplor.  elioues  cors 


IL   CANZONIERE    PROVENZALE   J  543 

qaades  gense  condeia.  maussi  aman  tal  en 
ueia  men  uè.  e  sieu  abuos  non  ti'op  amor 
e  fé.  ia  non  creii'ai  mais  ren  cauia  ni  ueia. 
nim  fizarai  endona  daut  bamat.  ni  uoilh 
quem  do  nuilbautra  samistat. 

n.  31.  Raimbaut  de  uaqueiras  (f.  7a[66],  col.  1"). 

1  Eu  pot  hom  gaug  epretz  auer.  ses  amor 

qui  bei  uol  ponhar.  abques  gart  de  tot 

malestar.  e  lassa  de  be  son  poder.  perquieu  si  tot 

amors  mi  failb.  fauc  tant  de  be  com  puesc  e 

uailh.  e  sieu  pert  ma  dompna  et  amor,  non 

uoilb  perdre  pretz  ni  ualor.  questiers  puesc 

uiure  onratz  e  pros.  perque  nom  qual  far 

dun  dan  dos. 
p      ero  ben  sai  sim  dezesper.  quel  meilbs  de  pr 

etz  hi  deszampar.  quamors  fai  los  meilhors  me 

ilhurar.  elplus  maluatz  pot  far  ualer.  e  sap 

far  de  uolpilb  uassailh.  el  deszauinen  de  bon 

tailh.  etorna  maint  paubrenriquor.  e  pos  tawt 

bi  trop  de  ualor.  hieu  soi  tant  de  pretz  cobei 

tos.  que  ben  amera  samatz  fos. 
m     as  peraissom  dei  temer,  camors  tol  mais 

que  non  uol  dar.  que  per  un  beilb  uei  sent  mais 

far.  emil  pezars  contrun  plazer.  et  ano  non 

det  ioi  ses  trebailb.  mai  com  ques  uoilha  so 

engailh.  quieu  non  uoilh  son  ris  ni  son  plor. 

epos  noi  trop  gaug  ses  dolor,  siuals  noilh  se 

rai  mais  ni  bos.  mas  lais  mestar  deszamoros. 
j        a  sa  beutat  ni  son  saber.  son  dous  ris  ni  son 

gen  parlar,  nom  cug  ma  dompna  uendi-e 

quar.  que  bem  puesc  de  samor  tener,  mas 

quar  senten  enson  mirailh.  color  de  robis  ab 

cristailh.  equar  la  lauszon  li  meilhor.  cuiam 

auer  per  seruidor.  quais  conors  mer  si  no 

mes  pros.  mas  nos  cug  quieu  lam  enperdos. 
a       b  cor  fag  uauc  midons  uezer.  queram  pot 

perdro  gaszanhar.  e  si  uol  mos  precz  escoutar. 

aurai  silh  platz  tot  mon  uoler.  mas  enau 


544  P.    SA VJ  LOPEZ 

tra  raszon  massailh.  no  pens  quiem  tensso 
nim  barailh.  ab  lieis  mas  pens  dautramador. 
et  anc  floris  de  blanqua  fior,  no  pres  com 
iat  tan  doloiros.  com  hieu  dona  sim  part 
de  uos. 

n.  32.  Eaimbaut  de  uaqueiras. 

s  Auis  e  fols 

humils  et  ergoilhos.  cobes  e  larcx  euol 
pilhs  earditz.  sci  quan  seschai  eiauzens 
e  marritz.  e  sai  esser  plazens  et  enuios.  e  uils 
e  quars  euilas  e  cortes,  auols  e  bos  econosc 
mais  e  bes.  et  ai  de  totz  bos  aips  cor  e  saber. 
equan  ren  failh  fauc  ho  per  nonpoder. 

e       ntot  afar  soi  sauis  e  ginhos.  mas  midons 
am  tan  quen  soi  enfolitz.  queilh  soi  humils 
onpeitz  me  fai  em  ditz.  e  nai  ergueilh  car 
es  tan  belle  pros.  e  soi  cobes  cap  son  belcors  (f.  7a,  col.  2*). 

iagues.  tan  que  plus  larcx  enfor  e  meilhs 
apres.  e  soi  uolpilhs  quar  non  laus  enquerer. 
e  trop  arditz  quar  tan  rie  ioi  esper. 

b       ella  dompna  tal  gaug  mi  uen  de  uos. 

que  marritz  soi  quar  non  uos  soi  aizitz.  qui 
en  soi  per  uos  als  pros  tant  abelitz.  quenue 
ia  nan  li  maluatz  erguilhos.  bem  tenrai  uil 
sapuos  nom  ual  merces.  quiem  tene  tan  car 
per  uos  entotas  res.  que  per  uila  men  fauc 
als  crois  tener,  eper  cortes  als  pros  tant  sai 
ualer. 

d       amor  die  mal  enmas  autras  chansos.  pel 

mal  quem  fes  la  bellenganairitz.  mai  uos  do 
na  abtotz  bos  aips  complitz.  maues  tan  fag  qu 
esmenda  mes  e  dos.  camors  euos  maues  tal  ren 
promes.  que  ual  sent  dos  cautra  donam  fezes. 
tant  uales  mais  perquieus  uoilh  mais  auer. 
eus  tem  mais  perdre  eus  uoilh  mais  con 
querer. 

j        ois  e  iouens  e  lauinens  faissos.  donel  gais 
cors  densenhamens  noiritz.  uos  an  dat  pres 


IL   CANZONIERE    PROVENZALE   J  545 

ques  per  los  pros  grazitz.  epermafe  si  mauen 
tura  fos.  quieu  ni  mos  chans  ni  mamors  uos 
plagues.  lo  meillis  de  pretz  agra  enuos  con 
ques.  e  de  beutat  epaesc  ho  dir  enuer.  car 
per  auszir  ho  sai  eper  uezer. 

n.  33.  Raimbaut. 

g  Uerras 

ni  plag  no  son  bo.  contramor  en 
nuilh  endreg.  e  sei  fabrega  lo  fer  fi* 

eg.  quen  uol  ses  dan  far  son  prò.  caissim  uol 

amors  aussire.  coin  aussil  sieu  senhers  mais. 

que  sa  guerra  les  mortals.  e  sa  patz  peitz  de 

martii-e.  e  sane  iorn  foron  enemicx.  en  ti 

bantz  ab  lozoicx.  no  feiron  plaitz  ab  tans 

plazers.  com  hieu  sii  mieus  tortz  mes  ders. 
q       uè  peresmende  per  do.  ma  sobrels  amans 

eleg.  ma  dompna  on  son  tug  bon  dreg.  pau 

zat  enbella  faisso.  don  muer  dire  de  cossire. 

quar  nomestai  cominals.  amors  cap  sospirs 

coralb.  maussi  ab  bel  semblan  trahire.  sella 

cui  am  ses  cor  tric.  quezes  ioues  abcors  rie.  e 

ual  sobre  totz  ualers.  som  mostrauzirs  e  uè 

zers. 
q       uan  pens  quals  es  ni  qui  so.  bem  soi 

mes  enordestreg.  e  sieu  quis  mais  que  mon 

dreg.  sa  gran  beutat  nocliaiszo.  quem  forsem 

fai  lergueilh  dire,  e  sa  colora  naturals.  cades 

gense  noi  met  als.  mas  bel  solas  egen  rire.  (f.  7b,  col.  1*). 

epos  tant  amar  sem  gic.  fauc  lenans  almi 

eu  destric.  mas  sii  sieu  bel  dig  es  uers.  tot 

ho  donai  bons  espers. 
s       i  mestasetz  arazo.  bona  dompna  et  adreg. 

ia  nom  tengratz  tan  destreg.  enuostronrada 

preiszo.  don  nonai  poder  quem  uire.  ans  soi 

tan  francx  e  leials.  uas  uos  que  uas  me  soi 

fals.  eus   am  tan  que  me  nazire.  e  sieu  non 

fauc  tan  ni  die.  com  satanh  aluostramic.  al 

facr  me  sofranh  lezers.  et  aluostre  laus  sabers. 


546  r.  SATj-LOPEZ 

e       nluec  de  fag  daut  baro,  uos  am  eus  prec  eus 
dompneg.  eluostre  gen  cors  adreg.  lau  e  gar 
aqui  on  so.  equan  puesc  ben  far  nom  uire. 
quesser  deu  lo  uostraraicx  tals.  qiie  sia  entrels 
pros  quabals.  equar  sufres  queus  dezire.  cug 
esser  pars  alplus  rie.  equant  dautra  me  fa 
die.  non  mo  fai  far  nonqualers.  mai  uostron 
ratz  capteners. 

q       nar  non  es  ni  er  ni  fo.  genser  de  negu 
na  leg.  ni  tan  pros  perquieu  enpleg.  lo 
mieu  oc  eluostre  no.  e  sin  fos  delplus  iauzire. 
aldieu  damor  forengals.  quel  sieu  paradis  soi 
fals.  quar  uos  soi  hom  e  seruire,  quel  sieu  me 
ilbor  Saint  prezie.  mai  fals  lauszengier  enic. 
man  tout  als  preiars  lezers.  aussim  tol  ma 
int  gaug  temer s. 

d       ompnal  bos  conseilhs  mer  mais,  quem  do 

nes  si  nom  datz  als.  equar  nous  soi  contradire. 
don  uos  onrat  conseilh  rie.  de  lemperador  fre 
deric.  caisom  tengra  mais  de  plazers.  com  soi 
damans  lo  plus  uers. 

1        onratz  pretz  sobre  quabals.  de  na  biatris 

es  tals.  com  noi  pot  enlauszan  dire,  mas  endr 
eg  damors  uos  die.  que  mon  bel  caualier 
rie.  ha  mais  de  pretz  et  es  uers.  aissi  nagieu 
mais  de  plazers. 

n.  34.  Raimbaut. 

n  Uilhs  hom  enre  no  failh.  tan  leu  ni  mes 

zaue.  com  el  luec  on  si  te.  per  plus  asse 
guratz.  perque  fai  grans  foudatz.  qui 
no  tem  so  quauenir  len  poiria.  quieu  cuiaua 
quar  amors  nom  tenia,  com  nom  pogues 
forsar  outra  mon  grat.  mai  eras  ma  del  tot 
apoderat. 

t        ant  es  damoros  tailh.  la  bella  quem  rete, 
com  non  lau  ni  la  uè.  non  sienamoratz.  e 
doncx  sieu  soi  forsatz.  nous  cuges  ges  grans 
merauilha  sia.  quar  sa  beutatz  lai  on  desila. 


IL   CANZONIERE   PROVENZALE    J  547 

uens  enaissi  trastotautra  beutat.  col  soleilh 
uens  trastotautra  clardat. 

d       e  robis  ab  crestailb.  me  par  que  dieus  la 

fé.  del  sieu  dousset  ale.  laspiret  so  sapchatz.  (f.  7b,  col. 2*). 

abdigz  enamoratz.  ples  de  doussor  abergueilb 
ses  folla,  parla  e  ri  abtan  doussa  paria,  cals 
amans  creis  damar  uolontat.  e  fai  amar  se 
Is  que  nonan  amat. 

e       quar  bieu  tant  no  uailh.  com  alsieu  pr 

etz  coue.  am  lieis  e  azir  me.  quar  men  soi  azau 
tatz.  com  non  es  tan  prezatz.  que  sa  ualors  al 
sieu  rie  pretz  par  sia.  pero  samors  entrels  am 
ans  li  tiia.  lo  plus  leial  nil  meilbs  enamorat. 
nom  qual  temer  son  pretz  ni  sa  rictat. 

m      olt  sofri  greu  trebailb.  capauc  no  men 

recre.  mas  aissom  fai  gran  be.  conplus  men 
soi  lonhatz.  mestai  sa  grans  beutatz.  lai  on  la 
ui  enmon  cor  nueit  e  dia.  elgen  parlar  e 
lauinen  jjaria.  abquieu  dompnei  maintas 
nes  aselat.  com  si  cuia  quieu  aia  dals  pensat. 

p       ros  comtessa  beatris  non  poiria.  tant  de 
ben  dir  quezenuos  mais  non  sia.  e  dieus  ba 
tans  de  bes  enuos  aiustat.  qua  las  autras  cais 
per  part  la  liurat. 

n.  35.  Raimbaut. 

V  Alen  marques  senber  de  monferrat. 

Adieu  grazisc  quar  uos  ba  tant  onrat. 
Que  mais  aues  mes  e  conques  e  dat. 
Com  ses  corona  de  laf  crestiandat.  E  laus  en 
dieu  que  tant  ma  enansat.  que  bon  senhor 
ai  'molt  enuos  trobat.  Que  maues  gen  noi 
rit  et  adobat.  E  fag  gran  be  e  de  bas  aut  pò 
iat.  Ede  nien  fait  caualier  prezat.  Grazit  en 
cort  eper  dompnas  lauzat.  Et  bieu  ai  uos 
seruit  de  uolontat.  De  bonafe  de  bon  cor  e 
de  grat.  Que  monpoder  uos  nai  ben  tot 
.  mostrat.  Et  ai  abuos  fag  maint  cortes 
barat.  Quen  maint  bel  luec  ai  abuos  domp 


548  P.    SA  TJ- LOPEZ 

neiat.  Et  abarmas  perdut  e  gazanhat. 

Et  ai  abuos  per  guerra  caualcat.  E  pres 

maiut  colp  et  abuos  nai  donat.  E  gen 

fugit  et  abuos  encausat.  Vensen  lencaus 

et  enfugen  tornat.  e  soi  cazutz  edautres  des 

roquat.  Et  ai  eriga  e  sus  enpon  iustat.  E 

part  barreiras  abuos  esperonat.  Et  enua 

zit  barbaquane  fosat.  E  sus  en  garda  et 

en  aut  luec  amat.  Vensen  grans  cochas 

et  ai  uos  aiudat.  Aconquerre  emperi  e 

regnat.  Et  estas  terras  et  islas  e  dugat. 

E  rei  apenre  princi  e  pi'incipat.  Et  ba  uen 

ser  maint  caualier  armat.  Maint  fort  caste! 

e  mainta  fort  siutat.  Maint  bel  palais  ai 

abuos  azegat.  Emperador  e  rei  et  arairat. 

El  seuasto  lassar  e  poestat.  Elprecalis  e  ma 

intautra  poestat.  Et  encausei  abuos  afilo 

pat.  Lemperador  caues  dezeredat.  De  ro     (f.  8a  [67],  col.  1*). 

mania  e  dautre  coronat.  E  si  per  uos  non 

soi  engran  honoretat.  No  semblara  cap  uos 

aia  estat.  Ni  seruit  tan  com  uos  ai  repro 

chat.  E  uos  sabes  quieu  die  del  tot  uertat. 

Senher  marques. 

n.  36.  Raimbaut. 

V  Alan  marques  ia  non  dires  de  no.  Que 

aitals  es  e  uos  sabes  ben  co.  Me  tinc 
abuos  alei  de  uassal  bo.  Cant  asailhis 

acartentrasteno.  Cant  quatre  sen  caualier 

atenso.  Vos  eneausauon  feren  azespero.  Que 

nos  tengron  abuos  mas  sol  trei  companho. 

Can  uos  tornes  eferis  de  rando.  Pueis  uos 

dupteron  mais  non  fai  grua  falco.  Et  hieu 

tornei  auos  als  magers  obs  quei  fo.  Que 

hieu  e  uos  leuem  malamen  del  sablo.  Nal 

bert  marques  quei'a  cazutz  ios  de  larso. 

Et  ai  estat  per  uos  enraainta  greu  preiszo. 

Per  uostra  guerra  e  nai  auostre  prò.  Fag 

maint  asaut  et  ars  mainta  maiszo.  E  pres 


IL   CANZONIERE    PROVENZALE    J  549 

maint  colp  doutra  la  garniszo.  Euos  cobri 

amessina  dun  gros  gambaiszo.  Enla  batailha 

uos  uinc  ental  sazo.  Queus  ferion  pel  peitz 

epel  mento.  Dartz  e  cairels  sagetas  lanseo. 

Lansas  e  bran  ecoutel  e  fausso.  Pueissas  pre 

zes  randas  e  paterno.  E  lissel  e  termeu  e  len 

tin  eaido.  Epale  epazerma  e  qualata  giro. 

Fui  als  premier s  sotz  nostre  gonfano.  Ecant 

anes  per  crozat  ues  saisso.  Hieu  non  aula  en 

cor  dieus  mo  perdo.  Que  passes  mar  mai 

per  nostre  resso.  Leaei  la  eros  e  pris  confes 

sio.  Adoncx  era  pres  lo  fort  Castel  babo.  Eno 

mauion  re  forfag  li  grifo.  Quei  uinc  ab 

uos  guerreiar  abando.  Entorn  blaquerna 

sotz  uostre  gonfano.  Eportei  armas  alei 

de  bramansso.  Delm  e  dausberc  e  de  gros 

gambaiszo.  Em  combatei  sotz  la  tor  al 

peiro.  Ei  fui  nafratz  doutra  la  garniszo. 

Eportei  armas  aitan  pres  del  domo.  Tro 

que  cazec  lemperador  fello.  Sei  que  destruis 

son  frairab  trassio.  Can  uil  gran  fum  e 

la  flamel  quarbo.  Elmur  traucat  en  ma 

int  luec  ses  bonso.  Eus  ui  elcamp  per  com 

batrabando.  Abtan  gran  gaug  ses  tota 

failhiszo.  Que  dels  lur  eron  sent  per  un 

per  raszo.  Euos  penses  de  far  defensio.  El 

coms  de  Flandres  e  franses  e  breto.  Ala 

mans  e  lombartz  e  borgonho.  Et  espa 

nhols  proensals  e  gasco.  Tug  fom  ren 

gat  caualier  epezo.  Elemperaire  ablo  cor  al 

talo.  Esperonet  son  maluais  companbo. 

Plen  dauolesza  pueis  uolgron  li  gloto.  Xos       (f.  8a,  col.  2^). 

fom  austor  et  il  foron  aigro.  Ecassem  los 

si  com  lops  fai  mouto.  Elemperaire  fugit 

sen  alairo.  E  laisset  nos  palais  boqua  leo. 

E  sa  filba  abla  clara  faisso.  Efranc  uassal  can 

ser  asenhor  bo.  Pretz  len  rema  et  an  bon  guis 

zardo.  Perquieu  esper  de  uos  esmende  do.  Se 

nher  marques. 


550  P.   SAVJ-LOPEZ 

n.  37.  Polquet  de  marseilha. 

p  Erdieu  amor  ben  sabes 

ueramen.  conplus  deis 
sen  plus  pueia  liumeli 
tatz.  et  ergueilhs  chai  on 
plus  aut  es  poiatz.  don 
dei  auer  gang  e  uos  es 
pauen.  cancsem  mostras 
ergueilh  coutra  mezura. 
V  e  brau  respos  amas  humils  chansos.  perques 
semblans  que  lergueilhs  caia  ios.  quapres 
bel  iorn  ai  uista  nueg  escura, 
m     ai  uos  non  par  puscatz  far  failbimen. 

pero  quan  failh  sei  ques  pros  ni  prezatz. 
tan  com  ual  mais  tan  nes  plus  encolpatz. 
quen  la  ualor  pueial  colpe  deissen.  e  cant 
hom  tot  perdonai  forfaitura.  ia  del  blasme 
noilh  sera  faitz  perdos.  quel  sei  rema  eilh 
mala  sospeissos.  qua  mains  met  sei  qui  uas 
un  desmezura. 
b       lasme  na  hom  e  cascus  sela  sen.  perque 
nes  plus  enlengan  enganatz.  aisel  quel  fai 
que  sei  ques  enganatz.  donc  uos  amor  perco 
faitz  tan  souen.  conplus  uos  ser  cascus 
plus  sen  rancura,  ede  seruir  tanli  calsque 
guiszardos.  pretz  ho  amicx  meilhuramens 
ho  dos.  meins  dun  daquetz  es  fols  qui  si 
atura, 
b       en  fui  donc  fols  quei  mis  lo  cor  elsen. 

sens  no  fo  ges  anseis  fo  grans  foudatz.  cai 
sei  es  fols  qui  cugesser  senatz.  e  sap  ho  me 
ilhs  ades  onplus  apren.  epos  merces  que 
ual  mais  que  dreitura.  no  ualc  ami  ni  ac 
poder  enuos.  pauc  mi  sembla  magues  ual 
gut  razos.  perquieu  fui  fols  quaranc  de 
uos  aie  cura, 
m     as  ar  soi  ricx  quar  enuos  nomenten. 

quen  cuiar  es  riquesze  paubretatz.  caisel  es 
ricx  qui  sen  te  perpagatz.  e  sei  paubre  qu 


IL   CANZONIERE    PROVENZALE    J  551 

entrop  ricor  enten.  perquieu  soi  ricx  tan 

grans  iois  masegura.  quan  pens  com  soi 

tornatz  deszamoros.  quadoncx  ei'a  marritz 

ar  soi  ioios.  per  so  mo  tenli  agran  bonauen 

tm-a.  (f.  8b,  col.  1*). 

e       ortezia  non  es  als  mai  meszura.  mas  uos 

amor  no  saubes  anc  ques  fos.  perquieu   serai 

tan  plus  cortes  que  uos.  qual  maior  brui  se 

larai  ma  rancura, 
a       naziman  et  an  tostems  tatura.  chanso  qwe 

de  los  liiest  e  de  lors  raszos.  quatressi  ses  cascuns 

pauc  amoros.  mas  semblan  fan  daquo  don  non 

an  cura. 

n.  38.  Folquet. 

g  Reu  feira  nuillis  hom  failhenssa.  si 

tant  temses  son  ben  sen.  com  lo  blas 
me  de  la  gen.  que  iutgon  desconoissenssa. 

quieu  failh  quar  lais  per  temenssa.  dun  blas 

me  desconoissen.  quencontramor  nomeupren. 

queissamen  notz  trop  sufrenssa.  com  leus  cors 

ses  retenenssa. 
q       uar  enuostra  mantenenssa.  me  mis  amors 

franchamen.  eforai  mortz  ueramen.  si  non  fos 

ma  conoissenssa.  on  non  aias  mais  pliuenssa.    * 

quieu  man  si  com  sueilh  planhen.  ni  mueira 

mais  tan  souen.  que  mas  chansos  aparuenssa. 

naurion  meins  de  ualenssa. 
e       ia  merces  no  uos  uenssa.  per  me  quieu 

non  lai  aten.  ans  mestarai  planamen.  ses  uos 

pos  tan  uos  agenssa.  francs  de  bella  captenewssa. 

pueisas  quenaisso  menpren.  quaisilh  suefron 

lo  turmen.  que  fan  per  folentendenssa.  ans 

del  pecat  penedenssa. 
q       uar  hieu  auia  crezenssa.  tan  cant  amei 

follamen.  enaisso  com  uai  diszen.  ben  fenis 

qui  mal  comenssa.  perquieu  auia  crezewssa. 

que  per  proar  mon  talen.  macses  mal  com 

ensamen.  mas  eras  uei  aprezenssa.  que  tos 


552  p.  SAVj-LOPEZ 

tems  magra  tenenssa. 
e       sim  degratz  dar  guirenssa.  quar  meilhs 

gazanhe  plus  gen.  qui  dona  caisel  que  pren. 

si  pretz  na  ni  benuolenssa.  mas  uoutz  es 

enuiltenenssa.  uostrafars  et  en  nien.  com 

uos  sol  dar  araus  uen.  mais  lais  men  quieu 

ai  sabenssa,  de  mal  dir  et  estenenssa. 
n       aziman  aluostre  sen.  eden  tostems  eis 

samen,  estauc  damor  quar  paruenssa.  en 

faitz  mas  pauc  uos  agenssa. 

n.  39.  Folquet. 

a  Mors  meroe  no  mueira  tan  souen.  que 

iam  podes  uiatz  del  tot  aussire.  quar 
uiurem  faitz  e  murir  mesclamen.  et 

enaissi  doblatz  me  mon  martire,  pero  mei 

mortz  uos  sol  liom  e  seruire.  el  seruiszis  es 

me  mil  tans  plus  bos.  que  de  nuilhautrauer 

ricx  guiszardos. 
p       erquer  pecat  amor  so  sabes  uos.   si  maussi 

zes  pos  uas  uos  nomazire.  pero  seruir  te  dan 

maintas  sazos.  que  son  amie  enpert  hom  (f,  8b,  col.  2*). 

so  aug  dire,  quieus  ai  seruit  et  anquar  no 

men  uire.  e  quar  sabes  quen  guiszardo  nen 

ten.  ai  perdut  uos  elseruir  eissamen. 
m      as  uos  dona  que  aues  mandamen.  forsas 

amor  e  uos  cui  tant  deszire.  non  ges  per 

me  mas  per  pian  cbauzimen.  que  tan  pia 

nhen  uon  pregon  mei  sospire.  quins  elcor 

plor  quan  uezetz  los  hueilhs  rire.  mas  per 

paor  que  nous  semblenuios.  engan  mi  eus 

e  trac  mal  enperdos. 
a      ne  non  cugei  uostre  cors  erguilhos.  uol 

gues  almieu  tan  Ione  deszir  assire,  mas  per 

paor  que  fezes  dun  dan  dos    non  uos  auze 

lo  mieu  maltrag  deuire.  ha  quar  uostru 

eilh  no  ueszon  mon  martire,  quadoncx  ma 

gratz  merce  si  doncx  no  men.  lo  dous  esga 

rtz  quem  fai  merces  par  uen. 


II,   CANZONIERE   PROVENZALE   J  553 

a       uos  uolgra  mostrar  los  mais  quieu  sen. 

e  als  autres  selar  et  escondire,  mas  nous 

pnesc  dir  mon  cor  seladamen.  quar  sieu 

nom  paese  selar  qui  mer  cobrire.  ni  qnimer 

fis  sieu  eis  me  soi  traliire.  quar  qui  nos 

sap  selar  non  es  razos.  quel  selon  silh  acui 

non  es  nuilhs  pros. 
m     as  nasziman  di  quieu  li  soi  trahire.  ilh 

en  tostems  diszon  quieu  soi  ginlios.  quar 

tot  mon  cor  non  retrac  azels  dos. 
d       onal  fin  cor  quieus  ai  nous  puesc  tot 

dire,  mas  per  merce  so  quieu  lais  pernosen. 

restauras  uos  enbon  entendemen. 

n.  40.  Folquet. 

m  Olt  hi  fes  gran  pecat  amors.  pos  li 

plac  ques  mezes  enme.  quar  merce 
non  aduis  abse.  abque  sadoussis  ma 

dolors.  quamors  pert  son  nom  el  desmen.  et 

es  deszamors  planamen.  pos  merces  noi 

pot  far  secors.  perqueilh  fora  pretz  et  ho 

nors.  pos  ilh  uol  uenser  totas  res.  cuna  ues 

lam  uenques  merces. 
m     as  trop  ma  azirat  amors.  quant  abmer 

se  si  deszaue.  perol  meilhs  del  meilhs  que 

hom  uè.  midons  que  ual  mais  que  ualors. 

enpot  leu  far  acordamen.  quar  maior  na 

fait  perun  sen.  qui  uè  com  la  neus  es  ca 

lors.  so  es  la  blanqueszeilh  colors.  sacordon 

enlieis  semblans  es.  quamors  siacort  emerces. 
m     as  non  pot  esser  pos  amors.  nono  uol 

ni  midons  so  ere.  pero  de  midons  non  sai  re. 

cane  tan  nomenfolli  folors.  quieu  lauzes 

dir  mon  pensamen.  mas  cor  ai  quem  cap 

del  absen.  mon  ardimen  quem  tol  paors.  pero    (f.  9a  [68 J,  e.  1*). 

esperan  fai  la  flors.  tornar  frug  e  damor  som 

pes.  quesperan  lam  uenques  merces. 
q       uestiers  nous  puesc  durar  amors.  enon 

sai  conssi  sesdeue.  de  mon  cor  qua  liat  e  te. 

Studj  di  filologia  romanza,  IX.  35 


554  P.    SAVJ-LOPEZ 

que  re  nom  par  que  naiailhors.  quar  si  beus 
es  grans  eissamen.  pogratz  enlieis  quaber  leu 
men.  cos  deuezis  huna  grans  tors.  enun  pauc 
mirailh  eilh  largors.  es  aitan  grans  que  sius 
plagues.  anquar  neus  hi  caubra  merces. 

s       ar  nous  uens  uencutz  soi  amors.  uenser 

nous  puesc  mai  abmerce.  e  sintre  sent  mais 
nai  un  be.  ia  nous  er  dans  ni  deszonors.  cu 
ias  uos  doncx  queus  estei  gen.  quar  mi  faitz 
planher  tan  souen.  ans  enual  meins  uostra 
ualors.  perol  mal  men  fora  doussors.  si  lautz 
rams  acui  mi  soi  tes.  mi  plegues  merceian 
merces. 

m     al  mi  soi  gardatz  pernosen.  quar  mi 

eis  ma  emblat  amors.  ara  quan  reston  de  Ias 
flors.  mas  dir  pot  quieu  eis  me  soi  pres.  pos 
que  nom  ual  dreitz  ni  merces. 

n       aziman  lo  uostre  secors.  e  den  tostems 

uoilh  ben  alors.  mas  aisso  non  uoilh  sapchas 
ges.  capenas  neis  lio  sap  merces. 

n.  41.  Folquet. 

s  Alcor  plagues  ben  forueimais  sazos.  de 

far  chanso  per  ioia  mantener,  mas  trop 
me  fai  mauentura  doler,  quant  hieu 
esgart  los  bens  eis  mais  quieu  nai.  qtie  ricx 
di  hom  que  soi  eque  bem  uai.  mas  sei  co  di 
non  sap  ges  ben  lo  uer.  que  benananssa  non 
pot  hom  auer.  de  nuilha  re  mas  daquo  cai 
cor  piai,  perque  na  mais  us  paubres  ques  ioi 
OS.  cus  ricx  ses  ioi  ques  tot  lan  cossiros. 

e       sieu  anc  iorn  fui  gais  ni  amoros.  ar  non 

ai  ioi  damor  ni  noi  nesper.  ni  autre  ioi  nom 
pot  alcor  plazer.  ans  mi  semblon  tug  autre 
ioi  esmai.  pero  damor  lo  uer  uos  en  dirai, 
nom  lais  del  tot  ni  nomen  puesc  mouer. 
quenan  non  uauc  ni  non  puesc  remaner 
aissi  com  sei  quenmeg  delalbrestai.  ques 
tant  poiatz  que  non  sap  tornar  ios.  ni  sus 


IL    CANZONIERE    PROVENZALE    J  555 

non  uai  tant  li  par  temeros. 
p       ero  nom  lais  si  tot  ses  perilhos.  quades 

non  pueg  ensus  amon  poder.  e  deuriam 

donai  fin  cor  ualer.  pos  conoises  que  ia  nom 

recreirai.  quabardimen  apoderom  lesglai.  e 

no  tem  dan  que  man  degescazer.  perqueus 

er  gen  sim  denhatz  retener,  elguiszardos  er 

aitals  com  seschai.  quen  eis  lo  do  es  faitz  lo 

guiszardos.  ha  sei  que  sap  dauinen  far  sos 

dos.  (f.  9a,  col.  2"). 

d       oncx  si  merces  ha  nuilh  poder  en  uos.  tra 

ga  senan  si  iam  deu  prò  tener,  quieu  no 

men  fi  enpretz  ni  enpoder.  ni  en  chanssos 

mas  quar  conosc  e  sai.  que  merces  uol  so  qwe 

razons  dechai.  quieus  cuiaua  abmerce  con 

querer.  que  mes  escutz  contrai  sobre  ualer. 

qui  es  enuos  emfai  metren  essai,  de  uos 

tramor  so  quem  ueda  raszos.  mas  ilh  me  fai 

cuiar  cauinen  fos. 
e       si  conosc  que  soi  trop  oblidos.  cant  al  co 

menzamen  mi  dezesper.  de  ma  chanso  pueis 

uoilh  merce  querer.  farai  ho  doncx  si  com  lo 

iotglars  fai.  caissi  com  mueu  mon  chan  lo 

fenirai.  dezesperar  mai  pueis  non  puesc 

ueszer.  raszon  perqueus  deia  de  mi  qualer. 
•      sauals  aitant  hi  retenrai.  quins  enmon 

cor  lamarai  arescos.  e  dirai  be  de  lieis  en 

mas  chansos. 
m      entir  cugei  mas  malmongrat  die  uer.  can 

mestaua  meilhs  queras  nomestai.  e  cugei  far 

creire  so  que  non  efoS.  mas  mal  mon  grat  es 

uera  ma  chansos. 
s       i  naszimans  sabia  so  quieu  sai.  dir  poiria 

cuna  pauca  ochaizos.  notz  enamor  mais  que 

noi  ual  razos. 

n.  -42.  Rigaut  de  berbezilh. 

a  Tressi  com  laurifans.  que 

cant  chai  nos  pot  leuar. 


556  P.   SAVI-LOPEZ 

tro  li  autre  ablur  ci'idar. 

de  lui's  uotz  lo  leuon  sus. 

et  hieu  uoilh  segraquel  us. 

mas  mos  fais  es  tan  greus 

etan  pezans.  que  si  la  cortz 
del  puei  el  ricx  bobans.  e  ladreitz  p«etz  dels 
leials  amadors.  nom  releuon  iamais  non  se 
rai  sors.  que  denhesson  per  mi  clamar  mer 
ce.  lai  on  iutges  ni  raszos  prò  nom  te. 
e       sieu  per  los  fis  amans.  non  puesc  mon  ioi 
recobrar.  per  tostems  lais  mon  chantar.  car 
de  me  noia  ren  plus,  ans  uiurai  com  lo  re 
clus.  sols  ses  solas  caitals  es  mos  talans.  car 
ma  uida  mes  enueis  eafans.  e  gaugz  mes   do 
Is  eplazers  mes  dolors.  quieu  non  soi  ges 
de  la  maneira  dors.  que  qui  bel  bat  nil  te 
uil  ses  merce,  adoncx  engraissa  meilhura  e 
reue.  x 

b       en  sai  merces  es  tan  grans.  que  leu  mi 
pot  perdonar,  sieu  failhi  per  sobramar.  ni 
renhei  com  fes  dedalus.  que  dis  quel  era  ihesus. 
e  uolc  uolar  el  sei  outracuians.  mas  dieus  bai 
set  lergueilh  e  lo  bobans.  mas  mon  ergueilh 
non  es  ren  mai  amors.  perque  merces  mi  pot  (f.  9b,  e.  1'). 

faire  secors.  quen  mains  lue  ex  son  on  raszo 
uens  merce,  e  luecx  on  dreitz  ni  raszos  non 
ual  re. 
a       tot  lo  mon  soi  clamans.  de  mi  ede  trop 
parlar,  e  sieu  pogues  contrafar.  fenicx  que 
non  es  mas  us.  que  sart  epueis  resors  sus.  hi 
eu  marsera  quar  soi  tant  malanans.  e  mos 
fals  digz  mensongiers  e  truans.  resorzeron 
ab  sospirs  et  abplors.  lai  on  beutatz  eiouens 
e  ualors.  es  que  noi  failh  mas  unpauc  de   mer 
ce.  que  noi  sion  aiustat  tug  li  be. 
m      a  cbanso  mer  drogomans.  lai  on  hieu  non 
aus  anar.  ni  abmos  hueilhs  dreg  gardar. 
tant  soi  forfaitz  e  conclus.  e  ia  hom  no  men 
encus.  mas  ma  dona  que  fugit  ai  dos  ans.  ai 


IL    CANZONIERE    PROVENZALE   /  557 

torn  ues  lieis  doloiros  eplorans.  aissi  col  ser 
que  cant  ha  fait  son  cors.  torna  morir  al 
crit  dels  cassadovs.  atressi  torn  ala  uostra  mer 
ce.  mai  uos  non  qual  que  damor  nous  soue. 

t       al  senhor  ai  encui  ha  tant  de  be.  com  ({ueì 
mentau  lo  iom  no  failh  enre. 

b       el  bericle  ioi  e  pretz  uos  mante,  car  uales 
mais  eno  failhes  enre. 

n.  43.  Kigaut  de  berbezilh. 

a  Tressi  com  lo  leos.  que  nes  tan  ricx  etan 

gais.  de  son  leonet  quan  nais.  mori  ses 
ale  e  ses  uida.  tro  que  absa  uotz  lescrida. 

elfai  sorzer  et  anar.  atrestal  pot  de  mi  far.  ma 

bella  dompna  et  amors.  eguerir  de  mas  greus 

dolors. 
m     olt  er  bos  le  guiszardos.  e  dous  e  cars  eue 

rais,  quar  tan  plaszen  son  li  fais.  quar  ilh  a 

ualor  complida.  caissi  com  de  nau  perida.  don 

hom  non  pot  escapar,  mai  per  esfors  de  nadar. 

atres<5Ì  forieu  resors.  dona  abun  pauc  de  secors. 
t       otas  las  autras  sazos.  uenon  pueis  abrils 

e  mais,  ben  degra  vienir  hueimais.  la  mia 

bonescarida.  trop  ses  amors  endormida.  quem 

dona  poder  damar,  ses  ardimen  de  preiar. 

quar  maintas  bellas  honors.  man  tout  te 

mensse  paors. 
t        otas  las  bellas  faissos.  del  mon  son  enuos 

e  mais,  dompna  quanc  re  noi  sofi'ais.  de  to 

ta  ualor  complida.  si  foses  damar  ardida.  re 

noi  pogrom  meilhurar.  abtot  aisso  es  ses  par. 

forssa  e  Castel  e  tors.  damor  e  de  beutat  flox'S. 
i       rat  mi  ten  e  ioios.  souen  ri  souen  mirais. 

tost  magrezisc  leu  engrais.  aissì  ses  enmi  par 

tida.  amors  ioiosze  marrida.  abrire  et  ab  iogar. 

abplanher  et  abplorar.  aissim  mostra  sas  uà 

lors.  amors  entre  ris  e  plors. 
m     arme  mon  cor  mas  nom  par.  uei  ins  (f.  9b,  col.  2^). 

enson  cors  estar,  que  sai  nuilhautra  ricors. 

nom  tensfra  ni  murs  ni  tors. 


558  P.    SAVJ-LOI'EZ 

n.  44.  Rigaut  de  berbezilh. 

1  0  nou  mes  dabiil 

comeussa.  e  lauzelet  chantador.  qua 
tendut  ai  enparuenssa.  lo  pascer, 
meilhs  de  dompna  autretal  entendenssa.  a 
ten  de  uos  abioi  et  absemenssa.  quapres  los 
mais  quai  traitz  durs  ecozens.  men  uenha  bes 
amors  e  iois  plazens. 

e       aissi  com  tot  las  agenssa.  per  fueilhe  per 
fior,  ual  mais  lo  mons  peramor.  et  amors  no 
na  ualenssa.  ni  honor.  meilhs  de  dona  ses 
nostra  mantenenssa.  quar  de  totz  bes  es 
taitz  gras  e  semenssa.  et  enuos  es  beutatz 
nalors  e  sens.  mas  peramor  es  plus  ualors 
ualens. 

t       ant  aues  de  conoissensa.  perqueus  fan 

senbor.  amors  iouens  abonor.  eus  porton  ho 
bedienssa.  cascun  ior.  meilhs  de  dona  uoilh 
atz  camors  uenssa.  nostre  dur  cor  de  bella 
captenenssa.  que  ben  sabes  que  bels  ensenha 
mens.  es  enamor  fis  ecomensamens. 

a       r  couen  escazenssa    a  fin  amador.  eprenh 
enpatz  la  dolor,  greu  er  qui  abamors  tenssa. 
que  non  plor.  meilhs  de  dompna  enaquesta 
crezenssa.  estauc  ades  e  fauc  ma  penedenssa. 
tan  queus  plassa  lo  mieus  enansamens.  de 
digz  ses  faitz  ab  dous  esgartz  plazens. 

t        ot  autressi  com  durenssa.  pert  en  mar 

maior.  son  nom  que  lonheis  non  cor.  eissa 
men  pert  ses  failhenssa.  sa  color,  meilhs  de 
dompna  denan  uostra  paruenssa.  autra 
beutatz  ses  tota  retenenssa.  ues  la  uostra 
que  tant  es  auinens.  queissamen  creis 
com  la  luna  creissens. 

m     eilhs  de  dompna  sius  estaitz  ues  pia 

zenssa.  manne  mon  cor  uos  rema  entenewssa. 
mai  la  mia  uos  er  obediens.  abque  crezatz  de 
SOS  ensenhamens. 


IL   CANZONIERE    PROVENZALE   J  559 

n.  45.  Montanagol. 

q  Ui  uol  esser  agradans  ni 

plazens.  atotz  uoilha  ben 
dir  e  far  honors.  acadaun 
si  col  deuers  es  lors.  enon 
sia  autius  ni  reprendens. 
ans  aiapsi  meszura  et  abs 
tinenssa.  e  siaitals  encor 
coni  enparuenssa.  car  atr 
essi  deu  esser  uergonhos. 
del  mal  pensar  com  del  dir  totz  bom  bos. 
q       uar  anc  non  dee  quaber  fals  pensamens. 

enleial  cor  ans  tanb  quer  uir  ailbors.  nis  cam     (f.  lOa  [69],  e.  1'). 
gè  tan  que  niesqua  clamors.  com  non  es  pros 
cus  fols  uolers  lo  uenssa.  ni  non  es  dreitz  de 
far  desconoissenssa.  quar  entotz  faitz  deu  gar 
dar  totz  bom  bos.  ans  quel  fassa  sii  fars  ler 
dans  bo  pros. 
q       uar  re  non  es  grazit  entre  las  gens,  mai 
meszura  quar  als  non  es  ualors.  mai  com 
uailba  segon  ques  sa  ricors.  car  meszura  non 
es  mai  solamens.  so  que  de  pauc  ede  trop  tol 
failbenssa.  entraquels  dos  la  forma  conois 
senssa.  e  fai  uertutz  daquels  ueszis  amdos. 
tolen  lo  mal  dambas  las  failbiszos. 
d       omes  troba  bom  larcx  emalconoissens.  e 

larguesza  non  es  ans  es  folors.  qui  dona  tan 
no  len  sega  lauszors.  lauszors  non  es  ans  es 
blasme  nosens.  bome  que  contra  sa  ualenssa. 
silb  dona  meins  fai  mais  de  desplazenssa. 
que  son  do  pert  e  sec  len  mal  ressos.  bom 
que  gieta  meszura  de  sos  dos. 
q       uar  ges  non  son  engals  totas  la  gens. 

perquel  sani  onra  meilbs  los  meilhors.  mai 
ar  uolon  los  ricx  fols  cridadors.  don  farion 
acridar  malamens.  et  ablasmar  abdigz  de  uil 
tenenssa.  equar  li  fol  lauszon  ses  entendens 
sa.  so  queilb  mal  fan  lur  lauzar  lur  par 
bos.  mai  fol  laus  quas  quar  noi  soste  razos. 


560  P.    SAVI-LOPEZ 

h       om  deu  esser  uergonhos  e  sufrens.  si  al 

setgle  uol  poiar  sa  ualors.  etemen  dieu  creis 

sera  sa  ricors.  ableialtat  et  abensenhamens. 

etrobara  meszura  e  conoissenssa.  queilh 

faran  far  uia  dreita  emantenenssa.  elaissar 

mal  e  far  atotz  iorns  faitz  bos.  et  anaissi  au 

ra  pretz  quabalos. 
r       eis  castelas  uos  tenes  tal  tenenssa.  on 

totz  lo  mons  troba  tostems  ualenssa.  euos 

tres  faitz  son  ricx  e  quars  e  bos.  e  sabetz 

be  luecx  onrar  e  sazos. 

n.  46.  Montanagol. 

0  N  mais  ha  hom  de  ualenssa.  si  deu 

ria  meilbs  chauzir.  car  hom  pros 
pot  leu  failhii-.  ehiialuatz  almieu 

albir.  no  failh  quan  fai  failhimen.  quar 

per  deuer  eissamen.  fan  li  maluatz  males 

tan.  coni  fan  ricx  faitz  li  preszan. 
g       es  del  setgle  nomagenssa.  quan  naug 

als  maluatz  mal  dir.  quilh  cuion  la  lor 

failhenssa.  ablos  sieus  mais  digz  cobrir.  eda 

lor  dieus  acuilhir.  quadan  prò  ui  e  fromen. 

et  an  prò  aur  et  argen.  eia  re  be  no  metran. 

ans  ualon  meins  on  mais  an. 
d       ieus  com  pot  auer  sufrenssa.  ricx  hom 

de  gent  acuilhii-.  ni  de  far  gaia  paruenssa.      (f.  lOa,  col.  2"). 

ni  cos  pot  de  dar  tenir.  quan  bea  ho  pot 

mantenir.  mot  hi  fes  dieus  son  talen.  car 

no  donet  largamen.  ha  sels  que  largamens 

dan.  epauc  ha  sels  que  pauc  dan. 
e       ia  meilhurom  egenssa.  enraubas  et  en 

garnir.  et  enmainta  captenenssa.  es  uol 

hom  trop  gent  tenir.  mas  en  dar  ni  en  ser 

uir.  no  uei  far  meilhuramen.  ha  doncx  qu 

eus  fares  manen.  ia  morres  uos  can  que 

can.  gardas  quel  tems  nous  engan. 
e       oms  curaenges  ses  temenssa.  poiriom 

auos  uenir.  quel  sobre  noms  es  guirenssa.  de 


IL  CANZONIERE   PROVENZALE   /  561 

uos  quii  sap  déuezir.  don  paubres  deu  enre 

quir.  quaissi  coni  creszon  crezen.  encumer 

gar  saluamen.  deu  cumergues  ualer  tan. 

que  saluaquels  quel  creii*an. 
e       mperaii-e  pretz  ualen.  auetz  e  ualor  e 

sen.  equar  sabes  ualer  tan.  abuos  uoilh  dau 

rar  mon  chan. 
n       a  g^uias  ges  noni  repen.  de  uos  lauszar 

quans  mes  gen.  mai  dels  uostres  tan  ni  can 

nom  laus  sanquer  meilhs  no  fan. 

n.  47.  Montanagol. 

n  Onan  tan  dig  li  premier 

trobador.  ni  fag  damor.  lai  el  tems 
quera  gais.  que  nos  no  fassam  apr 

es  lor.  chans  de  ualor.  nous  plazens  euerais. 

quar  dir  pot  hom  so  questat  dig  non  sia. 

questiers  non  es  trobaires  bos  ni  fis.  tro 

fai  sos  chans  nous  gais  egent  asis.  abno 

uels  digz  de  nona  mahistria. 
m      ai  en?bantan  diszon  comensador.  tant 

enchantan.  quel  nou  digz  torna  fais.  pero 

nous  es  quan  diszon  li  doctor.  so  que  alor. 

enchantan  non  dis  hom  mais,  enon  diszo?i 

que  auzit  non  aula,  enou  quieu  die  ras 

zon  com  mais  non  dis.  camors  ma  dat  sa 

ber  quaissim  noiris.  que  som  trobat  non 

agues  trobaria. 
b       em  piai  quieu  chan  quan  pens  la  gran 

honor.  quem  uec  damor.  enfassa  ricx  essais. 

quar  tals  recep  mon  chan  ema  lauszor.  quea 

la  fior,  de  la  beutat  que  nais.  pero  beus  die  q«<e 

meilhs  creii'e  deuria,  que  sa  beutatz  de  sus  del 

sei  partis.  que  tant  sembla  obra  de  paradis. 

quapenas  par  terrenals  sa  condia. 
d       una  re  fan  dompnas  trop  gran  folor.  can 

lur  amor,  tornon  entan  ricx  plais.  que  cascu 

na  pos  uè  son  amador.  fin  ses  error.  failh  si  la 

longa  mais,  doncx  conuengra  quel  mal  costums 


562  p.  SAVj-i.oPEz 

nissis.  del  trop  tarzar  quieu  non  ere  com  mo 

ris.  tan  leu  com  fai  si  damors  se  iauzia.       (f.   lOb,  col.  1*). 
t       rop  fai  son  dan  dompna  ques  don  ricor. 

quant.hom  damor.  lescomet  nis  nirais.  que 

plus  bel  les  que  suefra  preiador.  que  si  dailhor. 

eral  pecatz  sauais.  que  tals  nia  quais  com  no 

no  creiria.  abquel  fals  dig  quenfas  assas  fr 

aidis.  perque  amors  entrelas  enueuzis.  car 

tenon  mal  enquar  lur  senhoria. 
h       ieu  am  e  blan  dona  on  ges  non  cor.  enians 

damor.  perque  nomen  biais.  mo  dei  far  com  la 

te  per  meilhor.  eper  gensor.  percamors  mi  atr 

ai.  camans  es  fols  cant  enbon  luec  non  tria. 

quar  qui  ama  uilmen  si  eis  aunis.  qua  las  me 

ilhors  deu  hom  esser  aclis. 
n       esclarmonda  qui  uè  uos  ni  na  guia.  cas 

cus  dels  noms  dambas  ho  deuezis.  que  quecx 

dels  noms  es  tan  purs  e  tan  fis.  com  quels 

mentau  non  pren  pueis  mal  lo  dia. 

n.  48.  Montanagol. 

n  Uillis  hom  no  ual  ni  deu 

esser  prezatz.  saitan  quan  pot  enualor 
non  enten.  com  deu  ualer  segon  ques 

sa  rictatz.  ho  sa  uida  noilh  fai  mas  aunimen. 

doncx  qui  ben  uol  auer  ualor  ualen.  aienamor 

son  cor  e  sesperanssa.  quar  amors  fai  far  ma 

int  ricx  faitz  dagradanssa.  e  fai  home  aiure 

adreitamen.  edona  ioi  e  tol  tot  marrimen. 
m      as  hieu  no  tene  ges  per  enamoratz.  sels  que 

namor  uan  abgaliamen.  quar  non  ama  ni 

deu  esser  amatz.  hom  que  sidons  j^rec  de  nu 

ilh  failhimen.  quamans  non  deu  uoler  per 

nuilh  talen.  ren  quasidons  tornes  adeszonr 

anssa.  quamors  non  es  res  mas  aisso  quen 

anssa.  so  que  ama  e  uol  be  leialmen.  equin 

quer  als  lo  do  damors  desmen. 
p       ero  ane  mi  non  sobret  uolontatz.  tant 

quieu  uolgues  nuilh  fag  deszauinen.  de  la 


IL   CANZONIERE   PROVENZALE   J  563 

bella  acui  mi  sci  donatz.  ni  tenria  uuilh  pi 

aszer  pei*  plaszen.  qua  lieis  tornes  anegun 

enuelimen.  nim  poiria  per  ren  dar  bena 

nanssa.  de  ren  qua  lieis  toi'nes  amalestaris 

sa,  quar  fis  amans  deu  uoler  per  un  sen. 

mais  de  sidons  quel  sieu  enantimen. 
m     ai  ges  li  pros  el  tems  que  nes  pasatz.  no 

serquauon  damor  mas  lom-amen.  ni  las  do 

nas  encui  era  beutatz.  no  feiran  fait  per  re 

deszauinen.  per  so  eron  ellas  et  ilh  ualen.  quar 

quecx  ses  als  sentendien  onranssa.  mai  eras  es 

pretz  tornatz  enbalanssa.  qaar  lamador  an 

autre  entendemen.  don  sors  blasmes  e  dans 

amaìnta  gen. 
a       rezarai  per  totz  los  mal  blasmatz.  dels 

amadors  daquest  castiamen.  eper  seUas  on  re  (f.  lOb,  e.  2*). 

nha  falsedatz.  quar  an  lur  cor  enso  com  lar 

repren.  quar  parsoniers  es  del  jjecat  quii  con 

sen.  e  totz  bos  hom  de  tot  mal  greuanssa.  el 

sauis  deu  gardar  los  fols  deganssa.  perquieu 

casti  sels  quamon  falssamen.  e  si  tot  pesza 

alor  ami  es  gen. 
a       Is  castelas  fai  dieu  tan  donramen.  que 

tostems  an  rei  de  pretz  e  donranssa.  el  meilhs 

del  mon  mai  ar  nan  meiliiuranssa.  quel  es 

ioues  de  iorns  eueilhs  de  sen.  acui  plas  mais 

donar  quasel  quel  pren. 

n.  49.  Guilbem  azemar. 

b  En  forueimais  sazos  e  locs.  que 

maizines  dun  uers  pensan.  com  lo 
retraisses  enchantan.  tal  perquem 
fos  digz  uns  uers  ocx.  de  selei  quel 
mon  plus  deszir.  don  desziran  mer  alanguir, 
sinbreu  no  len  pren  cbauzimens. 
e       faram  quaneszir  aflocs.  si  nom  secor  en 
ans  dun  an.  que  ia  ditz  hom  que  uauc  bro 
ilban.  canetas  e  nom  sembla  iocx.  e  sim  fai 
ioue  quanezir.  tot  quanut  maura  quan 


564  P.   SAVJ-LOHEZ 

quo  tir.  que  bon  esfors  malastre  uens. 
e       sera  tan  blancx  com  enocx.  azaisso  nom 

tenria  dan.  allei  seruir  de  bon  talan.  con 

mager  es  plus  cautz  es  focx.  atressi  com  hieu 

mais  dalbir.  ai  emi  plus  fort  mo  cossir.  de 

dir  e  de  far  sos  talens. 
e       aissi  com  dels  escacs  lo  rocs.  ual  mais  q/<e 

lautre  ioc  no  fan.  e  fis  maracdes  que  resplan. 

plus  que  ueires  uermeilhs  ni  grocx.  aissi  ual 

mais  qui  ques  naszir.  midons  dautras  per 

em'equir.  son  pretz  ab  bos  eaptenemens. 
p       erquieu  uoMesser  mais  cocx.  de  sa  coszi 

na  lieis  gardan.  quauer  lonor  dun  amiran. 

ses  sa  uista  fos  mieus  marocs.  que  non  es 

hom  que  la  remir.  de  bon  cor  queilh  puesca 

uenir.  lo  iorn  mais  ni  destorbamens. 
p       erquiet  prec  messatgier  que  brocx.  tan 

com  poiras  ton  alferan.  e  die  to  plus  que 

per  ton  dan.  per  mon  destric  que  not  desrocx. 

que  tant  tem  tro  torns  ton  delir.  cunautra 

sazo  del  morir,  non  serieu  tan  dolens. 
e       gardat  no  semblar  badocx.  dels  salutz 

ni  de  lals  queilh  man.  quiet  pliu  si  rei 

uas  cambian.  que  dun  estrieup  tauriops 

crocx.  e  di  lim  que  no  puesc  guerir.  sim  fai  tre 

molar  e  fremir,  ses  lieis  ma  uolontatz  ualens. 
e       potz  li  tant  dir  alpartir.  que  guilhems 

azemars  fai  dir.  que  sidons  ual  dautras  V 

sens. 

n.  50.  (f.  Ha  [70],  col.  P). 

d  Ins  un  uergier  de  mur  serat. 

Alombra  du?i  laurier  foilhat. 

Auszi  contendre  un  papagai. 

Daital  raszon  com  hieus  dirai. 

Dauant  buna  dones  ueMgutz. 

Et  aportai  ')  de  luenli  salutz. 

')  Era  scritto  :  aportam.  La  correzione  è  della  stessa  mano. 


IL   CANZONIERE   PROVENZALE   J  563 

Et  al  dig  dona  dieus  uos  sai. 
Messatgiers  soi  nous  sia  mal. 
Sieu  uos  die  perquieu  soi  aissi. 
Vengutz  auos  enest  iardi. 
Lo  meilhor  caualier  cane  fos. 
Elplus  eortes  elplus  ioihos. 
Antifanor  lo  filli  del  rei. 
Que  basti  per  uos  lo  tornei. 
Vos  tramet  sakit  sent  ues. 
E  pregaus  per  me  que  lames. 
Quar  senes  uos  non  pot  sofrir. 
Lo  mal  damor  quel  fai  languir. 
E  nuilh  metge  noilh  pot  ualer. 
Mas  uos  que  lauetz  enpoder. 
Vos  lo  podes  guerir  sius  platz. 
Sol  que  per  mi  li  trametatz. 
loiha  queilh  port  per  uostramor. 
Laures  estort  de  sa  dolor. 
Anquaraus  die  mais  permafe. 
Perqueilh  deuetz  auer  merce. 
Que  mais  ama  morir  per  uos. 
Que  dautra  esser  poderos. 

Baitan  la  dompna  respon. 
Et  ba  li  dig  amics  e  don. 

Sai  es  uengutz  ni  que  sercatz. 
Molt  mi  pares  enrasonatz. 

Car  anc  auzes  dir  quieu  dones. 

loia  ni  quieu  la  prezentes. 

A  negun  bome  crestia. 

Ben  uos  es  debatutz  enua. 

Mas  quar  uos  uei  tan  plazentier. 

Nies  uengutz  en  est  uergier. 

Mi  podes  dir  so  quauos  platz. 

Que  non  seres  mortz  ni  nafratz. 

E  peszam  peramor  de  uos. 

Que  tan  cortes  es  e  tan  pros. 

Car  mi  donas  aitai  conseilb. 

Ona  et  bieu  me  meraueilb. 

Car  uos  de  bon  cor  non  lamatz. 


566  p.  SAvj-i.oPEz 

Papagai  ben  uoilh  que  sapchatz. 

Quieu  am  delmon  lo  plus  arditz. 

E  uos  qual  perdieu  mon  marit. 

Vostre  marit  nones  raszos. 

Quel  sia  del  tot  poderos. 

Lui  deues  amar  aprezen. 

E  pueis  deues  seladamen.  (f.  Ila,  col.  2*). 

Amar  aissel  que  mor  aman. 

Per  uostramor  ses  tot  enian, 
p  Apagai  molt  es  gens  parliers. 

Be  sai  si  foses  caualiers. 

Que  gen  sanpras  dompna  pregar. 

Mas  ges  per  so  non  uoilh  laissar. 

Quieu  non  deman  perqual  raszo. 

Dei  far  eontraisel  failhiszo. 

A  cui  ai  dat  mamor  e  me. 

Dona  aisous  dirai  hieu  be. 

Amors  non  garda  sagramen. 

La  uolontat  sec  eltalen. 

Benaues  dig  si  dieus  maiut. 

Doncx  es  uos  abaitan  uencut. 

Som  ama  ren  per  bonafe. 

Hieu  am  mon  marit  mais  que  re. 

E  nuilh  autre  amador  non  uoilh. 

Doncx   coni  auzes  tan  dir  dergueilh. 

Quieu  am  lai  on  mon  cor  non  es. 
d  ona  ergueilh  non  die  hieu  ges. 

Par  mi  queus  uoilhatz  corrossar. 

Mas  sim  uoletz  arescoutar. 

la  peraisso  nous  defendretz. 

Dantifanor  que  nonlametz. 

Beus  die  que  dieitz  es  ueramen. 

Que  deuetz  amar  aprezen. 

Vostre  marit  mais  cautra  re. 

Apres  deues  auer  merce. 

Daissel  que  mor  per  uostramor. 

Pauc  uos  membra  de  blanqua  fior. 

Quamet  floris  senes  enian. 

Ni  dizeus  com  amet  tristan. 


IL   CANZONIERE    PROVENZALE   J  567 

Ni  de  tibes  coni  alpertus. 

Anet  parlar  apriamus. 

Anc  nnillis  liom  no  len  poc  gardar. 

Enlieis  uos  podes  remirar. 

Calpro  naures  santifanor. 

Languis  per  iiostramor  ni  mor. 

Lo  dieus  damor  e  sa  uertut. 

Vos  en  rendra  mala  salut. 

Et  hieu  mezeis  quen  redirai. 

Tot  lo  mal  de  uos  quieu  sabrai. 

Sinbreu  dora  nomautreiatz. 

Que  sei  uos  ama  que  uos  lamatz. 

Apagai  si  dieus  mi  conseilb. 

Anquar  uos  die  quem  meraueilh. 
Car  uos  tan  gen  sabes  parlar. 
E  pueis  tan  mi  uoletz  preiar. 
Dantifanor  nostre  senhor. 
Hieu  uos  reclam  pel  dieu  damor. 

Anatz  alui  que  trop  estatz.  (f.  llb,  col.  1*). 

E  prec  uos  quel  me  digatz. 
Quieu  mi  acordarai  breumen. 
Eilh  mostrarai  tot  mon  talen. 
E  si  tant  es  quel  uoiUiamar. 
Daisso  lo  podetz  conortar. 
Que  per  uostres  precx  lamarai. 
E  iamais  de  lui  nom  partirai. 

Ona  sei  dieus  que  no  mentic. 

Vos  do  antifanor  per  amie. 
Lo  papagai  fo  molt  ioios. 
Et  issi  del  uergier  cocbos. 
Dauan  son  senhor  es  uengutz. 
E  mostrailh  com  ses  captengntz. 
Premeiramen  la  comensat. 
Lo  gran  pretz  eia  gran  beutat. 
De  la  dompna  si  maiut  fes. 
E  daisso  fes  molt  que  cortes. 
Pueis  lia  dig  senher  iamais. 
Non  er  noiritz  nuillis  papagais. 
Que  fassa  tan  per  son  senhor. 


568  P.   SAVJ-LOPEZ 

Coni  hieu  ai  fag  per  uostraraor. 

Que  la  dompna  uos  ai  gaszanhada. 

Anas  ades  està  uegada. 

Parlar  alieis  ensel  uergier. 

Tot  mantenen  ses  destorbier. 

Lo  caualier  san  es  anatz. 

Dins  el  uergier  et  es  intratz. 

Et  es  se  trobatz  abla  dona. 

E  quan  lo  ui  et  ellal  sona. 

Et  asetet  lo  iosta  lei. 

Senher  bem  platz  cant  hieu  uos  uei. 

Vengut  aissi  en  est  uergier. 

Gran  tems  ba  non  ui  caualier. 

Tan  mi  plagues  si  dieus  mi  sai. 

Per  uostre  papagai  uos  ual. 

Car  hieu  uos  uei  tan  plazentier. 

Pero  quar  es  tan  bel  parlier. 

E  per  lo  be  quem  di  de  uos. 

E  quar  es  tan  bel  e  tan  pros. 

Farai  uostre  comandamen. 

Absol  que  uos  premeiramen. 

Me  fassas  couinen  aitai. 

Quem  siatz  fin  e  leial. 

E  que  me  ames  de  bon  cor. 
d  Ona  beus  die  sieu  non  mor. 

Quieu  uos  amarai  leialmen. 

Que  ia  nous  farai  failbimen. 

E  si  uoles  nuilh  couinen. 

Quieu  uos  fassa  ni  sagramen. 

Hieu  lous  farai  mot  uolontiers. 

Que  anc  non  fo  nuilbs  caualiers.  (f.  llb,  col.  2*). 

Que  tal  sagramen  fezes  mai. 

Com  hieu  farai  si  auos  piai, 
s  Enher  nous  ho  tengatz  amai. 

Que  motz  homes  son  cui  non  cai. 

Mas  que  penson  de  gallar. 

Perquiemuolria  gardar. 

Mas  hieu  nono  die  per  uos. 

Que  uos  es  cortes  sauis  e  pros. 


IL   CANZONIERE   PROVENZALE   J  569 

Et  enuos  mi  uoilh  hieu  fizar. 
Per  uostras  uolontatz  afar. 
Et  aissim  met  ses  tot  im-ai-. 
Abaitan  si  prendon  abaiszar. 
E  feii'on  de  lor  solatz  aitan. 
Com  Ivir  fon  bo  nils  agradec. 

Baitan  lo  papagai  parec. 
E  dis  senher  anas  uos  en. 
Que  uengutz  es  mon  essien. 
Lo  maritz  daquesta  dona. 
Quiel  uei  que  ala  porta  sona. 
El  caualier  pres  comiat. 
De  la  dompna  et  ailh  pregat. 
Quella  li  fassa  saber. 
Lonra  queilh  uenra  aplazer. 
Com  puesqua  tornar  alamor. 
Que  tan  li  es  toquadal  cor. 

Telia  dis  beno  farai. 

Ebreumen  uos  ho  mandarai. 

A  dompna  adieu  uos  coman. 

Eprec  uos  que  lo  mieu  don  man. 
Pel  maris  non  mi  oblides. 
Et  ella!  dis  non  farai  ges. 
Ans  pensarai  ades  de  uos. 
Com  uos  tornes  aisai  ues  nos. 

T  hieu  uos  amans  iur  epromet. 

Auos  dona  alamoros  dret. 
De  far  tot  nostre  mandamen. 
E  serai  tostems  hobedien. 
E  iur  uos  epromet  selatz. 
Que  penrai  tostems  empatz. 
Lo  ben  el  mal  qual  quem  fasatz. 
E  promet  uos  que  nostre  dan. 
Destorbarai  emetrai  enan. 
Vostre  be  atot  mon  poder. 
E  farai  grazir  e  saber. 
Als  plus  conoissens  uostre  pres. 
E  iur  uos  epromet  apres. 
Que  iaitan  com  siatz  fina. 

StudJ  di  filologia  romanÈO,  IX.  36 


570 


P.   SAVJ-LOPEZ 


Nom  farà  plazers  ni  aizina. 

Enautra  part  mon  cor  camiar. 

Ni  de  uos  partir  ni  lonliar. 

Neis  si  tot  me  soluiatz.  (f.  12a  [<!],  col.  P). 

Cane  nom  plac  nuilliautramistatz. 

E  sim  uoletz  anquar  plus  dir. 

Si  coni  sabretz  pensar  ni  dir. 

E  iur  aluostre  entendemen. 

E  iur  uos  premeiramen. 

Per  la  finamistat  queus  port. 

Que  nous  pogra  iurar  plus  fort. 

E  per  Ics  auangelis  sains. 

Que  fes  marcx  matieus  e  ioans. 

E  sains  lucx  euangelista. 

Que  per  paraula  ni  per  uista. 

Ni  per  onrar  ni  per  seruir. 

Ni  per  als  quem  sapcliatz  dir. 

Nom  partirai  de  uostramistat. 

Neis  sim  donauatz  comiat. 

E  uos  dona  prometetz  me. 

Que  de  bon  cor  ableial  fé. 

Mi  retengatz  per  seruidor. 

E  donas  mi  baiszan  uostramor. 

E  leuar  mai  pueis  denan  uos. 

On  ai  estat  de  geuoillios. 

E  uoilb  quazaquest  couen. 

Sion  fermansse  sagramen. 

Bonafes  e  leials  amors. 

Ensenhamens  pretz  e  ualors. 

Gai  deszir  e  fin  pensamen. 

Cubert  e  selat  etemen. 

E  uoler  complit  de  bon  grat. 

E  lonhamen  de  maluestat. 

Lo  ioi  del  dieu  damor  selar. 

Et  ardimen  de  fin  amar. 

Et  hieu  don  uos  per  auszidor. 

Mon  cor  per  mandamen  damor. 

Quel  dona  poder  de  so  far. 

So  que  li  uolretz  comandar. 


IL   CANZONIERE   PROVENZALE   /  571 

Quieu  ere  quel  uos  atendra  be. 
Tot  so  que  la  bocaus  coue. 
Dona  per  aqiiestz  sains  auangelis. 

n.  51.  Orat. 

a  Ragues  liieu  mil 

marcx  de  fin  argen.  et  autres 

mil  de  bonaur  e  de  ros.  et  agu 

es  prò  siuada  e  fromen.  bu 

eus  e  quauals  e  fedas  emou 

tos.  e  cascuii  iorn  sent  liu 

ras  per  despendre.  e  fort  Castel 
enquem  pogues  defendre.  tal  que  nuilhs 
hom  noi  mi  pogues  forsar.  et  agues  port 
daiga  dousse  de  mar. 
e       t  hieu  agues  autretan  de  bon  sen.  e  de 

meszura  com  ac  salaraos.  eno  pogues  far  ni 
dir  failhimen.  em  trobes  hom  leial  totas  sazos.  (f.  12a,  col.  2*). 
lare  eme...  *)  prometen  abatendre.  gent  aser 
mat  desmendar  e  de  rendre.  eque  de  mi  nos 
poguesson  blasmar.  enma  colpa  caualier  ni 
iotglar. 
e       t  hieu  agues  bella  dorapua  plaszen.  cu 

einde  gaia  abauinens  ftiissos.  e  cascun  iorn  sent 
caualier  ualen.  quem  seguesson  on  quieu  a 
nes  ni  fos.  ben  arezatz  almieilhs  quieu  sai 
entendre.  etrobes  hom  acomprar  et  auendre. 
e  grans  auers  non  mi  pogues  sobrar.  ni  sofra 
nher  ren  quieu  uolgues  donar, 
e       t  hieu  agues  tot  laur  e  tot  largen.  del  rei 
nauar  e  fos  tant  poderos.  et  agues  lamor  de 
dieu  eissamen.  et  apres  de  totz  sos  companhos. 
equem  pogues  per  tota  franssa  estendre.  per 
fals  franses  eissorbar  et  apendre.  epogues  la 
mort  del  rei  uengar.  per  mon  esfors  lo   sepul 
ere  cobrar. 


')  Tre  lettere  illeggibili. 


572  p.  SAVj-LOPEz 

e       t  hieu  estes  tostems  daital  iouen.  com  ara 

soi  eque  ia  uieilhs  non  fos.  eque  mos  faitz  pia 

gues  atota  gen.  els  lengatges  saupes  setante 

dos.  eque  pogues  aut  poiar  e  deissendre.  e  nu 

ilba  re  nom  mauzes  boni  contendre.  e  que 

pogues  la  uertat  deuinar.  de  tot  cant  hom 

sap  ni  pot  pensar, 
e       szien  estes  abdieu  tan  leialmen.  quel  me 

ilbers  fos  de  totz  sos  companbos.  aissi  com 

es  Saint  peire  saint  lauren.  bo  saint  ioban 

bo  dels  meilbers  baros.  euolgues  me  dieus 

un  sol  mot  entendre.  tal  quieu  pogues  tot 

lo  mon  trair  de  uendre.  qua  dampnatge 

non  pogues  armanar.  epogues  las  autras 

denfern  gitar. 
q       uar  enueis  es  qui  tot  lan  uai  queren. 

menutz  jDerquas  paubres  euergonbos.  per 

quieu  uolgra  estar  suau  e  gen.  dins  mon 

ostai  et  acuilbir  los  pros.  et  albergar  cui  que 

uolgues  deissendre.  euolgra  ku-  donar  senes 

quaruendi'e.  aissi  feira  si  pogues  mon  afar. 

e  quar  non  puesc  noraen  deu  bom  blasmar. 
d       ona  mon  cor  emon  Castel  uos  ren.  e  tot 

cant  ai  quar  es  bella  e  pros.  e  sagues  mais 

dequeus  fezes  prezen.  de  tot  lo  mon  bo  feira 

si  mieus  fos.  quen  totas  cortz  puesc  gabar 

ses  contendre.  quilh  genser  es  enquem  pogues 

entendre.  aisius  fes  dieus  auinen  e  ses  par. 

que  re  nous  failb  queus  deia  benestar. 

n.  52.  Tenso. 

p  Erdigo  uostre  sen  digatz. 

queus  par  de  dos  maritz  gelos.  lus  ba 
moiUier  ques  belle  pros.  francha  cortesza 
de  bonaire.  e  lautres  laia  e  mai-rida.  uilana  (f.  12b,  e.  1*). 

e  dauol  respos.  cascuns  es  gai'daire  damdos. 
e  pos  entan  fol  mestier  es  lur  uolontatz. 
cals  endeu  esser  méins  blasmatz. 
G      auselm  faidit  ben  uoilb  sapcbatz.  que  do 


IL   CANZONIERE    PROVENZALE   J  573 

nap  bellas  faissos.  don  lo  mon  es  enueios. 

qui  la  pres  de  si  aizida.  no  fai  ges  tan  gran 

failhida.  si  la  garda  e  nes  cobeitos.  com  lautre 

deszauenturos.  ques  tan  de  totz  mais  aips  car 

gatz.  quen  gardar  noi  forssa  beutatz.  ni  res 

mas  auols  cors  fatz. 
p       erdigo  enfol  raszonatz.  e  com  pogues  anc 

dire  uos.  com  tengues  so  ques  bel  rescos.  ni 

com  gart  dompna  grazida.  bella  e  de  ualor 

complida.  doncx  no  la  garda  sos  sens  bos. 

mas  la  laia  abdigz  enuios.  deu  gardar  lo 

maritz  senatz.  percom  no  ueia  sas  foudatz. 

ni  com  el  es  mal  moilheratz. 
G      auselm  entrels  nessis  agratz.  gent  cu 

bert  blasme  uergonhos.  j^ero  mal  conseilh 

atz  los  pros.  quan  dizetz  caiaital  uida.  que 

gart  sa  malesquarida.  ni  fassa  dun  malas 

tre  dos.  meilhs  es  de  gardar  ochaiszos.  bo 

na  dompna  abgrans  beutatz.  don  par  com 

sia  enamoratz.  endeu  esser  meins  encolpatz. 
p       erdigo  onplus  en  parlatz.  plus  desmen 

tes  uostras  chansos.  que  gelozies  fols  ressos. 

don  totz  lo  mons  brai  e  crida.  es  com  gart 

dompna  grazida.  es  laitz  blasraes  entre  nos. 

mas  lautra  gardar  es  raszos.  ses  geloszia  e 

ses  pecatz.  com  resconda  so  ques  maluatz.  e 

mostre  so  don  es  onratz. 
G      ausselm  sauol  auer  gardatz.  dauol  teza 

ur  es  poderos.  eno  par  sens  quabalos.  qui  se 

pert  eioi  oblida.  per  maluaisza  cauzaunida, 

mai  quan  per  auer  ioios.  failh  ni  trerabal 

sens  asazos.  damors  par  que  sia  forsatz.  e  si 

daisous  merauilhatz.  beni  meravilh  si  uos 

amatz. 
t       ostems  durarial  tensos.  perdigo  perque 

uoilb  emplatz.  quel  dalfi  sial  plaitz  iutiatz. 

quel  iutge  ho  quens  acort  empatz. 
G      ausselm  tant  es  ueral  razos.  quieu  de 

fen  et  el  tan  senatz.  que  segon  lo  plaitz  quem 

parlatz.  uoilh  lo  iutiamen  ho  la  patz. 


574  p.  SAVj-LOPEz 

n.  1.  Aissi  comeuson  las  coblas  esparsas. 

f       Raire  totz  lo  sen  elsaber.  e  la  corte 

zia  del  mon.  son  deniers  qui  pron 

pot  auer.  quieti  non  ai  coszi  germa 

ni  segon.  qua  las  cochas  maon.  a 

donquas  quan  mi  uauc  defailhen.  ans  non  ai  ff.  12b.  col.  2*). 

tan  prop  paren.  non  an  diszen.  ben  ai  fol  sen. 

eper  els  es  mais  us  ricx  orbtz  amatz.  que  us 

gentils  cant  es  dauer  mermatz. 

n.  2.  cobla. 

d       ona  que  de  conhat  fai  drut.  e  de  marit 

sap  far  conhat.  a  ben  damidieu  renegat.  el 

cors  e  lamia  tot  perdut.  quar  ilh  no  sap  ni 

hom  per  lui.  cui  son  li  filh  nil  maritz  cui. 

perquiels  apel  deslinhatz  totz.  filhs  e  filliastres 

enebotz. 

n.  3.  cohla. 

V      ilans  die  ques  de  sen  issitz.  quan  si  cuida 

desuolopar.  de  la  pel  enques  noiritz.  ni  la  uol 
perautra  camiar.  quieu  sai  e  totz  lo  mons  ho 
ditz.  quades  retra  hom  lai  don  es  issitz.  e  quan 
uilas  se  cuida  cortes  far.  per  plus  fol  lai  que 
sanaua  turtar. 

n.  4.  cobla. 

L       o  sen  uolgra  de  salamo.  e  de  rotlan  lo  ben 

ferir,  e  lastre  de  sei  que  pres  tir.  e  la  gran  for 
ssa  de  samso.  eque  sembles  tristan  damia.  e 
galuanh  de  caualaria.  e  lo  bon  sen  de  merli 
uolgra  mai.  quieu  feira  si  de  totz  los  tortz  que 
uei  coni  fai. 

n.  5.  cohìa. 

d       osgratz  conquer  hom  abun  do.  qui  ben  lo 
sap  far  per  raszo.  lun  per  auer  lautre  car  fai. 
asemblanssa  quel  donars  li  piai,  mas  sei  que 
promet  et  alonha.  e  fai  semblan  que  sia  for 
satz.  iierques  perdutz  lo  dons  elgratz. 


IL   CANZONIERE   PROVENZALE   J  575 

n.  6.  coUa. 

s       i  ia  amors  autre  prò  non  tengues.  mas 

quar  hom  nes  plus  gais  eplus  cortes,  emeilhs 
parlans  e  de  meilhor  solatz.  enconois  meilhs 
los  pros  entrels  maluatz.  et  enten  meilhs  q?<es 
mensonia  ni  uers.  pos  amors  sap  tant  ricx 
guiszardos  rendre.  neguna  res  nos  deu  damor 
defendre. 

n.  7.  cohìa. 

m      olt  menueia  duna  gen  pautoneira.  car 

an  tornat  pretz  lun  bratz  en  erranssa.  cus  non 
conois  cui  do  ni  sei  quel  queira.  mas  atressi  com 
orbs  qui  peiras  lanssa.  donon  raubas  e  ronsis  a 
garsos.  atals  cane  mais  no  saubron  que  se  fos. 
mas  fams  e  freitz  trebailhs  emalananssa. 

n.  8.  cohìa. 

a       r  uei  tot  quant  es  uerdeiar.  els  albres  de 
fueilha  uestir.  equant  hieu  cug  reuerdezir. 
mal  mon  grat  mauen  asequar.  trop  tem  quen 
mal  luec  fui  plantatz.  que  totz  son  uertz  et 
hieu  sequatz.  sax  non  reuerdisc  enpascor.  coras 
reuerdirai  senhor.  benleu  la  nueg  de  saint 
ioan.  atressi  com  li  noguier  fan. 

n.  9.  cohla. 

d       ona  abun  baiszar  solamen.  agrieu  tot 

quan  uoilh  ni  deszire.  eprometetz  lom  e  nous 

tire,  siuals  per  mal  de  lenuiosza  gen.  caurion 

dol  sim  ueszion  iauzion.  eperamor  dels  adreitz 

cui  plairia.  quar  engalmen  satanh  acortezia    (f.  13a  [72],  col.  1*). 

com  fassenuei  als  enuios  quii  fan.  e  als  adr 

eitz  fassom  tot  quan  uolran. 

n.  10.  cohla. 

d       ona  dieus  sai  uos  euostra  ualor.  euostre 

pretz  e  la  uostra  ricor.  e  sai  dieus  tot  can  uos 
amatz.  no  sai  sieu  mi  sci  saludatz.  mas  ben  sai 
saludatz  mi  fos.  sieu  saludes  sels  que  amon  uos. 


576  P.   SAVJ -LOPEZ 

n.  11.  cohìa. 

d       ieus  uos  gart  dona  de  pretz 

sobeirana.  e  uos  don  gang  euos  lais  estar  sana, 
e  mi  don  far  tan  de  nostre  plazer.  quem  tengas 
quar  segon  lo  mieu  uoler.  aissim  podetz  del  tot 
guiszardon  rendre.  e  sane  fis  tort  bel  mi  podetz 
quaruendre. 

n.  12.  cohìa. 

1  uecx  es  com  chan  ecom  sen  lais.  e  luecx  de 
rire  ede  parlar,  ede  tot  deu  bom  luec  gardar. 
qui  es  sauis  cortes  ni  gais.  pos  amors  bo  iutia 
aissi,  com  raszos  emeszuro  di.  com  del  tot  gart 
luec  e  sazo.  que  tostems  es  et  er  e  fo.  com  no 
pot  far  tot  quan  fai  be.  que  noi  failba  dalcuna 
re. 

n.  13.  cohla. 

va.      ai  tortz  es  follia  et  enfanssa.  qui  loniamen 

uol  seruir  en  perdos.  pos  no  len  es  rendutz  nuilhs 
guiszardos.  e  sei  quel  pren  fai  gran  desmezuranssa. 
que  de  seruir  tanb  com  guiszardo  renda,  perqui 
eu  ni  ma  bella  dona  creia.  quieu  ia  del  sieu 
seruiszi  mi  recreia. 

n.  14.  cohla. 

g       es  li  poder  nos  parton  per  engal.  enaquest 

mon  segon  lo  mieu  albir.  que  tals  es  ricx  acui 
degra  failbir.  et  atal  failb  encui  fora  ben  sai. 
et  aperpauc  nono  blasm  *)  adieu.  quar  el  dona 
manentia  ni  fieu.  acors  maluatz  ni  desconoissen 
e  fai  sofraita  albo  ni  alualen. 

n.  15.  cohla. 

a       tretan  leu  pot  hom  abcortezia.  renhar  qui 

sap  et  abfaitz  auinens.  com  abfoudatz  ni  abfar 
uilania.  et  autretan  pot  bom  esser  plazen.  com 
enuios  perqui  eu  soi  maluolens.  ba  sei  que  tot  conois 
e  lo  peitz  tria.  et  ba  sei  meilbs  qui  pren 
bobediens. 

')  Una  lettera  è  tarlata. 


IL   CANZONIERE    PROVENZALE    J  577 

n.   16.  cobla. 

q       ui  uol  auer  pretz  uerai.  deu  auer  cor  e  de 

zire.  de  seruir  ades  erapatz.  e  de  far  totz  faitz  on 
ratz.  abiauzentas  uolontatz.  si  uol  enpretz 
aussor  assendre.  egart  se  de  foudatz.  euas  totz 
sia  plazens.  e  de  bos  acuilhimens.  de  son  auer 
despendens.  humils  emerceiarre.  sia  de  dieu  a 
maii'e.  enon  sia  bias  de  retener  abse.  tot  so  que 
es  de  be. 

n.  17.  cobla. 

d       ome  fol  edesconoissen.  non  deu  hom  uoler 

samor,  quel  fols  fai  plus  de  deszonor.  aselui  quel 

plus  li  consen.  quar  son  blasmamen  es  laus 

zar  e  sa  lauszors  grans  blasmamens  par.  equi 

fai  fol  priuat  de  se.  mais  ama  penre  mal  que 

be.  (f.  13a,  col.  2'). 

n.   18.  cobla. 

m      às  qui  uol  enterra  lauszor.  ni  uol  auer 

bon  pretz  ualen.  non  pot  ges  faire  trop  do 

nor.  azom  sani  e  conoissen.  quel  saui  co 

nois  ques  lauszar.  perque  deu  esser  tengutz 

quar.  qui  sap  triar  lo  mal  del  be.  econois 

aisso  ques  coue. 
n.  19.  robla. 

s       el  que  son  petit  poder  fai.  uolontiers  non 

deu  esser  blasmatz.  sol  que  delplus  hi  sial  uo 

lontatz.  elacuilhrrs  elgaugz  el  bel  semblans. 

eque  sia  leials  e  fis  amans.  quenun  sol  luec 

aia  tot  son  enten.  sei  quaitals  es  ual  mais 

mon  essien.  azops  damar  non  fai  coms  ni 

marques.  que  sa  ricor  cuiariailh  ualgues. 

n.  20.  cobla. 

a      issel  que  uol  tot  iorn  esser  senatz. 

es  enganatz  souen  enson  saber.  quar  main 
tat  ues  ai  uist  gran  sen  nozer.  et  aiudar  ma 
intas  ues  grans  foudatz.  perque  nuilhs  hom 
que  mante  drudaria.  non  deu  gardar  son  prò 


578  P.    SAVJ-LOPEZ 

ni  sa  folla,  ni  non  pot  auer  pretz  ualen.  nu 
ilhs  boni  sinamor  no  senten. 

n.  21.  cobla. 

d       onal  gensei'S  que  sia.  per  uos  me  castia. 
sens  e  uolontatz.  e  nom  laisson  enpatz.  car 
mon  sen  si  podia.  men  deslonharia.  dels  autz 
entendemens.  e  dautra  part  iouens.  ditz  con 
rada  follia,  ual  enlnec  mais  de  sens. 

n.  22.  cobla. 

s       i  bem  soi  forfaitz  ni  mespres.  per  so  nom 
dei  dezesperar.  quieu  ai  uist  ergueilh  baissar. 
dom  sufrirenpatz  si  pogues.  quar  ben  sofrir 
ual  so  sapchatz.  perquieu  mi  sen  tan  enan 
satz.  quar  per  sufrir  son  maint  paubre  ricos. 
el  ricx  pot  leu  per  ergueilh  baissar  ios. 

n.  23.  cobla. 

p       OS  nom  puesc  uirar  ailbors.  dompna  ni 
non  es  mos  gratz.  uailham  abuos  bum  eli 
tatz.  quieu  noi  quier  autres  ualedors.  si  fauc 
merce  totauia.  quas  es  mos  poders  aitan  gr 
ans.  quab  uos  me  pot  ualer  mil  tans.  merces 
cantra  manentia. 

n.  24.  cobla. 

d       ona  uostra  ualens  ualors.  eluostre  gens 

cors  onratz.  e  las  uosti'as  ualens  beutatz.  que 
son  sobrautras  clardatz.  uolon  quieus  port 
senboria.  equel  nostre  bon  pretz  enans.  eus 
sia  bumils  emerceians.  tostems  sieu  aitan 
uiuia. 

n.  25.  cobla. 

L       alauzeta  el  rossinhol.  am  mais  que  nuilh 

autrauzel.  que  pel  ioi  del  tems  nouel.  come» 
son  premier  lor  chan.  et  bieu  ai  aquel  sem 
blan.  quan  li  autre  trobador.  estan  mut  chan 
peramor.  de  ma  dona  na  uierna. 


IL   CANZONIERE    PROVENZALE    J  579 

n.  26.  cohla. 

e       quar  per  sa  mercem  col.  quen  chantan 

dona  lapel.  bes  tanh  caplieis  mi  capdel.  quieu 

uos  pliu  ses  tot  enian.  que  sieus  serai  darenaw.  (f.  13b,  col.  1"). 

quar  ma  fait  tanta  donor.  quem  rete  per  ser 

uidor.  per  tostems  mai  na  uierna. 

n.  27.  (manca  la  rubrica  cabla). 

L       as  queras  planh  so  quem  dol.  plus  que 

nafra  de  quaii-el.  non  feira  ni  de  coutel. 

perques  fols  quis  uai  uanan.  son  ioi  tro  com 

loilh  deman.  e  dona  fai  gran  folor.  qui  senten 

engran  ricor.  e  dieus  gart  ne  na  uierna. 

n.  28.  (manca  la  rubrica  cohla). 

m      olt  era  dous  eplazens.  lo  tems  gais  can  fo 

eslitz.  paratges  et  establitz.  quels  dreituriers  co 

noissens.  leials  francx  de  bon  coratge.  plazens 

larcx  de  bonafe.  dreituriers  de  gran  merce. 

establiron  paratge.  percui  fos  seruir  trobatz. 

cortz  e  dompneis  e  donars.  amors  e  totz  bes 

estars.  -donor  e  de  gran  dreitura. 

n.  29,  (manca  la  rubrica  cohla). 

e       paratges  e  bos  sens.  dea  esser  quapdels  e  ^ 

guitz.  de  totz  autres  bes  complitz.  perque  las 
premeiras  gens,  doneron  alric  linhatge.  ren 
das  quels  tenguesson  be.  so  qual  paratge  co 
uè.  e  doncx  qui  te  leretatge.  nil  fieu  don  el 
es  quazatz.  non  ere  que  degesser  pars,  mas 
aeascun  es  pezars.  de  far  so  don  pretz  meilh 
ura. 

n.  30.  cohla. 

p       ero  homs  flacx  maldizens.  per  lur  auer 

deschauzitz.  desconoisens  apostiz.  pos  renhap 

galiamens.  e  tot  paratge  mescre.  ben  uol 

gra  saber  perque.  uol  auer  nuilh  senhorat 

gè.  pos  non  conois  don  es  natz.  mas  bon 

pretz  es  aitan  quars.  cus  noi  sap  contar 

auars.  mas  lautrui  benfait  rancura. 


580  P.   SAVJ-LOPEZ 

n.  31.  cohla. 

s       i  tot  no  mai  alcor  gran  alegranssa.  si 

dei  chantar  e  far  bella  semblanssa.  que  per 

som  plas  cubrir  ma  malananssa.  que  non 

uoilh  dar  gaug  amos  enemics.  pero  dirai 

alques  de  mos  talans.  ei  gequirai  per  paor 

trop  adire 

n.  32,  cohla. 

e       ras  no  sai  enues  qual  part  me  uire. 

pos  mei  amie  ponhon  enmi  aussire.  que  tal 

ma  fait  so  don  piane  e  sospire.  quieus  pliu 

ma  fé  quieu  era  molt  meilhs  fis.  quelam 

serques  mos  pros  e  mos  enans.  mas  aissi 

failh  hom  enmainta  fazenda. 

n.  88.  cohla. 

n       uilha  ren  que  mester  maia.  mai  cant 

unpauc  de  saber.  non  ai  per  far  cbanson 
gaia,  quieu  nonai  ioi  ni  lesper.  damor  ni 
dautras  raszos.  non  es  auinens  chansos.  mas 
del  ben  quieu  ai  agutz.  e  del  deszii-  don  mi 
dueilh.  la  farai  pos  far  la  uoilh. 

n.  84.  cohla. 

e       n  hom  plus  uè  ni  assaia.  ni  sent  gaug 

ni  desplazer.  plus  deu  gardar  nonsatraia.  lai 

don  ioi  non  pot  auer.  quara  es  huna  sazos. 

que  mal  rent  hom  guiszardos.  eilh  seruiszi     (f.  13b,  col.  2*). 

son  perdut.  eilh  benfait  desconogut.  et  amors 

uol  et  acueilh.  aisels  que  mais  an  dergueilh. 

n.  35.  (manca  la  rubrica  cohla). 

s       es  prometre  e  ses  paia,  ses  pot 

dona  dequazer.  si  fai  semblanssa  queilh  plaia. 
aisso  que  noilh  deu  plazer,  que  de  semblan  nais 
razos.  e  mais  don  eisson  tensos.  tals  que  sa  gr 
an  be  uolgut.  enon  crezas  quieu  desti'ut.  aco 
que  ueiran  mei  hueilh.  ni  pueis  sia  tals 
com  sueilli. 


IL  CANZONIERE    PROVENZALE   J  581 

n.  36.  cohla. 

d       euirai  uos  enmon  lati,  de  so  que  ai  uist 

eque  ui.  mas  non  cug  setgles  dur  gaire. 

que  lescriptura  ho  di.  queras  failli  lo  filhs 

alpaire.  elpairal  filli  atressi. 

n.  37.  cohla. 

d       els  plazers  plazens.  faitz  abgran  benuol 

enssa.  e  dels  semblans  uers.  dous  ab  doussa 
paruenssa.  e  dels  quars  uezers.  aial  cor  so 
uinenssa.  quem  fes  la  belaii'e.  elsieu  dous 
repaire.  perque  soi  cochos.  del  tornar  mas 
ianglos.  men  fan  forsat  estraire.  don  fas  ar 
escos.  mains  sospirs  angoissos. 

n.  38.  cohla. 

G      reus  mes  lesteners.  quieu  fas  e  la  sufrenssa. 
cus  iorns  ho  us  sers.  man  endetenenssa.  eial 
remaners.  mieus  noilh  done  temenssa.  que  uas 
lieis  mi  uaire.  quar  aitan  de  bonaire.  mes  to 
tas  sazos.  quieu  ai  uist  que  raszos.  lim  pogra 
far  desfaire.  quilh  men  fes  pei'dos.  tals  quieu 
pris  uergonhos. 

n.  39.  cohla. 

a       Is  bels  captenemens.  et  als  cortes  paruens. 
et  al  fugir  folors.  conois  hom  las  meilhors. 
quel  semblan  fai  parer,  so  don  al  cors  uoler. 
doncx  si  de  far  follia,  no  uos  pren  uolontatz. 
ial  semblan  non  fasatz.  nom  tanli  que 
plus  en  dia. 

n.  40.  cohla. 

t        ot  fis  amicx  ha  gran  deszauentura.  can 

de  sidons  malas  nouas  apren.  assatz  ai  dig 
aszome  conoissen.  pero  non  fauc  per  mi  me 
zeis  rancura,  mas  qui  onra  outra  meszura. 
home  qua  onrar  non  fezes.  per  failhimen 
deu  esser  pres. 


582  P.    SAVJ-LOPEZ 

n.  41.  cobìa. 

d       ompna  uolgrieu  que  esgardes  drechu 

ra.  quesgardes  qui  lama  fin  amen,  eques 

gardes  queilli  notz  ni  lestai  gen.  equesgar 

des  quilh  notz  ni  la  peiura.  ni  perque  bos 

pretz  li  dura,  e  ques  gardes  que  no  fezes. 

faitz  com  raszonar  non  pogues. 
n.  42.  cohla. 

m      a  dompna  peitz  de  mort  es.  qui  uai  lan 

guen  desziran.  et  aten  enosap  can.  li  uolra 

ualer  raerces.  pueis  ai  peitz  perquem  com 

planli.  quenun  iorn  fenis  e  franh.  so  com 

na  conquist  greumen.  damor  et  al  mieu 

paruen,  degrom  ponhar  alfenir.  aitan  com    (f.  14a  1 7oJ,  col.   1"). 

al  conquerir. 
n.  43.  cobla. 

e       om  durarai  hieu  que  non  puesc  morir. 

ni  ma  uida  ni  mes  mas  malananssa.  com 

durarai  hieu  qui  uos  faitz  languir,  dezesper 

at  abun  pauc  desperanssa.  com  durarai  hieu 

que  ia  alegranssa.  non  aurai  mais  si  non 

mi  uen  de  uos.  com  dui'arai  hieu  dompna 

quieu  soi  gelos.  de  tot  home  que  uai  uas  uos 

ni  uè.  e  de  totz  sels  acui  naug  dire  be. 
n.  44.  cobìa. 

f        olla  dompna  penssa  es  cuda.  que  leu  pr 

etz  so  quel  deissen.  eper  fol  nessi  paruen. 

ai  uista  tal  decazuda.  questaua  enric  l'esso. 

de  ualor  ede  faisso.  quar  sella  cui  foudatz  gui 

da.  pensa  esser  enrequida.  quan  uè  que  sei 

fag  menut.  intren  en  crini  et  enbrut. 
n.  45.  cobla. 

e       pos  dompnes  deissenduda.  per  blasme  de 

failhimen.  noia  mais  reuenimen.  conors  de 

luenh  la  saluda.  quar  de  iusta  failhiszo.  tro 

ba  greu  dona  perdo,  ans  li  cor  cascus  eilh  crida. 

et  ans  que  torn  enoblida.  lo  crims  ha  tant  cor 

regut.  quilh  es  tornada  enrefut. 


IL   CANZONIERE    PROVENZALE   /  583 

n.  46.  cobla. 

b       ella  dompna  ges  nom  par.  com  deia  mais 
obezir.  autra  dompna  ni  seruir.  endreg  dam 
or  ni  onrar.  et  ha  ben  plaszen  sazo.  sei  ques  es 
nostra  preiszo.  quel  uostrumils  francx  para 
ens.  fai  dels  cors  mortz  uius  iauzens.  eilla  mal 
que  ditz  son  prò  e  le  li  dan.  elira  iois  erepaus 
li  afan. 

n.  47.  cobla. 

b       ella  dompna  adieu  uos  coman.  et  anc  no 

dis  maior  follor.  quar  aquest  comiatz  ma  sabor. 
de  dol  de  sospir  e  dafan.  caurai  cant  hieu  sarai 
ses  uos.  ai  dieus  quar  fos  auenturos.  que  cam 
gè  pogues  auenir,  daquest  anar  perun  uenir. 

n.  48.  (manca  la  rubrica  cobla). 

p       lanhen  men  uauc  e  sospiran.  ples  dira  ede 

gran  dolor,  recordan  uostra  gran  ualor.  euos 

tre  frane  humil  semblan.  euostras  auinens 

faissos.  el  dous  quars  francx  humils  respos. 

els  plazers  que  uos  sabes  dir.  quem  fan  souen 

uiure  morir, 
n.  49.  cobla. 

a       uos  uolgra  mostrar  lo  mal  quieu  sen.  e 

als  autres  selar  et  escondire,  quanc  nous  puec 
dir  mon  cor  seladamen.  doncx  sieu  nom  sai  cu 
brii-  qui  mer  cubiire.  ni  qui  mer  fis  sieus  eis 
me  soi  trahire.  quar  qui  nos  sap  selar  non 
es  raszos.  quel  selon  silh  acui  non  es  nuilhs 
pros. 

n.  50.  cobla. 

e       u  non  uoilh  ges  adonas  consentir,  so  perca 
dreg  uei  com  las  ochaiszona.  que  tals  nia  que 
no  uolon  cauzir.  el  temps  que  hom  damar 
las  araszona.  pueis  quan  iouens  lur  estrai  sa 
beutat.  prendol  sordeis  cauion  soanat.  aissi   (f.  14a,  col.  2*). 
com  fes  lo  lombartz  de  las  figas. 


584  P.    SAVJ-LOPEZ 

n,  51.  cobìa. 

b       ona  dona  nos  deu  damar  gequir.  epueis 

tan  fai  quazamor  sabandona.  uo  sen  cug  trop 
ni  massa  nono  tir.  quar  meins  enual  totz 
faitz  quii  dessazona.  mas  sapcha  ben  selar 
tota  uertat,  que  silh  quen  als  li  serion  pri 
uat.  azops  damar  li  serion  desrigas. 

n.  52.  cobìa. 

s       abetz  perque  deu  dompnamar.  tal  caua 

lier  queilh  sionors.  per  paor  de  lauszeniadors. 
com  no  lan  puesqua  encolpar.  daisso  qua  on 
rat  pretz  non  tank,  e  pueis  quen  bonamor 
senpren.  ia  nom  fares  pueissas  crezen.  que  ues 
autrapart    sauergonh. 

n.  53.  cobla. 

n       on  sai  per  quals  mestiers.  samon  donas 

quaualiers.  samors  mi  soana.  nom  uoilh  lau 
zar  estiers.  quar  meins  enpar  uertadiers.  qui 
totz  SOS  bes  uana.  perque  uoilh  plus  uolonti 
ers.  dir  cortezufana.  que  uertat  uilana. 

n.  54.  cobìa. 

u       nplait  fan  dompnas  ques  folors.  quant  tro 

bon  amie  ques  mercei.  per  assai  li  mouon  esfrei. 
el  destrenhon  tros  uir  ailhors.  e  quant  an  lonh 
atz  los  meilhors.  fals  entendedor  menut.  son  ca 
balmen  reseubut.  perques  taiszal  cortes  cbans. 
ensors  crims  e  fols  mazans. 

n.  55.  cobla. 

a       b  fals  digz  et  abtermes  loncx.  fan  donas 

de  cortes  uilas.  cus  non  es  tan  francx  ni  humas. 
quel  coratge  noilh  neissenda.  quant  autre  pren 
los  sieus  endurs.  mas  hieu  non  fauc  tan  greus 
rancurs.  ni  pueis  mort  non  quier  esmenda. 


IL   CANZONIERE   PROVENZALE   J  585 

n.  56.  cohla. 

d       rutz  que  souen  si  rancura,  ni  tot 

enquier  quan  sidons  fai.  si  conquer  amor  noilh 
dira,  ni  no  sap  com  uè  ni  com  uai.  que  dona 
promet  et  estrai,  e  ditz  mains  plazers  auinens. 
per  so  quentre  las  bonas  gens,  sapcha  ineilhs 
son  pretz  enantir. 

n.  57.  cohla. 

f       is  gaugz  entiers  plazens  eamoros.  ab  uos 
es  gaugz  perque  totz  bes  reuiu.  enona  gaug 
elinon  tan  agradiu.  quel  uostre  gaug  fai  setgle 
tot  ioios.  abuos  creis  gaug  euiu  de  ues  totz 
latz.  perquieu  nai  gaug  emos  bels  castiatz.  em 
fai  gran  gaug  sei  quem  mentau  souen.  lo 
gaug  de  uos  el  bel  captenemen. 

n.  58.  cohla. 

a       drut  de  bona  donha  tanh.  que  sia  sauis  emem 

bratz.  e  cortes  et  amezuratz.  eque  trop  nos  rancur 
nis  lanh.  quamors  abira  nos  fai  ges.  que  mes 
zura  damor  fruitz  es.  e  drutz  quea  bon  cor  da 
mar.  deu  sap  gaug  dira  refranar. 

n.  59.  cohla. 

a       uos  que  tenh  per  done  per  senbor.  bona  do 

na  uolgra  clamar  merce,  perun  deszir  que 

de  uas  uos  mi  uè.  quem  destrenh  tan  que  sin 

breu  nom  secor.  uostre  gens  cors  non  puesc    (f.  14b,  col.  l*). 

uius  remaner.  et  anc  nous  bo  auszei  far 

parer,  e  sius  en  soi  mil  ues  uengutz  denan. 

pueis  quan  uos  uei  nous  aus  dir  mon  ta 

lan. 
n.  60.  cohla. 

h       a  dieus  equem  uolon  dir.  siei  hueilh 

ni  quem  uai  queren.  pueis  ma  dolor  non 

enten.  ni  pos  nom  uol   auzir.  molt  son  men 

songier  messatge.  li  dous  esgart  quem  tra 

mes.  mas  percrist  sieu  ho  saupes.  non  lor 

obriral  coratge. 

Stuàj  di  filologia  romanza,  IX.  37 


586  !'•    SAVJ-LOPEZ 

n.  61.  cohla. 

m      as  doinpna  sap  ioi  far  semblar  pezanssa. 
e  son  uoler  selar  et  escondire,  e  pueis  sem 
blans  cortes  abson  dous  rire.  percom  no  pot 
cor  iutgar  per  semblanssa.  mas  silh  marna 
aora  paregues.  quar  li  soi  fis  e  ses  totz  engans. 
e  sei  quem  ditz  quieu  pes  mas  dels  t^ieus  mans. 
quieiram  doncx  cor  quilha  lo  mieu  conques. 

n.  62.  (manca  la  rubrica  cohla). 

d       esaiat  ha  son  quami.  iouens  e  mes  en  de 

chi.  edonars  quera  son  fraire.  lan  essilhat  ata 
pi.  si  non  ment  lo  laoraire.  don  lo  reprouiers 
issi. 

n.  63.  cohla. 

1        0  moliniers  iutgal  moli,  qui  ben  lia  ben 

desìi,  dis  lo  uilan  tras  laraire.  bos  fruitz  eis 
de  bon  paire.  emaluatz  filhs  dauol  paire.  e 
dauol  quaual  rossi. 

n.  64.  cohla. 

e       ras  naisson  li  poilhi.  bel  burden  abgenta 

cri.  quesdeuenon  de  blanc  uaire.  e  fan  sembla??t 
azeni.  iois  e  iouens  nes  trahi.  e  maluestatz  nais 
daqui. 

n.  65.  cohla. 

a       me  uon  ual  re  cobles  ni  arteszo.  ni  siruen 

tes  tan  uei  lo  mon  delit.  quar  per  dos  sous  se 
rai  meilhs  acuilhit.  sils  agues  liatz  enun  de 
mos  gii'os.  que  per  sent  uers  ni  per  dozens 
chansos.  quar  fuec  e  ui  e  lieg  ont  mi  colgar. 
aurai  dels  .viu.  e  dels  .xi.t.  amaniar.  e  dels 
quatre  tenrai  lostenamor.  meilhs  que  non 
feira  del  uers  del  lauador. 

n.  66.  cohla. 

G      es  de  dirnar  non  fora  trop  matis.  qui  ag 

ues  be  sos  obs  dins  son  alberc.  e  fos  hi  la  carns 
el  uis.  el  bel  fuec  de  legna  de  fau.  quel  premier 
iorn  es  huei  de  la  semnana.  e  deu  hom  estar 
suau. 


IL  CANZONIERE   PROVENZALE   J  5S7 

n.  67.  cohla. 

d       e  bien  aut  pot  hom  bas  quazer.  e  de  ben 
bas  poiai-  contramon.  aisso  qua  non  oblit 
silh  que  fait  amie  son.  quieu  ai  uist  comen 
sai*  pon.  duna  peira  solamen.  elui  uenir  a 
eomplinien.  eniantenen  si  com  fo  aut  poiatz. 
sec  bas  aissi  chai  pretz  quant  es  mal  comen 
satz. 

n.  68.  cohla. 

q       ui  ues  bon  rei  si  prezenta.  per  saber  ni 

per  solatz.  auenir  deu  totz  apensatz.  de  cai      (f.  14b,  col.  2*). 
captenenssa  estei.  caissi  par  fine  ualens.  sa 
conoissenssa  e  sos  sens.  sai  prim  la  garda  e 
pueis  mai.  e  leis  e  so  queilh  re  trai. 

n.  69.  cohìa. 

e       silh  ment  noilh  sobrementa.  qual  meins 

moilh  semble  uertatz.  pero  meszures  asatz.  cap 
lag  uer  dir  si  parei.  bels  uers  dirs  si  nonqual 
uens.  si  tot  noi  encor  sagramens.  qual  solasui 
ni  al  iai.  nonagradom  trop  uerai. 

n.  70.  cohla. 

t        otz  hom  deu  conoisser  eszentendre.  que  ri 
quesza  ni  grans  cortezia.  ni  res  que  sia.  nos 
pot  de  mort  defendre.  quel  iorn  que  nais  com 
ensom  amorir,  equi  plus  uiu  mais  ponha  en 
fenir. 

n.  71.  cohla. 

q       uan  lo  pel  del  cui  li  uenta.  amidons  que 
quague  uis.  ueiaire  nies  quieu  senta,  huna 
gran  pudor  de  pis.  duna  ueilha  merdolenta. 
que  tot  iorn  mescarnis.  ques  plus  de  petz 
manenta.  quautra  de  marabotis.  e  quaga 
mais  entres  matis.  quautra  no  fai  entrenta. 


588  P.    SATJ-l.OPEZ 

n.  72.  (manca  la  rubrica  colila). 

d       e  totautra  pudor  ere.  coni  se  pot  defen 

dre  abaitan.  coni  san  son  nas  estopan.  ho  ques 
luenh  de  lai  on  uè.  quar  qui  quagaua  epedia. 
daquo  uos  gardarias  uos.  mas  de  me  sieu  ues 
sia.  ho  dun  autre  uessios.  ho  de  uos  si  uessiatz. 
aluessir  nonsai  aiuda.  quaisel  acui  latz  uesse 
riatz.  non  sap  re  tro  la  beguda. 

n.  73.  cohla. 

a       tot  mon  amie  clam  merce,  que  si  ma  encor 
de  ren  dar.  que  nomo  fassa  demandar,  tan 
quieu  en  semble  enuios.  que  non  es  tan  plaz 
ens  lo  dos.  ni  trop  mo  fassa  atendre.  asembl 
anssa  ques  uoilha  defendre.  de  mi  si  trop  mo 
uai  tarzan.  ho  espex'a  quieu  men  an. 

n.  74.  cohla. 

s       i  ues  home  eno  saps  cui.  sapchas  per  au 

tre  ho  per  lui.  que  sap  far  ni  qui  es  ni  don. 
que  motz  homes  uan  per  lo  mon.  lun  paubre 
elautre  rie.  eperaisso  hieu  to  die.  que  uailha 
ho  ia  no  ualgues.  saber  deu  hom  dome  qui  es. 
e  sapchas  leu  quals  es  sos  sens.  si  es  nessis  ho 
conoissens.  quadonc  sabras  trop  meilhs  chau 
zir.  de  qual  guizas  fai  aseruir.  quar  greu  sei'a 
que  no  mescap,  sei  que  iutga  so  que  no  sap. 


II.    CANZOMRRK    Pl'.OVENZALE    J 


589 


INDICE  DEI  POETI 


Cab 


II. 


Peire  Vidal; 


III. 
IV. 


FOLQUET    DE    RoMANS  ) 

AiMERic  DE  Pegcilha; 


Gui  d'Uisel; 


1  :  Tostems  azir  falsedat  et  enian 
2:  Dun  siruentes  faire  nom  tueilh 
3:  Anc  non  ni  breton  ni  baimiex" 
4:  Non  ere  que  mos  ditz 
5:  Lo  mons  es  aitals  tornatz 
6:  Qui  uol  auer 
7:  Raszon  es  quieu  mesbaudei 
8:  Las  amairis  qui  encolpar  las  uol 
Li  clero  se  fan  pastor 
Aquesta  gens  quan  son  enlor  ga- 
iesza 
Tostems  uir  cuidar  ensaber 
Atressi  com  per  fargar 
13:  Un  seruentes  fauc  enluec  de  iurar 
14:  Pueis  toi'natz  sui  en  proenssa 
15:  Quant  hom  onratz  dcue   engran 
paubreira 
Quant  hom  es  en  lautrui  'poder 
Plus  quel  paubres  que  iai  el  rie 
ostai 
18:  Quan  ben  mi  soi  perpensatz 
19:  Qui  sofrir  sen  pogues 
20:   Quar  fui  de  duraeondanssa 
21  :  Ades  uol  de  laondanssa 
22:  Sei  que  sirais  ni  guerreiabamor 

23  :  Si  com  lalbre  que  per  sobrecargar 

24  :  Enaraors  trop  alques  enquem  re- 

franh 
Eyssamen  com  lazimans 
Maintas  ues  soi  enqueritz 
Daisso  don  hom  ha  loniamen 
Si  bem  partes  mala  dompna  de  uoa 


9: 
10: 

11: 
12: 


16: 
17: 


25: 
26: 
27: 
28: 


590 


P.    SAVJUOPEZ 


VI.  Raimbaut  de  Vaqueiras;  n.  29 

,  30 

,  31 

,  32: 

«  33 

,  34: 

.  35: 

.  36; 

VII.  FoLQUET  DE  Marseilha;    „  37: 

,  38: 
,  39: 
,  40: 
,  41: 

Vili.  RiGAUT  DE  Berbezilh;       ,  42: 

.  43: 
,  44 

IX.     Montanagol;  ,  45: 

,  46: 
.  47: 


48 


X.  GuiLHEM  Azemar;  f,  49: 

XI.  ANON.[Arnaut  de  Carcasses];  ,    50: 

XII.  Anon.  [Pistoleta];  ,  51: 

XIII.  Perdigo-Gauselm  Faidit;  „   52: 


Eram  requer  sa  costume  son  us 
Eissamen  ai  guerreiat  abamor 
Leu  pot  hom  gaug  epretz  auer 
Sauis  e  fola   humils  et  ergoilhos 
Guerras  ni  plag  no  son  bo 
Nuilhs  hom  enre  no  failh 
Valen  marques  senher  de   mon- 

ferrat 
Valen  marques  ia  non  dires  de  no 
Perdieu  amor  ben  sabes  ueramen 
Greu  feira  nuilh  hom  failhenssa 
Amors  merce  no  mueira  tan  souen 
Moli  hi  fes  gran  pecat  amors 
Salcor    plagues   lien    forueimais 
sazos 
Atressi  com  laurifans 
Atressi  com  lo  leos 
Lo  nou  mes  dabril  comenssa 
Qui  uol  esser  agradans  ni  plazens 
On  mais  ha  hom  de   ualenssa 
Non  an  tan  dig  li  premier  tro- 

bador 
Nuilhs  hom  no  ual  ni  deu  esser 
prezatz 
Ben  forueimais  sazos  e  locx 
Dins  un  uergier  de  mur  serat 
Aragues   hieu  mil  marcx  de  fin 

argen 
Perdigo  uostre  sen  digatz. 


IL   CANZONIERE    PROVENZALE   / 


591 


INDICE  DELLE  POESIE  PER  ORDINE  DI  RIMA 


Plus  quel  paubros  que  iai  el  rie  ost«^ 

Nuilhs  hom  enre  no  iailh  . 

Tostems  azir  falsedat  et  enia» 

Enamors  trop  alques  enquem  reirmih 

Eyssamen  coni  lazimons 

Atressi  com  laurif«MS  . 

Quar  fui  de  duracondanssw 

Ades  uol  de  laonda«ssrt 

Atressi  com  per  fargar 

Si  com  lalbre  que  per  sobreearg«r 

Un  seruentes  fauc  enluec  de  iurar 

Valen  marques  senher  de  monferrai 

Dina  un  nergier  de  mur  serat 

Quan  ben  mi  soi  perpensote 

Nuilhs  hom  no  ual  ni  deu  esser  -prezatz 

Perdigo  nostre  sen  digatz  . 

Raszon  es  quieu  mesbaudc» 

Quant  hom  onratz  deue  engran  paubretV 

Dun  siruentes  faire  nom  tueilh 

Daisso  don  hom  ha  loniamew 

Perdieu  amor  ben  sabes  uerame» 

Amors  merce  no  mueira  tan  souen    . 

Aragues  hieu  mil  marex  de  fin  argen 

Qui  uol  esser  agradans  ni  plazens     . 

Pueis  tornatz  sui  en  -proenssa     . 

Greu  feira  nuilh  hom  failhcnssa 

Lo  nou  mes  dabril  comenssa 

On  mais  ha  hom  de   aalens-sa     . 

Qui  uol  auer 

Tostems  uir  cuidar  ensaber 
Quant  hom  es  en  lautrui  poder 
Leu  pot  hom  gang  epretz  auer' 
Anc  non  ui  breton  ni  haìmier  . 


17 
34 

1 
24 
25 
42 
20 
21 
12 
23 
13 
35 
50 
18 
48 
52 

7 
15 

2 
27 
37 
39 
51 
45 
14 
38 
44 
46 

6 
11 
16 
31 

3 


592 


P.   SAVJ-LOPEZ 


Qui  sofrir  sen  pogues. 

Aquesta  gens  quan  son  enlor  ga,iesza 

Non  ere  que  mos  diiz 

Maintas  ues  soi  enqaevitz 

Guerras  ni  plag  no  son  ho 

Valen  marques  ia  non  dires  de  no 

Ben  forueimais  sazos  e  locx 

Las  amairis  qui  encolpar  las  noi 

Li  clero  se  fan  pastor 

Sei  que  sirais  ni  guerreiabamor 

Eissamen  ai  guerreiat  abamor  . 

Non  an  tan  dig  li  premier  trobador 

Molt  hi  fes  gran  pecat  amors    . 

Si  bem  partes  mala  dompna  de  uos 

Sauis  e  fols  humils  et  ergoilhos 

Salcor  plagues  ben  forueimais  sazos 

Atressi  com  lo  leos 

Eram  requer  sa  costume  son  us 


n.  19 

r     10 

,  4 

r    26 

,  33 
n  36 
,  49 
.  8 
,  9 

r    22 

«  30 

,  47 
,  40 
.  28 
.  32 
,  41 

r    43 

,  92 


IL  CANZONIERE   PROVENZALE   J 


593 


INDICE  DELLE  COBLAS  ESPARSAS 

SECONDO    LE    RIME  ') 


Qui  uol  auer  pretz  uem/    . 

Sei  que  son  petit  poder  fai 

Nuilha  ren  que  mester  mata 

En  hom  plus  uè  ni  asseta . 

Ses  prometre  e  ses  pam 

Luecx  es  com  chan  ecom  sen  \ais     . 

Ges  li  poder  nos  parton  per  engal     . 

Bella  dompna  adieu  uos  coma» 

Planhen  men  uauc  e  sospira»»     . 

Dieus  uos  gart  dona  de  pretz  sobeira«« 

A  drut  de  bona  donha  t«H^ 

Mai  tortz  es  follia  et  enùtnssa   . 

Si  tot  no  mai  alcor  gran  alegranssa 

Mas  dompna  sap  ioi  far  semblar  pezawssa 

Ar  nei  tot  quant  es  uerdeiar     . 

Bella  dompna  ges  nom  par 

Sabetz  perque  deu  dorapnamar 

Aissel  que  uol  tot  iorn  esser  sena^^ 

De  totautra  pudor  ere 

A  tot  mon  amie  clam  merce 

Molt  menueia  duna  gen  pautonetVa 

Dona  abun  baiszar  solamen 

Dome  fol  edesconoisse» 

A  uos  uolgra  mostrar  lo  mal  quieu 

Totz  hom  deu  conoisser  eszentendre 

Molt  era  dous  eplazens 

E  paratges  e  bos  sens 

Pero  homs  flacx  maldizewa 

Dels  plazers  plaze/is     . 

Als  bel  capteneme«s    . 

Qui  ues  bon  rei  si  -prezenta 

E  silh  ment  noilh  sobremento 


n.  16 
.  19 

r    33 

,  34 
,  35 
,  12 

.  14 
r  47 
,  48 
.  11 
,  58 
.  13 
.  31 
.  61 
.  8 
.  46 
,  52 
.  20 
.  72 
,  73 
„  7 
.  9 
.  17 
,  49 

r  70 

,  28 
.  29 
,  30 
,  37 
.  39 
,  68 
.  69 


*)  Do  l'elenco  delle  coblas  ad  una  ad  una,  come  si  trjavano  nel  ms., 
senza  aggruppare  sotto  un  sol  capoverso  o  indicare  altrimenti  quelle 
che  sono  strofi  di  canzoni.  Si  veda  per  questo  Stengel  e  Grober,  1.  e. 


594 


P.    SAVJ-LOPEZ 


Quiin  lo  pel  del  cui  li  uenta 

Fraìre  totz  lo  sen  elsaber  .        .      . 

De  bien  aut  pot  hom  bas  quazer 

Non  sai  per  quals  mesticrs 

Greus  mes  lesten^rs    . 

Ma  dompna  peitz  de  raort  es     . 

Si  ia  amors  autre  prò  non  tengues 

Si  bem  soi  forfaitz  ni  mespr^'s  . 

Deuirai  uos  enmon  lati 

Desuiat  ha  son  quamt 

Lo  moliniers  iutgal  vaoli     . 

Eras  naisson  li  poilhi 

Atretan  leu  pot  hom  abcortezài 

Donai  gensers  qua  sia 

Com  durarai  hieu  que  non  puesc  m 

Eu  non  uoilh  gas  adonas  consent/r 

Bona  dona  nos  deu  damar  gequir 

Ha  dieus  equem  uolon  dir 

Eras  no  sai  enuas  qual  part  me  nir 

Ges  de  dirnar  non  fora  trop  mat*s 

Vilans  die  ques  da  sen  issitz 

Dos  gratz  conquer  hom  abun  do 

Lo  sen  uolgra  de  salamo    . 

A  me  non  ual  re  cobles  ni  arteszo 

Lalauzeta  el  rossinhoZ 

E  quar  per  sa  mercem  col 

Las  queras  planh  so  quem  dol  . 

Ab  fals  digz  et  abtermes  \oncx  . 

Dona  dieus  sai  uos  euostra  ualo?' 

Mas  qui  uol  enterra  lauszor 

A  uos  qua  tenh  per  done  per  senbo, 

Pos  noni  puesc  uirar  ailhors 

Dona  uostra  ualens  ualors 

Un  plait  fan  dompnas  ques  folors 

Fis  gaugz  entiers  plazans  eamoros 

Folla  dompna  penssa  as  cuda     . 

E  pos  dompnas  deissendurfre 

Si  ues  home  ano  saps  cui . 

Tot  fis  amicx  ha  gran  deszauentwra 

Dompna  uolgrieu  que  esgardes  drechwrrt 

Drutz  que  souen  si  rancura 

Dona  que  de  conhat  fai  driit 


NOTIZIE  INTORNO  A  GALEGA  PANZANO 

TROVATORE    GENOVESE 

E  ALLA  SUA  FAMIGLIA  (1248-1313). 


Tutti  i  genealogisti  genovesi  sono  concordi  nell'opinione 
che  la  famiglia  Panzana  tragga  le  prime  origini  da  Sestri- 
Ponente. 

I  Panzane  però  non  tardarono  a  conquistare  in  Genova 
i  principali  onori  ;  infatti  Guglielmo  Panzane  nel  1197  ap- 
parisce di  già  tra  i  consoli  delle  quattro  Compagne  verso 
il  Borgo  ^).  I  suoi  figli,  Bonifacio,  Giacomo,  Giovanni  e 
Alinerio  nel  1229  edificarono  la  chiesa  di  S.  Francesco  a 
Sestri-Ponente,  del  che  facea  fede  la  lapide  esistente  sulla 
porta  laterale  esterna  di  detta  chiesa  -).  Da  Giacomo  Pan- 
zane nacquero  tre  figli,  Antonio,  Corrado  e  Caleca. 

Federico  Federici,  che  scriveva  nella  metà  del  secolo  XVII, 
dandoci  l'onorevole  stato  di  servizio  dei  predetti  Alinerio 
(nel  1231  inviato  a  Ravenna  ambasciatore  a  Federico  II) 
e  Bonifacio,  zii  del  nostro  Caleca,  ci  fa  sapere  che  Gia- 
como Panzane  fu  consigliere  del  Comune  negli  anni  1228- 
29-33-42,  che  suo  figlio  Caleca  fu  consigliere  nel  1252  e 
anziano  nel  1259,  che  Corrado,  altro  figlio,  ebbe  la  stessa 

')  A.  Olivieri,  Serie  dei  Consoli  del  Comune  di  Genova,  in  "  Atti 
della,  Soc.  Lig.  di  Storia  Patria  ,,  Voi.  I,  pag.  401. 

^)  M.  Remondini,  Iscrizioni  Medio-Evali  della  Liguria,  in  "  Atti  della 
Soc.  Lig.  di  Storia  Patria  „,  Voi.  XII,  Parte  I,  pag.  76. 


596  ARTURO    FERRETTO 

carica  nel  12(52,  fu  provvisore  nel  1270  al  re  d'Armenia 
e  nel  1301  ambasciatore  al  re  di  Francia.  Fa  egli  anche 
menzione  sotto  il  1304  di  Giacomo  Panzane,  figlio  di 
Caleca  ^). 

Un  atto  interessante,  sfuggito  alle  pazienti  ricerche  del 
compianto  Prof.  Tommaso  Belgrano,  il  benemerito  racco- 
glitore dei  Documenti  inediti  riguardanti  le  due  Crociate  di 
S.  Ludovico  IX,  Re  di  Francia  2),  è  una  quitanza,  rilasciata 
il  20  dicembre  del  1250  da  Ansaldino  Lusio  a  Giacomo 
Panzane.'  Questi  consegnava  al  Lusio  lire  duemiìaottocento- 
venti  di  genovini  e  riceveva  contemporaneamente  la  facoltà 
di  riscuotere  una  partita  di  lire  millecinquecentoquaranta 
di  tornesi,  dovutigli  dal  re  di  Francia  ^). 

Dei  figli  di  Giacomo  Panzane  primo  a  morire  fu  An- 
tonio. Il  30  settembre  del  1253  Giacomo  Panzane  riceveva 
lire  quattrocentocinquanta  di  dote  per  Aurietta,  figlia  di 
Federico  Grillo,  che  dava  la  mano  di  sposa  al  figliuol  di 
lui  Antonio  ^),  e  il  18  gennaio  del  1262  lo  stesso  Giacomo 
vendeva  per  lire  dieci  al  notaio  Guglielmo  de  Vegio  uno 
schiavo  olivastro,  chiamato  Giuseppe,  e  già  appartenente 
al  defunto  Antonio,  suo  figliuolo  ^). 

Il  dottor  Giulio  Bertoni  nel  suo  scritto  :  Studi  e  ricerche 
sui  trovatori  minori  di  Genova  ^),  affacciava  l'ipotesi  che  il 
rimatore  Galega  Panza  del  manoscritto  provenzale  Cam- 
pori  fosse  genovese  ;  e  il  dottor  Giuseppe  Flechia  poco 
tempo  dopo  dimostrava  con  documenti  alla  mano  felici  le 


^)  Abecedario  delle  Famiglie  Nobili,  pag.  80,  ms.  alla  Bibl.  dei  Mis- 
sionarii  Urbani  in  Genova. 

2)  Genova,  1859,  Tip.  Beuf  e  Rossi. 

^)  Atti  del  Nof.  Gio.  Enrico  de  Porta,  Registro  I,  e.  199,  Archivio  di 
Stato  in  Genova. 

'■)  Atti  del  Not.  Bartolomeo  de  Fornari,  Reg.  IV,  e.  228  ^°,  Archivio 
di  Stato  in  Genova. 

^)  Atti  del  Xot.  Giberto  da  Nervi,  Reg.  II,  e.  192  ^0,  Archivio  di  Stato 
in  Genova. 

^)  Giorn.  Stor.  della  Letter.  Ital,  1900,  Voi.  XXXVI,  pag.  23,  nota  2. 


NOTIZIE    INTORNO    A    GALEGA    PANZANO    E    ALLA    SUA    FAMIGLIA  597 

induzioni  del  Bertoni.  Che  egli,  oltre  all'autorità  di  parecchi 
genealogisti  che  affermano  essere  stato  il  Caleca  Panzano 
"  anziano  nel  1259  e  capitano  di  sua  nave  quale  prese  una 
nave  de'  Pisani  „,  allegava  tre  rogiti  notarili  del  12  set- 
tembre 1259  (e  noi  stessi  gli  prestammo  aiuto  nel  colla- 
zionarli), dai  quali  risulta  che  i  rappresentanti  della  celebre 
società  dei  Bonsignori  di  Siena  toglievano  in  prestito  da 
Caleca  Panzano  una  partita  di  genovini,  obbligandosi  di  re- 
stituirli poscia  in  altrettanti  provini  alla  fiera  di  S.  Ajoul 
di  Provins,  e  per  la  riscossione  della  detta  moneta,  cor- 
rente in  Sciampagna,  il  Panzano  delegava  i  procuratori 
Antonio  Pasio  e  Guglielmo  Bocuccio  ^). 

I  nuovi  documenti  da  me  testé  rintracciati  nei  registri 
notarili  del  R.  Archivio  di  Stato  in  Genova  gittano  un  po' 
più  di  luce  su  la  figura  del  trovatore  ghibellino,  continua- 
mente inteso  alle  operazioni  commerciali,  secondo  le  buone 
tradizioni  del  popolo  e  dei  nobili  genovesi. 

II  6  luglio  del  1248  Calecus  panzanus,  forse  diciottenne, 
vale  a  dire  in  età  legale  per  assistere  a  pubblici  atti,  nella 
casa  paterna  è  presente  a  due  atti,  rogati,  quando  ferve- 
vano le  lotte  tra  Genova  e  Federico  II,  e  nulla  di  piìi  fa- 
cile che  l'Adalasia  Panzano,  ivi  nominata,  sia  la  madre 
del  nostro  Caleca  ^). 

L'atto  dell'  8  ottobre  1252  ci  fa  conoscere  il  commercio 
di  tele  e  panni,  esercitato  da  Caleca  '■^)  ;  e  della  società 
commerciale  era  pure  rappresentante  il  fratello  Corrado, 
il  quale  per  atto  del  7  giugno  1251,  dicendosi  figlio  eman- 
cipato di  Giacomo  Panzano,  riceveva  da  Giacomo  de  Porta 
lire  cinquantanove  in  accomandita,  che  prometteva  di  por- 
tare a  Buzea,  presso  Tunisi  •'). 


*)  Giorn.  Stor.  della  Letter.  Ital,  voi.  XXXIX,  pag.  180. 
-)  Cfr    gli  allegati  no.  I  e  li. 
')  Cfr.  l'allegato  no.  III. 

*)  Atti  del  Not.  Bartolomeo  de  Fornari,  Reg.  II,  e.  170,  Archivio  di 
Stato  in  Genova. 


598  ARTURO    FERRETTO 

La  società  dei  fratelli  Caleca  e  Corrado  Panzane  eccelle 
sulle  altre.  11  2  maggio  del  1253  il  primo  riceve  da  Gio- 
vanni Ascherio  mia  quantità  di  genovini  che  negozierà 
"  per  riperiam  Syrie  „  ^),  e  lo  stesso  giorno  il  secondo  ne 
riceveva  altra  quantità,  che  dichiarava  di  portare  pure  in 
Siria,  partendo  da  Genova  sulla  nave  chiamata  Gilieta  ^). 

Il  Belgrano  nell'opera  citata  pubblica  due  documenti, 
concernenti  il  nostro  trovatore.  Il  24  novembre  del  1253 
Caleca  Panzanus  accusa  ricevuta  di  lire  millecinquanta  di 
genovini  a  Giovanni  Pagano  da  Piacenza,  e  ne  promette 
il  cambio  di  lire  settecento  tornesi  in  Parigi,  qualora  però 
avesse  ricevuta  detta  somma  dai  nunzi  del  re  di  Francia. 
Inoltre  il  Pagano,  a  nome  proprio  e  de'  suoi  consorti,  con- 
fessava al  predetto  Caleca  il  debito  delle  lire  millecinquanta 
pel  cambio  in  discorso  ^).  I  documenti  citati  ci  fanno  quindi 
conoscere  chiaramente  la  degenza  del  trovatore  in  Oriente 
e  in  Parigi  e  il  documento  del  5  dicembre  1253  ^)  la  de- 
genza alla  fiera  di  Lagny-sur-Marne,  la  quale  aveva  luogo 
al  2  gennaio  ^). 

I  numerosi  atti  che  vanno  dal  16  ottobre  al  19  ottobre 
1262  •')  non  ci  rivelano  chiaramente  a  qual  punto  si  dirigeva 
il  Panzane  colle  somme  che  riceveva  in  accomandita;  ma 
l'atto  del  20  dicembre  dello  stesso  anno  ^)  ci  pone  in  grado 
di  affermare  con  sicurezza  che  egli  portavasi  a  Napoli. 

II  25  giugno  del  1267  Calecha  Panzanus  trovasi  a  Ge- 
nova ^)  e  dopo  alcuni  giorni,  al  l''  di  luglio,  il  fratello  Cor- 


')  Cfr.  l'allegato  no.  IV. 

-)  Aiti  del  Kof.  Bartolomeo  de  Fornari,  Reg.  IV,  e.  79  ^'°,  Archivio 
di  Stato  in  Genova. 

^)  Documenti  inediti  riguardanti  le  due  Crociate,  etc,  pagg.  147-149. 

')  Cfr.  l'allegato  no.  V. 

^)  Les  Lomhards  en  France  et  à  Paris  par  C.  Piton,  Paris  1892, 
pag.  30. 

")  Cfr.  gli  allegati  dal  no.  VII  al  no.  XVII. 

')  Cfr.  l'allegato  no.  XVIII. 

»)  Cfr.  l'allegato  no.  XIX. 


NOTIZIE    INTORNO    A    GALEGA    PANZANO    E    ALLA    SUA    KAMIGLIA         599 

rado  riceveva  in  accomandita  da  Rubaldo  Bollerato  de  Ro- 
dultb  lire  sessantuiia,  che  prometteva  di  portare  in  Sicilia  ^)  ; 
l'indomani  un  avvenimento  allietava  la  famiglia  ;  giacché 
Benedetta,  figlia  di  Corrado  Panzane,  sposava  Oberto  Basso, 
portandogli  lire  trecento  di  dote  -),  somma  non  ispregevole 
per  quei  tempi. 

Siccome  i  fratelli  orano  sempre  in  società,  null^,  di  piìi  pro- 
babile che  il  Caleca  si  recasse  pure  in  Sicilia, 

È  poi  fuor  di  dubbio  che  il  componimento  di  Caleca  Pan- 
zano  tramandatoci  dal  codice  Campori,  pubblicato  in  parte 
diplomaticamente  dal  Bertoni  ^),  e  nel  quale  parla  di  Corradino 
di  Svevia  qui  reii  j-jer  castiar  los  fals pastors,  ed  eccita  l'in- 
fante Enrico  di  Castiglia  contro  Carlo  d'Anjou,  fu  appunto 
composto  verso  la  fine  del  1267.  L'infante  Enrico  aveva  man- 
dato in  Genova  il  suo  ambasciatore  Presimene,  il  quale  il 
24  settembre  del  1267  restituiva  mille  bizanti,  che  detto 
Enrico  aveva  tolto  a  mutuo  da  Guidettino  Mallone  ■^). 

Corradino  avea  in  Genova  non  pochi  fautori,  tra  i  quali 
doveano  pur  trovarsi  i  Panzane,  e,  quando  il  29  marzo  del 
1268  s'imbarcò  presso  Finale  sulle  galee  pisane  per  andare 
a  Pisa,  gettate  le  ancore  nel  seno  di  Portofino,  magnates 
Janae  scilicet  de  SpinuUs  de  Aiiria  de  Castello  et  alzi  venerunt 
ad  eum  loquentes  sibi  et  faciendo  sibi  honorem  sicut  decuit  ^). 
Si  noti  che  in  detto  anno  erano  consiglieri  del  Comune  i  due 
fratelli  Caleca  e  Corrado  Panzano  '').  Questi  l'S  giugno  del 
1268,  forse  anche  a  nome  di  Caleca,  dava  a  nolo  agli  amba- 


^)  Atti  del  Not.  Bartolomeo  de  Fornari,  Reg.  V,  Parte  I,  e.  154, 
Archivio  di  Stato  in  Genova. 

-)  Atti  del  Not.  Bartolomeo  de  Fornari,  Reg.  V,  Parte  I,  e.  154, 
Archivio  di  Stato  in  Genova. 

^)  In  Studi  di  filologia  romanza,  fase.  XXIII,  pagg.  1  e  segg. 

*)  Atti  del  Not.  Guglielmo  de  S.  Georgia,  Reg.  I,  e.  246,  Archivio  di 
Stato  in  Genova. 

^)  Cfr.  Giuseppe  del  Giddice,  Codice  Diplomatico  del  Regno  di  Carlo  I 
e  II  d'Angiò,  Voi.  I,  pag.  145  nota. 

"*)  Belgrano,  op.  cit.,  pag.  149  nota  e  pag.  259. 


600  ARTURO   FERRETTO 

sciatori  del  re  di  Francia  la  nave,  chiamata  Bonaventura, 
ch'era  nello  scaro  di  Varazze  ^). 

Dall'unione  di  Caleca  Panzane  con  una  Giovanna,  di  cui 
non  ci  è  noto  il  casato,  nacquero  due  figliuoli,  Gaspare,  che 
morì  senza  eredi,  e  Giacomino,  al  quale  fu  imposto  il  nome 
dell'avo  -).  Caleca  visse  più  che  ottuagenario,  trovandosi 
menzione  di  lui  ancora  nel  1313.  Ma  la  longevità  non  era  il 
primo  caso  di  famiglia,  giacché  Corrado  Panzane  aveva  fatto 
testamento  il  23  maggio  del  1307  ^). 

Tra  i  figli  di  Corrado  merita  special  ricordo  quel  Baliano, 
del  quale  il  nostro  Caleca  il  21  aprile  del  1277  era  procu- 
ratore •^).  Il  Baliano  facea  testamento  il  14  aprile  del  1312. 
Sceglieva  la  sua  sepoltura  nella  chiesa  di  S.  Francesco  di 
Sestri,  fondata  dai  suoi  antenati,  ne  dimenticava  un  per- 
petuo anniversario  nella  chiesa  di  S.  Pietro  della  Porta.  La- 
sciava un  legato  a  Pellegrina  figlia  del  fratello  suo  defunto 
Manuele  e  istituiva  eredi  le  sorelle  Benedetta,  vedova  di 
Oberto  Basso,  abitante  super  ripam,  e  Giulia,  chiamata  pure 
Egidia,  monaca  ^). 

Le  case  di  Caleca  Panzane  erano  nella  Ripa,  poco  lungi 
dal  mercato  vecchio  di  Banchi,  sotto  la  giurisdizione  par- 
rocchiale della  vetusta  chiesa  di  S,  Pietro  della  Porta.  Il  P 
febbraio  del  1267  Giacomo  Panzane,  padre  di  Caleca,  dà  in 
locazione  a  Lazaro  de  Ripa,  drappiere,  una  bottega,  p.osta  in 
Ripa  que  est  in  angulo  caruhii  '^)  ;  il  documento  del  21  aprile 
1277  ci  parla  della  casa  di  Caleca,  posta  in  carruhio  recto  in 


^)  Cfr.  Belgrano,  op.  cit.,  pag.  311. 

2)  Cfr.  rallegato  no.  XXVII. 

3)  Cfr.  l'allegato  no.  XXVIII. 
')  Cfr.  l'allegato  no.  XXII. 

^)  Atti  del  Not.  Ambrosio  de  Rapallo,  Reg.  IV,  e.  4,  Archivio  di 
Stato  in  Genova. 

*)  Atti  del  Not.  Giberto  da  Nervi,  Reg.  II,  e.  203,  Archivio  di 
Stato  in  Genova. 


NOTIZIE   INTORNO   A   GALEGA    PANZANO   E   ALLA   SUA   FAMIGLIA         601 

mercato  veteri  ^),  e  l'altro  del  15  marzo  1313  di  bel  nuovo 
della  casa  posta  in  Bipa  -). 

* 
*  * 

Altri  atti  di  minore  importanza  si  riferiscono  al  nostro  tro- 
vatore e  alla  sua  famiglia.  Il  24  novembre  del  1246,  Giacomo 
Panzane  appar  tutore  dei  figli  del  qm,  Alinerio  suo  fratello  e 
possessore  di  terre  e  canneti  in  Sestri,  nel  luogo  detto  ad  po- 
dium  ^):  il  13  luglio  1251  è  ex  odo  discretis  Comunis  lamie  '^)  ; 
il  5  dicembre  1262  consegna  agli  infermi  di  S.  Lazaro  al- 
cune somme,  lasciate  in  testamento  dal  qm.  Bonifacio,  suo 
fratello  '").  Corrado  Panzane  l'S  agosto  del  1282  elegge  pro- 
curatori il  genero  Oberto  Basso  e  la  moglie  Andriola  *'); 
e  il  26  agosto  del  1287  è  podestà  di  Bonifacio  ").  Caleca 
Panzane  il  13  agosto  1271  vende  per  lire  centodue  a  Fran- 
cesco Longo,  drappiere,  dodici  pezze  di  panno  di  Provin  ^), 
e  il  7  marzo  1288  costituisce  una  società  commerciale  con 
Gianetto  e  Antonino,  figli  del  qm.  Ballano  Panzane  ^). 

Genova,  gingilo  1902. 

Arturo  Ferretto. 


')  Cfr.  l'allegato  no.  XXII. 

2)  Cfr.  l'allegato  no.  XXVIII. 

■'')  Atti  di  Notavi  ignoti,  Registro  II,  Archivio  di  Stato  in  Genova. 

*)  Atti  del  Not.  Giovanni  Vegio,  Reg.  I.  Parte  I,  e.  94  ^o,  Archivio  di 
Stato  in  Genova. 

')  Atti  di  Notari  ignoti,  Reg.  DCXXI,  Archivio  di  Stato  in  Genova. 

*)  Atti  del  Notaio  Simone  de  Albario,  Reg.  I,  Parte  II,  e.  28,  Ar- 
chivio di  Stato  in  Genova. 

')  Atti  del  Not.  Nicolò  de  Porta,  Reg.  1,  Parte  II,  e.  97  ^o,  Archivio  di 
Stato  in  Genova. 

^)  Atti  del  Not.  Vivaldo  de  Sarzano,  Reg.  IV,  e.  224,  Archivio  di 
Stato  in  Genova. 

")  Atti  del  Not.  Antonino  de  Quarto,  Reg.  I,  e.  109  ''^,  Archivio  di 
Stato  in  Genova. 

Studj  di  filologia  romanza,  IX.  38 


602  ARTURO    KERRETTO 


^LJLEOATI 


I.  1248  —  6  Luglio. 

{Atti  del  Not.  Palodino  de  Sexto,  Reg.  II,  e.  29" »)  (1). 

Ego  Marinus  sparella  filius  qm.  petri  sparelle  et  pascha  j scalla 
facio.  constituo.  et  ordiao  meum  certum  nuncium.  et  loco  meo  pono. 
fratrem  luchum  embronum  Janue.  ordine  predicatorum.  ad  recipien- 
dum  et  petendum  prò  me  et  nomine  meo.  uncias.  septem  auri  in 
angustalibus  a  pandulfo  sparella  fratre  meo.  qui  est  in  galea  domini 
Alexandrini  lanuarii  prò  redencione  mea.  et  quibus  liabitis  et  receptis. 
Rogo  vos  dominum  luchum  quatinus  domine  Adalasie.  de  panzanis 
lanue  mittatis  in  scriptis  publicis  notarli  vel  in  vestris  sigillo  vestro 
munitis.  prò  quibus.  ipsa  habeat  prò  firmo  quod  diete  uncie  VII  sint 
penes  vos.  prò  redemptione  mea  et  inde  dieta  domina  Adalaxia.  hoc 
sciverit  facere  me  de  carceribus  libei-ari.  Insuper  rogo  te  fratrem 
meum  predictum  ut  viso  hoc  instrumento  dictas  VII  uncias  dicto  do- 
mino fratri  lucho  debeas  dare  sine  mora,  postulando  a  dicto  domino 
fratre  lucho  ut  faciat  fieri  diete  domine  Adalasie  instrumentum  pu- 
blicum  vel  scripturam  sigillo  prioris  fratrum  predicatorum  roboratam. 
prò  quibus.  ipsa  domina  Adalasia.  certioretur  quod  ipse  frater.  luchas 
receperit  a  te  dictas  uncias.  prò  redencione  mea.  quia  cum  citius 
dieta  domina  A.  ipsas  litteras  habuerit  faciet  me  liberari  et  ut  his 
omnibus  fidem  plenam  adhibeatis  feci  manu  publici  notarli  roborari. 
Testes  vocati.  lacobus  panzanus.  Bonifacius  de  murta.  et  Calecus  pan- 
zanus.  Actum  lanue  in  domo  dicti  lacobi.  MCCXLVIII.  Indicione  quinta 
die  VI.  lulii  bora  completorii. 


(1)  I  Registri  dei  Notari,  citati  nei  ventotto  documenti  che   ripor- 
tiamo, trovansi  tutti  all'Archivio  di  Stato. 


NOTIZIE    INTORNO    A   GALEGA    PANZANO    E    ALLA    SUA    FAMIGLIA         603 

IL  1248  —  6  Luglio. 

{Atti  e.  s.,    e.  29  "0). 

Venerabili  in  domino  fratri  sacro  sancte  religionis  predicatorum 
ordinis  domino  lucho.  embrono.  lanue.  Adalasia  de  panzanis  lanuensis 
cum  speciali  dilectione  in  salutis  auctore  salutacionem.  Quando  bo- 
norum  hominum  racio.  iubet  prò  carceratis  tractare  liberacionem.  Id 
circo  supplico  vestre  fraternitati  que  eciam  non  rogata  prò  deo  semper 
cogitai  spiritualia  misericorditer  operare,  quatinus  per  galeam  Ale- 
sandrini  lanuarii.  inquirere  procuretis  et  amicos  carceratorum  qui 
sunt  lanue.  ut  ipsi  prò  suis  incarceratis  debeant  penes  vos  deponere 
redemptionem.  singulorum  incarceratorum.  et  quidcquid  receperitis 
et  prò  quibus.  mihi  in  publico  instrumento  scripto  manu  publici  no- 
tarii.  significetis  et  ego  cum  citius  hoc  prò  firmo  habebo.  faciam  li- 
berari  illos  prò  quibus.  receperitis  redemptiones.  preterea  mando  vobis 
universis  hominibus  existentibus  in  galea  Alexandrini  de  lanuario 
quatinus.  viso  presente  instrumento,  redemptionis  vestrorum  amicorum 
et  propinquorum  incarceratorum  lanue.  predicto  fratri  lucho.  secu- 
riter  dare  debeatis  et  ego  in  anima  mea  promitto.  vobis.  quod  in  con- 
tinenti quod  ego  huiusmodi  cartas  sigillatas  sigillo  fratrum  predica- 
torum vel  publicum  instrumentum  publici  notarii  a  dicto  fratre  lucho. 
quod  ipso  a  nobis  pi'edictas  redemptiones  receperit  prefatos  incarce- 
ratos  prò  quibus  redemptionem.  solveritis  eidem  fratri  lucho.  faciam 
de  carceribus  liberari.  ut  his  omnibus  fidem  plenam  habere  debue- 
ritis  manu  publici  notarii  feci  scribi  et  roborari.  Testes  vocati  lacobus 
panzanus.  Bonifacius  de  murta  et  Calecus  panzanus.  Actum  lanue.  in 
domo  dicti  lacobi.  MCC  XLVIII  Indicione  quinta  die  VI  lulii  bora 
completorii. 

III.  1252  —  8  Ottobre. 

{Atti  del  Not.  Bartolomeo  de  Fornari,  Reg.  I,  Parte  I,  e.  48). 

Nos  Symon  malocellus  et  lohannes  de  guisulfo.  confiteor  dare  de- 
bere tibi  Guillielmo  de  sancto  ginesio.  libras  Mille  ducentas  sexa- 
ginta  lanue  videlicet  ego  Symon  libras  nongentas  sexaginta.  et  ego 
lohannes  libras  tresceutas  que  restant  tibi  ad  habendum  et  recipien- 
dum  de  pannis  et  telis  que  fuerunt  de  ratione  Caleche  panzani  quas 
a  te  emimus  et  habuimus  renunciantes  exceptioni  non  habitorum  et 
non  traditorum  pannorum  et  telarum.  quas  libras  Mille  ducentas  se- 
xaginta. videlicet.  ego  Symon  libras  nongentas  sexaginta  et  ego 
lohannes  libras  trecentas  tibi  vel  tuo  certo  misso  per  nos  vel  no- 
strum missum  dare  et  solvere  promittimus  a  festo  sancti  Andree  pro- 
xime  venturo  citra  in  pecunia  numerata,  ad  tuam  voluntatem.    alio- 


604  ARTURO   FERRETTO 

quin  penam  dupli  quisque  nostrum  prò  rata  sui  debiti,  tibi  stipulanti 
promittimus.  prò  pena  vero  et  sorte  omnia  bona  nostra  habita  et 
habenda  tibi  pignori  obligamus.  et  omnes  expensas  et  missiones  quas 
a  dicto  termino  in  antea  feceris  prò  dicto  debito  habendo  vel  exi- 
gendo  in  integrum  quisque  nostrum  prò  rata  sui  debiti  tibi  restituere 
promittimus  credendo  inde  tibi  tuo  solo  verbo  sine  testibus  et  iura- 
mento.  Actum  lanue  in  porticu  domus  Carboni  malocelli.  M.  CCLII. 
Indicione  X.  die  octava  octubris  inter  nonam  et  vesperas.  testes  Fa- 
ravelus  cigala.  obertus  cigala.  et  lanfrancus  cibo. 

IV.  1253  —  2  Maggio. 
(Atti  e.  s.,  Reg.  IV,  e.  76  "o). 

Ego  Caleca  panzanus  confiteor  me  accepisse  et  habuisse  a  te  lo- 
hanne  Ascherio  libras  triginta  unam  et  solidos  duodecim  lanue  im- 
plicatas  in  mea  comuni  ratione  renuncians  exceptioni  non  numerate 
pecunie  quas  ex  quo  de  portu  lanue  exiero  quo  deus  mihi  melius 
administraverit  causa  negociandi  portare  debeo.  babens  potestatem 
mittcndi  ante  me  et  post  me  et  per  riperiam  Syrie  quam  partem  vo- 
luero  cum  testibus  et  faciendi  sicut  ex  aliis  rebus  quas  porto,  cum 
quibus  comuniter  expendere  debeo  et  lucrari  per  libram. 

Testes  ugetus  lercarius  et  petrinus  lercarius.  Actum  lanue  ante 
domum  canonicorum  sancti  laurentii  qua  habitat  Guillelmus  de  valle 
speciarius.  M.CC.LIII.  Indicione  X.  die  secunda  martii  inter  terciam 
et  nonam. 

V.  1253  —  5  Dicembre. 
{Atti  e.  s.,    e.  267  "o). 

Ego  Caleca  panzanus  filius  emancipatus  lacobi  panzani  confiteor  me 
accepisse  et  habuisse  a  te  Symone  de  caritate  tot  denarios  lanue 
renuncians  exceptioni  non  acceptorum  et  non  traditorum  ianuinorum 
et  omni  juri  prò  quibus  nomine  cambii  tibi  vel  tuo  certo  misso  dare 
et  solvere  promitto  libras  quingentas  provenorum  in  proximis  nun- 
dinis  lagneti  venturis  vel  eo  tempore  quo  diete  nundine  esse  debent. 
Actum  lanue  ante  domum  canonicorum  sancti  Laurentii  qua  habitat 
Guillelmus  de  valle  speciarius.  M.CC.LIII.  Indicione  XI.  die  V.  de- 
cembris  circa  terciam.  Testes  Nicolosus  grillus  filius  Amici  grilli  et 
Griletus  grillus  frater  eius. 

VI.  1259  —  13  Settembre. 

{Atti  del  Noi.  Giberto  da  Nervi,  Reg.  II,  e.  20  "">). 

Nicoletto  de  Marabotto  dichiara  a  Guglielmo  Farmagno  che  Frexone 
Malocello  gli  consegnò  L.  9  in  accomandita  per  negoziarle    fuori  il 


NOTIZIE   INTORNO   A   CAI.ECA    PANZANO   E    ALLA   SUA    FAMIGLIA         605 

porto  di  Genova Actum  lanue    in    banco    quod    tenere    consuevit 

Guillelmus  leccacorvus  quondam  Malocellorum.  Anno  domini  Nativi- 
tatis  M.CC.LVIIII.  Indicione  prima,  die  XIII  septembris  inter  primam 
et  terciam.  testes  Guillelmus  censarius  de  sancto  georgio  et  Caleca 
panzanus. 

VII.  1262  —  16  Ottobre. 

{Atti  e.  s.,  e.  116). 

Ego  Caleca  panzamis  confiteor  tibi  Baliano  filio  panzani  panzani 
hanc  confessionem  recipienti  nomine  dicti  patris  tui  me  ab  eo  ha- 
buisse  et  recepisse  in  accomendacione  libras  viginti  quinque  lanue 
implicatas  comuniter  in  mea  comuni  implicita  renunciaus  exceptioni 
non  numerate  et  non  recepte  pecunie  et  omni  juri  quas  portare  debeo 
gracia  mercandi  quo  deus  mihi  melius  administrabit  ex  quo  de  portu 
lanue  esiero  et  ex  eis  comuniter  expendere  et  lucrari  per  libram  ad 
quartam  partem  proficui  sicut  ex  alia  mea  comuni  implicita  quam 
portabo  habens  potestatem  mittendi  ex  dieta  accomendacione  dicto 
patri  tuo  ante  me  et  post  me  dimittendi  quam  partem  voluero  cum 
carta  vel  testibus.  in  reditu  vero  lanue  capitale  et  lucrum  diete  acco- 
mendacionis  in  potestate  dicti  patris  tui  vel  eius  nuncii  ponere  et 
consignare  pi'omitto  tibi  quarta  parte  lucri  inde  michi  retenta.  Alio- 
quin  penam  dupli  diete  accomendacionis  tibi  stipulanti  promitto  prò 
qua  pena  et  ad  sic  observandum  omnia  bona  mea  habita  et  habenda 
tipi  pignori  obligo.  Actum  lanue  juxta  domum  qua  habitat  Rogerius 
de  Bennama.  M.CC.LXII.  die  XVI  octobris  inter  nonam  et  vesperas 
Indicione  V.  testes  faciolus  de  sancto  Ginesio  et  Enricus  teotonicus 
censarius. 

Vili.  1262  -  19  Ottobre. 

[Atti  e.   s.,  e.   llf)<'o). 

Ego  Caleca  panzanus  confiteor  me  habuisse  et  recepisse  in  acco- 
mendacione a  te  Ansaldo  luxio  libras  centum  quadraginta  quatuor  et 
sol.  octo  lanue  que  processerunt  ex  alia  accomendacione  quam  a  te 
habui  et  sunt  implicata  in  mea  comuni  implicita  l'enuncians  excep- 
tioni non  numerate  et  non  recepte  pecunie  et  omni  juri.  Quas  por- 
tare debeo  causa  negociandi  quo  deus  mihi  melius  administrabit  ex 
quo  de  portu  lanue  exivero.  et  ex  eis  comuniter  expendere  et  lucrari 
per  libram  ad  quartam  partem  proficui  sicut  ex  alia  mea  comuni 
implicita  quam  portabo.  habens  potestatem  mittendi  tibi  ex  dieta 
accomendacione  ante  me  et  post  me  dimittendi  quam  partem  voluero 
cum  carta  vel  testibus.  in  reditu  vero  lanue  capitale  et  lucrum  diete 
accomendacionis  in  tua  vel  tui  nuncii  potestate  ponere  et  consignare 


606  ARTURO   FERRETTO 

promitto  quarta  parte  lucri  inde  mihi  retenta.  Alioquin  penam  dupli 
diete  accomendacionis  tibi  stipulanti  promitto.  prò  qua  pena  et  ad 
sic  observandum  omnia  bona  mea  habita  et  habenda  tibi  pignori 
obligo.  Actum  lanue  iuxta  domum  qua  habitat  Rogerius  de  Ben- 
nama.  M.CC.LXII.  die  XVIIII  octobris  inter  nonam  et  vesperas  in- 
dicione  V.  testes  lacobus  de  racione  et  Francischinus  de  sancto 
Ginesio. 

IX.  1262  —  19  Ottobre. 

{Atti  e.  s.,  e.  120). 

Ego  Caleca  panzanus  confiteor  tibi  Anzaldo  luxio  hanc  confessionem 
recipienti  nomine  Mathelini  de  Guisulfo  me  ab  eo  vel  alio  prò  eo 
habuisse  et  recepisse  in  accomandita  libras  triginta  lanue  que  pro- 
cesserunt  ex  alia  accomendacione  et  sunt  implicate  in  mea  comuni 
implicita  renuncians  exceptioni  non  numerate  et  non  i-ecepte  peccunie 
et  omni  juri.  Quas  portare  debeo  causa  negociandi  quo  deus  mihi 
melius  administrabit  ex  quo  de  portu  lanue  exivero  et  ex  eis  comu- 
niter  expendere  et  lucrari  per  libram  ad  quartam  partem  proficui 
sicut  ex  alia  mea  comuni  implicita  quam  portabo.  habens  potestatem 
mittendi  dicto  Mathelino  ex  dieta  accommendacione  ante  me  et  post 
me  dimictendi  quam  partem  voluero  cum  carta  vel  testibus.  in  re- 
ditu  vero  lanue  capitale  et  lucrum  diete  accomendacionis  in  potestate 
dicti  Mathelini  vel  eius  nuncii  ponere  et  consignare  promitto  tibi 
quarta  parte  lucri  inde  mihi  retenta.  Alioquin  penam  dupli  diete  ac- 
comendacionis tibi  stipulanti  promitto,  prò  qua  pena  et  ad  sic  ob- 
servandum omnia  bona  mea  habita  et  habenda  tibi  pignori  obligo. 
Actum  lanue  iuxta  domum  qua  habitat  Rogerius  de  Bennama M.CC.LXII 
die  XVIIII  octobris  inter  nonam  et  vesperas.  Indicione  V.  testes  la- 
cobus de  ratione  et  Francischinus  de  sancto  Ginesio. 

X.  1262  —  19  Ottobre. 

{Atti  e.  s.,  e.  120). 

Ego  Caleca  panzanus  confiteor  tibi  Ansaldo  luxio  hanc  confessionem 
recipienti  nomine  heredum  qm.  lohannis  de  Guisulfo  me  habuisse  et 
recepisse  ab  eis  vel  alio  prò  eis  de  eorum  pecunia  in  accomenda- 
cione libras  triginta  lanue  quas  processerunt  ex  alia  accomendacione 
quam  habui  alias  de  pecunia  dictorum  heredum  et  sunt  implicate 
in  mea  comuni  implicita.  Renuncians  exceptioni  non  numerate  et  non 
recepte  peccunie  et  omni  iuri.  Quas  portare  debeo  causa  negociandi 
quo  deus  mihi  melius  administrabit  ex  quo  de  portu  lanue  exivero 
et  ex  eis  comuniter  expendere  et  lucrari  per  libram  ad  quartam  pro- 
ficui sicut  ex  alia  mea  comuni  implicita  quam  portabo.  habens    pò- 


NOTIZIE   INTORNO    A    GALEGA    FANZANO    E   ALLA   SUA   FAMIGLIA         607 

testatem  mictendi  dictis  heredibus  sive  tibi  prò  eis  ex  dieta  acco- 
mendacione  ante  me  et  post  me  dimictendi  quam  partem  voluero 
eum  carta  vel  testibus  in  reditu  vero  lanuam  capitale  et  lucrum  diete 
accomendacionis  in  potestatcm  dictorum  heredum  vel  eorum  nuncii 
portare  et  consignare  promitto  quarta  parte  lucri  inde  mihi  retenta. 
Alioquin  penam  dupli  diete  accomendacionis  tibi  stipulanti  promitto. 
prò  qua  pena  et  ad  sic  observandum  omnia  bona  mea  habita  et  ha- 
benda  tibi  pignori  obligo.  Actum  lanue  iuxta  domum  quam  habitat 
Rogerius  de  Bennama  M.CC.LXII.  die  XVIIII  octobris  inter  nonam 
et  vesperas.  Indietione  quinta,  testes  lacobus  de  racione  et  franci- 
schinus  de  sancto  Ginesio. 

XI.  1262  —  19  Ottobre. 

{Atti   e.  s.,    e.    120). 

Ego  Caleca  panzanus  facio  eonstituo  et  ordino  Ansaldum  lusium 
et  francischinum  de  sancto  Ginesio  meos  certos  nuncios  et  procura- 
tores  quemlibet  eorum  in  solidum  ita  quod  occupantis  non  sit  melior 
conditio  et  quod  unus  inceperit  alter  perficere  et  exequi  possit  ad 
petendum  exigendum  et  recipiendum  in  judicio  et  extra  omne  id  et 
totum  quod  recipere  debeo  et  debebo  in  futurum  a  quacumque  per- 
sona quacumque  occasione  et  ad  agendum  et  me  defendendum  contra 
quamcun?que  personam.  excipiendum.  opponendum.  replicandum  re- 
spondendum  et  experiendum.  pactum  transactionem  et  concordium 
et  finem  et  remissionem  facieudum  et  ad  iura  mea  cedendum  et  dan- 
dum  et  generaliter  ad  omnia  mea  negocia  gereuda  tractanda  facienda 
et  administranda  que  ego  facere  gerere  et  administrare  possem  si 
presens  essem  et  merita  eausarum  et  negociorum  postulabunt  et  ad 
alium  procuratorem  ad  predieta  eonstituendum  Dans  et  concedens 
dictis  meis  procuratoribus  et  cuilibet  eorum  in  solidum  et  alii  pro- 
curatori ab  eis  vel  altero  eorum  constituto  in  predictis  omnibus  et 
singulis  et  super  omnibus  meis  bonis  fiictis  et  negociis  plenam  li- 
beram  et  generalem  licenciam  potestatem  et  administracionem  pro- 
mittens  tibi  subscripto  notarlo  stipulanti  nomine  et  vice  cuiuscumque 
intererit  me  ratum  et  firmum  perpetuo  habiturum  quidquid  dicti 
procuratores  mei  fecei-int  vel  alter  eorum  vel  alius  procurator  ab  eis 
constitutus  fecerit  in  predictis  et  quolibet  predictorum  et  circa  ea 
sub  ypotheca  et  obligacione  omnium  bonorum  meorum  ita  tamen  et 
hoc  acto  quod  hec  procura  duret  et  vigorem  habeat  usque  tres  annos 
proxime  venturos  et  non  ultra.  Actum  lanue  iuxta  domum  qua  ha- 
bitat Rogerius  de  Bennama.  M.CC.LXII.  die  XVIIII  octubris.  inter 
nonam  et  vesperas  Indicione  V  testes  lacobus  de  racione  et  lacobus 
podisius. 


608  ARTURO    FERRETTO 

XII.  1262  —  19  ottobre. 
{Atti  e.  s.,  e.   120). 

Simone  Calvo  da  Fontanegli  ricove  in  accomandita  da  Valente 
Osbergero  L.  13  e  soldi  7  di  genovini,  die  porta  a    negoziare    fuori 

del  porto  di  Genova Actum  lanue  iuxta  domum  qua   habitat  Ro- 

geronus  de  Bennama.  M.CC.LXII.  die  XVIIII  octubris.  inter  nonam 
et  vesperas  Indicione  V.  testes  Caleca  panzanus  et  lacobus  de  ra- 
tione. 

XIII.  1262  —  19  Ottobre. 
{Atti  e.  s.,  e.  120  "0). 

Ego  Bovarellus  de  Grimaldo  meo  nomine  et  nomine  luce  de  Gri- 
maldo  fratris  mei  confiteor  me  habuisse  et  recepisse  a  te  Caleca  pan- 
zano  plenam  et  integram  solutionem  et  satisfactionem  capitalis  et 
profìcui  omnium  et  singularum  accomendacionum  quas  unquam  a  me 
et  dicto  fratre  meo  sive  ab  aliquo  nostrum  vel  ab  alio  prò  nobis  vel 
aliquo  nostrum  habueris  et  de  omni  eo  et  toto  quod  unquam  mihi 
et  dicto  fratri  meo  sive  mihi  vel  dicto  fratri  meo  debueris  seu  dare 
obligatus  fueris  quacumque  occasione  bine  retro  preterita  utrum  cum 
carta  vel  sine  carta  renuncians  esceptioni  non  reddito  rationis  solu- 
cionis  et  satisfactionis  non  facte  et  omni  juri  unde  promitto  et  con- 
venio  tibi  me  taliter  facturum  et  curaturum  quod  eontra  te  vel  bona 
tua  seu  heredes  tuos  nulla  de  cetero  movebitur  actio  vel  requisitio 
fiet  in  judicio  vel  extra  de  jure  vel  de  facto  a  me  vel  a  dicto  fratre 
meo  sive  ab  aliquo  prò  me  vel  eo  occasione  alicuius  acconiendacionis 
quam  a  me  et  eo  sive  a  me  vel  eo  vel  ab  alio  prò  me  vel  eo  ha- 
bueris usque  hodie  sive  occasione  alicuius  debiti  quod  mihi  et  ei  sive 
mihi  vel  eo  debueris  seu  dare  obligatus  fueris  quacumque  occasione 
bine  retro  preterita  utrum  cum  carta  vel  sine  carta  alioquin  penam 
dupli  de  quanto  et  quociens  contrafieret  tibi  stipulanti  promitto  prò 
qua  pena  et  ad  sic  observandum  omnia  bona  mea  babita  et  habenda 
tibi  pignori  obligo  abrenuncians  iuri  de  principali  et  omni  iuri  et 
omnia  instrumenta  rationes  et  scripturas  que  et  quas  habemus  ego 
et  dictus  lucas  frater  meus  vel  aliquis  nostrum  et  nobis  vel  alicui 
nostrum  competunt  usque  hodie  casso  et  nullius  valoris  esse  jubeo. 
Actum  lanue  sub  volta  domus  Oberti  de  Grimaldo  et  consortum 
MCCLXII.  die  XVIIII  octubris  inter  nonam  et  vesperas  Indicione 
quinta,  testes  Nicolaus  de  Riparolia.  tadeus  de  Grimaldo  et  Iacol)US 
de  ratione. 


NOTIZIE   INTORNO    A    GALEGA    PANZANO    E    ALLA    SLA    FAMIGLIA         609 

XIV.  1262  —  19  Ottobre. 
(Atti  e.  s.,  e.  120  "0). 

Ego  obertus  de  Grimaldo  meo  nomine  et  nepotum  meorum  filiorum 
qm.  Nicolai  de  Grimaldo  fratris  mei  confiteor  me  habuisse  et  rece- 
pisse a  te  caleca  panzano  plenam  et  integram  racionem  solucionem 
et  satisfaetiouem  capitalis  et  proficui  omnium  et  singularum  acco- 
mendacionum  quas  unquam  a  me  et  dictis  nepotibus  meis  sive  a  me 
vai  eis  vel  ab  alio  prò  me  vel  eis  sive  a  dicto  qm.  Nicolao  patre 
eorum  habueris  et  de  omni  debito  et  omni  eo  et  toto  quod  unquam 
mihi  et  dictis  nepotibus  meis  sive  mihi  vel  eis  vel  dicto  qm.  Nicolao 
eorum  patri  debueris  seu  dare  obligatus  fueris  quacumque  occasione 
bine  retro  preterita  utrum  cum  carta  vel  sine  carta  renuncians  ex- 
ceptioni  non  reddite  racionis  solucionis  et  satisfactionis  non  facte  et 
omni  iuri  unde  promitto  et  convenio  tibi  me  taliter  facturum  et  cu- 
raturum  quod  contra  te  vel  bona  tua  seu  heredes  tuos  nulla  de  ce- 
tero  movebitur  actio  vel  requisicio  fiet  in  iudicio  vel  extra  de  iure 
vel  de  facto  a  me  vel  a  dictis  nepotibus  meis  sive  ab  aliqua  per- 
sona prò  me  vel  eis  sive  aliquo  eorum  occasione  alicuius  accomen- 
dacionis  quam  a  me  et  eis  sive  a  me  vel  eis  vel  aliquo  seu  aliquibus 
eorum  vel  ab  alio  prò  me  vel  eis  vel  a  dicto  qm.  Nicolao  patre 
eorum  habueris  usque  hodie  sive  occasione  alicuius  debiti  quod  mihi 
et  eis  sive  mihi  vel  eis  aut  alieni  eorum  vel  dicto  qm.  Nicolao  eorum 
patri  debueris  seu  dare  obligatus  fueris  quacumque  occasione  bine 
retro  preterita  utrum  cum  carta  vel  sine  carta  alioquin  penam  dupli 
de  quanto  et  quociens  contrafieret  tibi  stipulanti  promitto  prò  qua 
pena  et  ad  sic  observandum  omnia  bona  mea  habita  et  habenda  tibi 
pignori  obligo  abrenuncians  iuri  de  principali  et  omni  iuri  et  omnia 
instruraenta  racionis  et  scripturas  que  et  quas  habemus  ego  et  dicti 
nepotes  mei  vel  aliquis  nostrum  et  nobis  vel  alieni  nostrum  compe- 
tunt  contra  te  casso  et  nullius  valoris  esse  jubeo.  Actum  lanue  iuxta 
domum  qua  habitat  Rogerius  de  Bennama  M.CG.LXII.  die  XVIIII  oc- 
tubris  inter  nonam  et  vesperas  Indicione  quinta.  Testes  Nicolaus  de 
Riparolia.  Symon  bonaiuncta  et  Redulfinus  de  Michaele. 

XV.  1262  —  19  Ottobre. 
{Atti  e.  s.,  e.  121). 

Ego  Caleca  panzanus  confiteor  tibi  lacobo  de  racione  hanc  confes- 
sionem  recipienti  nomine  Marie  uxoris  qm.  porcheti  streiaporci  et  lo- 
hannihi  eius  filii  me  a  dieta  Maria  suo  nomine  et  dicti  lohannini 
habuisse  et  recepisse  in  accomendacione  libras  quinquaginta  novem 
sol.  ti'es  et  denarios  undecim  que    processerunt    de    accomendacione 


610  ARTURO   FERRETTO 

quam  habui  a  dieta  Maria  et  sunt  implicate  in  mea  comuni  impli- 
cita renuncians  exceptioni  non  numerate  et  non  recepte  peccunie  et 
omni  juri.  Quas  portare  debeo  causa  negociandi  quo  deus  mihi  melius 
administraverit  ex  quo  de  portu  lanue  exivero  et  ex  eis  comuniter 
expendere  et  lucrari  per  libram  ad  quartam  partem  proficui  sicut  ex 
alia  mea  comuni  implicita  quam  portabo.  babens  potestatem  mittendi 
predictis  Marie  et  lohannino  ex  dieta  accomendacione  ante  me  et 
post  me  dimictendi  quam  partem  voluero  cum  carta  vel  testibus.  in 
reditu  vero  lanue  capitale  et  lucrum  diete  accomendacionis  in  po- 
testate  diete  Marie  vel  eius  nuncii  prò  se  et  dicto  lohannino  ponere 
et  consignare  promitto  tibi  quarta  parte  lucri  inde  mihi  retenta. 
Alioquin  penara  dupli  diete  accomendacionis  tibi  stipulanti  promitto. 
prò  qua  pena  et  ad  sic  observandum  omnia  bona  mea  habita  et  ha- 
benda  tibi  pignori  obligo.  Actum  lanue  iuxta  domum  qua  habitat 
Rogerius  de  Bennama  M.CC.LXII,  die  XVIIII  octubris  inter  nonam 
et  vesperas  indicione  V.  Testes  Symon  bonaiuncta  et  ogerius  de 
langasco. 

XVI.  1262  —  19  Ottobre. 

{Atti   e.   s.,    e.    121). 

Ego  Caleca  panzanus  Confiteor  tibi  lacobo  de  racione  hanc  confes- 
sionem  recipienti  nomine  Guillelmi  panzani  filli  qm.  Alenerii  panzani 
me  ab  eo  vel  alio  prò  eo  habuisse  et  recepisse  in  accomendacione 
libras  quiuquaginta  lanue  quas  processerunt  ex  alia  accomenda- 
cione et  sunt  implicate  in  mea  comuni  implicita  renuncians  excep- 
tioni non  numerate  et  non  recepte  peccunie  et  omni  iuri.  Quas  por- 
tare debeo  causa  negociandi  quo  deus  mihi  melius  administraverit 
ex  quo  de  portu  lanue  exivero  et  ex  eis  comuniter  expendere  et  lu- 
crari per  libram  ad  quartam  partem  proficui  sicut  ex  alia  mea  co- 
muni implicita  quam  portabo  habens  potestatem  mittendi  dicto  CtuìI- 
lelmo  ex  dieta  accomendacione  ante  me  et  post  me  dimittendi  quam 
partem  voluero  cum  carta  vel  testibus  in  reditu  vero  lanue  capitale 
et  lucrum  diete  accomendacionis  in  potestate  dicti  Guillelmi  vel  eius 
nuncii  ponere  et  consignare  promitto  tibi  quarta  parte  lucri  inde 
michi  retenta.  Alioquin  penam  dupli  diete  accomendacionis  tibi  sti- 
pulanti promitto  prò  qua  pena  et  ad  sic  observandum  omnia  bona 
mea  habita  et  habenda  tibi  pignori  obligo.  Actum  lanue  iuxta  domum 
qua  habitat  Rogerius  de  Bennama  M.CC.LXII.  die  XVIIII  octobris 
inter  nonam  et  vesperas  Indicione  V  testes  Symon  bonaiuncta  et 
ogerius  de  langasco. 


NOTIZIE    INTORNO    A    GALEGA    PANZANO   E    ALLA    SUA    FAMIGLIA         611 

XVII.  1262  —  19  Ottobre. 
(Atti  e.  s.,   e.   120  "0). 

Ego  Caleca  panzanus  confiteor  tibi  lacobo  de  racione  hanc  confes- 
sionem  recipienti  nomine  Conradini  panzani  fratris  mei  me  ab  eo 
habnisse  et  recepisse  in  accomendacione  libras  centum  viginti  tres 
solidos  duos  et  elenarios  sex  lanue  que  processerunt  ex  alia  acco- 
mendacione quam  habui  de  eius  peccunia  et  sunt  implicate  in  mea 
comuni  implicita  renuncians  exceptioni  non  numerate  et  non  recepte 
peccunie  et  omni  juri.  Quas  portare  debeo  causa  negociandi  quo  deus 
mihi  melius  administrabit  ex  quo  de  portu  lanue  exivero.  et  ex  eis 
comuniter  expendere  et  lucrari  per  libram  ad  quartam  partem  pro- 
ficui sicut  ex  alia  mea  comuni  implicita  quam  portabo  habens  po- 
testatem  mictendi  dicto  Conradino  ex  dieta  accomendacione  ante  me 
et  post  me  dimictendi  quam  partem  voluero  cum  carta  vel  testibus. 
in  reditu  vero  lanue  capitale  et  lucrum  diete  accomendacionis  in 
potestate  dicti  Conradini  vel  eius  nuncii  ponere  et  consignare  pro- 
mitto  quarta  parte  lucri  inde  mihi  retenta.  Alioquin  penam  dupli 
diete  accomendacionis  tibi  stipulanti  promitto.  prò  qua  pena  et  ad 
sic  observandum  omnia  bona  habita  et  habenda  tibi  pignori  obligo. 
Actum  lanue  iuxta  domum  qua  habitat  Rogerius  de  Bennama  M.CC.LXII 
die  XVIIII  octobris  circa  vesperas  Indicione  V.  testes  Antonius  podisii 
et  Guirardus  lebierius  de  bobio. 

XVIII.  1262  —  20  Ottobre. 

(Atti  del  Not.  Guido  de  S.  Ambrosio,  Reg.  I,  e.  122  "o). 

^  In  christi  nomine.  Ego  Calecha  panzannus  confiteor  tibi  Guil- 
lelmino  de  porta  me  accepisse  et  habuisse  in  accomendacione  a  te 
libras  quadraginta  sex  et  sold.  tredecim  lanue  quas  dicis  et  esse  con- 
fitei'is  de  pecunia  lacobi  de  porta  patris  tui  que  processerunt  ex  alia 
accomendacione  quam  idem  lacobus  mihi  fecit  et  sunt  omnia  in  mea 
comuni  implicita  implicata  renuncians  exceptioni  non  numerate  pe- 
cunie et  non  accepte  accomendacionis.  Quas  deo  propicio  neapolim 
et  deinde  quo  mihi  deus  administraverit  negociandi  causa  portare 
debeo.  habens  potestatem  mittendi  tibi  lanuam  omnes  vel  quam 
partem  voluero  cum  testibus  ante  me  et  post  me  et  faciendi  sicut 
ex  aliis  quas  mecum  porto.  In  reditu  vero  quem  lanue  fecero  capi- 
tale et  proficuum  diete  accomendacionis  in  tua  vel  dicti  patris  tui 
potestatem  ponere  reddere  et  consignare  promitto  et  deducto  capitali 
quartam  lucri  habere  debeo.  Alioquin  penam  dupli  tibi  stipulanti 
spondeo  et  perinde  omnia  bona  mea  habita  et  habenda  tibi  pignori 
obligo.  Actum  lanue  ante  domum  canonicorum  sancii  Laurentii  quam 


612  ARTURO   FERRETTO 

inhabitat  Obertus  de  levante  speciarius.  testea  Guillelmus  guercius  de 
sancto  Syro  et  Coiiradus  sartorius.  Anno  dorainice  nativitates  MCCLXII 
indicione  quinta  die  XX.  Octobris  post  vesperas. 

XIX.  1267  —  25  Giugno. 

{Atti  del  Nat.  Bartolomeo  de  Fornari,  Reg.  V,  Parte  II,   e.  149). 

Pietro  Grillo  del  qm.  Amico  riceve  da  Bonifacio  de  Tiba  otto  marchi 
e  Vi  di  marca  di  sterline  d'argento,  consegnategli  in  Messina  da  Gia- 
comino Grillo  del  qm.  Andrea... 

Actum  lamie  ante  domum  canonicorum  sancti  Laurentii.  Testes 
Symon  tosicus  et  Castellus  calvus  et  Calecha  panzanus. 

XX.  1275  —  13  Giugno. 

{Atti  del  Noi.   Vivaldo  de  Porta,  Reg.  I,  e.  480). 

In  sancto  dei  nomine.  Ego  Agnesia  filia  qm.  Andree  de  priere  de 
supracevam.  que  habito  lanue  in  domo  Caleche  panzanni.  promitto 
et  convenio  tibi  Enrico  tedescho  pancogolo  qui  habitas  lanue  in  domo 
predicti  Caleche.  facere  et  curare  ita  et  sic  quod  ab  hodie  usque  ad 
annos  quatuor  lohanninus  filius  meus  presens  et  consencies  et  jurans 
tecum  stabit  prò  adiscenda  arte  tua  et  tibi  in  domo  ed  extra  serviet... 
Actum  lanue  in  Canneto  ante  domum  qua  habitat  Symon  formentus 
draperius.  MCCLXXV.  Indicione  II.  die  XIII  lunii  inter  terciam  et 
nonam. 

XXI.  1276  —  11  Marzo. 

{Atti  del  Nat.  Guglielmo  de  S.  Georgia,  Reg.  IV,  e.  212  "o). 

Ego  faciolus  panzannus  conllteor  tibi  Guidoni  hospinello  de  ovada 
quod  occasione  manulovationis  et  obligationis  quam  mihi  fecisti  et 
versus  me  te  obligasti  prò  hospinello  pastore  de  porta  nova  promit- 
tendo  mihi  prò  eo  te  facturum  et  curaturum  ita  et  sic  quod  dictus 
hospinellus  quem  meis  carceribus  dctinebam...  dico  habuisse  et  rece- 
pisse libras  quatuor,  etc,  etc. 

Actum  lanue  in  domo  heredum  lacobi  fornarii  Testes  Calecha  pan- 
zannus et  Conradus  de  murtedo  executor  consul  foritanorum.  Anno 
dominice  nativitatis  MCCLXXVI  indicione  tercia  die  XI  marcii  ante 
terciam. 

XXII.  1277  —  21  Aprile. 

{Atti  del  Not.  Parentino  de  Quinto,  Reg.  Il,  Parte  I,  e.  IGS^o). 

Ego  Calecha  panzannus  procurator  Balianni  panzanni.  ut  de  pro- 
cura plenius  dico  contineri  in  carta  inde  facta  manu  pagani  duranti» 


NOTIZIE   INTORNO   A   GALEGA   PANZANO   E   ALLA    SUA    FAMIGLIA         613 

notarli  tam  meo  proprio  nomine  quam  procuratorio  nomine  ipsius 
Balianni  loco  et  titulo  locaeionis  concedo  vobis  lohannino  filio  qm. 
Guillielmi  Catt'ari  et  lacobe  matri  tue  usque  ad  duos  annos  proximos 
venturos  quamdam  domum  predicti  Balianni  positara  in  Carrubeo 
recto  in  mercato  veteri  cui  coheret  retro  domus  filippi  de  murta. 
ante  carrube um  ab  uno  latere  domus  mei  Caleche  prò  pensione  an- 
nua librarum  duodecim  lanue  de  mense  in  mense  mihi  prò  predicto 
Balianno  solvenda  quam  domum  vobis  promitto  dimittere  usque  ad 
dictum  tempus  et  non  aufferre.  neque  pensionem  augere.  sed  potius 
meis  espensis  iure  locaeionis  dictis  nominibus  defendere,  etc. 

Actum  lanue  in  Caneto  ante  domum  qua  habitat  Symon  formentus. 
Testes  pascalis  de  oliva,  et  percival  panzanus.  M.CCLXXVII  indi- 
cione  ITU.  die  XXI  Aprilis  inter  terciam  et  nonam. 

XXIII.  1277  —  4  Giugno. 

{Atti  del  Not.  Gio.  Enrico  de  Porta,  Reg.  II,  Parte  I,  e.  196). 

Die  mi  lunii.  Anno  MCCLXXVIL 

Ego  Caleca  panzanus  confiteor  tibi  Enrico  falabande  recipienti  no- 
mine Nicolai  de  Castro  Nicolai  rubei  et  Castellini  de  bonifacio  tuorum 
sociorum  me  a  te  habuisse  et  recepisse  libras  Villi  lanue  prò  Gato 
de  sancto  Genisio  a  quo  dictas  libras  Villi  habuisti  in  societate  ut 
constat  per  publicum  instrumentum  scriptum  manu  nigri  laurentii 
pruvini.  Testes  faciolus  panzanus.  Martinus  de  Rapallo. 

XXIV.  1279  —  23  Gennaio. 

{Atti  del  Not.  Simone  de  Albario,  Reg.  I,  Parte  II,  e.  99). 

Accordo  seguito  tra  gli  appaltatori  d'una  ferriera  esistente  nel 
monte  Leca  del  distretto  di  Penzolo  in  Lunigiana  e  il  proprietario 
di  essa... 

Actum  lanue  in  porticu  domus  domini  Bertholini  bonifacii  ludicis. 
Anno  dominice  nativitatis  MCCLXXVIIII.  indicione  VI.  die  XXIII 
lanuarii  inter  nonam  et  vesperas.  Testes  dictus  Bertholinus.  Calecha 
panzanus.  Simon  botagius  et  Balianus  caffarena. 

XXV.  1287  —  24  Febbraio. 

{Atti  del  Not.  Guglielmo  de  S.  Georgia,  Reg.  V,  e.  154). 

Ego  lacobinus  filius  Caleche  panzani  in  presencia  et  jussu  dicti 
patris  mei  confiteor  tibi  Oberto  de  serra  me  habuisse  et  recepisse  a 
te  nomine  meo  et  sociorum  tuorum  libras  triginta  novem  et  sol.  qua- 
tuordecim  lanue  que  processerunt  de  alia    accomendacione    et    sunt 


614  ARTURO    FERRETTO 

implicate  in  mea  comuni  implicita  renuncians  exceptioni  non  nume- 
rate et  non  recepte  pecunie  et  omni  iuri  quas  portare  debeo  causa 
negociandi  in  Romaniam  seu  quo  deus...  (manca  il  rimanente). 

Actum  lanue  ante  stacionem  heredum  qm.  lanfranchi  malocelli 
M.CC.LXXXVII  die  XXIIII  februarii  circa  nonam.  Indicione  XIIII. 
Testes  fredericus  corrigiarius  et  lanfrancus  lavezarius. 

XXVI.  1311  —  9  Giugno. 

{Atti  del  Noi.  Damiano  da  Camogli,  Reg.  II,  Parte  II,  e.  104). 

In  nomine  domini  Amen.  Ego  Calecha  panzanus  facio  constituo  et 
ordino  meum  certum  noncium  et  procuratorem  lacobum  panzanum 
filium  meum  ad  omnia  mea  negocia  agenda  gerenda  et  administranda 
tam  in  iudicio  quam  extra  et  ad  petendum  exigendum  et  recipiendum 
prò  me  et  meo  nomine  quidquid  petere  exigere  et  recipere  debeo 
seu  possum  a  quacumque  persona  corpore  collegio  et  universitate 
quacumque  ex  causa  finem  remissionem  quietacionem  et  pactum  de 
non  petendo  faciendum  iurari  cedendum  transigendum  et  paciscendum 
et  ad  libellum  et  libellos  dandum,  etc,  etc,  et  demum  generaliter 
ad  omnia  et  singula  faciendum  que  causarum  merita  exigunt  et  re- 
quirunt  dans  et  concedens  dicto  procuratori  meo  in  predictis  et  circa 
predicta  liberam  et  generalem  administracionem  et  liberum  et  ge- 
nerale mandatum  promittens  mihi  notario  infrascripto  stipulanti  et 
recipienti  nomine  illius  vel  illorum  cuius  vel  quorum  interest  vel  in- 
teresset  ratum  et  firmum  babere  et  tenere  perpetuo  quidquid  per 
dictum  procuratorem  meum  factum  gestum  seu  procuratum  fue- 
rit,  etc,  etc. 

Actum  lanue  sub  porticu  domus  domini  lobannis  de  galuciis  iu- 
dicis.  Testes  Johannes  tavanus  et  Johannes  maior  de  galuciis.  Anno 
dominice  nativitatis  M.CCCXI  Indicione  Vili  die  Villi  lunii  circa 
terciam. 

XXVII.  1313  —  15  Marzo. 

{Atti  del  Not.  Ambrosio  de  Rapallo,  Reg.  V,  e.  3')). 

In  nomine  domini  Amen.  Ego  lacobus  panzanus  confiteor  tibi  Ca- 
lech  panzano  patri  meo.  me  habuisse  et  recepisse  a  te  integram  ra- 
cionem  solucionem  et  satisfacionem  de  dotibus  et  antefacto  et  de 
extradotibus  et  omnibus  iuribus  qm.  lohanne  matris  mee  et  uxoris 
tue  et  que  post  mortem  diete  qm.  matris  mee  cesserunt  mihi  et  qm. 
Gaspario  fratri  meo  et  post  mortem  dicti  qm.  Gasparii  cesserunt 
mihi  soli  licet  tu  in  vieta  tua  deberes  habere  usu  (fructum)  de  predictis 
de  quibus  tua  spontanea  voluntate  voluisti  mihi  satisfacionem  facere 


NOTIZIE   INTORNO    A    GALEGA    PANZANO    E    ALLA    SUA   FAMIGLIA         615 

de  predictis  (quam)  satisfactionem  do  predictis  confiteor  te  milii  fe- 
cisse  integraliter  vocans  me  a  te  de  (predictis)  omnibus  bene  quietum 
et  solutum.  Renuncians  exceptioni  diete  racionis  solucionis  et  satis- 
facionis  non  liabite  (et  non  recepte)  diete  confessionis  non  facte  rei 
lìt  supra  et  infra  non  gesta  doli  exceptioni  in  factum  et  sine  causa 
et  omni  juri.  unde  facio  tibi  finem  refutacionem  et  omnimodam  re- 
missionem  et  pactum  de  ulterius  non  petendo  de  predictis  et  de 
omni  eo  et  toto  quod  petere  vel  requirere  possem  in  futurum  contra 
te  vel  bona  tua  occasionibus  predictis  vel  aliqua  de  predictis  liberans 
te  heredes  et  bona  tua  per  acceptilacioncm  et  acquilianam  super 
solempnitate  in  verbis  deducta.  promittens  tibi  quod  nulla  in  per- 
petuum  per  me  vel  heredes  seu  per  aliquam  personam  habentem 
causam  a  me  contra  te  vel  heredes  tuos  vel  bona  tua  occasionibus 
predictis  vel  aliqua  de  predictis  de  cetero  fiet  lix  questio  peticio 
seu  actio  movebitur  in  iudicio  vel  extra,  alioquin  penam  dupli  de 
quanto  et  quociens  requisicio  fieret  seu  questio  moveretur  tibi  so- 
lemniter  stipulanti  dare  et  solvere  promitto.  Ratis  semper  manen- 
tibus  omnibus  et  singulis  supradictis  et  perinde  omnia  bona  mea 
habita  et  habenda  tibi  pignori  obligo.  Actum  lanue  in  domo  dicti 
Caleeh.  testes  lohannes  de  Urso  draperius  daniel  pisialoyra  de  sexto 
et  thomas  de  condivino  de  sexto.  Anno  dominice  nativitatis  MCCCXIII 
indicione  X  die  XV  martii  inter  nonam  et  vesperas. 

XXVIII.  1313  —  15  Marzo. 

{Atti  e.   s.,   e.   38  «">). 

In  nomine  domini  Amen.  Ego  Benedicta  uxor  qm.  Oberti  bassi  et 
filia  qm.  Conradi  panzani  nomine  meo  proprio  et  nomine  et  vice 
sororis  Egidie  reddite  in  monasteri©  sancti  lohannis  gerosolomitani 
sororis  mee.  et  prò  qua  meo  proprio  nomine  promitto  tibi  rato  ha- 
bendo  sub  ypotheca  et  obligacioue  omnium  honorum  meorum.  Re- 
nuncians doli  exceptioni  et  omni  iuri.  vendo  cedo  et  trado  seu  quasi 
tibi  lanoto  panzano  tabulam  unam  et  pedes  vivos  tres  prò  indivisso. 
prò  quibus  extimum  et  laus  facta  et  factum  fuit  mihi  et  diete  Egidie 
sorori  mee  in  domo  et  de  domo  infra  coherentias  que  fuit  dicti  qm. 
Conradi  et  Caleeh  pazanorum  et  que  posita  est  lanue  in  ripa  cui 
toti  domui  cum  ambulo  coheret  a  duabus  partibus  via  et  a  tercia 
parte  domus  leonardi  panzani  et  a  quarta  parte  domus  Benedicti 
panzani.  et  quod  extimum  factum  fuit  mihi  et  diete  sorori  mee  seu 
alie  persone  prò  nobis  tamquam  in  bonis  dicti  qm.  Conradi  occasione 
legatorum  relictorum  mihi  et  diete  sorori  mee  in  testamento  dicti 
qm.  Conradi  scripto  mauu  Deodati  bonaccursi  notarii  MCCCVII  die 
XXIII  madii  et  transcripto  manu  lanoti   deodati    notari    MCCCVIIII 


616  ARTURO   FERRETTO' 

die  XXV  Aprilis  et  de  quo  extimo  et  laude  plenius  contiuetur  in 
instrumento  scripto  manu  Rollandi  Belmusti  de  pelio  notarii  MCCCX 
die  XV  lanuarii  quas  partes  diete  domus  seu  partem  extimatam  et 
in  solutum  mihi  et  diete  sororis  mee  traditam  et  ipsum  extimum  et 
eius  extimi  nomine  meo  et  diete  sororis  mee  et  prò  qua  promitto  de 
rato  vendo  cedo  et  trado  tibi  dicto  lanoto  cum  omni  suo  iure  co- 
modo utilitate  ingressa  et  exitu  et  demum  cum  omnibus  suis  perti- 
nenciis  et  coherentiis  uti  optimam  maximamque  esse  liberam  et  ab- 
solutam  ab  omni  honere  servitutis  preterquam  a  mutuis  collectis  et 
honeribus  comunis  lanue  que  et  quas  dictus  emptor  promisit  mihi 
notario  infrascripto  stipulanti  recipienti  nomine  et  vice  comunis  lanue 
solvere  et  prestare  prò  dictis  ipsi  comuni  et  prò  tempore  futuro.  Re- 
nuncians  omni  privilegio  convencioni  et  capitulo.  ad  habendum.  te- 
nendum  et  possidendum  et  quidquid  de  dictis  rebus  et  qualibet...  - 
faciendum  tamquam  de  re  tua  propria,  iure  proprietario  et  titulo 
emptionis  finito  (precio  librarum)  quadringentarum  viginti  lanue  quas 
perinde  a  te  habuisse  et  recepisse  confiteor... 

Actum  lanue  sub  porticu  domus  heredum  qm.  Gabrielis  basii,  testes 
Andriolus  de  rochataliata.  danixius  de  Rochataliata  habitatores  lanue 
et  paulinus  de  rochataliata.  Anno  dominice  nativitatis  MCCCXIII  in- 
dicione  decima  die  XV  marcii  inter  nonam  et  completorium. 


'^  LA  INTERVENUTA  RIDICOLOSA 


La  Liter venuta  è  una  commedia  dialettale  in  versi,  di 
tre  atti,  più  il  prologo,  in  cui  interloquiscono  nove  per- 
sone. L'azione,  che  si  svolge  a  Potino,  castello  del  Sanse- 
verinate,  è  molto  semplice.  Un  tale  Ciabó,  per  un  certo 
conto  da  rendere  alla  giustizia,  è  costretto  a  fuggire, 
lasciando  la  moglie,  Taramata,  al  momento  dell'azione 
ancora  belloccia,  e  una  figliuola,  Saporetta,  già  da  marito. 
Per  gli  intrighi  di  due  vecchi  lenoni,  riusciti  a  dar  credito 
alla  voce  che  Ciabó  fosse  morto,  a  via  di  tranelli,  si  com- 
bina il  matrimonio  di  Prito,  vecchio,  con  Taramata,  e  di 
Gaudenzio  con  la  figlia  di  lei,  Saporetta.  Tutto  è  già  pronto 
per  le  nozze,  ser  Ciappelletto  ha  di  già  steso  e  comunicato 
l'inventario  degli  oggetti  dotali,  quando  il  ritorno  di  Ciabó 
manda  in  fumo  le  nozze  dei  vecchi  e  affretta  quelle  dei 
giovani. 

Sul  breve  canovaccio,  l'oscuro  poeta  intesse  i  tre  atti 
in  2486  versiceli  ^),  prolungandosi  in  luoghi  comuni.  Pure, 
qua  e  là  palesa  una  certa  acutezza  d'ingegno  nel  valersi 
delle  industrie  drammatiche.  L'inventario  di  ser  Ciappel- 
letto non  manca  di  arguzia;  la  catastrofe,  per  quanto  vec- 
chia, non  cade  nel  banale;  il  Sere  è  una  bella  macchietta  ^); 

')  Versi:  Prologo,  76;  Atto  I,  506;  Atto  II,  1030;  Atto  III,  874. 
Totale  versi  2486. 

^)  Uno  dei  mezzi  usati  da  Ser  Ciappelletto  per  darsi  importanza  sta 
nell'uso  di  frasi  latine  che  sono  spropositatissime.  Cf.  II,  314,  IODI, 
1002,  1030;  III,  817,  859. 

Stu/fj  di  filologia  romanza,  IX.  39 


618  G.  CROCIOM 

Scuffiotto  e  Crescenzio,  rimbambiti  che  la  fanno  da  savi, 
secondano  qualche  favilla  comica.  Fino  i  nomi  degli  inter- 
locutori sanno  un  cotal  poco  di  comicità  ^).  L'autore,  nella 
dedicatoria,  di  tra  le  nebbie  dei  complimenti,  si  compiace 
dell'opera  sua,  e  nel  prologo  si  lascia  dire  che  ormai  "  vo 
comenzare  a  fa  quae  facenna  „ ,  dandosi  cura  di  annunziare 
che  questo  è  "  il  primo  parto  uscito  „  dalla  sua  fantasia. 
Pure  non  istà  qui  il  pregio  della  Commedia  e  del  Poeta. 
Questi  non  è  un  pretenzioso  che  si  butti  al  vernacolo  per 
un  capriccio  e  senza  preparazione.  Dello  studio  che  egli 
ha  durato  intorno  al  dialetto  o  della  conoscenza  acqui- 
sita per  pratica,  traluce  la  riprova  luminosa,  più  che 
dalla  costanza  delle  leggi  dialettali,  raramente  violate,  da 
una  serie  ininterrotta  di  frasi  e  di  atteggiamenti  del  pen- 
siero popolare  anche  oggi  vivi  e  fiorenti  sulle  bocche  del 
popolo.  Tanto  che,  se  io  non  m'inganno,  viene  da  ciò  alla 
Commedia  qualche  maggiore  importanza,  per  essere  non 
disutile  a  uno  studio,  necessario  alla  compilazione  della 
grammatica  e  del  dizionario  italiani,  per  cui  si  stabilisca 
quanta  parte  di  locuzioni,  oltre  che  di  parole,  sia  venuta 
ai  classici  che  la  Marca  ebbe  né  pochi  né  trascurabili,  dal 
dizionario  marchigiano,  ricco  di  accenti  originali  ed  efficaci. 
Vero  è  che  talvolta  il  Poeta  camuffa  coi  cenci  del  dialetto 
frasi  e  parole  che,  pur  così  travestite,  si  riconoscono  let- 
terarie, non  altrimenti  che,  di  sotto  ai  brandelli,  chi  nacque 
e  visse  persona  civile  ;  ma  questo  è  caso  raro,  appetto  alla 


*)  I  più  parlano  da  sé.  Per  gli  altri  osservo  :  Strina  =  brina  ;  Ciahu 
(mareheg.  cia?nwMO«o,  abr.  cmòfto^^e.  Finamore,  Vocàb. dell'uso  abruz.  Gìtik 
di  Castello,  Lapi,  1893  (2*  ed.),  p.  164),  uomo  tozzo  ;  Taramata  vale 
tarmata  (con  epentesi),  cioè  butterata  (Cf.  Manuzzi  s.  tarmato,  che 
sull'autorità  del  .Saltini  attribuisce  la  parola  ai  romani,  io  infatti  la 
trovo  viva  a  Velletri;  e  cf.  la  descrizione  che  ne  fa  l'A.,  II,  512-30); 
Patarachia,  cf.  Gloss.  (non  so  perché  stia  fra  i  nomi  propri);  Prifu  =  in- 
tero (Marcoaldi,  Guida  e  statistica  della  città  e  comune  di  Fabriano,  III, 
Crocetti,  1877,  p.  166;  Leopardi,  Un  altro  tegamino  di  fagiuoli.  Città 
di  Castello,  Lapi  1891,  p.  31). 


'  LA   INTERVENUTA   RIDICOLOSA  '  019 

ricca  profusione  della  parlata  genuinamente  popolaresca, 
in  grado,  qua  e  là,  di  arguzie,  a  volte  un  po'  volgarucce, 
talora  anche  vivaci  e  frizzanti  ^). 

E  questa  perizia  nel  maneggio  del  dialetto  non  ci  reca 
più  meraviglia  di  sorta  ora  che,  nel  rivedere  le  prove  di 
stampa,  veniamo  a  conoscere  un'altra  parte  della  conside- 
revole opera  letteraria  del  nostro  autore,  Francesco  Bor- 
rocci,  oscuro  e  bizzarro  poeta,  che  dovette,  a  suo  tempo, 
parere  un  novatore  -)  e  godere  di  una  certa  gloriola  al- 
meno paesana  ^).  Di  lui,  infatti,  si  dice  in  un  codice  cin- 
quecentino della  Biblioteca  comunale  di  Macerata  '^),  che 
componeva  commedie  dialettali  dette  Intervenute  o,  dal 
nome  dell'autore,  Borrocciate,  di  alcune  delle  quali  ci  con- 
serva tuttora  i  prologhi  il  detto  codice,  ricco  pure  di  una 


*)  Per  tale  riguardo  la  Com.  sembrami  veramente  utilissima  allo 
studio  cui  si  accenna,  e  che  non  si  è  voluto  iniziare  qui  per  non  riu- 
scire troppo  incompleti.  Da  uno  spoglio  accurato  della  Com.  si  ricava 
di  frasi  e  'ocuzioni  popolari  assai  più  che  non  s'aspetterebbe.  Dove 
la  sintassi  del  testo  parrebbe  meritare  censura  dal  grammatico  italiano, 
è  scusata,  il  più  delle  volte,  dalla  grammatica  del  dialetto.  Quasi  co- 
stante è  l'uso  della  S^  sing.  per  la  B"-  pi.  (pr.  39,  42,  71  ;  I,  94,  95, 
330,  331,  365,  472-73;  II,  165,  174,  176-77,  178,  181,  ecc.  ecc.);  molti 
altri  fatti  notevoli  della  sintassi  dialettale,  se  non  sono  costanti,  poco 
manca.  Qualche  fallo,  assai  raro,  si  incontra  nei  fenomeni  metafo- 
netici,  ma  bisogna  notare  che  lo  scambio,  in  tal  caso,  era  più  che 
perdonabile  a  chi  non  ne  aveva  che  una  oscura  intuizione  empirica, 
se  neppur  noi  siamo  giunti  ancora  per  intero  a  disciplinarli. 

')  Che  io  sappia,  nessuno  dell'Italia  centrale  erasi  valso  del  puro 
dialetto  in  intere  scritture  drammatiche,  ma  solo  per  brevi  passi,  o 
per  dar  la  parola,  con  maggiore  verosimiglianza,  a  qualche  interlocu- 
tore. Si  veda  in  D'A>-cona,  Origini,  il  cap.  sulla  lingua  delle  rappre- 
sentazioni, e  in  Gaspary,  Storia  d.  lett.  it.,  voi.  II,  p.  II,  pagg.  258-59, 
268,  276-78.  Per  altre  regioni  cf.  Fr.  Flamini,  Il  cinquecento,  301  e  segg. 

^)  Lo  prova  il  titolo  di  Borrocciate,  dato  alle  commedie  da  lui 
composte. 

*)  È  miscellaneo,  di  f.  125  (42  X  13),  sciolto,  in  passato  colla  se- 
gnatura: 5.  E.  18;  oggi,  secondo  il  catalogo  del  Mazzatinti,  segnato 
col  numero  550. 


620  G.  CROCIONI 

commedia  che  s'iscrive  :  "  Commedia  del  signor  Frane."* 
Borrocci,  detta  l'Intervenuta,  ri  citata  l'anno  1591  „  ^). 

Il  dialetto,  il  metro,  lo  stile,  non  meno  che  la  data,  il 
titolo,  il  numero  degli  atti  e  altre  concordanze  di  pensiero 
e  di  forma,  ci  rendono  quasi  certi  che  le  due  commedie 
provenissero  da  uno  stesso  autore,  e  ci  aiutano  a  interpre- 
tare la  firma  in  fondo  alla  dedicatoria  "  F.  Dom.<'°  B.  „, 
che  poco  0  punto  temiamo  di  leggere  :  Francesco  Domenico 
Borrocci  -).  Chi  egli  fosse  ci  dirà  forse  lo  studioso  che 
indagherà  negli  archivi  di  Cingoli  ^)  ;  noi  altro  non  sap- 
piamo di  lui  oltre  a  quanto  ricavasi  dal  codice  menzionato  ; 
da  un'ispezione  accurata  del  quale  abbiamo  fiducia  di  trarre 
argomento  a  parlarne  più  completamente '^). 

Poco  c'importa  del  destinatario,  un  M.  R.  S.  Theofilo 
Nicolò  di  Serra  San  Quirico,  sacerdote,  a  quanto  pare, 
con  qualche  boriuzza  di  minuscolo  mecenate. 


^)  Debbo  questa  indicazione  alla  cortese  amicizia  del  Dr.  Giovanni 
Spadoni,  che  di  questo  codice  fece,  ad  altro  proposito,  un  cenno  nella 
Provincia  Maceratese,  an.  VII,  n.  368  (30  luglio  1901).  Egli  mi  comu- 
nicò anche  alcune  scene  di  questa  commedia,  e  luoghi  scelti  dai  pro- 
loghi, sufficienti  al  confronto  che  istituisco. 

^)  Perché  egli  si  aggiungesse  qui  il  secondo  nome  di  Domenico,  non 
è  facile  dire;  ma  il  fatto  non  par  che  possa  infirmare  la  identifica- 
zione. Il  Dr.  Spadoni  già  mentovato,  mi  fa  sapere  che,  avendo  letti 
gli  elenchi  originali  degli  accademici  Catenati  di  Macerata,  non  vi 
ha  trovato  il  nome  del  nostro  poeta;  vi  ha  incontrati,  invece,  quelli 
di  due  altri  Borrocci,  Cesare  ed  Alessandro.  Che  l'uso  del  dialetto 
spiacesse  ai  signori  accademici? 

^)  Che  il  Borrocci  fosse  di  Cingoli  non  pare  che  debbasi  dubitare. 
Poteva  egli  usare  così  a  lungo,  in  componimenti  che  tornavano  al 
popolo,  altro  dialetto  che  non  fosse  il  nativo? 

^)  Sino  ad  ora  io  non  ho  potuto  vedere  il  codice.  Il  quale,  però,  è 
noto  già  agli  studiosi  per  le  Ottave  alla  Cingulana  ridiculose  et  belle 
fatte  da  un  cingolano  (cf.  S.  Ferrari,  in  Ardi.  st.  per  le  Marche  e  per 
l'Unìbria,  voi.  IV,  fase.  XIII-XIV,  pp.  339-355),  alle  quali  sospettiamo 
non  fosse  del  tutto  estranea  l'opera  del  nostro  poeta.  Ma  di  ciò 
altra  volta. 


'  LA    INTERVENUTA   RIDICOLOSA  '  621 

Molto  maggiormente  preme  invece  agli  studiosi  il  sapere, 
se  la  Commedia  sia  realmente  "  alla  cingolana  „  come 
annunzia  il  frontespizio.  E  qui  ci  crediamo  fortunatamente 
in  grado  di  una  risposta  sicura. 

Oltre  a  pochi  stornelli  e  proverbi  di  Cingoli  ^),  troppo 
brevi  e  scoloriti  per  giovarsene  in  un  paragone  rigoroso, 
conosciamo  in  quel  dialetto  la  traduzione  della  famosa 
novellina  boccaccesca  -),  una  mattinata  stampata  da  A.  Leo- 
pardi ^)  e  altre  mattinate,  di  molte  diecine  di  versi,  suf- 
ficienti allo  scopo  *'). 

Chi  ha  lette  le  Mattinate  potrebbe  alcun  poco  dubi- 
tare della  loro  parentela  con  la  Commedia;  ma  l'esame 
fonetico  di  questa,  rigorosamente  condotto  a  riscontro  di 
quelle,  troppo  lunghe,  polite  e  regolari  per  essere  parto 
genuino  della  scapigliata  fantasia  popolaresca,  ci  per- 
suade che  la  differenza,  notevole  a  prima  lettura,  si  ri- 
duce a  pochi  scambi,  da  imputare  al  tempo  o  anche  alle 
disformità  del  dialetto  cingolano.  Assicura  infatti  il  Raf- 
faelli  °),  non  senza   un  po'  di  esagerazione,    che    "  questo 


^)  Gli  stornelli  in  A.  Gianandrea,  Canti  popolari  marchigiani.  To- 
rino, E.  Loescher,  1875,  pp.  6  n.,  131  n.  Altri  non  ne  ho  incontrati  ; 
ma  può  darsi  che  si  trovino  nel  testo  non  contrassegnati  coll'indi- 
cazione  della  provenienza.  I  proverlji  in  Nuova  Rivista  Misena,  dir. 
dal  cav.  Anselmo  Anselmi,  an.  II,  n.  8,  p.  130;  n.  11,  p.  178;  n.  13, 
p.  210  ;  n.  14,  p.  223. 

^)  Papanti,  254-55.  È  del  March.  F.  Raffaelli  che  dà  pure  qualche 
notizia  del  dialetto,  pp.  255-56. 

^)  A  p.  74-75  del  voi.  Sub  tegmine  fagi  di  A.  Leopardi.  Lapi,  Città 
di  Castello,  1887.  Editore  è  il  Raffaelli  di  cui  alla  n.  seg. 

^)  Saggio  di  mattinate  nel  parlare  di  Cingoli  nelle  Marche  provincia 
di  Macerata,  edito  con  note  dal  Marchese  Filippo  Raffaelli,  bibliote- 
cario della  Comunale  di  Fermo.  In  Fano,  pei  tipi  di  V.  Pasqualis 
succ.  Lana,  an.  M.DCCC.LXXX  (Nozze  Puccetti-Castiglioni).  Il  Mar- 
chese appone  molte  note  alla  buona.  Vedasi  anche  :  Raffaelli,  Terza  e 
quarta  mattinata  nel  parlare  di  Cingoli  {1882),  (Nozze  Trevisaui-Baccili). 
Cf.  PiTRi;,  Bibl.   139. 

^)  In  Papanti,  255. 


622  G.  CROCio.Ni 

dialetto  varia  assaissimo  secondo  che  s'avvicina  alla  parto 
montana  del  territorio,  o,  per  l'opposto,  scendendo  alla  Marca 
si  avvicina  a  Macerata  ed  a  Iesi  „.  Tra  le  differenze  cui 
accenna,  il  Raffaelli  non  pone  veramente  lo  scambio  delle 
liquide  negli  articoli  {Comm.  lu  li,  la  le,  Matt.  hi  ni  w,  la 
ra  a  ecc.);  ma,  oltre  che  al  tempo,  un  tal  fatto  si  potrà 
imputare  a  un'irruzione  dei  vernacoli  finitimi  che  accol- 
gono e  svolgono  Vr  dell'articolo  più  ampiamente,  (ed  anche 
a  un'arbitrio  dello  scrittore  lontano  dalla  patria),  giacché 
la  fonetica  della  Commedia  risulta  concorde  con  il  resto 
delle  Mattinate,  meno  lievissime  differenze.  Oltre  a  tutte 
le  concordanze  vocaliche  e  consonantiche,  termine  fisso  del 
paragone,  piacerai  segnalare  l'avverbio  janata  di  oscura 
etimologia,  che  il  Raffaelli  dice  "  proprio  del  parlare 
cingolano  „ ,  e  gli  avverbi  miecco,  miello,  miesso  "  propri  „ 
anch'essi  del  dialetto  di  Cingoli,  tutti  frequenti  nella  Com- 
media. Non  è  poi  da  trascurare  menomamente  il  pieno  ac- 
cordo dei  fenomeni  metafonetici,  non  ostante  qualche  di- 
vergenza assai  lieve  nell'edizione  delle  Mattinate  ^). 

Nel  caso  contrario  rimarrebbe  inesplicabile  come  l'A. 
osasse  ingannare  i  lettori,  asserendo  nel  frontespizio  e  nella 
dedicatoria  di  scrivere  "  alla  cingolana  ,,.  In  conchiusione 
crediamo  non  si  debba  dar  luogo  al  minimo  dubbio  sulla 
determinazione  del  dialetto,  e  lo  riteniamo  genuinamente 
cingolano  o  di  paese  molto  vicino  ed  affine. 

Il  Poeta  nel  frontespizio  annunzia  di  scrivere  "  in  sdru- 
zolo  „;  ma  se  "  sdruzolo  „  volle  dire  sdrucciolo,  non  v'è 
frontespizio  più  fallace  di  questo  ;  nella  dedicatoria  il  verso 
è  detto  "  sgroboloso  „,  ma  la  parola  è  oscura,  se  non  vo- 
gliasi credere  che  il  Poeta  chiamasse  "  scrupolosi  „  versi 


')  Es.  quista  5  per  questa,  ma  nella  Comm.  abbiam  il  contrario  :  questo 
per  qiiistu  una  volta  o  due.  Nelle  Mattinate,  Dea,  10,  ecc.  dove  nella 
Comm.  Dia,  ma  qui  abbiamo  meo,  e  ciò  per  il  fatto  fonetico  basta  ; 
nelle  Mattinate:  stai,  sai,  mai,  nelle  Comm.  sta',  sa',  ma',  senza  la 
esclusione  delle  altre. 


'  LA    INTERVENUTA   RIDICOLOSA  '  623 

che  corrono  liberamente  senza  regola  fissa  di  accento,  di 
rima,  di  numero  e  di  misura.  In  realtà  essi  sono,  la  mag- 
gior parte,  settenari  per  lo  piìi  piani,  spesso  tronchi,  rara- 
mente sdruccioli  ;  accolgono  un  discreto  numero  di  ottonari 
e  di  novenari,  ed  anche  di  senari,  quinari,  quaternari,  e 
fino  di  ternari  ^)  e  di  binari  -),  in  regola  con  la  rima.  In 
tanta  licenza,  si  potrà  dire  soltanto  che  il  Poeta,  messosi 
sulla  via  di  una  commedia  "  ridicolosa  „,  non  si  è  conten- 
tato di  fatterelli,  se  "  avenuti  „  ^),  non  poco  piccanti,  e 
della  briosa  veste  dialettale,  ma  ha  voluto,  aggiungendo 
libertà  a  libertà,  sbizzarrirsi  in  una  fuga  veramente  sdruc- 
ciolevole di  parole  rimate,  col  solo  intento  di  periodi  nume- 
rosi, ottenuti  con  la  fusione  di  versi  brevi  che  non  toccassero 
la  gravità  dei  nostri  versi  maggiori  ^).  Difficilmente  si 
riuscirà  a  intravedervi  altro  intento,  per  quanto  quello 
proposto  s'abbia  da  credere  non  sempre,  né  interamente, 
raggiunto. 

Poche  cose  dirò  della  rima  nella  Commedia,  per  essere 
di  età  assai  tarda  (1606),  e  di  natura  popolaresca,  lon- 
tana dalla  correttezza  lirica.  Non  segnalo  le  rime  di  o  con  o 
e  con  p,  di  e  con  e  e  con  e  ;  quelle  uguali,  che  non  sono 
molte,  0  quasi  uguali,  che  sono  meno  scarse,  né  quelle 
ridotte  alla  regola  con  qualche  licenza.  In  generale  il  Poeta 
cura  l'esattezza  della  rima,  senza  stento,  perché  ne  ha  in 
abbondanza,  contentandosi,  ordinariamente,  della  prima  che 
gli  capita;  non  bada  alla  ripetizione  delle  rime  e  nemmeno 
delle  parole.  Anzi  spinge  tant'oltre  la  noncuranza  che  piìi 
volte  le  rime  da  due  salgono  a  tre  °)  e  anche  a  quattro  ^), 
e  si  dà  persino  luogo  a  bisticci  come  questo:    accordasse: 


')  I,  144,  386,  476;  II,  44,  593,  799;  III,  290,  677,  767,  ecc. 

')  I,  385,  binario  piano;  qua  eia  alcuni  binari  tronchi,  cioè  ternari. 

')  Nel  frontespizio  ;  nella  dedicatoria  "  occursi  „ . 

*)  Sono  endecasillabi  i  2  versi  dello  stornello,  II,  605-6. 

•')  T,  181-83,  396-98.  489-91;  TI,  180-82,  364-66;  ITI,  787-89,    814-16. 

'■■)  III,  81-84,  ecc. 


624  (;.  CKOciiiNi 

esse  :  stesse  :  menasse  :  sapesse  (II  39-44).  Altro  volte  la  rima 
è  lasciata  in  sospeso,  non  solo  in  principio  o  in  fine  di 
atto  o  di   scena  ^),    ma  anche   nel    mezzo   del  periodo  -). 

Nella  serie  delle  rime  imperfette  è  da  fare  più  di  una 
distinzione.  Ve  n'ha  di  irregolari  per  oscillazione  dell'-H 
coll'-o  ^),  dell'-e  coll'-i  ■^),  e  dell'-a  coU'-e  '"),  da  attribuirsi, 
nella  maggior  parte,  a  svista  più  che  a  inesattezza  di  rima. 
Con  queste  mandiamo  anche  le  seguenti,  irregolari  più  in 
apparenza  che  in  realtà  :  I  28-29  :  cosa  :  noiusa  (leggerei 
addirittura  noiosa,  come  vuole  la  regola,  §  9,  ma  il  cod. 
piega  più  all'?*  che  all'o),  I  230-231  :  nuelle  :  coeglie,  I  829-330  : 
coeglie  :  belle;  ma  più  volte  (I  445-46,  471-72,  II  200-01  ecc.) 
esattamente  coelle;  I  305-306:  ecchie:  reggie  cioè  '  recchie  '  : 
cf.  §  45;  II  149-150:  dota:  olla,  cf.  §  42;  III  212-213: 
ralegrassi:  pasci,  cf.  §  37  ;  III  574-575  :  vacca  :  aqqua  che  può 
anche  mandarsi  fra  le  assonanze;  III  682-683:  cosa  :  spusa. 

Altre  se  ne  contano,  vere  assonanze,  che  hanno  sempre 
conteso  un  lembo  di  terreno  alle  rime  propriamente  dette  '^)  ; 
ed  altre  vere  consonanze  ^),  non  del  tutto  inopportune  in 
un  componimento  che  torna  al  popolo.  Sono  immeritevoli 
di  qualunque  giustificazione:  caìisa:  scusa  II  473-474,  che 
potrà,  tutt'al  più,  essere  una  rima  d'occhio  ;  stizata  :  cosa 
II  772-773  da  aggiustare  forse  con  stizosa;  terra  :  fi ur) 
II  27-28;  fiorini  :  tirri  II  31-32,  e  pochissime  altre  da  porre, 


')  Pr.  1,  76:  I,  1,26.  27,  404;  II,  1,  6;  III,  161,  505,  629. 

')  I,  284,  341,  399;  II,  27,  28,  31,  32,  ecc. 

3)  II,  33-34, 125-26,  387-88,  694-95,  798-99;  III,  518-19,  554-55,  859-60. 

*J  ir,  407-8,  180-82,  516-17. 

^)  III,   141-42. 

'')  Pr.  66-7,  uccursci  :  tutti;  12-Z,  2)iucere  :  vene;  II,  149-50,  dota:  olia, 
cf.  §  42;  320-21,  fascie:  nasce;  356-57,  mene  :  fede;  374-75,  signora  : 
corona;  605-6,  rosa  :  gioca  (stornello);  616-11,  cacastraccia  :  pataracchia  ; 
754-55,  Astorggiu  :  accorda;  111,49-50,  figliolo  :  troo;  145-46,  hora  :  bona; 
400-1,  festa:  balestra;  441-42,  segna  :  prena ;   564-65,  festa  :  fene.-itra. 

')  I,  40-1,  legeru  :  piiru;  82-93,  fecatelUi  :  qitillu;  II,  520-21,  botenello: 
capillo;  III  451-52,  igna  :  pignu. 


'  LA   INTERVENUTA    RIDICOLOSA  '  625 

più  tosto  che  fra  le  rime  errate,  fra  i  versi  die  1'  autore 
lasciò  varie  volte   sospesi   nelle   fughe  dei  suoi  settenari. 

Il  cod.  (12  V2-  9)  è  in  16°,  di  carte  scritte  111  non  num, 
(p,  1  front.  ^);  2-3  dedicatoria;  4-7  prol.;  7  elenco  degli 
attori;  8-29  atto  I;  30-73  atto  II;  74-111  atto  III).  Nel 
dorso  (cm.  3)  è  segnato  :  Coniedia  (ree.  80  '  Biblioteca  comu- 
nale Serra  Sanquirico  '  2)  ;  è  di  carta  filigranata,  con  varie 
marche,  tra  le  quali  si  riconosce  il  giglio  (e.  12),  numerata 
antecedentemente  in  senso  contrario,  forse  per  un  cod.  in  8°; 
polito,  ben  conservato,  ricoperto  di  pergamena  (cm.  13.  9  ^U) 
scolorita.  La  scrittura,  corretta,  abbastanza  chiara,  tutta 
di  una  mano,  è  la  corsiva  ordinaria.  I  versi  uno  per  rigo. 
Le  pagine  hanno  il  richiamo  di  scrittura  che  anticipa  sempre 
qualche  parola  del  testo,  non  mai,  se  vi  s'incontri,  il  nome 
dell'interlocutore,  posto  nel  margine  sinistro  all'altezza  della 
prima  riga. 

Certe  correzioni  di  pura  forma  {jente  per  gente)  ripetute 
più  volte;  il  trovarsi  il  cod.  nella  patria  del  destinatario; 
certe  parole  della  dedica  sulla  scarsa  bellezza  del  libro, 
fanno  sospettare  che  questo  sia  autografo.  Ma  la  cosa  non 
è  facilmente  dimostrabile,  e  non  manca  qualche  ragione 
del  contrario. 

Ci  liberiamo  qui  da  alcune  scorie  della  grafia,  per  non 
rischiare   nella  fonetica  di  correr  dietro   alle  ombre. 

Apostrofo.  L'hanno  d'ordinario  le  parole  che  finiscono  in 
consonante:  un\  ognun  ,  ben',  fin',  ven',  ser',  par',  secur',  ecc., 
siavi  stata  0  no  l'elisione;  le  prep.  a',  su';  le  cong.  e',  0'; 
l'inter.  pe' ;  le  forme  verb.  va',  so';  non  l'hanno  molte  forme 
che  lo  richiederebbero  ;  né  l'hanno  i  due  tipi  ntenno,  rtroo. 
Quasi  a    modo    d'abbreviazione  è   usato    in    parole    come 


^)  Per  lo  stemma  tracciato  qui  a  penna  si  veda  il  frontespizio, 
^)  Ben  presto  del  cod.,  che  seguirà  le  sorti  delia  biblioteca  in  ven- 
dita, si  perderanno  le  tracce,  ove  qualche  biblioteca  dello  Stato  non 
si  affretti  a  registrarlo  fra  i  suoi  manoscritti.  Vana  è  stata   qualche 
pratica  da  me  iniziata. 


626  G.  CROCIONI 

a  conciare,  a'frittu,  a'mazà,  a'niazatu,  da'cordu,  o'si'i  per 
ossH,  ecc.  nelle  quali  scusa  la  doppia. 

Noi  lo  limiteremo  all'uso  moderno,  ponendolo  anche  là 
dove  il  Poeta  l'ha,  involontariamente,  tralasciato  ^). 

H.  Uso  incerto.  Può  dirsi,  in  linea  generale,  che,  oltre  ai 
casi  dove  è  o  si  crede  etimologico,  si  annette  a  monosillabi 
vocalici  bisognosi  di  una  distinzione:  è  {he)^  vuole  {o,ho),  a 
(spesso  ha),  ha  (a,  ha),  oh  {o,  ho,  oh),  ah  {ha,  a),  ecc.,  come 
si  vede,  senza  costanza.  Le  grafie  che,  chi  e  ghe  ghi  lo 
estendono  a  cha,  cho,  gha,  gho,  ecc.  Sarà  lasciato  dove  si 
trova,  non  producendo  confusione. 

Segni  ortografici.  Non  altri  che  l'apostrofo  e  l'accento 
(sempre  acuto  -)  e  un  po'  abusato),  tra  i  quali,  a  volte,  è  mal- 
sicuro il  sentenziare,  e  il  segno,  non  frequente,  dell'abbre- 
viatura. Si  è  rispettato  l'accento,  solo  aggiungendolo  dove 
era  stato  casualmente  omesso. 

Segni  di  punteggiatura.  Alquanto  capricciosamente  usati, 
incontriamo  .  :  ;  /^;  il  !  par  sostituito  dall'",  quando  non 
è  omesso.  Ridurremo  tutto  all'uso  moderno.  Così  disgiun- 
geremo 0  congiungeremo,  secondo  i  casi,  alcune  poche 
parole  che  l'A.  abbia  trattate  irregolarmente.  Es.  ben  cun- 


')  Per  mettere  in  avviso  il  lettore  trascrivo  fedelmente  alcuni  versi 
della  Commedia: 

I.     21  :  lu  oglio  gì  a'  troa 
22:  e'  glie  rascionaró. 
36:  non  pozo  fa'  ste  proe. 
52:  po'  so'  dannu. 
62:  l'homu  quanno  s'nvechia. 
70:  voglio  gì"  a'  troa  Pritu. 
72:  sa'  pili  che  nisciun'  altru. 
134:  n  seme  co  la  ergogna. 
141  :  Gaudentiu  n'  quae  modu, 
142:  strigni  pur'  lu  nodu. 
180:  pe'  so'  che  non  se  crede. 
^)  Rispetteremo  l'accento  usato  dall'A.  non  solo  nel  testo,  sì  anche 
negli  esempi  che  ne  trarremo  per  lo  studio  della  fonetica. 


'  LA   INTERVENUTA    RIDICOLOSA  '  627 

irati  (II  53)  scriveremo  be  ncuntrati;  van  malora  (II  708) 
va  n  malora  ;  eh' hautu  (1465)  ch'ha  utu,  ecc.,  rispettando 
scrupolosamente  la  lettera  del  testo  ^). 

G.  Crocioni. 


')  Cito  qui  una  volta  per  sempre  alcuni  opuscoli  di  poesia  dialet- 
tale marchegiana,  ai  quali  sono  spesso  ricorso  per  i  confronti.  A.  Leo- 
pardi, Un  altro  tee/amino  di  fagiiioU.  Città  di  Castello,  Lapi,  1891  ; 
A.  Mazzagalli,  W  artra  sgiiitarrata.  Recanati,  Simboli,  1889;  V.  E.  Alk- 
ANDRi,  Venti  sonetti  in  vernacolo  sanseverinate,  3*  ed.,  Foligno,  Campi- 
telli,  1888  ;  V".  BoLDRiNi,  Crescit  eundo.  Sonetti  in  dialetto  inatelicese.  Ma- 
telica,  Tonnarelli  1891;  G.  Vviocxccnui,  Scenette  popolari  {à\^\.  di  Pau- 
sola).  Civitanova-Marche  1899  ;  Raffaelli,  cf.  p.  599  e  n.  Cito,  sebbene 
incompiuto,  il  Vocabolario  metaurense  di  E.  Conti.  Cagli,  Balloni,  1898; 
inoltre  la  nota  Raccolta  di  voci  romane  e  marchiane  ecc.  Osimo, 
MDCCLXVIII;  il  Dizionario  anconitano-italiano  per  uso  delle  scuole 
elementari...  compilato  dal  maestro  Ldigi  Toschi  (la  sola  parte  I).  Castel- 
planio,  Romagnoli,  1889;  e  i  Vocaboli  del  vernacolo  fabrianese  inseriti 
nel  voi.  Ili  della  Guida  e  statistica  di  Fabriano  di  0.  Marcoaldi.  Fa- 
briano, Crocetti  1877.  Ricorro  spesso  al  Vocabolario  dell'uso  abruzzese 
compilato  da  G.  Finamore,  sec.  ed.  Città  di  Castello,  Lapi,  1893  ;  e  a 
Il  Dialetto  e  la  Etnografia  di  Città  di  Castello...  di  B.  Bianchi.  Città 
di  Castello,  Lapi,  1888.  Mi  giovano  anche  alcune  scritture  marclie- 
giane  inedite  o  edite  in  giornaletti  ;  e  sopra  tutto  la  conoscenza  del 
nativo  dialetto  di  Ai'cevia. 


628  G.  CROCIOM 


FONETICA 


Vocali   toniche. 

A.  —  1.  Intatto.  Da  attribuire  a  livellamenti  analogici: 

a)  i  gerundi  penzenno  II  682,  tramenno  II  866,  affannenno 
III  188,  troenno  III   189; 

p)  l'imprf.  hurlesse  III  272; 

Y)  gli  imperai  staate  pr.  2,  30,  49  ecc.,  daamo  III  749, 
daamola  II  949;  ai  quali  si  ricongiungono  daenno  II  809,  staete 
III  703'); 

ò)  le  forme  tenate  III  480,  mettate  II  885,  sentate  pr.  50, 
75,  venate  III  779  ; 

e)  ed  anche  le  l''  pers.  pi.  accittima  pr.  67,  nvecchima  III  527, 
miritima  IH  644,  ecc.,  cf.  §  90. 

Anche  qui  aìegro,  pr.  68,  III  212,  372.  -aeid  -aria.  I  due  ri- 
flessi: notariu  III  391,  377,  variu  II  893,  nventariit  III  390,  376; 
e  penzero  III  601,  lezeru  I  40,  forestere  III   663,  lettera  pr.  35. 

2.  E,  lungo,  I,  breve,  i  per  gli  eflfetti  di  -i  e  -u  :  cri,  cridi 
III  194,  II  441,  rina  reni  III  444,  mico  (mecoti)  I  837,  ticu 
(tecum)  I  465,  dillu  III  392,  tridici  II  46,  quiti  pr.  2,  viro  I  324, 
^f?«  II  631,  ntiso  I  151,  ^;'/s?f  III  328,  spiscl  II  243,  pilcine  II 
269,  puiritti  I  204,  sulittii  I  98,  saputillittu  I  457,  dicisci  I  222, 
sopisci  1  223,  credisci  I  154  ;  t;?  (vides)  I  209,  cosigli^  II  95, 
discignu  II  36,  strittu  II  860,  ?wtsso  pr.  27,  ws?^  I  278,  prumistu 
III  13,  fZ/«o  II  23,  ma^^^■«^f  I  458. 

3.  creditu  II  120,  mene  I  125,  ^ene  I  124,  della  110  ;  e^r^o 
eco  III  363,  I  207,  332,  metta  II  155,  malletta  II  784,  stretta  I 
152,  promesta  II  792,  (??<esse  III  261,  nseme  I  134,  II  629; 
stregue  pr.  40. 

*)  Nei  Documenti  volgari  maceratesi  editi  dal  eh.  sig.  L.  Colini-Bal- 
DF.scHi  in  Riv.  d.  Bihl.  e  d.  Arch.,  voi.  X,  un.  X,  n.  5-6,  doc.  XVI 
trovo  faite. 


'  LA   INTERVENUTA    RIDICOLOSA  '  629 

4.  All'analogia  dei  maschili  dovranno  imputarsi  :  quita  I  217, 
{aquifare  II  770),  assigna  II  998,  ditta  III  472,  vidua  II  927  ; 
all'analogia  dei  femminili  :  malletto  I  162.  Sono  forme  neutre  : 
quesso  I  146,  quello  pr.  47,  anche  se  in  funzione  di  maschili. 

5.  E,  breve,  i  (es)  I  160,  165,  II  143  e  altrove,  per  ridu- 
zione da  ie ;  tri  (eras)  III  610,  673. 

6.  versu  pr.  75,  traersu  pr.  74,  momentu  I  32,  pettu  I  409, 
l'ervellu  pr.  14,  frateìki  pr.  15,  fecatellu  I  92. 

7.  dece  II  33,  de  (dedit)  II  28,  vene  pr.  73,  II  661,  tene 
[I  321,  pe  (fede)  II  829  ;  ridenno  pr.  70,  esse  I  27,  ntenna  pr.  83, 
certe  I  66,  jente  I  9,  altramente  pr.  12. 

8.  0,  lungo,  U,  breve,  u  per  -«e  -u:  masearuni  II  560, 
castrimi  II  561,  spusci  III  534-35,  dutturi  II  220,  duluri  II 
821,  nvidiusci  HI  794;  cunusci  I  103,  161,  II  541,  respusi  I 
491  ;  spnsii  III  73,  jìensusu  pr.  18,  capricciusu  pr.  19,  pilusu  I 
106,  murusu  I  311,  /ma  pr.  44,  55  ecc.,  t;e«a  pr.  54,  connutti  pr.  51, 
uccursi  pr.  66,  funnu  II  207,  tunnu  III  418,  giuntu  II  716,  rw^iw 
III  394,  mw/io  I  217,  246,  III  318,  (^?*i)j9m  II  846. 

9.  furiosa  II  Q^,  rapaciosa  II  512,  6aos«  II  513,  spenzerosa 
II  364,  sola  I  121  ed  anche  gió  III  569,  miquagió  III  167,  /er- 
sora  III  427,  corno  I  16;  so  (sum)  I  17  e  passim,  to  I  218,  II 
337,  III  341,  so  suo  I  52,  II  697,  III  340,  gionte  II  78,  mponta 
II  138,  mpóntacese  II  151,  ogne  (ungere)  II  803. 

10.  connutte  II  637  o  è  semplice  concessione  alla  rima,  o  è 
riconiata  sul  maschile;  come  noiusa  I  29,  se  pure  non  s'avrà  da 
leggere  -osa  (del  che  non  sono  certo),  perché  in  rima  con  cosa. 

11.  0,  breve,  bua  pr.  45*);  cuntu  I  325,  cunti  II  38, 
lunghi  II  6f. 

12.  proa  II  200,  leìizola  I  199,  fora  1  354,  forscia  II  157, 
forza  1  129,  ecc. 

13.  Ora  in  ogni  1  58,  ora  in  ugni  II  571,  708,  ecc.,  si  ri- 
flette oMNis.  Notevole  mustra  III  566,  diffusa  tutt'ora  per  tanta 
parte  della  Marca,  e  ben  documentata  sin  dall'antico,  cf.  Salvioni, 
Pianto,  9  e  n. 

*)È  dell'Umbria  e  della  Toscana.  Cf.  Bianchi,  Dial.  ecc.,  26.  Nella 
Com.  e  solo  pi.,  come  in  Arcevia,  a  Città  di  Castello  e  altrove  ;  il 
Bianchi  lo  ti'ova  usato  al  sing.  in  S.  Angelo  in  Vado,  ma  si  dovrà 
attribuire  all'influenza  del  pi. 


630  G.  CROC  IONI 


Vocali  atone. 

A.  —  14.  Protonico.  Aferesi  :  ìtto  avuto  III  354,  540  e 
anche  I  465,  murusii  I  311,  ralbarda  alabarda  I  421,  e  stianvi 
anche  spettavo  II  750,  scoUare  II  438. 

15.  Noto  i  futiiri  :  stroaró  I  434,  rtroaró  II  195,  rparlaró 
II  18  e  421,  spettavo  II  750,  rparlarmia  III  155  ;  e  di  fronte  a 
sarrà  I  84,  serrò  I  9,   86,  e  sirria  I  273;   e    l'iniperf.  gabbarla 

II  183. 

16.  Finale.  Sopravviene  in  bua  45,  nua  55,  vua  54,  e  nelle 
prime  persone  plur.  §   le;   si   conserva  in  oltra  I  85. 

E.  —  17.  Protonico.    Afei'esi  :  suto  essuto  II  319. 

18.  Iniziale  e  interno  ora  si  conserva,  ora  viene  ad  i.  Resta, 
d'ordinario,  nei  prefissi  de-  e  re-:  desgratiatu  I  176,  delaniata  I 
217,  despera  I  226,  deletta  I  323  (ma  discritió  II  485,  e  -one  I 
281),  retini  I  25,  rechede  I  179,  resenta  II  617,  recea  II  823, 
reedecce  II  1028,  recrescesse  III  98  ;  nei  fatt.  saperd  I  19,  hqerd 
I  20,  vedere  I  284;  nelle  parole  prescione  I  98,  fenestra  I  358, 
secur  II  411,  megliore  II  389.  Per  i-  ci.  §  25. 

19.  Ma  assai  spesso  in  /:  cinutu  I  89,  rvinutu  III  734,  746, 
nisciunic  I  178  363  (e  anche  nesciuno  I  179),  svintiiratu  III  604, 
intura  I  101,  biatu  III  287  (e  anche  beatu  I  78);  sintutu  I  227, 
gintilezza  II  547,  iniria  III   594;    accittima   pr.    67,  pariria    I 

"196,  puirittu  I  501,  appititu  II  752  ecc. 

20.  Notabili  le  assimilazioni:  Sarafinall  7S0, pataracchia  11 
677,  ncollord  III  267,  -atu  III  268;  le  sincopi:  piiscione  II  221 
(possessione),  maldittu  III  149,  175  ecc.  e  malletto  1  162. 

21.  Postonico.  Interno:  sentatiluipv.  Ih,  poirul  405,  dam- 
milu  II  651  (che  veramente  è  da  un  mihi),  patritu  II  487,  geniro 

III  722. 

22.  Apocope,  discritió  II  485,  rasció  I  455,  custió  1  456, 
coW  II  556,  2^'''  padi-e  II  584,  comma  III  67,  j^jerso  II  849,  gagli 
III  411,  ^e  (pede)  II  829,  ma  male  III  740  (e  cam^jrf[ne?j  III 
442);  e  negli  infiniti:  da  I  352,  sta  I  353,  manca  I  333,  /(f  I 
334;  haé  1  350,  so^^e  I  448;  torce  I  312,  rescote  II  37,  ^jert^e  II 
120;  di  I  368,  rmi/  343,  mori  1  369. 


'  LA    INTERVENUTA    KIDICOLOSA  '  ()31 

I.  —  23.  Pro  toni  CO.  Aferesi  o  mezza  aferesi  nel  tipo  in 
+  cons.  :  ncomenzare  pr.  21,  ntenna  pr.  23,  ntricu  pr.  17,  mpresa 

I  4,  nguenaglia  III  235  ;  strumento  III  365  ;  stu  pr.  17,  24,  sit  1 
312,  sa  I  221,  III  134,  che  hanno  pure  le  forme  intere  istii  T 
435,  issu  I  278,  490,  essa  I  215. 

24.  Sono  desfni  di  nota  nitiu  III  540  (indicitim),  nijnd  II 
844  (in-divinare),  forme  terziarie  (nd  -nn  -n),  e  nome  II  1016, 
III  543,  per  in  nome,  che  si  sente  tuttora  nella  Marca  e  si  scrive- 
rebbe più  esattamente  n  nome. 

25.  Interno.  Spesso  e:  hesognato  pr.  4, 1  38  ecc.,  besognaria 

II  638,  despiace  1  308  e  III  332,  deferentia  II  57,  cettadini  II 
176  e  II  959,  lenguetta  III  414,  lecentid  III  846;  senterd  pr.  71, 
ereta  II  103,  veretd  II  788,  agnelecata  I  216,  gioenette  II  244, 
rasomeglid  II  248,  ecc. 

26.  Pel  tipo  rtogliesse  I  130,  rveni  I  343  ecc.,  cf.  §  15, 
Ascoli,  Arch.  gì.  I  531,  Bianchi,  Dial.  21,  e  n.  20. 

27.  Postonico.  Interno:  ordene  I  44,  desordeìie  I  45,  jì^^- 
tene  III  417. 

28.  Finale,  ce  pr.  50  passim,  stoce  II  606,  scusatece  pr.  44, 
reedecce  II  1028,  proedecce  I  136;  te  I  73  passim,  sentitte  I  90, 
jìarte  I  373;  me  I  13,  31  ecc.,  lassarne  I  253,  402  ecc.,  ve  II 
822,  1017,  se  pr.;  61,  de  I  33  passim;  cettadine  II  4:20,fiurme  III 
222,  «;jcme  III  653,  /«a;ie  II 303,  Jente  1 66,  ?e^e  II  398,  quae  I  446. 

29.  Noto  pure  la  caduta  deìVi  in  ha  I  440,  /a  I  438,  ma  I 
423,  sard  I  84;  jiw  poi,  o  vuoi,  passim;  c?m  pr.  3,  II  27,  nu  noi, 
vu  voi,  passim. 

0.  —  30.  Protonico.  Iniziarle,  ucciirsi pr.  66,  ulta  1  256-57, 
ichimé  1  321,  ugnunu  II  207,  sidittu  I  98,  cunusci  I  103  (ma 
cognusci  II  156),  /?M>-t  II  28,  durmi  I  121,  cumpagnu  III  394, 
wMr/"  I  225,  curnutu  II  139,  cuntrariu  II  399,  suUcitd  II  597, 
durria  III  51,  hunni  buon  di  II  863  (ma  6ow  awwo  II  886),  6?^- 
lignini  II  242,  furiscitu  III  585;    di   seconda   sillaba:    scimsidata 

I  211,  cunsulazione  II  615  (ma  consulatu  I  254),  scunturhata  II 
128;  capefocu  III  393.  Assimilazione:  Baiamone  II  393,111  818, 

31.  Postonico.  Interno.  Con  riguardo  all'it.  noto:  frottula 
pr.  58,  moseula   II    572,  semmida  II  520,  ?;»c?«<a  II  927,  scattule 

III  417;  e  anche  hàbhitu  III  598.  Unico  esempio  legittimo:  (f/a»7« 

II  727,  746. 


632  G.  CROCIONI 

32.  Finale.  Siamo  quasi  nelle  identiche  condizioni  del  Pianto 
edito  dal  Salvioxi,  7,  ove  si  eccettuino  ecco  e  deriv.  pr.  34,  73, 
multo  1  217,  homu  I  62,  ecc.  Dopo  n  viene  ad  -e:  Pitine  pr.  32, 
n  299,  Seerine  pr.  33,  gline  II  287,  piane  II  303,  ine  II  374  (che 
potrebbe  anche  essere  per  epitesi:  i-ne),  paladine  II|218,  cettadine 
II  429.  Nei  verbi.  1*  pers.  sing.,  resta  quasi  sempre:  voglio  II 
284,  arracomanno  II  125  ecc.;  ma  sacciu  I  93,  ahhracciu  I  199, 
haggiu  I  2,  ecc. 

U.  —  33.  Noto  :  remore  pr.  6  con  romore  II  293,  pilcine 
II  269  con  pulcine  II  262,  juinittu  II  930  e  II  673  con  gioenette 
II  244,  rescerd  II  444,  se  pure  è  da  citare,  cusci  I  172,  192  ecc. 
e  SHScl  I  331. 


Consonanti  continue. 

.T.  —  34.  Iniziale,  iuinittu  II  930,  949,  III  105,  250  ecc., 
ma  giuinittu  11  434,  673,  gioentù  III  1,  gioenette  II  244,  iusta- 
mente  II  1005,  iate  HI  499,  iamo  III  504,  ma  giamo,  passim, 
ioca  III  558  e  gioca  II  606,  giocu  III  140,  ianata  1  94,  ecc.  e 
gianata  1  250,  II  58,  353,  587.  Interno,  aiamà  1  264  e  aggiamd 
III  558,  agiamd  HI  285. 

35.  VJ.  lezeru  1  40. 

36.  SJ.  occascione  pr.  62,  fantascia  1  60,  127  ecc., prescioìie 
1  108,  hascià  III  715,  787,  hascio  II  68  ;  e  venga  anche  ascio  II 
67.  A  esito  eguale,  né  solo  in  apparenza,  viene  anche  SI:  stisci 

I  201,  cusci  1  205,  susci  1  131,  sci  1  314,  quasci  1  380,  resciste 

II  15,  cusciglià  II  90; 

37.  e  anche  SSI:  dicisci  1  222,  sajìisci  I  223,  haisci  I  361, 
assascinata  II  449,  e  quisci  II  163,  nei  quali  però  è  di  suono 
più  aspro. 

38.  TJ,  pascla  1  61,  mpascl  III  277,  pasciu  1  266. 

89.  PJ.  sacciu  I  93,  sacc/  II  188,  saccm  II  441,  saccente  II 
379  sapiente. 

Ij.  —  40.  Se  l'intacca  1'*:  ^ZHino  III  A\0,m,ugUll  905;  e  ven- 
gano anche  gagllna  II  552,  III  411;  e  coeglie  1  231,  e  migVanni 
II  594. 


'  LA    INTERVENUTA    RIDICOI.OSA  '  633 

41.  LD.  Notevole  l'assimil.  di  niaìUtt n  l -ÌS7 ,  III  733,  che  è 
pure  nella  forma  transitoria  maldittu  III  675,  149  e  maldetta  III 
171,  e  nella  classica  maledetta  II  236;  caldaru  III  416. 

42.  LT.  ota  I  48,  mut'  I  176  {muf  I  246  sotto  una  cancel- 
latui-a,  sopra  mulf),  di  fronte  a  vari  casi  in  cui  si  conserva  :  tmdto 
I  217,  olia  I  489.  Il  bell'es.  di  olia  I  146  in  rima  con  dota  I  145, 
quantunque  dalla  Coȓ.  non  sia  esclusa  l'assonanza,  riesce  signi- 
ficativo. Esempi  di  dialetti  finitimi  nel  Papaxti,  p.  96,  nmtu 
(Montefortino),  atri  p.  99  (Petritoli)  ;  dei  lontani  non  occorre  par- 
lare.  Cf.  Salvioni,  Pianto  10. 

43.  LM.  pormone  II  616. 

44.  FL,  PL,  BL,  CL.  affrittu  I  99,  II  929,  III  42,  af- 
fritta  III  364,  nfruenza  II  260;  pracatu  1  148;  ubrigatu  III 
206  ;   Crementiu  passim^  concrudilo  II  184,  e  III  55,  274. 

45.  reggie  I  306  (auriculae),  giusu  1 150,  giudi  I  306  (anche 
chiusti  I  107),  e  stia  pur  chiagiaró  III  9. 

R.  —  46.  Si  gemina  nei.  futuri  farrima  pr.  43,  46,  58  ecc., 
girrd^T.lO,  serrò  I  9,  86,  sarrà  I  84,  329;  negli  imperf.  sirria 

I  237,  dirria  I  243,  darria  I  502,  starria  II  931  ;  e  in  arraco- 
inanno  II  125;  subentra  in  stracca  I  367,  in  strifidatu  III  117, 
864,  se  è  da  s^;j9M7are  di  cui  ha  il  significato,  e  in  nodri  III  410, 

47.  Metatesi  :  stroppiabirri  III  457,  ntartenne  II  268,  nterte- 
nere  II  974^  sperfonnata  II  744,  fersora  III  487  {*  frissora  da 
frixorium). 

48.  Non  è  errore  stroaró  I  434  per  rtroaró,  avendosi  a  Ca- 
merino (Papanti  253)  stornenno  per  ritornando,  e  altrove  altri  casi 
simili  ;  ma  può  dubitarsi  che  sia  da  diverso  prefisso. 

V.  —  49.  Iniziale  o  intervocalico  cade  o  resta  senz'altra  re- 
gola, forse,  che  la  sintattica  :  di  fronte  a  ota  1  48,  aglio  pr.  31, 
0  pr.  65,  illa  I  10,  isu  I  88,  icinanza  I  241,  edé  I  295,  ecchio  I 
305,  ergognd  I  315,  enga  I  365,  acca  I  366,  ia  II  2  ecc.,  e  See- 
rine  pr.  33,  pioe  I  37,  proa  I  78,  troa  I  79,  coeglie  I  231,  j-JMt- 
ritti  pr.  48,  diaidu  I  258,  troaa  II  260,  magnaa  II  261  ecc., 
altrettante  ve  ne  sono  che  mantengono  il  V  primario  o  secondario. 

50.  Si  raddoppia  in  avvanza  II  251  ;  si  indurisce  in   besciche 

II  516. 

51.  W:  varnellittu  III  425. 

Studj  di  filologia  romanza,  IX,  40 


634  G.  CROCIONl 

S.  —  52.  NS  in  nz:  scunzulato  III  330,  spenzerosa  III  364, 
penzem  pr.  25,  lìenzando  I  203,  e  cf.  II  49,  I  158,  415  ecc. 
LS.  polzó  III  401. 

53.  SS.  Si  sdoppia  in  adesa  pr.  21,  63;  si  dissimila  in  prii- 
mistu  III  1^,  promesta  II  792  (Arcevia  :  j^fonierso  e  -mersa),  mesta 
(missa)  III  599.  Tale  dissimilazione  si  ritrova  in  molti  paesi  della 
regione. 

54.  ST.  cossora  III  828  e  costora  III  654,  690,  746  ecc., 
cussù  II  925,  131, 134,  III  279,  e  custit  III  2. 

N.  —  55.  Cade  regolarmente  davanti  a  S  :  cuscigliata  II  92,  co- 
siglio  II  95,  spasa  (expansa)  III  60,  (esemplari  comuni  alla  regione 
dell' -m:  Mazzagalli  :  cMsejY  33,  cusija  40,  nisijera  38;  Leopardi: 
cusiju  1&  ecc.);  in  recrescesse  III  98,  195,  recresctdo  III  369,  che 
sarà  recresciuto. 

56.  ND.  Assimilazione  progressiva:  manna  pr.  8,  facenna 
pr.  22,  ntenna  pr.  23,  conmitti  pr.  51,  hallanno  III  860,  A.  §.  24. 

57.  NGr.  agnelecata  I  216,  giugnia  II  208,  strignil  142,  stregue 
II  890;  e  stia  qui  anche  magna  II  252.  GJlT.  cognusci  II  167, 
cognoscesse  III  642  (ma   cunusci  I  103,  161);    ngnorante  II  348. 

M.  —  58.  Qualche  incertezza  nella  geminazione:  commo  II 
102  ecc.  e  corno  passim  '),  caminà  II  604,  amoglia  II  83,  ^es- 
samo III  741,  altrove  gessammo. 

59.  MB  si  assimila  in  commatto  II  235  che  vuole  esser  notato. 
Pongo  qui  anche  un  moccó  li  903  (un  boccone). 


Consonanti  esplosive. 

C.  —  60.  racomanno  pr.  76',  I  341,  II  125,  vechio  I  28,  tochi 
1  238,  fenochi  382,  ocM  I  383,  brocu  1  388,  ciochu  I  389  ecc.; 
facenna  pr.  22  (ma  -ce-  in  I  148). 

61.  —  fecatellu  I  92,  sfoca  I  400,  III  791,  allocata  III  688. 


')  Qui  la  geminazione,  da  imputare  allo  sdrucciolo  originario  quo- 
MODO,  si  estende  a  molti  dialetti  marchegiani  e  non  marchegiani, 
e  procede  anche  assai  più  in  là. 


'  LA   INTERVENUTA   RIDICOLOSA  '  635 

Q.  -  62.  CHstìó  I  456,  II  231,  301,  III  10. 

63.  aqqua  II  555,  623,  III    575    e    aquitare   II    293,   770 
anche  agua  II  828. 

G.  —  64.  Talora  dilegua.  Iniziale:  onna  II  88,  ancie  II    633 
interno:  shiuttitu    II    874;    shriare  I  69,  III  379,  492,  570,  758 
(ma  sbriga  III  824),  fruatu  III  632.  Ricordo  anche  spiatu  I  268 
veramente  da  oon-spicare  (in  Arcevia  :  spiga  spia).  Korting  8948 

65.  Palatina  iniziale,  par  che  tenda  a  jotacizzarsi,  come  ci  fa 
pensare  la  doppia  correzione  di  gente  in  jente  I  9,  II  141  (e  I  66). 

66.  Astorggiu  II  754,  759  e  Astorgiu  II  786,  lege  II 
377,  398,  e  legge  più  volte;  quagió  III  167,  590,  756,  hagio  III 
377  di  fronte  a  haggio  passim,  cf.  §  80. 

T.  —  67.  aiuda  I  16,  ^joderete  III  792;  in  venderellu  III 
423,  per  la  nasale  precedente. 

68.  Al  solito,  cf.  §  80,  bufine  I  46,  matinata  I  310;  escai- 
tide  III  413;  enclisi:  sentitte  190. 

Accidenti  generali.  —  69.  Prostesi.  Di  a:  acunsigliu  II 
491,  accontare  II  64,  arraffazonata  I  183,  arruina  II  453,  ar- 
raccomanna  II  125.  Giova  notare  che  il  1"  è  solo  fra  molte 
forme  normali,  il  2°  è  ben  noto  alla  lingua  antica.  Di  fronte  agli 
altri  stanno  le  forme  ma  recomanno  I  341,  racomanno  III  289. 
Di  s  :  sfor  I  483  ;  spenzerosa  III  364. 

70.  Epitesi.  mene  I  125,  II  356,  tene  I  124,  cuscine  II  500. 

71.  Epentesi.  Di  a:  Taramata;  di  r  cf.  §  46;  squastratu 
II  317  credo  per  errore. 

72.  Aferesi.  Di  i-  cf.  §  23;    di  a-  §  14;    di  e-  §  17. 

73.  Sincope.  Di  n  cf.  §  55  ;  di  Z  §  42;  di  ì;  §  64. 

74.  Apocope.  Cf.  §§  22,  29. 

75.  Metatesi.  Cf.  §  47. 

76.  Accento.  Non  occorre  da  notare  che  causa  I  473  in 
rima  con  scusa,  che  è  forse  rima  d'occhio. 

77.  Assimilazione.  ND  cf.  §  56;  LD  §  47.  Vocalica. 
Cf.  §  20. 

78.  Dissimilazione.  SS  cf.  §  53;  strica  II  655  (sfrigola 
proprio  di  vari  paesi  della  Marca,  da  triturare). 

79.  Enclisi,  pose  puossi  I  296,  II  %4i,volu  II  329,  vmne  II 


636  G.  CROCIONI 

462,  531,  841  (Raffaelli,  Mattinate,  votela),  voglie  III  552,  hatelo 
III  679,  stace  II  606,  parte  I  373,  tente  II  410. 

80.  Sdoppiamento.  Cf.  §§  58,  60,  66,  68. 

81.  Aggeminazione.  Cfr.  §§    46,  58,  66,  68. 

Morfologia. 

Nome.  —  82.  Genere.  Noto  i  pi.  neuti-i  fusa  I  47,  III 
424,  asa  II  572,  (ant.  lat.  vasum),  rina  III  444,  acora  III  448, 
soma  II  712  passa  III  437,  crespignall  711  (cf.  Caix,  St.  113); 
e  le  lenzole  III  404  che  viene  dal  neutro  ;  e  amore  II  698  fatto  femm., 
come  asa  vaso  II  80,  898,  dia  Dio  I  341  e  passim. 

83.  Desinenze.  Oltre  hutine,  ine  ecc.  §  32,    i   bua  pr,  75, 
diffuso  tuttora  nella  Marca. 

84.  Declinazione.  Di  terza  in  prima:  pella  III  200,  783, 
dota  II  21  ;  in  seconda  :  produ  II  899,  mani  III  506. 

85.  Numeri.  Noto  solo:    du  pr.  3,  II  27,  dui  II  59,  262, 
dece  II  33,  III  222,  inti  II  28,  31,  III  107,  se  II  242. 

Pronome.  —  86.  Personali,  me  mi  pr.  37,  te  ti  I  164, 
ve  vi  pr.  8,  glie  gli  (e  a  loro)  pr.  20,  se  si  pr.  23  ;  mia  pr.  44, 
vua  pr.  54,  nu  pr.  43,  vu  II  872. 

87.  Possessivi.  I  pi.  mia  II  215,  tua  II  473,  e  il  masch. 
mia  I  443,  III  608  ci  danno  il  diritto  di  compiere  le  serie,  po- 
nendo anche  sua,  tanto  per  il  maschile,  quanto  per  i  pi.,  sull'auto- 
rità dell'uso  vivo  esteso,  per  lo  meno,  dalla  provincia  di  Macerata 
(regione  dell'  -u,  Papanti  81,  82,  84,  85,  254,  259,  266  ecc., 
Rafaelli  10  ecc..  Procaccini,  Mazzagalli,  Oleandri,  Leopardi, 
BoLDRiNi  ecc.  passim)  sino  ai  dialetti  gallo  -  italici  della  Marca 
(Conti  IX)  *).  A  queste,  che  parrebbero  accennare  a  fissità  di  decli- 
nazione, altre  se  ne  aggiungono  non  estranee  ai  dialetti  finitimi:  me, 
mi  (Papanti  258);  e  to,  so,  cf.  §  9,  di  cui  esempi  in  Papanti 
97,  98  ecc.  e  negli  autori  citati  qui  sopra,  passim.  Non  trascu- 
rerò, sebbene  comuni,  i  nessi  figliama  II  139,  III  776,  figliata 
figlimu  III  58,  73,  194  patritu  II  487,  babbitu  III  598. 
87*'*.  Relativi,  chi  il  quale  (nominativo)  II  335. 

')  E  più  in  là.  Cf.  Meyer  in  Grundriss  del  Grober,  547;  Bianchi, 
Dial,  26;  Meyer  L..  It.  Gr.  213,  o  meglio  D'Ovidio,  ^rcA.  .9?.  XII  176. 


'  LA    INTEUVENUTA    RIDIGOLOSA  '  6ii7 

88.  Dimostrativi,  quidu  pr.  33,  qiiissu  I  466,  quillu 
pr.  41  (quigli  I  84),  issu  I  278,  su  I  312,  stu  pr.  17,  istu  I  435, 
costa  III  2,  ciissH  II  131  ;  quessa  III  265,  quella,  essa  I  215,  sa 
I  221,  sto  I  4,  testa  I  273,  colle  II  505;  cos^om  III  654,  690, 
cossora  III  828  (vale  '  i  parenti  '  o  '  grappo  di  persone  nominate  ')• 
L'  -a  delle  due  ultime  forme  le  congiungerà  con  i  pi.  mia^  tua, 
sua,  §  87  e  con  lora  loro,  di  molta  parte  della  Marca. 

89.  Indefiniti,  quae  pr.  22,  I  446,  cosa  niente  II  725, 
III  365,  385  ecc.,  coelle  niente  pr.  28  ecc.,  chinga  I  163.  Questo, 
vive  per  la  Marca  (Papanti  254  (Camerino),  258  (Mogliano)), 
(Leopardi  :  13  chlnche  scia),  in  Arcevia  ò  chinra  (Marooaldi  :  chinca 
147)  e  va    unita    con  -sìa,  chincasia  chicchessia. 

Verbo.  —  90.  Indicativo.  Pres.  Notevoli  le  forme  vaco  I 
189,  II  809,  III  176,  rvaco  I  42,  daco  I  43,  staco  III  192,  reco  I 
207,  322,  con  i  cong.  vacali  56,111  188,  daca  III  7,  573,  staca 
III  41,  Veca  1  343,  tutte  vive  (Papanti  81  :  sago  sono,  Mazza- 
galli  :  vago  29,  vaga  4,  fago  7,  faga  8,  40,  staga  31,  daga  40, 
digo  27  ecc..  Procaccini  :  vaco  30,  vaca  33,  38,  veco  53,  Leopardi: 
daca  31,  Oleandri:  veco  17,  daco  22,  vaco  23,  Marooaldi:  faga, 
faca  151)  3f.  Meyer  in  Grundris  del  Grober  ,  539;  e  i  plurali 
scima  pr.  45,  I  482,  II  53  ecc.,  tdima  II  948,  vulima  III  216, 
scrijma  III  344,  pudima  II  883,  non  meno  che  farrima  pr.  43, 
46,  58,  III  863  ecc.,  podirima  pr.  47,  reederima  II  887,  idirima 
III  133,  rparlarima  III  155,  rentrarima  III  800,  Salvioni, 
Pianto  12-13.  Si  ha  forse  un  es.  di  sema  1  82.  Cf.  §  1  e. 

91.  Congiuntivo.  Cf.  §§  1  ò  e  90;  inoltre  magna  II  127, 
apparechia  1  63,  deora  III  581,  spechia  II  553,  strica  II  655, 
deenta  II  567,  e  molti  altri.  Per  i  congiunt.  di  2'',  3*  e  4*  coniug. 
cf.  §§  1,  2. 

92.  Ini  per  f.  Indie.  Notevole  statia  1  98,  99  (e  il  cong.  sta- 
tesse  II  959,  III  366),  (Papanti  259,  261,  è  d'uso  comune),  pei 
quali  cf.  Salvioni,  Pianto  13,  14;  giaa  ibat  1 184,  II 827,  III  585. 

93.  Participio.  Cf.  §  18.  beta  II  80.  Nel  reat.  bèta  e  bitu 
bibita.  Ca^epanelli  15;  pistu  III  830. 

94.  Me  tapi  asmi,  paté  1  430,  III  594;  giaa  ecc.  cf.  §  39. 
Fuggici  1  234.  Il  passaggio  di  questo  verbo  alla  coniugazione  1* 
è  comune  a  molta  parte  della  Marca;  anzi  il  Salvioni,  Pianto, 
14,  lo  dà  come  un  distintivo  del  Marchegiano. 


638  G.  CROCIONI 

Avverbio.  —  95.  In  -mente,  altramente  pr.  12.  Di  modo. 
ìiseme  I  134,  II  639,  corno  pr.  57  e  commo  I  429,  cusci  I  118, 
SUSCÌ  I  331,  secunnu  III  300.  Di  esortazione:  ossii  pr.  1  per 
assimilazione,  osh  I  237;  assaia  cf.  Gloss.  Di  tempo:  arfessa  pr. 
12  (nel  pausolano  iera  ieri,  Pbooaccini  30),  com'  II  745  in  valore 
di  '  non  appena  '  (Arcevia:  co),  po'  che  pr.  51,  n  questo  I  494,  tnà 

I  450,  ajamà  I  264,  agiamd  III  285,  amaramd  oramai  III  161, 
janata  e  gianata  1  94,  250,  II  58,  353,  587  ecc.  (Rafpaelli,  Matt. 
23  e  n.  55.  Ivi  2S  anche  Janajanata).  Di  luogo:  fora  pr.  51,  I 
354,  sfor  I  483,  do  (ubi)  I  137,  yió  1  23,  214,  291,  quagió  1 
286,  nante  II  349,  nanti  III  276. 

96.  Assai  più  ossservabili  sono  le  forme  esso  III  534  {es- 
sogli III  657),  elio  III  528,  ecco  [decco  III  25  col  d  prostetico), 
unite  con  il  prefisso  mi-  a  formare  miesso  II  136,  miello  III  698, 
miecco  pr.  34,  talora  scritte  separatamente  :  mi  ecco  I  355,  alle 
quali  si  uniscono  tnilld  III  174,  migiiagió  III  167,  framiecco  III 
477.  Il  Raffaelli  (Papanti  255)  ci  dà  per  il  dialetto  moderno  mie, 
mecquì,  meccjuà,  mie,  meli),  niella,  messo,  oltre  a  miecco  e  miello. 

II  prefisso  si  rincontra,  avverbiale  o  preposizionale,  nel  camerinese  : 
melu  (Papanti  253)  e  nel  trejano:  we/^Zà  (Papanti  258),  nel  ma- 
telicese  :  me  lu,  me  la  ecc.  (Boldrini  15,  22,  39,  48),  nel  recanatese  : 
mecqu),  mecquà,  mellè,  mellassà  (Mazzagalh  5,  21,  8,  31,  39  ecc.), 
nel  fabrianese  (Marcoaldi  159):  men  in,  e  credo  per  buona  parte 
della  Marca.  In  Arcevia  s'usano  :  macchi  e,  raramente,  macchitta, 
macqicà,  malli,  e,  raramente,  malUtta  '),  malia,  mallasstì,  macquajù. 
TI  Conti,  Voc.  Met.  216,  segna  mala  e  77ialé,  trascurando  varie 
forme.  Per  altre  varietà  dialettali,  marcheg.  e  non  marcheg.,  vedi 
Arch.  gì.  it.  II  444-446,  dove  ne  parla  l'Ascoli. 

Interiezione.  —  97.  cappita  II  978;  pe  I  134  passim  (è  una 
mezza  espressione  che  si  pronunzia  coll'e  stretto,  prolungando 
il  suono  in  senso  fricativo);  potta  I  234  espressione  volgare  di 
meraviglia. 

')  Mi  sia  permesso  ricordare  anche  gli  avverbi,  ormai  di  uso  ri- 
stretto, litta  lì,  chitta  qui,  accuscitta  così,  acculuscitta    in  quel  modo. 


'  LA    INIKRVK.NLTA    RIDICOLOSA  '  639 


GLOSSARIO 

Abbìitinato  II  54.  Probabilmente  vale  *  raccolto  ',  quasi  *  avvol- 
tinato  '. 

Ajamd  I  264,  agiamd  III  285,  aggiamd  II  751,  ormai. 

Allappa  I  49,  attaccarsi.  Dal  marcheg.  lapjya  lappola  {Race.  98). 
Con  significato  analogo  in  Race.  8. 

Amaramd  III  161.  Cf.  §  95. 

Ampu  II  173.  Certo  è  un  male,  forse  cutaneo,  ma  il  significato 
preciso  sfugge.  Da  vampo.  Il  Manuzzi  dà  qualche  esempio 
analogo. 

Annutiatu  III  150,  ammogliato.  Da  nnptiae. 

Aspa  III  424,  aspo.  Più  fedele  dell' it.  all'etim.  haspa.  Zambaldi 
81,  Toschi  26  innaspa,  38  nnaspa,  Marcoaldi  140  annaspa  ; 
spagn.  asjya. 

Assaia  HI  649  '  passa  via  '.  Cf.  roman.  pussa  via,  fabrian.  e  reat. 
pissa  via  (Marcoaldi  165,  Campanelli  23). 

Assigna  ^l  998,  novero,  computo.  Cf.  §  4. 

Batticore  I  89,  battito  di  core. 

Burletta  III  415,  piccola  borraccia.  Korting   1658,  2"'  ed. 

Botenellu  II  520,  recipiente  in  forma  di  botticella  (it.  bottinò) 
da  tener  cereali,  semola  ecc. 

Brochu  I  388,  brocca.  Più  vicino  dell'  it.  all'etim.  Tlpò^ooc,.  Cf,  Kor- 
ting 1582. 

Butine  I  46,  bottino. 

Cannitu  II  589.  Non  è  chiaro.  Forse,  per  metaf.,  tranello,  im- 
broglio. 

Capicciu  III  405,  capecchio.  In  Arcevia  cajJeccio,  a  Velletri  capercio. 

Ciocti  I  239,  389,  pianella,  zoccolo  col  fondo  di  legno.  Cf.  cioce. 

Coelle  III  53,  qualche  cosa.  Cf.  Caix,  St.  18. 

Copeza  I  890,  II  756,  capo.  Toschi  23:  cupizamxcz.',  sp.  caheza, 

lat.    CAPITIUM. 

Coza  I  191.  Nell'abr.  '  scavatura'  (Finamore  173),  e  '  sudiciume  ', 
in  Arcevia  '  roveto,  cespuglio  folto  '  (cf.  it.  accozzaglia).  Qui 
0  grandi  rughe  o  gran  quantità  di  peli  nel  viso  da  celare 
con  la  "  calcina  „  cf.  v,  185,  o  viso  lordo,  Cf,  Cajipanelli  214. 


640  G.  CROCIOM 

Cudiruta  I  376,  caudata,  forse  con  allusione  inonesta.  Nella  Marca 
coderizzo,  Toschi  22,  Race.  53  (Fabriano  cudirizzo,  Marcoaldi 
149,  in  Arcevia  anche  coderuzzo)  per  similitudine  l'orlo  del  pane; 
coterone  il  codione  o  codrione  (Conti  148,  codiron  e  cudiron). 

Fantella  II  744,  giovinetta.  Cf.  it.  fante,  fantolino  ecc.  Per  afe- 
resi  da  *>nfantella.  Nella  canz.  del  Castra  10  :  fantilla.  Mo- 
naci,  Crestom.  492. 

Fitto  pr.  49,  II  207,  433,  III  150,  251,  fermo.  Da  (figo)  kictu 
quasi  confitto,  inchiodato.  Cf.  Kortino  3729. 

Fitìf  II  631,  figlio.  Dialetti  vicini  usano:  fetóne  giovinetto,  fé- 
taccia  giovinetta,  ecc.  Cf.  it.  '  feto  ',  lat.  fetds. 

Ft'ottula  pr.  58.  Si  usi")  spesso  per  '  rappresentazione  drammatica  ' 
in  genere. 

Fustii  II  346.  S'usa,  per  similitudine  come  qui,  a  indicare  uomo 
inetto,  nelle  locuzioni  :  dà  retta  a  sto  fusto,  senti  sto  fusto  ecc. 
per  '  ascolta  me  '.  In  fondo  ha  il  significato  it. 

Intervenuta  pr.  61-62.  È  il  titolo  della  Coni.  L'A.  interpreta 
"  occascione  „,  mostrando  di  crederla  già  in  uso;  noi  cre- 
diamo sia  un  neologismo  di  lui,  cf.  pr.  61-62,  e  pag.  507. 

Janata.  Cf.  §  116.  La  forma  guanata  che  trovo  in  altre  rime  an- 
tiche cingolane  inedite,  consiglierebbe  di  ravvicinarlo  agli  esiti 
di  HOC  ANNO,  Korting  4568,  quasi  da  '  hac  annata  '  (?). 

Laa  II  249.  Il  testo  legge  "  a  laa  „  con  un  "  la  „  sovrinterposto. 
Deve  trattarsi  di  concrezione,  perchè  in  un  cod.  veliterno  del 
400  leggo:  lo  lavo  del  sole,  e  in  un  testo  arceviese  antico: 
i  loglie  gli  avoli. 

Lapiggiu  III  703,  laveggio,  cf.  Parodi,  Romania  XIX  484. 

Lenguetta  III  414,  linguetta  della  lucerna. 

Lu  Q  lo  11  667,  III  727,  III  773.  In  nessuno  dei  tre  casi  la  di- 
zione è  chiara. 

Magnattu  II  237   mignatta.  A    Cori    ìnagnatto;    nell'abr.  magnite 

baco.    PlNAMORE   208. 

Maia  1  152,  289,  298,  867,  378;  III  8,  164,  195,  600,  621  ecc. 

La  parola  non  è  più  viva  a  Cingoli. 
Manecane  I  14,  II  195,  417,  mangiare. 
Matterà   III  412,  madia.  In  Arcevia    mattra,  MÓKxpa.    Race.  107. 

Toschi  28,  mattra  e  matterà. 
Mente    1  495,  tener   m-   badare,   porre    attenzione.    Cf.    Salvioni, 

Pianto,  pag.  30.  Vale  lo  stesso  la  frase  mjìorre  metile,  II  363. 


'  LA    INTERVENUTA    RIDICOLOSA  '  641 

Moscula  II  572  palèo.  Così  a  Fabriano  (Marcoaldi  160). 

Mpampanatal  251,  disgraziata?  cf.  §  97. 

Nitrita  III  237,  sta  in  un'imprecazione.  Così  nella  Marca  si  ode  : 
che  possa  abbaiar  come  un  cane,  e  sim. 

Nomata  I  300,  nomea  (nominata). 

Ntoccu  1  213.  Nell'abr.  (Finajiore  225)  :  ndocche  e  nducchette  specie 
di  brodo  (cf.  tncchette,  Finamore  306).  Qui,  per  similitudine, 
acqua  lotosa. 

Nuenza  li  691,  Cf.  la  n. 

Nulla  l  488.  Par  certo  che  si  debba  leggere  n'uUa  ;  ma  sarà  im- 
possibile che  si  debba  leggere  mdia  da  nolehayn  ? 

Pana  III  418,  Toschi  30:  panava  spianatoia. 

Panneìla  III  399,  grembiule. 

Pataracchia  II  677.  Nel  Fanfani  :  pateracchio,  ma  il  significato 
non  è  uguale. 

Piste  II  16.  Dev'essere  parola  del  gergo. 

Polzó[tie\  III  401.  Basta  il  v.   "  un  polzó  pe  na  balestra  „. 

Proenne  II  220,  provende  {praehenda,  Zambaldi  633)  per  azione 
della  labiale  scomparsa  {jyrovenna).  Cf.  Korting  7360. 

Radetora  III  426,  radimadia. 

Ramajó  III  396,  ramaiuolo. 

Rapacciusu  I  435,  II  512.  Nel  Finamore  254  :  rapacciose  pieno  di 
loia. 

Ridlusii  I  416,  forse  sozzo  (Abr.  ridle  loia,  Finamore  259). 

Shiscid  I  39,  sdrucciolare.  In  Arcevia  sbriscià,  Fabriano  (Mar- 
coaldi  168)  shigidf  sbigicu,  sbiscicd. 

Sbiuttitu  II  864.  Cf.  §  64.  Si  aggiunga  in  Caix,  Studi  ecc.  37-38. 

Scorti  II  796,  accorti. 

Scote  II  996,  riscuotere. 

Scìdtrinato  III  111,  rifrustato.  Per  metaf.  da  coltre  (dei  letti). 

Scunturbatu  II  128,  disturbato.  Cf.  la  frase  che  è  popolare. 

Scuppà  II  686.  Non  ha  il  signif.  di  Race.  166,  ma  di  arricciare, 
accartocciare,  dar  forma  rotonda.  Cf.  it.  '  coppo  ',  e  Kor- 
ting 2693. 

Spallacollu  III  178.  Parte  dell'indumento  femminile,  ma  non  ne 
ho  notizia. 

Spara  III  397,  cercine.  Da  separa  (s'para). 

Stizd  I  328,  smuovere,  accrescere.  Nelle  Marche  stizzd  (e  anche 
scatizzd   * scapotizzd)  e  nell'Abr.  (Finamore  292)  vale  levar 


642  G.  CROCIOM 

la  parte  arsa  del  tizzo,  perché  bruci  meglio.  Qui  per  simili- 
tudine. 

Stricd  II  655,  stritolare.  Race.  185.  In  Arcevia,  strigolà.  Cf.  §  78. 

Strifulà  II  1018,  III  117,  864.  Cf.  §  46. 

Trocu  III  407,  trogolo.  Cf.  cioco. 

Trufa  III  415  (in  Arcevia  truffa),  boccia  di  terra  cotta,  che  si 
suol  chiamare  anche  giusta,  da  tener  liquidi.  Nella  canzone 
del  Castra  (Monaci,  Crestom.  491)  trufo.  Si  può  vedere  con 
qualche  utilità  Campanelli   153-54,  e  meglio  Korting  9794. 

Tunnu  III  418,  scodella,  per  la  forma.  In  Arcevia  'tonno'  e 
'  tonnine  '. 


LA  INTERVENUTA  RIDICOLOSA 


Questi  saranno  nominati  in  fra  tempo  nella  Commedia  secondo  che 
occorrerà  : 


Brodc 

PiLDSU 

RUSCINA 

FlNOZA 

Strina 


Stura 

Patarachia 

Sabafina 

astobgio 

Stroppiabirri. 


INTERLOCUTORI 


zecchi 


Pritu 
Scuffiottu 
Crementiu 
Gaudextiu  figlio  de  Cre- 
mentiu innamoratu 
Taramata  moglie  de 


ClABÓ 

Saporetta  figlia  de 

ClABÓ 

Ser  Ciappellitu  notariu 
Pasqua  testimoniu 

ClABÓ 


644  G.  CROCIONI 


AL  MOLTO  R.  S.  IL  SIG.  THEOFILO  NICOLO 

Dovendo  io^  R.  S.  mio,  degnamente  corrispondere  a  tanti 
singular  favori  da  lei  recevuti,  conveniva  senz'alcun  fallo 
maggior  celerità  nel' eseguir  il  debito  mio.  Il  qtial  manca- 
mento si  come  conosco  e  confesso  cosi  defendo  non  dover  es- 
sere in  mala  parte  preso  da  lei;  considerata  adunque  la 
deboleza  del  mio  ingegno,  distratto  massimamente  da  mille 
occupazione  noiose,  appena  gl'anni  bastarano  cionche  i  mesi. 
Anzi,  se  io  me  fusse  resoluto  con  minor  maturità,  haverei  dato 
segno  de  stimar  poco  i  meriti  suoi,  e  de  conoscer  molto  meno 
le  forze  mie. 

Ma  io  tratto  questo  punto,  come  se  dopo  molti  dolori  ha- 
vesse  partorito  qualche  gran  cosa;  et  pure  io  la  conosco  assai 
bene,  et  non  m'accuso  meno  nell'uno  di  quello  che  me  scusi 
nell'altro.  Ma  perché  quello  che  io  do  a  V.  S.  é  pure  il  meno 
imperfetto  per  esser  primo  parto  uscito  da  me,  spero  che  sotto 
nome  di  bono  mi  si  debbia  far  bono.  Essendomi  dunque,  R.  S., 
pervenuta  a  le  mani  una  compositione  in  prosa  raccolta  in 
buona  lingua  da  un  gentil  homo  maceratese  sopra  alcuni  casi 
occorsi  nella  mia  città,  m'he  parso  per  far  più  gl'animi  de- 
gl'uditori alegri  tradurla  in  rima  in  vocabolo  cingolano  con 
verso  sgroboloso.  Tanfo  più  che  lei  (mentre  dett' opera  veniva 
in  compositione)  mi  favori  richiederla,  ala  quale  ha  potuto 
più  in  me  il  desiderio  di  ubbidirli  che  il  dubbio  di  dispia- 
cerli, volendo  più  tosto  ch'ella  mi  tengha  per  poeta  poco  in- 
tendente che  per  servidore  poco  discreto.  La  presento  dunque 
sotto  la  scorta  della  sua  benignità  più  tosto  che  sotto  la  cen- 
sura del  suo  giudicio,  supplicandola  benignamente  scusare  pili 
che  gradire,  perdonando  i  suoi  difetti,  quali  per  il  poco  spatio 
di  tempo  sono  causati  senza  farn'altra  copia.  Prego  l'huma- 
nitd  sua  che  dispenzi  l'ignoranza  mia  col  riceverlo  almeno,  e 
con  aggradire  il  mio  bon  animo,  con  il  quale  mi  racco- 
mando sempre  nella  sua  buona   grafia,  e  le  bacio   la  mano. 

Di  Mac  [erata]  li  6  di  Xbre  1606. 

D.   V.  S.  M.  R.  [della  V.  S.  molto  rev.]. 

Divof""  serv""'  f.  Dom"^"  B. 


'  LA   INTERVENUTA   RIDICOLOSA 


645 


COMMEDIA 
detta  La  Intervenuta  ridicolosa 

fatta  in  sdruzolo,  alla  Cingolana,  nela  quale  se  referisce  casi  avenuti 
da  personaggi  che  infra  ragionamento  se  nominaranno,  composta 
ad  istantia  del  M.  R.  S.  Theofilo  Nicolo  da  la  Serra  de  S.  Quirico. 
In  Macerata.  1606.  ') 

PROLOGO 


0  ssu,  non  pili  ciarlare, 

staate  n  pò  quiti, 

A  ddu'  partiti 

m'é  besognato  rescire.. 

Anzi,  per  non  patire  5 

che  .se  facesse  remore, 

l'altr'é  che  l'autore 

ve  manna  a  fa  la  scusa 

come  che  s'usa 

su  le  commedie  fare.  10 

Io  non  lu  posso  scusare 

per  adessa  altramente, 

se  non  ch'ha  poca  mente 

e  ha  manco  cervellu. 

Dello  re:to  é  bon  fratellu       15 

e  bon  amicu. 

S'ha  pigliatu  stu  ntricu 

per  sta  m  pò  pensusu, 

perché  é  capricciusu 

e  glie  piace  de  stentare:       20 

adesa  vo  ncomenKare 

a  fa  quae  facenna, 

se  ben  par  che  se  ntenna 

pocu  de  stu  mesteru, 

pure  lu  pocu  penzeru  25 

lu  fa  scappa  dalla  strada. 

Ma  io  me  so  misso  a  bada 

e  non  dico  coelle. 

0  ssù,  sorelle, 

staate  tutte  a  sentire  30 

quello  che  ve  oglio  dire. 

Quist'é  Pitine, 

Castellu  de  San  Seerine, 

e  miecco  sta  sera 

s'ha  da  scurdar  la  lettera.       35 

Perché  ridete? 

non  me  ntennete? 

s'ha  da  piglia  moglie, 


che  ve  enga  le  doglie  ! 

s'ha  da  stregue  lu  nodu.       40 

E  se  bene  in  quillu  modu 

che  fa  gli  cettadini 

non  farrima  nu  contadini, 

scusatece,  che  nua 

scima  nati  fra  gli  bua.  45 

Basta  che  farrima 

quello  che  podirima, 

da  puiritti. 

Ossù,  staate  mpó  fitti, 

e  sentate  ben  tutti,  50 

pò  che  ve  ce  sciete  connutti. 

E  com'  haima  finito 

tutti  ve  nvito  ') 

a  cena  con  vua, 

perché  fra  de  nua  55 

non  ce  porreste  stare. 

Como  se  fa  chiamare 

la  frottula  che  farima? 

credo  che  prima  prima 

tutti  raggiate  saputa:  60 

se  chiama  la  Intervenuta, 

e  attesa  é  l'occascione; 

con  gran  rascione 

fora  l'ha  fatta  scappare, 

perché  ve  o  racontare  65 

certi  casci  uccursci. 

V'accittima  tutti 

alegramente  a  sentire; 

e  ha  lo  partire 

ridenno  se  girrà,  70 

perché  se  senterà 

cose  de  piacere. 

Ma  ecco  che  vene 

Pritu  de  qua  a  traersu: 

sentatilu  per  versu,  75 

me  raccomanno. 


*)  Così  nel  frontespizio. 

^)  In  una  correzione  :  nritimo. 


646 


G.  CROCIONI 


ATTO   PRIMO 

Scena    Prima 
Pritu  sulu. 


0  potta  de  me  ! 

haggiu  pigliata  lu  gran  aflFruntu  ! 

non  so  se  mette  cuntu 

de  piglia  sta  mpresa; 

Dio  lo  sa  che  me  pesa,  5 

pur  non  voglio  manca; 

se-  posso  trama 

quello  che  aggio  su  la  mente, 

serro  tenuto  dalla  iente  ^) 

per  lu  saggiu  della  illa.        10 

0!  lu  cervellu  me  grilla, 

se  sta  cosa  farro 

credo  che  me  guadagnare 


spissu  spissu   da  manecare. 

L'homu  per  non  rubbare       15 

s'aiuda  comò  po'. 

Io  certo  so 

ch'ha  Scuffiottu  piacerà. 

Como  lo  saperà 

ancora  m'haerà  a  paga;        20 

lu  oglio  gi  a  troà, 

e  glie  rascionaró; 

ma  per  le  scale  gió 

io  sento  caminà. 

Me  oglio  retirà  25 

per  senti  ciò  che  dice. 


Scena  Seconda 
Scuflaottu  e  Pritu. 


ScuFF.  0  !  Diu,  l'esse  vechio 
É  una  mala  cosa! 
A  me  m'é  tanto  noiusa  ^) 
che  non  lo  pozo  pati.         30 
Me  credo  de  mori 
a  ogni  momentu. 
Se  tira  mpó  de  entu, 
de  casa  non  pozo  scappa, 
lu  catarru  me  fa  cala,       35 
non  pozo  fa  ste  proe. 
Quanno  pioe 
me  besogna  n  casa  sta 
per  paura  de  non  sbiscià. 
perché  lu  pé  é  lezeru,       40 
e  io  mizu  ^)  com'un  piru; 


8  a  casa  rvaco, 

allu  diaulu  me  daco  : 

non  rtroo  cos'all'ordene. 

La  casa  sta  n  desordene,       45 

par  che  scia   mess'a  butine. 

o!  io  ho  le  fusa  pine, 

s'una  ota  ne  scappo. 
Prit.    Adessa  me  gli  alappo 

e  glie  dico  della  moglie,       50 

e  se  non  la  o  toglie, 

pò,  so  dannu! 
ScuFF.  0!  sent'un  aflPannu 

che  lu  core  me  straccia. 

Besognarà  pur  che  faccia      55 

quello  che  non  vulia  fare  : 


')  Sotto  la  cancellatura:  gente. 

*)  Cf.  Prefazione,  pag.  602. 

")  In  una  cancellatura  pare  :  mizzu. 


'  LA    INTERVENUTA    RIDICOLOSA 


647 


moglie  me  besogna  pigliare 

a  ogni  modii. 
Prit.    e  strittu  lu  nodu, 

ci  ha  mpó  de  fantascia;        60 

dà  su  la  pascià 

l'homu  quanno  s'nvechia. 

Besogna  che  m'apparechia 

a  cacciaglie  quattro   carote. 
ScuFF.  Ma  quello  che  me  percote       65 

é  lu  di'  de  certe  jente, 

che  l'homu  non  pò  fa  niente 

che  non  lo  oglia  nasare. 

0!  io  me  oglio  sbriare, 

voglio  gi  a  troà  Pritu  70 

che  ste  cose  a  mena  dita 

sa  più  che  nisciun  altru. 
Prit.    Adessa  te  tengho  per  scaltru 

e  per  homu  saccente, 

adesso  credo  che  la  mente       75 

haggi  su  lu  cervellu. 
ScuFF.  0  fratellu! 

Beatu  chi  non  proa! 

chi  va  a  casa,  troa 

ugni  cosa  accommodatu:        80 

la  matre  l'ha  cacatu 

quanno  sem'a  !a  luna. 
Prit.    Rengratia  la  fortuna, 

che  presto    sarrà   de    quigli, 

che  oltra  a  gli  figli  85 

serra  ben  goernatu; 

par  che  te  sii  mutatu 

su  lu  isu  de  colore? 
ScuFF.  M'é  vinutu  lu  batticore 

a  sentitte  parlare;  90 

par  che  me  senta  forare 

lu  fecatellu, 

fin  che  non  sacciu  quillu 

che  tu  innata  dici.  ') 
Prit.    In  fatti  gl'amici  95 

non  se  conosce  mai 

se  non  su  gli  guai; 

tu  statij  sulittu, 

statij  sempre  aftrittu 

e  rascioni  con  li  mura;        100 

senti  ra  pò  sta  intura 

che  t'haggio  troata: 

cunusci  Taramata, 


la  moglie  ch'era  de  Cii;bó 

quillu  che  se  troó  105 

alla  morte  de  Pilusu, 

che  per  non  esse  chiusu 

drent'a  na  prescione 

(e  s'hebbe  rascione) 

dalle  mura  se  buttò,  110 

e  cosci  scampo 

dalla  furia  della  corte?') 

adessa,  per  sorte, 

lu  desgratiatu 

é  stat'  amazatu.  115 

La  moglie  l'ha  saputu, 

e  per  non  fall'un  cornutu, 

cusci  mortu,  mortu, 

vo  haé  quae  confo rtu, 

e,  per  dilla  ana  parola,       120 

non  vo  durmi  pili  sola. 

Se  0  accompagnare: 

se  tu  la  0  pigliare, 

lasso  la  cura  a  tene. 

ScuFF.  Io  n  quanto  a  mene  125 

me  c'accoramodaria, 
per  che  c'aggio  fantascia 
e  lu  besogno  me  sforza, 
ma  non  voria  che  per  forza 
me  la  rtogliesse  Gaudentiu,  130 
lu  figliu  de  Crementiu, 
quillu  che  va  sbrahaggianno 
e  me  c'aesse  lu  dannu 
nseme  con  la  ergogna. 

Prit.    0  !  a  quillu  besogna  135 

n  quae  modo  proedecce. 
Do  te  engo  a  rtroare? 
voglio  gì  a  tramare 
lu  parentatu. 

Spero  che  se  sarà  pracatu      140 
Gaudentiu  n  quae  modu.     ^ 

ScuFF.  Strigni  pur  lu  nodu, 
che  so  contentu; 
ma  sa,  non  gettain'a  lu  entu 
la  cosa  della  dota.  145 

Prit.    0!  quesso  na  olta 
ce  se  ntenne. 
Faccenne,  faccenne, 
lassarne  gì  a  traagliare. 


')  Sotto  la  cancellatura  gianata,  sopra,  forse,  janata,  cf.  ie)Ue  su  gente. 
')  Cf.  Ili  508. 


648 


G.  CROCIO  NI 


Scena  Terza 
Taramata  e  Sap oretta. 


Tar.     Fa  che  tenghi  l'usciu  giusu,  150 

ha  ntiso,  Saporetta! 
Sap.     Maia,  me  mitti  la  stretta, 

non  vurria  che  me  lu  dicisci  ; 

so  che  non  te  credisci 

che  fosse  na  cioetta.  155 

Tab.     Uh  I  figlia,  che  sci  benedetta, 

la  matre  tua  te  cusciglia, 

e  a  te,  figlia, 

par  che  t'aggia  feritu. 

orma  i  da  maritu,  160 

credo  che  lu  cunusci. 
Sat.      0!  scia  malletto  gl'usci 

é  chinga  gli  fa. 

Te  oglio  contenta, 

o!  to  !  i  contenta?  165 

Tar.     Pe  gli  figli  se  stenta, 

haggio  questa  sola, 

e  corno  gli   dico  na  parola, 

par  me  se  oglia  crepa; 

la  oglio  marita  ^)  170 

a  la  i^rima  occascione, 

e  cusci  non  haerà  rascione 

de  lamentasse  più. 

Ma  tu, 

poera  Taramata,  175 

muti  stata  desgratiata, 

che  da  pò  ch'ha  persu  Ciabó, 

nisciun  te  o, 

nesciun  te  rechede: 


pe,  so  che  non  se  crede      180 

la  gente  che   scia  nvechiata, 

ma  io  non  vaco  lisciata 

né  arrafazonata, 

comò  che  giaa  Ruscina, 

che  lu  isu  de  calcina  185 

tuttu  impiastratu  haia, 

e  questo  lo  facia 

per  agguzà  l'apititu 

a  qualch'altru  maritu. 

0  comò  che  Finoza  190 

ch'haia  tanta  de  coza 

su  lu  mustacciu; 

ma  io  quistu  npacciu 

non  m'haggio    ma  pigliato, 

ch'alhi  strippati!  195 

me  pariria  fa  vergogna, 

e  GUSCI  me  besogna 

durmi  senpre  sola, 

e  ab.bracciu  le  lenzola 

e  lu  piumacciu.  200 

Una  olta  stisci  lu  bracciu, 

la  notte,  per  abbracciare, 

penzandome  de  troare 

lu  puirittu  de  Ciabó, 

e  cusci  me  s'urto  205 

su  la  matterà   della  farina; 

quanno  veco,  la  matina, 

era  mezu  ammaccatu. 


Scena  Quarta 
Gaudentiu  e  Taramata. 


Gaud.  0  vi  se  so  avvinturatu! 
ecco  Taramata! 
va  tutta  scunsulata, 
porta  lu  broccu, 
de  volé  gì  pe  lu  ntoccu 
gió  la  fonte; 
volta  mpó  qua  essa  fronte, 


faccia  agnelecata, 
210  multo  va  delaniata, 

ecco  Gaudentiu  to; 

pò  ch'é  mortu  Ciabó 

so  che  non  vo  sta  sola.        220 
Tar.  Uhimé  !  sa  parola 
215  non  vurria  che  lu  dicisci, 


')  Sotto  alle  cancellature  si  legge:  crepare,  lìiarifare. 


'  LA   LNTERVBNUTA   RIDICOI.OSA  ' 


649 


vurria  prima  Io  sapisci 

per  certauza. 
Gaud.  Lu  muri  é  usanza,  225 

non  te  despera; 

n'aggio  siututo  rasciona 

lu  maritu  de  Perna 

che  sa  che  con  la  lucerna 

va  cercanno  le  uuelle.     230 
Tar.     Non  ne  credo  coeglie. 
Gat'd.  Dico  che  lo  pò  crede, 

SCI,  per  questa  fede; 

potta!  pe  non  te  fuggià, 

lassate  tocca,  235 

puttana  de  me. 
Tak.     Ossa  I  che  c'é  ? 

non  voglio  che  me  tochi; 

se  me  ce  cao  un  de  sti  ciochi..., 

che  bella  creanza!  240 

non  VI  che  la  icinanza, 

se  se  n'avedesse, 


dirria  che  lo  facesse 

per  volemmo  accompagna? 
Gaud.  Taramata,  non  te  stiza,       245 

pò  mult'i  cruda, 

potta  de  luda! 

pe,  lassate  ferra. 
Tar.     0!  io  aggio  altro  da  fa, 

non  posso,  gianata,  250 

trista  me  mpanijanata! 

quella  figlia  comò  sta? 

lassame  caminà, 

resta  consulatu ! 
Gaud.  0  !  io  so  desgratiatu.  255 

Adessa  che  gli  ulia  rasciona, 

se  se  ulia  accompagna, 

lu  diaulu  ce  s'è  mpontatu; 

io  credo  d'esse  natu 

a  cattia  nfruenza,  260 

ma  lu  tempo  e  la  pacienza 

a  ugni  cosa  dà  fine. 


Scena  Quinta 
Pritu  e  Saporetta. 


Prit.    Tutto  quistu  confine 
aiamà  haggio  cercatu 
e  non  haggio  rtroatu        265 
quillu  pasciu  de  Gaudentiu. 
Haggio  affrontatu  Crementiu 
e  gle  n'haggio  spiatu; 
non  so  se  do  é  capitatu 
0  do  gitu  se  scia;  270 

credo  che  la  bizarria 
gli  scia  ntrata  su  la  testa. 
0  !  sirria  bella  testa, 
s'un  sbarbatellu 
che  non  ha  cervellu         275 
né  discritione, 
volesse  la  rascione 
fasse  da  per  issu, 
ma  pò  ch'aggio  promissu, 
non  voglio  manca,  280 

voglio  gì  a  troà 
a  casa  Taramata, 
gle  darró  na  speronata 
e  vedere  che  dice. 


Sap. 
Prit. 

Sap, 


Prit. 


Sap. 


Prit. 


tic.  tac. 
Chi  é?  che  vóV  285 

Fatte  mpó  qua  gió, 
Madonna  Taramata. 
Che  VÓV  gianata 
maia  non  ce  sta, 
é  gita  a  caà  290 

Taqua  gió  la  fonte. 
Ugni  disignu  va  a  monte, 
non  pò  gì  cosa  netta. 
0!  Saporetta, 

lassate  n  pò  edé.  295 

Pose  ')  sape 

perché  sta  cusci  giusa? 
Maia  ha  pigliato  scusa 
per  famme  sta  nserrata, 
dice  che  cattia  nomata        300 
aggio  appresso  la  gente. 
Guarda,  mpó  niente  ^), 
e  non  se  ergogna! 
e  VI?  besogna 
lassalle  di'  esse  ecchie;        305 


*)  Int:  si  può?  (puossi?), 
^)  Int.:  metti  attenzione. 


Studj  di  filologia  romanza,  IX 


41 


650 


G.  CROCIONI 


giudi  le  rej^gie 

e  fa  ciò  che  te  piace. 

Ma  se  non  te  despiace 

di',  comni'i  namorata? 

quant'é  che  la  matinata      310 

non  t'ha  fatta  lu  murusu? 

Non  torce  su  musu, 

par  che  me  ogli  fa  lu  piantu. 
Sap.      Uh!  Pritu  che  sci  santu, 

tu  me  fa  ergognà!  315 

Pbit.    Te  oglio  marita, 

sta  quita,  Saporetta. 
Sap.      Oh  !  tu  me  mitti  fretta, 

che  sci  delaniatu. 
Pbit.    Unu  faggio  troatu  820 

che  pare  un  paladine, 

e  veco  n  fine  ') 

che  te  deletta; 

é  viro,  Saporetta? 
Sap.      Fa  pur  cuntu  che  me  piace;  325 

par  ch'una  fornace 

haggia  dentr'allu  pettu, 

ma  tu  me  stizi  lu  dilettu 

e  pò  non  sarra  coeglie. 


Prit.    0!  le  ganzette  belle  330 

Non  se  burla  susci. 
Sap.      Uhimé,  Pritu,  vi, 

par  che  me  senta  manca; 

quello  che  a  da  fa 

fallo  prestamente.  335 

Peit.    Acciò  che  la  gente 

cun  mico  non  te  eca, 

va  via  e  alla  ceca 

fidate  de  me. 
Sap.      Io  lasso  fa  a  te.  340 

Prit.    Ma  recomanno  a  Dia  ^). 
Sap.      0!  quanno  sarni  quillu  di' 

che  Veca  rveni 

a  casa  maia  mia 

con  fantascia  345 

de  olemme  marita? 

e  sci,  gle  oglio  parla 

scopertamente, 

gle  dirró  che  lu  dente 

comenza  haé  appititu,  350 

e  se  so  da  maritu 

perché  non  me  lu  da? 


Scena  Sesta 
Taramata  e  Saporetta. 


Tak.     e  pur  vo  sta  Tab. 

mi  ecco  de  fora, 

che  scia  malletta  l'hora      355 

che  t'haggio  cacata! 
Sap.     Me  s'era  cascata 

la  scuffia  da  la  fenestra. 
Tab.     So  ch'i  maestra  Sap. 

per  caccia  le  carote.  360 

S'haisci  pivi  dote 

che  la  figlia  de  Brunu, 

ma  troarà  nisciunu 

che  te  toglia  per  moglie. 

Che  te  enga  le  doglie,        365 

figlia  d'una  acca! 
Sap.     Maia,  i  stracca?  Tab. 

ha  finito  de  di? 

me  te  pozzi  mori, 

se  te  dico  buscia!  370 


Ossii,  va  via, 

cioettella, 

parte  cosa  bella 

sta  su  la  strada  sola? 

se  te  sento  di  parola,  375 

cudiriita  ! 

0!  che  donna  mpuntuta! 

Maia,  mult'i  arrabbiata, 

so  che  non  m'ha  troata... 

quasci  non  me  l'ha  fatto  di.  380 

0!  io  la  oglio  fini, 

non  voglio  pili  fcnochi, 

gli  gatti  a  aperti  gl'ochi 

e  a  missi  gli  denti. 

Senti?  385 

sfacciata  ! 

che  sci  scannata! 

se  non  portasse  lu  brochu 


')  Sotto  una  cancellatura  :  infine. 
^)  Cf.  §  82. 


LA   INTERVENUTA   RIDICOLOSA 


651 


con  uà  ciocliu  Sap. 

t'urria  rompe  la  copeza!     390 

guarda  che  gentileza! 

tu  i  figlia  de  Oiabó? 

se  lo  so?  Tar. 

besogna  che  sci  bastarda 

che  Tu  foco  t'arda!  395 

io  te  offlio  ammazii! 


Po  crepa 

che  m'oglio  marita! 

se  no  l'appititu 

sfocare  per  altra  strada.      400 

Non  besogna  sta  piii  a  bada, 

lassarne  n  casa  entra: 

tante  glie  ne  oglio  dà 

che  mal  per  essa  ! 


Scema  Settima 
Gaudentiu  sulu. 


0  poiru  Gaudentiu!  405 

o  babbu  me  Crementiu  ! 

pò  che  haggio  da  fa 

par  che  me  oglia  crepa 

su  lu  pittu  lu  core; 

sento  un  dolore  410 

che  tutto  me  straccia, 

quella  lucente  faccia 

de  Taramata  bella 

che  m'ha  caato  la  coratella 

e  me  fa  sta  penzusu,  415 

quillo  vechio  rullusu 

l'ha  da  spusare  ? 

voglio  prima  fa  crepare 

issu  e  lu  strippatu; 

Gaudentiu  va  pur  armatu,  420 


porti  pur  la  ralbarda. 

0  !  che  lu  focu  t'arda, 

mena  le  ma, 

non  poza  magna  più  pà, 

se  no  glie  cao  lo  core;       425 

in  ogni  mó  lu  dolore 

so  certu  che  m'ammazarà, 

e  nisciun  me  farà 

le  ennette,  commo  so  mortu. 

Non  voglio  paté  stu  tortu,    430 

lu  oglio  gì  a  rtroà 

e  con  questa  gle  oglio  dà 

alla  olta  dellu  traersu; 

gle  stroaró  bé  lu  ersu 

a  istu  echio  rapacciusu.      435 


Scena  Ottava 
Gaudentiu  e  Crement. 


Ecco  lu  fastidiusu  ! 

0  che  sci  mallittu! 

sempre  me  fa  sta  aflittu, 

ma  aggio  consulatione. 

Babbo  non  ha  rascione        440 

a  di'  queste  parole. 

Sa  de  che  me  dole? 

dellu  fastidiu  mia, 

che  per  la  fé  de  Dia 

non  me  mportaria  coelle.  445 

Quae  nuelle 

tu  a  ntiso  de  me? 

ma  se  pozzo  sape 

chi  é  su  mitti-focu, 

non  pozza  troà  ma  locu,     450 

se  non  lu  pacco  n  croce. 


Crem.  Non  alza  la  oce, 

parla  pian  pia, 

fatte  m  pò  qua, 

pagate  de  rasoio;  455 

con  chi  ha  fatto  custió 

tu,  di',  saputillittu  ? 
Gatid.  Lu  diaulu  mallittu 

gle  l'ha  fatto  sape  ; 

0  !  me  par  de  vede  460 

che  vogli  rascionà. 
Cbeh.   0  !  tu  me  fa  caca, 

tu  vo  la  burla; 

di'  m  pò,  lu  fi  de  Scurla, 

ch'ha  uto  a  fa  con  ticu?     465 
Gaud.  0!  quissu  é  un  intricu 

che  non  finirà  mai. 


652 


G.  CROCIONI 


Crbm.  Eccomi  su  gli  guai, 

Pe,  dimme  com'è  stato? 
Gaud.  e  non  e'  haimo  dato,       470 

non  è  stato  coelle. 
Cbkm.  Mai  le  nuelle 

se  lea  senza  causa, 

Non  fa  più  scusa, 

dillo,  nome  de  Dia!  475 

Gaud.  0  !  via, 

allo  dire 

non  aggio  uluto  patire 

che  me  facesse  ngnuria, 

e  cusci  con  furia  480 

resuluti  ce  scima  partiti, 

e  scima  giti 

sfor  delle  mura; 

issu  baia  paura, 

pur  l'arme  sfodero,  485 

e  se  tiro 

da  na  banna  per  menare; 


io  che  nuliii  ^)  comenzare, 

disci  na  olta:  Ossii; 

issu  disse  :  Mena  tu  ;  490 

io  respusi  :  Mena  tu, 

ch'io  non  voglio  mena, 

non  voglio  comenza. 

N  questo  la  gente  lo  senti 

e  ce  enne  a  sparti,  495 

e  cusci  lu  casu  é  gitu. 

Vidi  m  pò,  se  so  fenitu  ! 

babbu,  pe,  temme  mente. 
Cbem.  Po  se  la  gente 

te  sentesse  di'  cusci,  500 

puirittu,  non  vi 

che  te  darria  la  burla  V 

Ossu!  giamo,  che  Scurla 

ve  0  fa  fa  la  pace. 
Gaud.  Farro  comò  te  piace,  505 

Ossii,  giamo  ia! 


1)  Cf.  Gloss. 


LA   INTERVENUTA   RIDICOLOSA 


653 


ATTO    SECONDO 

Scena  Prima 
Pritu  e  Scufflottu. 


Pkit.    Giaa  gìó  la  fonte, 

gì'  haggio  parlato  per  la  ia; 

e' ha  fantascia 

e  bona  ntentione, 

m'ame  par  ch'haggia  rascione  5 

per  un  cuntu, 

perché  sci  vecchio  troppa 

e  a  quissu  ntoppu 

non  ce  se  pò  proedere. 
ScuFF.  E  io  gl'oglio  fa  vedere         10 

che,  se  ben  so  canutu, 

so  grosso  e  spalluta 

e  commo  me  proarà, 

ma  se  n'avedeni 

se  ce  posso  resciste;  15 

so  statu  a  tre  piste 

cosci  vechio  corno  so. 
Pbit.    Ossu,  gle  rparlaró 

per  quissu  cuntu  tanto; 

ma  dimme  un  pò,  quanto        20 

ha  da  gì  nanzi  la  dota? 

perché  besogna  che  la  scota, 

che  m' ha  ditto  che  sta  m  pignu, 

é  un  quatra  de  igna 

che  troppo  mporta!  25 

ScuFF.  Mogliema  che  s'è  morta 

in  du  stala  de  terra 


me  de  cento  inti  fiuri; 

e  ssa  igna  quanto  mporta 

per  farla  pili  corta?  30 

Prit.    Cento  inti  fiorini, 

ma  dice  eh'  é  bon  tirri  '). 
ScuFF.  0  be,  dece  fiuri  manco 

non  me  fa  lu  fiancu; 

per  quantu  sta  m  pignu?       35 

se  me  resce  un  disignu, 

io  gle  Foglio  rescote 

e  cusci  farrii  la  dote 

lu  maritu  a  la  moglie. 
Prit,    Pili  presto  non  la  toglie,       40 

non  gle  lo  promette, 

sta  m  pignu  per  cento  sette, 

non  te  mette  cuntu. 
ScDFF.  Appuntu  ; 

e  che  me  restarla?  45 

tridici  fiuri  sarria 

lu  nome  della  dote? 

pò  me  percote 

a  ppenzacce  solamente. 
Prit.    Baristi  da  di'  a  la  gente        50 

e  starristi  sempre  atìrittu; 

ecco  ser  Ciappellitu! 

ce  scima  be  ncuntrati. 


Scena  Seconda 
Sere,  Scuff,  e  Prit. 


Ser.      Perché  ve  scete  abbutinati? 

me  olete  colle  [coelle?]  dire     55 
nanzi  che  vaca  a  spartire 
la  deferentia  ch'é  nata 
poco  fa,  gianata. 


fra  dui  pazariegli 
che  co  li  coi-tiegli 
lunghi  se  ulia  ferire? 
io  gli  so  gif  a  spartire 
e  gli  oglio  accordare. 


60 


')  Int.  terreno. 


654 


G.  CROCIONI 


ScuFF.  Pose  ')  accentare 

comm'é  gita  la  cosa?  65 

Seb.     Non  é  gita  furiosa; 

a  più  per  ascio, 

per  adesso  ve  bascio 

a  tutti  du  le  mane. 
Pbit.    Ossù,  a  domane;  70 

ma,  sere,  di'  un  pò, 

te  par  che  s'aggia  rasoio 

Scuffiottu  a  piglili  moglie? 
Seb.      So  che  non  la  o  toglie, 

Scuffiottu,  t'ho'  accompagnare  ?  75 
ScDFF.  Sci,  perché  non  te  pare 

che  scia  tempu  ancora, 

non  te  par  scia  gionta  l'hora? 

non  pozo  sta  sulu  n  casa. 
Seb.      Tu  n'ha  beta  na  asa;  80 

l'homu  quanno  s' he  nvechiatu 

per  sta  repusatu 

non  besogna  che  s' amoglia. 
Pbit.    Besogna  che  la  toglia 

per  esse  goematu.  85 

Seb.      Sarrà  pocu  prezatu 

un  vechio  da  na  donna, 

sotto  a  quella  onna 

le  brache  o  porta; 

lassate  cusciglià  90 

a  chi  a  studiatu. 
ScuFF.  So  bellu  e  cuscigliatu 

e  me  so  resolutu. 
Seb.      Me  besogna  sta  mutu 

da  che  non  vo  cosigliu,  95 

io  te  poss'esse  figliu, 

tu  me  l'haeristi  a  dare, 

ma  pe  lo  studiare 

che  saccio  commo  va. 

Pritu,  che  ce  dirra  100 

su  n  quesse  parole? 
Pbit.    Faccia  commo  vole, 

ma  a  di  la  eretà 

commo  0  da  fàV 

besogna  che  lu  goernu         10^ 

l'haggia  quistu  nvemu 

per  potè  campa, 

se  no  glie  besogna  crepa 

de  friddu  e  di  vittu; 

sallo  ser  Ciappellittu  110 

sempre  a  sta  n  casa  sulu.... 

me  se  gonfiarà  lu  culu. 


Seb. 

ScUFF. 


Ser. 


Pbit. 


ScUFF. 

Pbit. 

ScDFF, 


Prit. 


ScDFF. 

Pbit. 

ScUFF, 


Prit. 

ScDFF. 


Pbit. 

ScUFF, 


a  dilla,  fratellu. 

I  nisciunu  é  cervellu. 

Se  non  c'è  non  ce  scia,       115 

0  io  la  fantascia 

me  la  oglio  caare. 

E  a  me  me  pare 

che  per  esse  decrepitu 

e  per  non  perde  lu  creditu       120 

ch'ha  appresso  la  gente 

non  la  pigliassi   altramente, 

pur  fa  ciò  che  te  piace, 

voglio  gì  a  fa  sta  pace, 

m' arracomanno.  125 

0  va  cu  lu  malannu 

che  lu  cancaru  te  magna  ! 

ha  scunturbato  la  Spagna. 

A  Dia,  a  Dia,  sere. 

0!  bellu  parere  130 

che  t'ha  datu  cussu! 

Che  ce  fa  a  nu? 

ma  nun  besogna  parlanne 

che  cussù,  sa?  lo  spanne 

per  tutto,  adesso,  adesso;       135 

comenzarà  miesso 

culu  primu  che  s' afronta. 

0  ddi  che  ce  se  mponta 

quissu  uotaiiu  curnutu  ; 

commo  l'haerà  saputu  140 

la  iente,  che  ce  fa? 

Lu  pudiria  rguastà. 

0  tu  i  mattu, 

ancora  non  è  fattu! 

Ce  se  pò  mponta,  145 

ch'io  Foglio  fa, 

se  credesse  senza  dota, 

io  lo  oglio  fa  na  olta,         150 

mpontacese  chi  se  o. 

Sa  che  farro? 

girrò  a  sollicità. 

Sci,  sci  vagì'  a  parla 

nanzi  ce  metta  focu  155 

su  notariu  da  pocu, 

ch'e  forscia  la  o  per  issu. 

Si,  non  ce  penza  a  quissu. 

Ce  lu  farà  penzare, 

fa  che  Foglia  pigliare;         160 

con  mille  buscie 

con  mille  frascarie 

te  he  ^)  quisci  notarij 


')  Int.:  puossi?  si  può? 

-)  Int.  :  viene,  cioè,  vengono. 


'I,A    INTERVENUTA    RIDICOF.OSA 


655 


che  he  tutti  falzarij; 

saccio  be  chi  é  quisci!         165 

non  c'è  homo  pei*  isci; 

cognusci  Mauritiu 

che  he  hi  dottor  de  stu  locu? 

e  pur  manco  per  pocu 

ch'un  notariu  non  hi  gabasse  170 

e  non  glie  falzificasse 

lu  strumentu  d'un  campo, 

che  glie  enga  lu  ampu, 

a  quanti  ce  n'é; 

sa  che  èV  175 

qnisti  cettadini 

gle  da  du  quatrini 

e  pò  glie  lassa  fare, 

scritture  cassare, 

falzifici'i  strumenti,  180 


ma  quae  volta  se  ne  pente, 

ohimè  !  che  gente  ! 

lo  patre  gabbarla, 

concrudilo,  assaia! 

che  me  oglio  ritirare.  185 

Prit.    Do  te  engo  a  rtroareV 
ScuFF.  Mi  eccu  n  casa,  e  sa, 

fa  che  sacci  tratta 

la  cosa  della  dote. 
Prit.    Gle  la  oglio  fa  rescote,        190 

lassa  fa  a  me 

che  te  oglio  fa  vede 

si  chi  é  Pritn  to; 

ma  dimme  m  pò, 

rtroai-ó  da  manecà?  195 

ScuFF.  Sci,  lo  oglio  fa! 

va  via  prestamente. 


Scena  Terza 
Crement.  e  Taram. 


Crem.  In  fine  la  mala  gente 

per  tutto  se  rtroa, 

gle  paria  de  fa  na  proa       200     Ta 

a  lu  figliu  de  Brodu, 

non  vulia  che  i  niscium  modu 

la  pace  se  facesse 

accio  che  ce  mettesse 

le  mane  la  Rasció,  205 

ma  un  homu  de  reputatió 

ugnunn  fa  sta  fittu, 

se  non  giugnia  ser  Ciappellittu, 

non  se  facia  coelle. 
Tar.     Non  pili  nuelle,  210 

lassa  fa  a  me, 

Crementiu  ve, 

cusci  sulu  che  fa? 
Crem.  Statia  a  penzii 

alli  guai  mia  215 

che  per  la  fé  de  Dia 

non  ha  funnu  né  fine; 

y  sarria  un  paladine, 

se  non  haesse  st'affannu  ; 

se  proenne  de  gran  l'annu      220 

me  fa  la  puscione  ; 

quanno  voglio  un  testone 

saccio  do  me  gi; 

sette  fogliette  de  vi 

<|uist"anno  aggio  rposte,       225 

ma  aggiu  stu  figliu  alle  coste, 

che  me  fa  despera; 

ugni  cosa  vo  fa 

commo  pare  a  issu; 


adesso  s'è  missu  230 

su  le  custió. 
Tu  t' ha  pili  che  rasció, 
Crementiu  fratellu, 
e  io  cu  lu  cervellu 
commatto  de  Saporetta        235 
che  é  tanto  maledetta 
che  pare  un  magnattu. 
Crem.   Quissu  non  é  lu  fattu, 
non  é  cosa  lu  grida, 
é  che  vo  spreca,  240 

vo  butta  gli  quatrini  : 
se  buligniiii 
ha  spisci  s'una  ribcca, 
le  gioenette  non  spreca, 
non  saccio  che  te  ogli.        245 
Sacci  che  non  ce  cogli: 
figliama  a  spfecà 
se  vo  rasomeglia 
tutta  a  [la]  laa  sua  ') 
che,  a  dilla  nfra  de  nua,       250 
che  per  avvanza 
non  vulia  mai  magna 
na  cica  de  ricotta; 
la  carne  meza  cotta 
io  gl'haggio  vista  venne.       255 
Era  donna  da  facenne, 
gle  paria  de  fa  na  proa 
quanno  cucia  du  oa, 
e,  s'a  venne  le  troaa, 
non  se  le  magnaa,  260 

per  gola  d'un  quatrine; 


Tar. 


')  Cf.  Gloss.  s.  laa. 


656 


G.  CROCIONI 


un  di'  dui  pulcine 

baia  misci  su  lu  spitu: 

venne  Pritu 

e  cusei  gli  disco,  265 

se  per  sorta  haesce 

de  le  gaglin  da  venne; 

essa  lu  ntartenne 

e  da  lu  spitu  caó  li  pilcine 

e  per  galline  270 

se  gli  fece  pagare. 

0!  cosci  se  0  fare 

figliama  Saporetta; 

ha  cura  d'ugni  cosetta, 

ma  é  troppo  saputa  275 

et  he  troppo  bracuta; 


a  lu  maritu  vorrà  da, 
se  mai  lu  pigliarci: 
non  ce  se  pò  haé  da  fa, 
un  di'  muri  me  fa.  280 

Uhimé  che  figliai 
che  glie  enga  la  tigna, 
quasci  me  l'a  fatto  di; 
ossù,  io  voglio  gì 
da  la  moglie  de  Brodu,       285 
che  se  sarró  da  cordu 
gl'oglio  dà  m  pò  de  gline. 
Cbem.  Va  via;  in  fine, 
ognun  de  nua 

n'ha  la  parte  sua,  290 

ognuno  ha  da  fare. 


Scena  Quarta 
Ser  Ciappell.  e  Crem. 


Seb.     La  pace  é  ben  tramare: 

aquita  lu  romore, 

rtene  lu  furore 

dellu  populu  e  della  gente  :    295 

sempre  su  la  mente 

he  dell'homu  saputu. 

Dice  lu  statutu 

mi  ecco  de  Petine 

che  du  carlini  300 

paga  chi  fa  custió, 

acciò  che  la  rasció 

se  poss'ogne  le  mane, 

e  cusci  pian  piane 

r  homu  scia  gastigatu.         305 

Io  so  statu 

una  pace  a  fare, 

e  me  so  fattu  pagare. 

La  gente  é  poeretta 

e  per  una  foglietta  310 

me  ce  so  accordatu. 
Cbeu.  0!  sci  lu  ben  troatu, 

ser  Ciappellitu  valente. 
Seb.      Pax,  amorem,  benevolentia 

poza  haé  Crementiu  315 

con  tuttu  lu  parentatu. 
Cbem.  Sere,  io  t'  haggio  squastratu 

per  homu  multo  saputu. 
Seb.      Io  so  suto 

dottu  fin  su  le  fascie:  320 

l'homu  ce  nasce 

quanno  a  da  esse  valente. 
Cbem.  Tutta  la  gente 


te  ten  cusci, 

ma,  sere,  di',  325 

damme  quae  cuscigliu. 

Quillu  figliu 

me  fa  desperare. 
See.      Volu  fermare? 

o!  dàglie  moglie,  330 

me  enga  le  doglie 

se  non  lu  idi  mutare: 

non  pò  saltare 

unu  ch'hé  accumpagnatu  ; 

e  tu  chi  l'ha  proatu  335 

lo  de  sapere. 
Chem.   Quissu  to  parere 

me  piace,  ser  Ciappellittu, 

ma,  che  sci  benedittu, 

coscigliacelu  m  pocu  340 

che  non  troo  ma  locu 

fin  che  fa  le  pasci'e. 
Ser.      Io  non  saccio  di  busci'e, 

lo  oglio  fare, 

lassa  tramare  345 

la  cosa  a  stu  fustu; 

s'io  non  te  l'aggiustu 

di  che  so  ignorante: 

VI?  te  lo  dico  nante, 

voglio  che  resca  netta,        350 

gl'oglio  dà  Saporetta 

la  figlia  de  Taramata; 

piacete,  gianata, 

non  fa  lu  furiente, 

ripusatc  la  mente  355 


LA   INTERVENUTA   RIDICOLOSA 


657 


e  lassa  lare  a  mene. 

Crem.  Sere,  a  la  fede 

me  comenzi  a  rentrare, 

te  oglio  recordare 

solo  na  paroletta;  360 

(me  par  che  la  gauzetta 

scia  sufficiente) 

ma  guarda  mpó  mente 

della  robba  se  che  ha, 

e  dimmelo  dima.  865 

Ser.      0  ssù  io,  sa? 
fa  pure  stima 
che  prima  prima 
ugni  cosa  voglio  sape  ; 
tu  statte  a  sedè,  370 

e  a  me  lassa  traaglia, 
e  Gommo  non  saccio  tira 
questa  faccenna  a  fine, 
di'  che  lo  ine 
m'ha  caato  de  cervellu.      375 

Crem.  Sere,  fratellu, 

non  te  dico  altro; 

te  conosco  scaltra 

e  per  homo  saccente, 

ma  fa  che  la  gente  380 

non  te  conosca  variu. 

Ser.      Crementiu,  so  notariu 
e  aggio  studiatu 
e  me  so  troatu 

pili  volte  a  quisci  mpicci;   385 
no  me  va  ma  i  capricci 
su  per  lu  capu, 
perché  i  o  sempre  n  capo 
lo  meglio  e  lo  megliore, 
e  forsce  quae  dottore  390 


che  fa  lu  sapiente 

e  da  tutta  la  gente 

é  tenut'un  Salamone, 

su  i  banchi  a  la  Rascione 

ugni  di'  se  rtroa.  395 

Che,  se  facesse  proa, 

manco  sa  lege; 

spissu,  spissu  le  lege 

ntenne  a  lu  cuntrariu. 

Me  che  so  notariu  400 

é  venuti  a  rtroare 

per  volesse  cuscigliare 

de  qualche  ntricu. 
Crem.  Io  faggio  per  amicu 

e  lasso  a  te  la  cura;  405 

va  con  la  ventura 

e  con  la  bona  sorte, 

e,  se  a  me  me  porti 

quae  bona  nuella, 

tente  su  la  scarsella  410 

secur  quae  grussittu. 
Ser.      Lassa  fa  a  ser  Ciappellitu  (sic), 

vatte  pur  via 

che  per  la  fede  mia 

foglio  servire,  415 

e  voglio  adessa  gire 

un  poco  a  manecare, 

e  pò  rverró  a  parlare 

mi  ecco  a  Taramata. 

Gommo  l'aggio  cuscigliata    420 

bello  bello  gle  parlare, 

e  lu  nventariu  farro 

della  roba  che  se  rtroa, 

accio  la  noa 

pozza  dà  a  Crementiu.         425 


Scena  Quinta 
Pritu  e  Gaudent. 


Prit.    Ven  m  pò  qua,  Gaudentiu, 
lassate  rascionà, 
potta!  te  fa  tira 
commo  fussi  cettadine. 

Gaid.  Tu  non  ha  ma  fine,  430 

finiscila,  se  te  pare, 
che  agg'altro  da  fiire, 
non  pozo  sta  più  fittu. 

Prit.    Se  vede  ch'i  giuinittu, 

e  che  non  ha  cervellu;         435 
io  comm'  un  fratellu 
te  oglio  cuscigliare. 


e  tu  non  vo  scoltare, 
par  che  scij  nfuriatu. 
Gaud.  Babbu  f  ha  mannatu,  440 

cridi  che  non  lo  saccia? 
non  besogna  che  me  faccia 
parla  per  gli  mezani, 
che  gle  rescerà  vani 
tutti  gli  cuscigli.  445 

Gli  poeri  figli 
se  tratta  da  fachini, 
commo  a  du  quatrini... 
0  !  m'ha  assascinatu  ! 


658 


G.  CROCIONI 


tristii  me  despriatiatu,  450 

che  voglio  io  pili  fareV 

non  pozo  pili  campare, 

stu  figli u  m'  arruina, 

tuttu  se  tapina, 

tuttu  se  delania,  455 

e  pò  issi  smania, 

se  non  te  la  puttana, 

ma  qiiae  volta  la  lana 

gle  casca  da  la  testa. 
Prit.    0!  quessa  é  n'altra  festa,    460 

lassamola  pur  gire  ; 

vome  ')  tu  sentire? 

vo  sta  un  poco  quitu? 

te  oglio  fa  un  partitu 

che  a  te  te  piacerà,  465 

se  te  contentarà 

sarà  bene  per  te, 

che  io,  per  cuntu  me, 

pocu  me  ne  curu. 
(ìaud.  Tu  parli  cu  lu  muru,  470 

non  te  oglio  ascolta, 

e  vatti  pur  a  fa 

gli  fatti  tua, 

che  fra  de  nua 

poco  ce  pò  avvanzà.  475 

Pkit.    Te  ulia  rascionà 

de  elette  dà  moglie, 

ma  pò  che  non  l'ho  toglie 

i  me  oglio  parti. 
Gaud.  Fermate,  do  o  gì?  480 

se  de  quiss'  ho  rascionà, 

i  foglio  ascolta, 

perdoname,  fratellu. 
Prit.    Tu  non  ha  cervellu 

né  discritió;  485 

te  par  da  haé  rasció 

a  patritu  de  di  male? 

lu  demoniu  nfernale 

quesse  cose  te  fa  di'. 
Gai:u.  0!  stamme  a  senti:  490 

lu  bon  acunsigliu 

che  te  oglio  dà  da  figliu, 

te  oglio  accompagnare, 

(o!  multo  me  pare 

che  t'aggia  da  piacere!)      495 

me  l'ha  dittu  lu  sere, 

ch'é  con  una  ganzetta 

delicata  e  netta: 

la  prima  de  Petine. 


Gaud.  Po  eh'  ha  da  gi  cuscine,      500 
de  olemme  accompagna, 
io  te  oglio  parla 
alla  libera  gianata: 
La  moglie  de  Ciabó, 
se  colle'  me  o,  505 

i  me  oglio  accompagna, 
altramente  non  penzà 
che  m'haccompagna  mai. 

Pkit.    0  !  che  te  enga  gli  guai  I 

tu  no  burla,  510 

e  che  vo  fa 

d'essa  vechia  rapaciosa, 

lercia,  brutta  e  baosa? 

ha  na  bocca  par  na  gaggia, 

e  credo  ch'haggia  515 

le  poccie,  commo  besciche. 

lo  non  so  che  te  di  chi, 

do  te  a  la  fantascia? 

con  le  froscie  spargerla 

de  semmula  un  botenellu,  520 

né  dente  né  capillu 

credo  ch'haggia  sula  testa; 

non  saria  cos'honesta, 

non  te  piglia  su  mpacciu; 

ha  pò  quillu  mustacciu,       525 

che  se  glie  guardi  fissu 

par  scia  d'un  porcu  stissu; 

gli  putrist'esse  figliu, 

piglia  quistu  cuscigliu, 

lassala  stare.  530 

Gaud.  Vome  ')  contentare? 

dammela  a  quistu  modu. 

Prit.    No  no,  guasta  lu  nodu, 
non     ce  penzare, 
no  ne  oglio  parlare,  535 

me  oglio  gi  con  Dia. 

Gaud.  Ossii,  dimme  pur  via 

chi  é  quessa  che  m'ho  dà, 

s' é  cosa  da  piglia 

damo  adess'  la  stretta.  540 

Prit.    Cunusci  Saporetta, 
la  fi  de  Taramata, 
quella  delicata, 
quillu  musu  de  luna? 
sacci  che  nesciuna  545 

la  passa  de  belleza; 
é  tutta  gentileza, 
lu  nome  la  condanna: 
non  vi  che  se  domanna 


')  Int.  :  mi  vuoi. 


LA    INTERVENUTA    RIDICOLOSA 


659 


la  bella  Saporotta?  550 

a  lu  maiic'é  ganzetta, 

non  é  gaglina  vechia, 

né  crede  che  se  spechia, 

né  se  mpiastra  mustacciu  : 

aqqua  de  pantanacciu  555 

lu  colo  che  se  mette; 

non  é  da  ste  cloette 

né  da  ste  saputelle 

che  in  locu  d'esse  belle 

par  tanti  mascaruni  :  560 

gli  mariti  é  castruni 

che  glie  lo  lassa  fare. 

Gaud.  Tu  me  comenzi  entrare 
drent'  a  la  fantascia, 
che  per  la  fede  mia  565 

me  sento  n  certo  modu... 
par  che  deenta  brodu  : 
tu  hai  pili  che  rasció. 

Prit.    e  sa  per  un  Sansó, 

quano  rapre  la  bocca;  570 

ugn'annu  pò  la  biocha... 
par  na  moscula  per  casa, 
quannu  rlaa  le  asa 
pare  na  signora, 
e  porta  la  corona,  575 

e  sci  se  la  fa  penne 
e  con  le  sue  faccenne 


resce  donna  d'honore. 

Gaud.  Non  pili  eh'  a  me  l' amore 

me  rentra  su  1  cervellu.       580 

0!  Pritu,  mio  fratellu, 

pe,  fallo  prestamente, 

non  me  fa  sta  dolente, 

va,  troa  pur  mi  pa 

e  di'  se  lo  vo  fa,  585 

e  pò  troa  Taramata, 

vacci,  è  meglio  gì  gianata, 

fa  na  olta  prestu,  Pritu. 

Prit.    No  no  furia,  lu  caniiitu 

pe  lassa  a  me  fa,  590 

te  oglio  contenta 
vatte  pur  via. 

Gaud.  0!  Dia! 

a  me  me  par  migl'anni 
che  l'aggio  da  spusà,  595 

Pritu,  Pritu,  e  sa? 
sulicita,  fratellu! 

Prit.  E  va  via,  pazarellu, 
lassa  la  cura  a  me. 
0  !  0  !  quistu  pur  e'  é  ;  600 

non  haggio  fattu  pocu: 
non  sta  sempre  in  un  locu 
chi  le  facenne  o  fa. 
Lassarne  caminà. 


Scena  Sesta 
Sap  oretta  sola,  canta. 


Sap.      Sotto  sotterra  c'hé  natana  rosa,  605 
stace  lo  caalier  che  ciancia  egioca. 
Scia  laudato  Dia! 
dapó  che  Maia  mia 
maritu  m'ho  troa, 
e  cusci  pozo  canta  610 

e  sta  bella  ripusata; 
ce  so  pur  arriata 
a  questa  contenteza! 
uhimé!  che  allegreza 
che  cunsulatione  I  615 

me  par  che  lu  pormone 
iss'  ancora  se  resenta; 
maia  mia,  che  sci  contenta, 
multu  ha  cunsulata 
figliata,  gianata,  620 

ma  pili  te  fo  stizare, 
e  te  oglio  portare 


l'aqqua  con  le  rechie. 

Che  c'o  fa  d'esse  echie 

che  le  ganzette,  625 

le  poerette, 

prima  le  fa  nvechià 

che  Voglia  marita? 

le  fa  tutte  liquefa 

e  cuRCi  non  ti  cura  630 

ch'allu  primu  fitu 

non  é  più  bon  da  maritu: 

gle  se  ncrespa  le  ancie, 

e  queste  non  é  ciancie 

0  guarda,  mpó  mente  635 

da  ste  echie  dolente 

commo  scima  cunnutte; 

besognaria  che  tutte 

nseme  s'accordasse 

e  maritu  se  pigliasse  640 


660 


G.  CROCIONI 


tutte  da  per  esse, 

0  pò  esse  stesse 

n  casa  se  lu  menasse, 

che  nesciuno  lo  sapesse; 

so  che  le  farria  penzare 

ste  echie,  e  stralunare 

a  rtroaglie  maritu, 

e  quist'é  l'apititu 

che  m'haia  missu  n  testa, 


se  maia  non  era  presta       650 
a  dammilu  essa  stessa. 
Ossu  voglio  gì  via, 
me  oglio  gi  a  fa  bella 
645  che  par  la  coratella 

me  se  strica  drent'a  lu  core,  655 

ma  de  esse  l'amore 

che  drento  c'hé  rentratu. 


Scena  Settima 
Scuflaottu  e  Saporetta. 


ScDFF.  Fotta  !  me  so  straccatu 

co  lo  tanto  aspettare! 

pe,  che  se  penza  de  fare     660 

Pritu,  che  non  vene? 

me  fa  sta  m  pene 

in  doglie  e  in  affannu, 

m' ha  fatto  sta  un  annu 

in  casa  a  fa  cioetta  *),         665 

o!  eccu  Saporetta, 

potta  I  lu  se  tira. 
Sap.     Ho!  ho! 
ScuFF.  Ha!  ha!  suspira, 

la  oglio  gì  a  ncuntra.        670 

Saporetta,  che  fa 

c'ha  dato  su  l'archittu? 

quae  bellu  giuinittu 

t'ha  fatto  la  fattura; 

chi  he?  lu  fi  di  Stura         675 

ho  lu  fi  de  Cacastraccia  ? 
Sap.      Uh  !  uh  !  che  patarachia, 

pe  no  sta  un  poco  quitu! 
ScuFF.  Ha  troatu  maritu 

mammata  Taramata?  680 

Sap.      e  sci  gianata 

quesso  statia  penzenno. 
ScDFF.  0  !  su  !  te  ntenno 

e  t'haggio  ben  comprisu  ! 

t'ha  'mpiastratu  lu  isu         685 

e  scuppate  le  ciglia, 

0  !  che  bella  figlia  ! 

t'ha  fattu  lu  ricciu, 

ma  che  he  stu  mpicciu? 


to!  to!  é  na  peza,  690 

tu  non  i  nuenza  ') 

e  te  ho  acconciare? 
Sap.      Me  la  ulia  leare 

e  pò  me  s'hé  scordato. 

Uh  !  che  sci  scannatu,  695 

non  guarda  ogni  cosetta, 

non  lu  vi?  so  poeretta, 

per  la  amor  de  Dia 

non  lu  rdi  a  maia  mia, 

Scuffiottu,  non  ne  parla.      700 
ScuFF.  Non  te  dubita, 

bada  pur  a  te, 

ma  dimme  m  pò  a  me, 

che  facete  sole  n  casa? 

mammeta  vidua  é  rmasa    705 

non  se  ole  rmarità; 

pe,  che  penza  de  fa? 

ugni  cosa  va  n  malora, 

chi  ve  laora, 

chi  ve  rficca  la  igna?  710 

horma  le  crespigna 

a  soma  ce  se  de  rcoglie. 
Sap.      Oh!  non  me  da  pili  doglie 

non  me  dà  pili  affannu,       715 

é  giunti!  l'annu 

che  he  mortu  babbu  Ciabó 

e  anco  non  vo 

penza  a  rmaritasse. 
ScuFF.  Se  maritu  rtroasse  720 

per  essa  e  per  te, 

dimme  m  pò  a  me 


')  Int.:  a  far  come  la  civetta,  cioè  a  guardare  e  riguardare  se  tornava. 
^)  Che  s'abbia  da  correggere  in  'nuezza'  novizia? 


LA   INTERVENUTA   RIDICOLOSA 


661 


ce  s'  accordaria  ? 

Sap.      Sci  non  c'ha  fantascia, 

non  c'ha  cosa  de  oglia.   725 

SccvF.  0  !  che  gle  enga  la  doglia, 
pe,  che  diaulo  vo  fa? 
Di  m  pò,  e  gVé  stat'a  parla 
nisciuuu  sta  matina? 

bAi'.      Lu  maritu  de  Saratìna,     730 
Pritu,  ce  enne,  gianata, 
ma  non  ce  l'ha  troata, 
non  gl'ha  ditto  coelle. 

SciFK.  Ah!  hai  bone  nuelle, 

Pritu  se  mette  prescia,     735 

besogna  che  rescia 

lu  maniggiu  sicuramente. 


Sap.      Me  par  de  vede  iente, 
lassarne  rentrare. 

ScuFF.  No  gl'aggio  potuto  caare     740 
na  parchi  de  bocca. 
A  la  fé  che  non  he  sciocha, 
che  fantella  sperfonnata! 
la  donna  com'è  nata 
té  lu  diaulu  su  lu  crine,      745 
con  esse,  infine, 
non  se  pò  haé  da  fare; 
me  oglio  retirare 
e  cusci  spettare  Pritu.  750 

Aggiama  de  haé  appititu, 
é  un  pezu  che  gè  via. 


SciENA  {sic)  Ottava 
Taramata  e  Sere. 


Tak.     S'io  non  giugnia 

presto,  n  casa  d'Astorggiu, 

cridi  che  d'accordu  755 

s'harria  rotta  la  copeza  : 

o!  che  bella  gentileza! 

la  comma  gridaa, 

Astorggii;  se  stizzaa, 

paria  cani  e  gatti:  760 

*  Quisci  non  é  gli  patti 

che  m'ulij  osservare  /, 

dicia  la  Commare. 

Astorggiu  responnia: 

"  T'ha  messa  fantascia      765 

e  non  he  vir  coelle; 

chi  t'ha  ditt'esse  nuelle? 

dimmelo  m  pò  tu  ,. 

All'hora  i  giunse  su 

e  gli  feci  aquitare,  770 

e  all'hora  la  Commare 

me  disse  tutta  stizata  : 

"  Parte  bella  questa  cosa? 

custii  che  me  promette 

de  non  tocca  ganzette      775 

fin  ch'ha  da  sta  con  micu, 

e  pò  l'amicu 

per  famme  despera 

se  va  a  colcà 

co  la  figlia  de  Fofó  !        780 

vi  se  m'haggio  rasciò 

de  gridìi  e  sta  dolente!  ,. 

Uh  mult'é  furiente, 

l'hé  malletta  la  Comma. 


Non  s'ulia  contenta  785 

che  Astorgiu  glie  dicesse 

che  se  n'accorgesse, 

che  non  era  veretà 

che  gli  ulia  dà 

per  fi  a  lu  giuramentu,        790 

che  glie  enga  lu  spaentu! 
Sbr.      La  cosa  promesta, 

mascimamente  questa 

ch'hé  un  parentatu 

besogna  scia  manegiatu       795 

da  homini  saggi  e  scorti  : 

acciò  che  gli  torti 

non  se  faccia  a  nisciuno, 

c'ognunu 

ne  resta  consulatu;  800 

quistu  parentatu 

io  lu  oglio  trattare; 

sempre  a  da  fare 

un  homu  de  riputatió  ; 

ossii  !  alla  cunclusió  !  805 

o!  o!,  ecco  Taramata! 

sci  multo  ben  troata! 
Tar.  Che  va  facenno,  sere? 
Seb.      Vaco  daenno  parere 

a  chi  me  lu  chede,  810 

senza  mercede 

e  senza  pagamentu. 
Tar.     Uh  !  che  sci  contentu  ! 

appunto  besogno  n'haia: 

t'  oglio  di  na  fantascia        815 

che  m'haggio  misso  n  testa. 


662 


G.  CROCIONI 


Ser.     É  cos'honcsta; 

quanno  s'ha  da  cuscigliare, 

besogua  gi  a  rtroare 

quigli  eh'  he  dutturi,  820 

perché  i  ntrichi  e  i  duluri  Tar. 

da  lu  capu  ve  lea. 
Tar.     Par  che  lu  core  recea 

quae  consulatió. 

Senti  m  pò  s'aggio  rasoio,  825 

senti  m  pò  che  voglio  fa: 

poco  fa  giaa  a  caa  Ser. 

m  pò  d'agua  a  la  fontana, 

e  a  pé  de  strada  piana 

Pritu  m'affrontò  830 

e  cusci  me  rascionò 

d'un  partitu  ch'issu  haia, 

de  olemme  rmarita 

da  che  Ciabò  é  mortu. 
Ser.      0!  bellu  confortu!  835 

tu  t'ho  rmarita 


e  figliata  la  o  lassa 

a  che  ne  ho  ne  enga?') 

fa  che  non  te  ntenna, 

non  me  ne  rascionà.  840 

Pe,  vome  *)  ascolta, 

anco  non  haggio  dittu 

e  tu,  ser  Ciappellittu, 

vo  toglie  a  nijnà  : 

essa  anco  vo  marita,  84-5 

serra  duppiu  lu  nodu. 

0  !  0  !  a  quissu  modu, 

t'aeristi  quae  rasoio, 

ma  lu  di  delle  perso 

che  sarrà  lu  fattu  ;  8.50 

nanzi  facci  lu  contrattu 

e  !  penzatece  bene. 

Ma  ecco  che  vene 

Pritu,  de  qua, 

vedamo  che  vo  fa.  855 


SciENA  Nona 
Pritu,  Sere  e  Taram. 


Prit,    e  unu  n'  he  accordatu  ! 

comm'haggio  rtroatu 

Taramata  sola, 

in  una  parola 

lu  nodu  é  bell'e  strittu  !      860     Ser. 

0  !  eccu  Ciappellittu, 

rascionà  con  Taramata.- 

bunni  bunni,  brigata. 
Ser.      A!  decon  Pritiim  valentem!  Tar. 

di'  m  pò,  che  va  facennoV    865 

quae  cosa  va  tramenno. 
Prit.    Sere,  vote  ^)  guadagna 

quae  cosa  da  magna,  Prit. 

0  !  cusciglia  Taramata, 

di  che  l'haima  maritata       870 

e  pò  lassa  fa  a  nu. 
Tar,     Da  pò  che  tra  de  vu 

volete  rascionà, 

io  ve  voglio  lassa  ; 

bunni,  sere,  a  dia,  Pritu!    875 
Ser.      Po  tu  m'ha  sbiuttitu, 

fermate,  do  vo  gì? 
Prit.    Taramata,  non  te  parti, 

non  so  venuto  per  sturbatte; 


era  inutu  a  rascionatte        880 

de  quillu  parere: 

mi  ecco  allu  sere 

gle  lu  podima  fidare. 

Se  cuscigliu  ve  posso  dare 

no  ve  mettate  atfannu,         885 

se  no,  bunni  e  bonannu, 

ce  reederima. 

Sere,  vi?  non  fa  stima 

de  partitte  i  nisciun  modu. 

Se  s'  ha  da  stregne  lu  nodu  890 

tu  te  c'ha  da  troare. 

0  !  via,  a  rascionare, 

Taramata,  lu  tempu  é  variu, 

adessa  non  e' he  contrariu, 

damoglie  la  stretta.  895 

Sere,  sta  poeretta 

sta  sola  sola  n  casa, 

non  pò  bee  na  asa 

che  glie  faccia  produ, 

e  a  quistu  modu  900 

tu  sa,  non  ce  pò  sta; 

se  vo  gì  a  compra 

un  moccó  de  accina, 


')  Int.  :  all'abbandono,  ne  venga  che  vuole. 
')  Int.:  mi  vuoi? 
^)  Int.:  ti  vuoi? 


LA    INTERVENUTA    RIDICOLOSA 


663 


Prit. 


Tar. 


Sek. 


se  pe  na  proenna  de  farina 

vo  gi  gió  lu  mugli,  905 

besogna  che  agli  vici 

lu  besognu  commetta, 

perché  a  Saporetta 

nuu  la  pò  lassa  sola.  Tar. 

A  dilla  a  uà  parola,  910 

se  de  rmaritare,  Skr. 

che  te  ne  pare  ? 

ouscigliala  m  pò. 

Se  he  mortu  Ciabó, 

che  vo  pili  aspetta?  915 

sola  non  se  pò  sta, 

troa  quae  paiiitu, 

repigliate  maritu. 

Lu  partitu  he  troatu, 

Scuffiottu  n'é  namoratu,       920     Tar. 

della  robba  n'ha 

non  ce  besogna  penzà. 

Lu  partitu  é  superchiu,  Ser. 

ma  é  troppo  ve  chiù. 

Cussii  l'aerò  treddi,  925 

e  pò  rmanerò  cusci  Prit. 

pur  vidua  scunsulata. 

0!  che  dici,  Taramata,  Tar. 

per  quess'a  lu  cor  affrittu? 

Tu  ')  piglia  un  iuinittu  ?      930     Prit. 

non  te  starna  bé  : 

0  cridi  a  me, 

no  lu  rnuntia, 

potria  crepa  Tar. 

e  tu  ricca  rmanerà.  935 

0,  via,  lo  oglio  fa, 

ma  sentate  na  parola, 

non  voglio  lassa  sola  Prit. 

figliama  Saporetta, 

che  la  poeretta  940     Ser. 

de  dolo  se  murena. 

T'oglio  mette  pe  la  via,  Tar. 

non  te  despera  ; 

non  sa  che  poco  fa 

te  n'aggio  rascionato?  945 

Sci,  ma  non  m'ha  raccontato        Ser. 

a  chi  la  ulij  da; 

se  la  ulima  accompagna, 

daamala  a  un  juinittu, 

s'haesse  sulu  lu  littu  950 

e  non  haesse  pà,  Prit 

saccio  che  stami 

contenta  e  ripusata. 

Ntenneme,  Taramata, 


ascoltame  m  pò,  Pritu;        955 

haggiu     un  partitu 

che,  se  ce  reescesse, 

credo  che  ce  statesse 

Sapoietta  da  cettadina. 

Dimme  m  pò,  a  prima  prima,  960 

de  che  parentat'  he? 

Cridi  me  a  me, 

eh'  he  degli  Ijon  de  Peti, 

sempre  hai  ri  a  quatri 

e  vin  e  pan  da  enne,  9fi5 

ha  de  multu  coelle  : 

rcoglie  la  faa  a  giumelle 

giò  da  la  puscione 

he  é  bone  persone, 

non  é  gente  da  impicciu.    970 

0  !  caame  stu  capricciu, 

se  me  l'ho  fa  sapere, 

non  me  pivi  ntertenere. 

Cunusci  Gaudentiu 

lu  figliu  de  Crementiu?       975 

che  ne  dici  tu,  Pritu? 

Cappita  !  é  bon  partitu 

te  ne  pò  contenta. 

Chi  sa  se  lo  ho  fa?  980 

e  chi  sa  se  lo  oglia? 

Non  te  piglia  sa  doglia, 

lo  sacc'i  che  la  ole 

che  ce  o  pia  parole? 

issu  l'a  ditt'a  me.  985 

E  io  te  do  la  fé 

che  so  tracontenta  ; 

fa  che  presto  senta 

quae  risolutiò. 

Taramata  piano  m  pò;         990 

della  dota  che  farrima? 

Besogna  dillo  prima; 

Taramata  che  vo  fii? 

Io  gle  oglio  da 

ciò  che  aggio  per  la  dote,  995 

e  voglio  prima  scote 

quillu  pezo  de  igna. 

E  io  farro  l'assigna 

de  ciò  che  gli  o  dà 

e  lo  farrà  stima  1000 

ab  aiitetn  peritus 

quem  dicit  tu  Pritus  ? 

Altro  non  se  pò  di 

solo  che  lo  sparti 

scia  fatto  iustamente  1005 

acciò  ch'ugnun  la  mente 


')  Int.  :  vuoi  ? 


664 


G.  CROCIONI 


Tar. 


poza  requià. 

Della  robba  besogna  dà 

a  Scuffiottu  la  mita,  Seb. 

e  l'altra  la  orra  1010 

per  dote  Gauaentiu, 

perché  cusci  Crementiu 

ne  sarrà  sodisfattu. 

Quissu  a  punt'é  lu  pattu 

che  fa  io  gli  ulia;  1015        Prit. 

ossii,  nome  de  Dia, 

io  ve  oglio  lassa, 

ma  besogna  strifulà  Ser. 


lu  nventariu  ch'a  dittu  '). 

Giamoce,  assaia.  1020 

Sci  SCI  giamo  pur  via 

giam  a  fa  està  faccenna. 

lo,  to  !  porto  la  penna 

e  non  he  temperata, 

me  se  de  esse  scordata     1025 

la  bona  che  ce  serio. 

A  reedecce,  sere,  a  Dio, 

me  oglio  mette  fretta 

che  Scuffiottu  m'aspetta. 

Ad  revidendum  Pritus.        1030 


*)  Qui  sembrami  di  notare,  dal  senso,  la  caduta  di  qualche  verso, 
del  che  può  dare  indizio  anche  il  difetto  della  rima. 


'  LA    INTERVENUTA   RIDICOLOSA  ' 


665 


ATTO    TERZO 

SciENA    I 

Gaudentiu  sulu. 


Gaud.  La  gioentii  nou  pò  sta, 
cosili  me  fa  aspetta 
e  ma  dami  de  olta; 
0  io  na  olta 

lu  oglio  gì  a  ncuntrare,  5 

perché  a  me  me  pare 
che  me  daca  la  baia. 
Me  lo  dicia  be  mala 
che  era  un  chiagiaró, 
c'oglio  fa  custió,  10 

se  la  cosa  non  ha  conclusa. 
Non  ce  valei-a  scusa, 
perché  me  l'a  prumisto. 
Questa  olta  lu  pisto 
e  lu  faccio  mpara  sinnu,       15 
e  sci  voglio  di  a  ccinnu 
n'altra  olta  me  ntenna. 
Parte  bella  faccenna 
non  esse  anco  spidita? 
me  enga  la  pipita,  20 


se  non  lu  fo  penti. 

Lu  oglio  fil  muri 

de  la  morte  maligna. 

D'esse  ^)  git'a  la  igna 

che  d'ecco  non  ce  sta.  25 

Se  lu  pozo  affronta 

da  le  ma  non  me  scappa; 

me  learó  la  lappa 

presto  da  lu  dossu  ; 

da  per  issu  s'è  mossu  30 

non  me  lo  pò  nega, 

che  non  l'ulia  fa, 

né  manco  ce  pensaa  ; 

gl'oglio  fa  fa  la  baa 

commo  ch'agli  mpiccati;       35 

gabba  gli  namorati 

e  faglie  quisti  affrunti.... 

a  lo  rfa  de  gli  cunti 

lu  oglio  achiappare. 


SciENA  Seconda 
Crementiu  e  Pritu. 


0!  multo  a  me  me  pare       40 

che  staca  Ciappellittu, 

me  fa  sta  tant'affritto 

che  non  pozo  requiare, 

e  un'hora  a  me  me  pare 

che  scia  migl'ann'  apuntu:  45 

granne  earia  l'afFrunto 

non  potesse  troare 

con  chi  accompagnare  Pkit. 

Gaudentiu  me  figliolo. 

Per  la  robba  che  me  troo    50 

ugnun  lo  durria  fa, 


perché  l'appai-entà 
commo  c'hé  quae  coelle 
senza  più  altre  nuelle 
lo  concrude  un  mezanu; 
se  1  disignu  rescie  vanu 
ma  pili  voglio  proa 
figlimu  d'amoglia; 
voglio  se  nvecchia  n  casa. 
La  fama  se  he  spasa 
de  quistu  parentatu 
per  tuttu  1  vicinatu, 
Crementiu  lo  de  sape. 


55 


60 


^)  Int.  :  dev'essere. 

StudJ  di  fi!olof)ia  romanza,  IX. 


42 


666 


G.  CROCIONI 


Lassate  edé, 

Crementiu,  do  va?  65 

Di  un  pò,  non  me  o  dà 

la  mancia  de  la  noa? 

0!  bella  proa, 

tu  te  fuggiai 

Crem.  Io  non  te  viddi  mai,  70 

se  non  quann'ha  chiamato. 

Che  noa  m'ha  recato 

de  figlimu  ch'hé  spusu?  Crem. 

non  me  torce  lu  musu. 
Prit.    Fotta!  chi  te  l'ha  dittu?       75 
Crem.  Da  messer  Ciappellittu 

io  l'haggio  saputo.  Prit. 

Prit.    E  multo  é  venuto 

presto  a  datte  noa,  Crem. 

ha  fatto  bella  proa  80 

se  quest'hé! 
Crem.  E  perché 

non  l'haia  da  sape? 

0  !  quiss'é  bel  pare. 
Prit.    Io  te  l'haia  a  di  85     Prit. 

lu  primu,  per  veni 

cun  ticu  a  manecà, 

e  pottemme  guadagna 

quae  bona  mancia.  Crem. 

Crem.  Tu  rempierà  la  pancia  90 

e  la  mancia  ha  guadagnata, 

perché  non  me  l'à  data 

questa  noa  altro  che  tu. 
Prit.    Crementiu,  sa?  pò  tu 

credo  m'ogli  burla,  95 

i  te  l'era  inuta  a  dà... 

me  penzaa  che  te  piacesse 

non  che  te  recrescesse. 
Crem.  Tu  me  sechi  le  cervella; 

questa  bona  nuella  100 

non  m'  he  suta  ma  portata,         Prit. 

e  tu  me  l'à  portata 

e  cusci  l'haggio  saputa, 

e  m'hé  tanto  piaciuta 

che  me  par  esse  deentatu  105 

juinittu  uamoratu, 

commo  era  int'anni  fa.  Crem. 

Ma  la  dota  comò  va? 

Pritu  fa  ch'io  la  ntenna. 
Prit.    Fa  cuntu  la  faccenna  110 

scia  stata  scultrinata 

da  na  certa  brigata 


ch'ugni  cosa  o  sapere. 

Io  e  lu  sere 

lu  parentatu  haimo  fatto,  115 

e  a  quest'hora  lu  cuntrattu 

serra  bell'e  strifulatu. 

Prima  prima  sarrà  stimatu 

quella  robba  che  e'  he, 

e  fra  Scuffiottu  e  te  120 

l'haete  da  sparti. 

0  !  che  te  sento  di  ! 

Scuffiottu  a  tolto  moglie? 

0  !  che  glie  enga  le  doglie, 

pe,  chi  a  pigliata?  125 

Taramata, 

ve  sarrete  parenti. 

Fotta  !  non  ha  pili  denti 

s'è  mezzu  aggobbatu 

e  s'è  annutiatu  130 

quanno  che  non  pò  più. 

0  puiritt'  ossù  ! 

presto  lo  idirima. 

Issu  non  fa  sa  stima, 

se  penza  de  resciste;  135 

ch'é  stati!  a  tre  piste, 

dice,  non  ha  paura. 

Se  su  capricciu  dura, 

non  sarrà  da  pocu, 

se  penza  scia  un  giocu        140 

lo  fa  d'està  faccenna. 

Chi  a  orechie  intenne, 

Ossù!,  me  oglio  gì 

e  lu  oglio  fini, 

che  io  non  veggo  l'hora      145 

de  fa  sta  cosa  bona, 

che  Dio  scia  laudatu! 

0  vi  eh'  haeró  fermatu 

figlimu  maldittu. 

0  via  non  sta  più  fittu,      150 

vatte  a  proedé. 

Io  voglio  fa  sape 

a  Scuffiottu  che  m'aspetta 

che  la  cosa  é  gita  netta. 

A  Dia,  ce  rparlarima.  155 

Fa  pur  stima 

che  te  de  desiderare, 

lassarne  gì  a  conciare 

per  casa  le  massarie. 

Fotta!  farrà  pascle  160 

Gaudentiu  a  maramà! 


••  L\   INTERVENUTA   RIDICOLOSA 


667 


SciENA  Terza 
Saporetta  e  Taram. 


Sap.     Adessa  che  lu  Notarla 
serie  lu  nventariu 
e  maia  sta  attaccennata 
e  cusci  io  fjianata  165 

in'oglio  gi  a  cusci<iflia 
mi  quagió  da  la  Comma, 
quello  ch'iiggio  da  fa, 
quanto  lu  spusu  ce  enerà. 

Tar.     Saporetta  !  o  Saporetta  !      170 
uh  I  che  sci  maldetta, 
pe,  do  i  gita? 
me  s'è  smarrita 
to  !  eccola  millu  ! 
pe,  do  diaulu  va?  175 

Sap.      Vaco  qua  da  la  Comma, 
me  ulia  fa  presta 
lu  spalla-eollu. 

Tar.     Uh  !  te  rumpi  lu  collu, 

do  a  truata  quest'usanza?  180 
guarda  mpó  che  creanza! 


Sap. 
Tar. 


se  te  0  concia  lu  musu 

nauti  che  venga  lu  spusu, 

non  sii  parili? 

saccio  che  non  vo  fii  185 

commo  la  figlia  de  Strina, 

che  non  c'è  vicina 

che  non  vaca  affannenno 

e  va  troenno 

sempre  quest'e  quella  190 

e  dice:  comò  so  bella? 

staco  he  acconciata  ? 

pò,  se  ini  accuntrata, 

cri  che  statii  frescha  ? 

Maia,  non  te  recresca,         195 

non  lo  farro  ma  più. 

Camina,  su, 

che  lu  sere  non  te  senta, 

uh  !  mult'è  contenta, 

non  cape  su  la  pella.  200 


SciENA  Quarta 
Gaud.,  Pritu  e  Scufflottu. 


ScuFF.  0  quest'è  la  nuella 

che  m'ha  toccato  lu  core  ; 

adessa  lu  dolore 

tuttu  me  s'è  partitu; 

0  se  sapisci,  Pritu,  205 

quanto  te  so  ubrigatu! 

serrò  accompagnatu, 

la  robba  crescerà 

e  quaeduno  rmanerà 

dopo  me,  quanno  so  mortu.  210 
Pkit.    Scufflottu,  aeristi  tortu, 

se  non  te  ralegrassi; 

haggio  spisci  molti  pasci 

per  maneggia  lu  parentatu, 

alla  fin  l'haggio  tiratu         215 

a  quello  che  vulima. 
ScuFF.  Quanno  nu  farrimo  stima 

delle  cose  ch'ha  in  casa? 
Prit.    Sta  facenna  c'è  rmasa, 


ogn'altra  cos'è  fatta,  220 

e  i  credo  che  batta 

su  gli  dece  Aurine, 

perché  le  casse  è  pine 

rase,  che  le  lassò 

lu  puirittu  de  Ciabó.  225 

Tu  sa  orma  che  fa? 

vidi  da  capezil  0 

la  casa,  lo  meglio  che  pò, 

perchè  te  rveneró 

a  rtroà  accompagnatu.         230 
Gaud.  Oh!  cera  de  mpiccatu. 

adessa  te  rtroo, 

non  me  parto  che  io  proo 

se  quistu  ferru  taglia. 
Prit.    0  che  te  enga  la  nguenaglia,  235 

Gaudentiu,  t'i  ammattitu? 
ScuFF.  0  che  te  enga  lu  nitritu, 

pe,  vo  fa  custió  ? 


^)  Forse  :  d'acapezà. 


668 


G.  CROCIONI 


Gald. 

Prit. 

Gaud. 

SCUFF. 

Gaud. 
Prit. 


Gadd. 


ScUFF. 


M'baggio  be  rasció, 

quant'é  che  m'ha'  parlato?  240 

Pe,  f  haggio  accompagnato, 

che  vurristi  da  me? 

Yurria  sape 

se  Saporetta  me  ole. 

Pe,  non  più  parole,  245 

non  t'ha  ditto  de  sci? 

Oh  !  oh  !  se  sta  cusci 

la  pudiristi  ntenne. 

Ma  più  su  ste  facenne 

me  mpaccio  con  juinitti  ;    250 

issi  vo  sta  fitti 

e  gl'altri  vo  che  traaglia; 

oh  che  canaglia! 

dice  pò:  Va,  faglie  bene. 

Su  le  catene  255 

fin  qua  m'ha  fatto  stare, 

che  te  ne  pare, 

Scuffiottu,  dillo  tu. 

Ossù,  ha  torto  tu, 

figliu,  non  te  stizà,  260 

quesse  cose  non  se  pò  fa 

cusci  a  mena  ditu; 

basta  che  serra  maritu 

de  Saporetta  bella  ; 

pò  quessa  nuella  265 


te  dijria  consulà, 

e  tu  te  0  ncollorà. 
Gaud.  Io  non  so  ncoUoratu, 

ma  me  so  maraegliatu 

che  da  un  pezo  n  guà         270 

non  m'é  vinutu  a  parla, 

me  credia  che  me  burlesse. 
ScuFF.  E  che  vulij  che  facesse 

se  non  era  concrusa? 

Con  che  scusa  275 

nanti  t'ulia  vini? 

pò  tu  me  fa  mpasci 

a  vedette  sci  stizatu. 

Cussu  ha  fattu  lu  parentatu 

e  pò  glie  dici  ignuria?        280 

Non  besogna  gì  a  furia, 

lassate  maneggia; 

0  vatte  m  pò  a  concia 

non  perde  tempu,  vanne 

che  agiamà  se  spanne         285 

per  tutto,  bad'a  te. 
Gaud.  0  biatu  me, 

sci  SCI,  m'oglio  gì  via 

me  racomanno. 
ScuFF.  A  Dia.  290 

0  che  capu  vanu! 

che  cervellu  balsauu! 


SciENA  Quinta 
Sere,  Taramata  e  Scuff. 


Ser.      É  gran  reputatió 

d'unu  che  scia  notariu, 
quanno  fa  n'aventariu 
che  staca  ben  a  sestu, 
perché  o  tard'  o  prestu 
ne  serra    laudatu. 
Credo  haé  ben  stimatu 
secunnu  lu  cervello 
de  tutto  quanto  quello 
che  la  robba  pò  alere, 
com'ognun  vedere 
potrà  su  la  scrittura. 
0  che  bella  vintura! 
Scuffiottu  sta  a  spetta, 
giamoglie  un  pò  a  parla! 
Taramata,  ven  cun  micu; 
te  so  di'  ch'i  bon  amicu, 
Scuffiottu,  che  se  fa? 
accostate  m  pò  qua! 
non  vidi  Taramata? 


Scuff.  Oh  scij  la  ben  troata! 
Tab.     e  tu  scij  lu  ben  venga! 

295     Ser.      Non  saccio  chi  me  tenga    315 
che  la  fé  non  faccia  dà; 
serra  megl'  aspetta 
che  venga  Gaudentiu 
accio  che  Crementiu 

300  non  se  poza  lamenta,  320 

perché  ve  l'o  fa  dà 
inseme  a  tutti  du. 
Scuff.  Sere,  pe,  fa  tu, 

che  ne  dici,  Taramata? 

305  Tu  sta  meza  disperata,        325 

pe,  non  me  sta  cusci, 
che  non  te  piace,  di 
da  haé  prisu  maritu? 
pe,  vi  ch'é  bon  partitu, 

310  non  me  sta  scunzulata.        330 

Tar.     La  parola  é  bell'e  data, 

comm'o  che  me  despiaccia  ? 


I.A   INTERVENUTA  RIDICOLOSA 


669 


Seu. 


besognara  me  piaccia 

in  ogni  moiln. 

É  gii'i  strittu  lu  nodu, 


335 


non  c'è  altro  che  fa, 
se  non  de  gì  a  rtroa 
Crementiu  e  lu  figlia. 


SciENA  Sesta 
Prit.,  Crem.,  Sere,  Tara.,  Scuflf.  e  Pasqua*. 


Crem.  Non  preza  lu  cuscigliu  Prit. 

de  lu  patre  so,  340 

vi  se  vo  preza  lu  to.  Pasq. 

Prit.    0  che  homu  stronatu  ! 
Ber.      Oh!  ecco  lu  parentatu,  Ser. 

adessu  lu  scrijma. 

Crementiu,  prima  prima,     345 

commo  che  bon^  amicu, 

me  rallegro  con  ticu 

de  quistu  parentatu. 
Crem.  Oh  !  scij  lu  ben  troatu, 

Dia  te  contenta,  sere  ;  350 

lassate  edere, 

Scuffiottu,  non  t'abbuscare, 

che  me  oglio  rallegrare, 

non  0  uto  ma  certanza 

de  questa  parentanza,  355 

ti  sirria  inut'  a  rtroare. 
ScuFF.  Non  ce  bt??ogna  fare 

cerimonie  tra  de  nua; 

presto  presto  tutti  dua 

ve  sarrete  parenti.  360 

Prit.    0  !  multo  sta  contenti, 

Taramata,  e  tu  che  fa? 

i  te  eggo  multo  sta 

afflitta  e  spenzerosa. 
Tar.     Io  non  aggio  cosa,  865 

commo  urristi  che  statesse  ? 
Crem.  Non  vurria  che  te  paresse, 

perché  non  so  venutu 

che  me  fosce  recrescutu  (sic); 

oh  che  scia  nella  bon'hora,  370 

cusci  con  ticu  ancora 

me  oglio  rallegra. 
Tak.     Dia  te  poza  contenta. 
Ser.      Oh  tiratee  da  na  banna, 

che  voglio  che  se  spanna    375 

quistu  ch'é  l'aventariu 

ch'agio  fatt'io  notariu 

per  tuttu  quistu  locu  ; 

Pritu,  sbriate  m  pocu, 

va,  chiama  un  testimoniu,  380 

potta  de  lu  demoniu, 

che  non  te  l'ha  menatu? 


Sci  lu  ben  troatu. 

Pasqua,  che  ha  da  fa? 

Cosa  aggio  da  fa,  385 

perché,  che  vo? 

Passa  de  qua  gió, 

state  tutti  a  sentire 

che  io  comenzo  a  dire: 

Quistu  é  lu  nventariu  390 

ch'haggiu  fatt'io  notariu 

mi  eccu  dillu  locu. 

In  prima  un  capefocu 

che  ili  cumpagnu  é  ruttu, 

una  pigna  de  struttu,  395 

un  ramaio  e  na  cuchiara, 

un  toaglió  da  fa  la  spara, 

tre  pigne  e  du  scudelle, 

du  camiscie  e  tre  pannelle, 

quattro  scuffie  da  testa,       400 

un  polzó  pe  na  balestra, 

un  bancu  da  sedè, 

un  lapiggiu  e  un  trepé, 

item  du  lenzole  e  un  pagliericciu, 

un  canestru  de  capicciu,      405 

du  buca,  un  broccu, 

una  taza  e  mezu  troccu, 

un  saccu.  una  sacchetta, 

un  calzittu  e  na  brachetta, 

sette  nodri  de  gli,  410 

un  gallu  e  du  gagli, 

una  matterà  rotta, 

du  scattule  da  ricotta, 

na  lucerna  senza  lenguetta, 

una  trufa  e  na  borletta;      415 

item  un  caldaru, 

e  un  pettene  da  telaru, 

un  pana  e  un  tunnu, 

una  sechia  senza  funnu, 

una  zappa,  una  angha,         420 

una  storta  e  una  stangha, 

un  falcció  (sic),  un  accittarellu, 

una  scopa  e  un  venderellu, 

un'aspa  e  quattro  fusa, 

un  varnellittu  comò  s'usa;  425 

item  una  radetora, 


670 


G.  CROCIONI 


du  coperchi  e  na  fersora, 

un  pistatù  e  un  morta, 

una  banchetta  da  magna, 

una  paletta,  un  spitu,  430 

mezu  barri  d'acitu, 

du  trespoli,  un  telare, 

e  un  cocciu  da  cacare, 

una  scrofa  pregna 

e  sette  pezzi  de  legna.        435 

Tar.     Sere,  non  te  scorda 

le  tre  passa  de  corda. 

Ser.      Adessa  l'ulia  di'. 

Una  biocha  e  du  pulci, 

una  corda  da  segha,  440 

e  una  cagnola  prena, 

un  purchittu  e  du  campa, 

item,  una  schiaina 

per  tene  caldo  le  rina 

de  li  spusu  che  é  vechiu;  445 

item  un  spechiu 

che  costo  tre  quatri, 

e  du  acora  da  cusci, 

tre  casce  che  non  c'hé  cosa, 

e  una  é  meza  rosa,  450 

cun  un  pezu  de  igna, 

che,  dice,  sta  in  pignu. 

Ossii,  nome  de  Dio,  Pritu, 

e  tu  com'a  nome? 

Pasq.   Io  me  chiamo  Pasqua,         456 
e  lu  patre  de  mi  pà 
se  chiamaa  Stroppiabirri, 
ch'era  un  brau  paladi, 
e  i  so  lu  fi  de  Stura. 

Ser.      0  !  co  la  bona  intura  460 

sarrete  testimonij. 
Et  ego  rogatus 
in  hoc  x>cirentatus 
qualmente  Taramata 
s'hé  accompagnata  465 


miecco  con  Scuffiottu, 

e  per  dote  glie  dà 

de  ste  robbe  la  mitii, 

e  l'altra  a  Gaudentiu 

figliu  qua  de  Crementiu       470 

per  haeglie  data 

ditta  Taramata 

per  moglie  la  figlia; 

e  issu  la  piglia 

e  accetta  lu  partitu.  475 

Crem.   0!  Gaudentiu  é  gitu 

fin  miecco  a  lu  campu 

poco  fa;  almanco 

rvenesse  prestamente. 
Ser.      Non  tenate  pili  mente,         480 

jatel'  a  chiama, 

che  non  c'hé  altr'  a  fa. 

Pasqua,  te  pò  gì  via. 
Pasq.   Me  raccomanno  a  Dia. 
Pbit.    Horma  che  c'hé  da  fa?        485 
Seb,      0  via,  iate  a  chiama 

lu  spusu  ;  presto  su, 

Scuffiottu,  e  tu 

statte  ritiratu, 

perché  sarra  chiamatu.        490 

Taramata,  tu  ancora 

sbriate,  va,  laora, 

va,  concia  la  ganzetta 

e  té  la  casa  netta. 
Tar.     Sci  sci,  girró,  495 

e  n  casa  aspettarró. 
Crem.   Sere,  e  tu  che  vo  fa  ? 
Ser.      Me  lassare  rtroà, 

jate  pur  via. 
Crem.  Ossù,  a  Dia.  500 

ScuFF.  A  Dia,  sere, 

lassate  reedere. 
Pbit.    E  nu,  Crementiu, 

iam  a  rtroà  Gaudentiu. 


Sciena   Settima 
Ciabo'  sulu. 


CiAH.    Dapo  l'haé  caminato  505 

per  lu  maru  e  per  la  terra 
e  scampata  la  guerra 
e  la  furia  della  corte, 
eccote  che  la  sorte 
m'ha  pur  menato  a  Petine.  510 
Ho  !  in  fine 
ugni  cos'è  mutato. 


pò  mult'é  accasato 

da  che  so  gitu  via. 

To!  miecco  c'era  na  ia,       515 

e  adessa  c'è  un  casamentu; 

me  engha  lu  spaentu 

se  saccio  do  me  sta. 

0  che  dirrà 

mogliema,  quanno  me  ede  ?  520 


LA   INTERVENUTA   RIDICOLOSA 


671 


saccio  che  se  de  crede 

che  me  scia  bell'e  mortu; 

to!  miecco  c'era  n'ortu 

e  adessa  c'hé  na  casa, 

pe,  cosa  non  che  rmasa      525 

de  quellu  che  c'era  prima; 

o!  come  ne  nvechima, 


se  non  me  gabbo, 
elio  casa  de  Babbu 
e  questa  é  casa  mia, 
se  la  fantascia 
non  me  fa  strabigliare. 
0  io  voglio  bottare. 

Tic  toc  tic  toc 


530 


SciENA  Ottava 
Tara.,  Ciabo'  e  Sapo. 


Tar. 

ClAlt. 


Tar. 

ClAB. 

Tar. 


ClAB. 


Tar. 

ClAB. 

Tar. 

ClAB. 


Presto!  che  esso  gli  spusci.  Tar. 

Se  rasciona  de  spusci,  535 

che  sci  che  Taramata  Ciab. 

se  sarra  rmaritata. 

Adessa,  adessa,  Pritu. 

So  Ciabó,  non  so  Pritu. 

0!  corno  ha  utu  nitiu  540     Tar. 

che  se  fa  lu  sposalitiu?  Ciab. 

va  via, 

va  nome  de  Dia! 

0  !  io  la  eco  ntricata, 

la  casa  me  s'hé  sbagliata,  545 

voglio  rbottà. 

e  me  l'oglio  fa  nsegnà. 

0  de  casa!  o  brigata! 

tic  toc 
a  la  casa  de  Taramata  Tar. 

da  che  banna  se  va?  550 

Perché?  che  ho  fa? 
voglie  dà  quae  coelle? 
Certe  nuelle  Ciab. 

de  lu  maritu  glie  porto. 
Lo  saccio  ch'é  mortu,  555 

e  ssa  scusa  non  te  ale. 
Lu  demonio  nfernale 
ce  ioca  a  la  cioetta  ') 
con  queir  anima  malletta. 
0!  purittu  Ciabó!  560 

che  sci  che  non  rtroaró  Tar. 

hoggi  la  casa  mia! 
pe  la  fé  de  Dia 
che  serra  na  bella  festa! 
Fatte  a  la  fenestra,  565     Sap. 

mustra  m  pò  su  mustacciu. 


0  cialtronacciu, 

aspetta,  spetta  m  pò. 

Ah!  ah!  adessa  se  ne  hen  gió. 

0!  sbriate,  sorella,  570 

se  non  vo  che  le  cervella 

te  secca  e  te  daca  noia, 

0!  to  !  cera  de  boia! 

0!  polti-ona  vacca, 

m'  ha  buttato  l'aqqua,  575 

voglio  che  te  ne  penti. 

Dagli  founamenti 

adessa  la  casa  te  taglio; 

tu  vidi  che  non  caglio, 

scappa  qua  de  fora  580 

che  li  lupi  te  deora, 

poltronaccia  sfonnata! 

So  io  Taramata, 

e  aggio  pigliatu  maritu. 

Che  giaa  a  fa  lu  furiscitu,  585 

te  pò  gi  via  per  quesso. 

Ohimè!  lu  cessu!  -) 

tu  i  Taramata 

e  t'i  accompagnata? 

ossii,  apri  quagió  590 

ch'hé  rvinutu  Ciabó  to. 

Cusci  fosse  mortu, 

perché  quissu  tortu 

non  lu  iniria  a  paté. 

I,  poeretta  me!  595 

pe,  che  voglio  fa? 

che  scusa  voglio  piglia? 

Babbitu,  Saporetta  ! 

Uh  !  m"ha  mesta  la  stretta  ! 

Maia,  é  issu  daero?  600 


')  Frase  viva  anche  oggi,  vale  '  prendersi  giuoco  di  alcuno  '. 
')  Così  la  parola  cancellata  :  la  sovrapposta  culu. 


672 


G.  CROCIONI 


Ciad.    Quist'é  un  gran  penserò, 

s'hé  viro  che  l'aggia  pigliatu 

Tar.  Uh!  svinturatu! 

pe,  com'  ha  fatto  a  rvini"? 

CiAB.    Tu  m'ha  fatt' ammattì; 
comm'i  rmaritata? 
che  noa  t'hé  stata  data 
dellu  fattu  mia? 

Tar.     Tutti  me  dicia 

ch'iri  stat'ammazatu, 
ma  non  sta  desperatu 
ch'haia  da  esse  fattu 
questa  sera  lu  cuntrattu 
de  me  e  de  Saporetta. 
Uh!  che  scia  benedetta       615 


quest'ora  ch'i  rvinutu. 
CiAB.    S'ancora  non  é  sutu, 

tuttu  m'ha  cunsulatu. 

0  biatu  me  ! 
605     Sap.      Maia,  pe, 

ven  su  che  non  saccio  fa, 

non  me  saccio  acconcia; 

tutta  me  so  rguastata. 
Tar.     Uh!  che  sci  cunsulata, 

ecco  babbu  to 

che  te  lasso 

su  la  cesta,  quanno  gì  vii 
CiAB.    Te  rtroa  via 

che  ma  me  lo  pensaa. 


610 


620 


625 


SciENA  Nona 
Sere,  Ciabo'  e  Tara. 


Sek.     Non  resce  ugni  discignu. 

630 

N  casa  baia  m  pignu 

un  mantellu  fruatu 

Ser. 

d'un  desgratiatu 

che  per  pagamentu 

ClAB. 

de  caatura  de  stromentu 

635 

me  l'haia  lassatu; 

adessa  m'hé  statu  rubbatu 

Ser. 

e  me  lu  besogna  paga. 

Io  lu  ulia  porta 

ClAB. 

a  le  nozze  solamente 

640 

accio  la  iente 

Ser. 

per  notariu  me  cognoscesse 

e  honore  me  facesse 

commo  nu  airi  miritima. 

ClAB. 

Meglio  serra  che  prima 

645 

destramente  cercanno  vaca 

nanzi  che  daca 

Ser. 

^'accusa  alla  Rascione. 

Assaia,  le  i^ersone 

commo  pò  assascinare 

650 

glie  par  de  fare 

ClAB. 

na  proa  da  paladine; 

ma  pò  che  so  vicine 

Ser. 

voglio  di'  a  costerà 

che  m"ha  aspetta  che  a  bora  655 

in  ogni  mo  rveneró. 

ClAB. 

tic  toc  tic  toc 

Tar.     Uh!  essogli,  Ciabó, 

che 

che  gli  ulima  di? 

Ciak.    Lassagli  vini, 

lassa  responne  a  me.  660 

Chi  é? 

Taramata,  so  lu  sere. 

Oh  !  un  forestere  ! 

Un  foreste  de  lu  locu. 

Sere,  mult'i  da  pocu.  665 

Pe,  non  vi  se  chi  so? 

So  che  non  i  Ciabó, 

me  par  de  raffigurattc. 

E  io  vengh'abbracciatte, 

pò  che  m'ha  rcunusciutu.    670 

0  !  sci  lu  be  rvinutu  ! 

Pe,  lu  nome  s'era  leatu 

ch'iri  stat'ammazzatu. 

Mogliema  me  l'à  dittu, 

qua  diaulu  maldittu  675 

ha  portata  essa  nuella. 

0!  questa  sci  ch'é  bella! 

se  ulia  accompagna; 

hatelo  ditto?  e,  sa, 

questa  sera  s'haia  da  fa.     680 

M"  aggio  fatt' acconta 

com'  é  gif  ugni  cosa. 

Faciamo  spusa 

almanco  Saporetta 

pò  che  la  cos'è  stretta.        685 

0!  quesso  l'oglio  fare, 

pò  che  me  pare 
scia  ben  allocata. 
Ma  é  stata  nfamata 
la  casa  de  costora;  690 


LA    INTERVENUTA    RIDICOLOSA 


673 


0  !  scia  ne  la  bon'  hora  ; 
mannamogler  a  ddire. 
Non  pò  sta  a  vinire  '), 


non  haé  paura. 
Oh  che  ventura! 
eccogli,  en  de  qua. 


695 


Scena  Decima 
Prit.,  Gaud.,  Crem.,  Ciab,,  Ser.  e  Tara. 


To  !  to !  ce  sta  a  spetta 

lu  sere,  miello  a  l'usciu. 

Chi  é  quillu  da  lu  rusciu? 

Non  lo  saccio  i'.  700 

Buuni!  bunni! 

multo  staete  musei. 

Crementiu,  non  rcunusci 

chi  é  stu  foreste  ? 

Se  lo  0  sape  705 

ven  qua,  guardaglie  m  pò. 

CTuarda,  guarda  Ciabó  ! 

pe,  tu  i  risuscitatu. 

0'  VI  che  e'  haimo  datu, 

0  Scuffiottu  desgratiatu!      710 

Non  so  resuscitatu, 

se  non  me  so  ma  mortu. 

0!  che  confo rtu! 

io  te  oglio  abbraccia, 

e  te  ogli'»  bascià,  715 

che  da  che  scima  nati 

ne  scima  stati 

sempre  comò  frategli. 

E  adessa  più  che  frategli 

ne  scima  parenti.  720 

Gaudentiu,  non  me  senti  ? 

ecco  lo  geniro  to. 

Abbraccialu,  Ciabó. 

Parente,  che  se  fa 

da  quant'in  qua....?  725 

0  sci  lu  Ijen  rtornatu  ! 

Polu!  fi  allongatu. 

Pritu,  e  tu  corno  sta? 

che  non  gle  a'  a  fa 

tu  ancora  l'allegrezza?         730 


Prit.    Questa  sarra  la  parenteza, 

he  VI  ser  Ciappellittu, 

0  che  scia  mallittu 

Ciabó,  pe,  i  rvinutu? 
Ciak.    Pritu,  pò  t'i  nvechiatu;       735 

haggio  rtroatu 

tuttu  stu  locu  mutatu. 
Ser.      e  che  te  penzi  ?  lu  locu 

s'hé  mutat'a  pocu  a  pocu, 

ma  manco  ma  sarria  740 

se  non  gessamo  ia, 

ma  ce  besogna  gi. 
Ciab.    0  quessa  sci 

me  sa  na  brutta  festa. 
Ser.      É  cos'  honesta  745 

pò  ch'é  rvinuti  costora. 

Facci  ini  fora 

figliata  Saporetta 

e  daamo  la  stretta 

a  quistu  parentatu.  750 

De  lu  tempu  passatu 

se  ne  rascionarà. 
Ciab.    Sci  la  oglio  chiama. 

Taramata!  Taramata! 

Se  Saporetta  s'è  acconciata,  755 

menala  quagió. 
Tar.     Adessa,  adessa,  Ciabó. 
Gaud.  Sbriamola,  che  se  fa? 
Crem.   Pritu,  va  a  da 

a  Scuffiottu  la  noa.  760 

Che  gioa 

de  fallu  pili  stenta? 

So  che  se  desperani, 

quanno  sa  està  nuella. 


')  Int.:  non  può  tardare  a  venire. 


674 


G.  CROGIO.M 


SciENA  Undicesima 
Gaud.,  Crem.,  Ciab.,  Tar.,  Sap.,  Ser. 


Gaio 

Fotta!  l'è  bella! 
Biatu  Gaudentiu! 
ossi'i,  Crementiu, 

765 

Gaud. 

ecco  Saporetta. 

Crem. 

Crem. 

0  che  SCI  benedetta! 

Sap. 

Sciate  li  benvenuti! 

770 

Gaud 

E  tu  sci  la  ben  troata! 
Fotta,  Taramata, 

Ciab. 

lo  r  a  conciata  bene. 

Ser. 

Tar. 

Uh!  molto  se  ne  rtene, 

c'è  nata  bell'e  netta 

775 

Tar. 

figliama  Saporetta. 

Gaio 

Sere  a  la  concruscione. 

Ciab. 

Ser. 

Tu  t'ha  rascione, 

venate  qua, 

Ser. 

toccatee  le  ma. 

780 

Saporetta,  fa  che  te  senta 

, 

Gaud. 

dimme  m  pò,  i  contenta? 

Sap. 

Non  capo  su  la  pella; 
parte  che  scia  nuella 

Ser. 

da  non  sta  ripusata? 

785 

Gaud 

0  faccia  dilicata, 

lassamete  bascià. 

Crem. 

Ser. 

Ossù,  non  fa. 

Ser. 

Sap. 

Che  te  mporta  oramà? 

lassalu  fare! 

790 

Crem. 

Ciab. 

Su,  che  sfocare 

cu  lu  tempu  ve  poderete. 

Sap. 

Po  multu  sciate 

invidiusci. 

Pe,  cusci  fa  gli  spusci.        795 

0  via,  non  piii  ciarlare, 

so  che  non  vulima  stare 

miecco  pò  eh' è  spusata. 

0  Taramata, 

apri  l'usciu  che  rentrarima.  800 

Ce  reederima, 

io  ve  oglio  lassa. 

Sere,  ven  qua 

non  te  parti. 

Te  besogna  ini  805 

con  nua  a  manecà. 

No,  no,  aggiu  da  fa; 

c'è  tempu  n'altra  olta. 

Sere,  sere,  ascolta, 

non  voglio  che  vadi  via.     810 

Questa  fantascia 

io  ve  la  oglio  caà; 

ce  oglio  restii, 

me  eneró  su. 

Sere,  entra  primu  tu.  815 

No,  no,  vattene  su, 

cedo  lociis  maiores  dice  Catone. 

Fo,  non  par  un  Salamene. 

Ven  su,  ser  Ciappellittu. 


Sciena    Ultima 
Pritu  e  Sere. 


Frit.    0  Scuffiottu  puirittu!  820 

quanno  a  saputu  la  noa 
facia  prò  a 
de  elesse  ammazza. 

Ser.      Fritu,  vote  ^),  sbriga? 

un  pezzu  haim'aspettatu  :     825 
è  cuncrusu  lu  parentatu 
de  Gaudentiu  e  Saporetta. 
Cossora  t'aspetta. 

Prit.    0  sere,  che  aggio  istu! 


tuttu  s'è  pistu  830 

Scuffiottu,  quann'ha  saputu 

che  Ciabó  é  rvinutu. 
Ser.      e  che  ce  o  fa? 

Non  se  pò  remedia; 

la  desgratia  è  stata  sua.     835 
Prit.    A  ddilla  fra  de  nua 

è  statu  desgratiatu. 

Sa,  se  sarria  ammazzatu, 

se,  nanti  che  me  partesse. 


*)  Int.  :  ti  vuoi  ? 


LA   INTERVENUTA   RIDICOLOSA 


675 


avertitu  non  l'haesse  840 

che  se  doesse  repusare, 
che  gl'ulia  troare 
moglie  a  iss'ancora. 
Sere,  non  sta  de  fora, 
ven  dentro,  che  vo  fa?        84.5 
Sek.      Voglio  lecentia 

miecco  sta  brigata. 
—  Donne,  v'é  stata  grata 
la  nostra  Intervenuta? 
chi  sarra  quella  saputa       850 
che  voglia  di'  de  no? 
Horsii,  Pritu,  Ciabó, 
Crementiu  e  Scuffiottu, 
Pasqua,  visu  d'arlottu, 
Taramata  e  Saporetta         855 
(ch'adesso  sta  a  la  stretta) 


Gaudentiu  ìuinittu, 
e  io  ser  Ciappellittu 
Scimusomnes  advostrum  commannum; 
se  volete  ad  ballanno  860 

vini  fra  ste  persone, 
a  son  de  ceterone 
ve  farrimo  saltare; 
e  se  volete  strifulare 
un  strumentu  o  nventariu,       865 
ecco  qua  lu  notariu 
che  per  tre  quatrine 
buscie  senza  fine 
ve  dirnì  a  tutti  quante. 
Hor  su,  che  sciate  sante,         870 
giate  cu  lu  malannu, 
ve  scia  datu  lu  bannu  ! 
Io  faccio 

fine.        874 


DEL 
LIBRO  DE  LA  MISERA  HUMANA  CONDICIONE 

PROSA    GENOVESE    INEDITA    DEL    SECOLO    DECDIOQUARTO. 


Il  Guarnerio,  prendendo  a  pubblicare  nel  Giornale  Ligustico 
la  Passione  ed  altri  testi  genovesi  del  sec.  XIV,  ha  già 
descritto  in  una  nota  il  codice  della  Biblioteca  delle  Mis- 
sioni Urbane  che  conserva  questo  libro  ^).  Non  occorre 
quindi  che  io  ne  dia  nuovamente  ragguaglio;  mi  basterà 
avvertire  che  l'antica  segnatura  del  codice  31-3-7,  fu  mu- 
tata, or  non  è  molto,  in  31-3-23. 

Ma,  esaminando  il  contenuto  di  questa  prosa  per  vagliarne 
l'importanza  letteraria  e  indagarne  le  fonti,  mi  convinsi 
d'avere  innanzi,  non  una  traduzione  immediata  del  De 
Contemptu  Mundi  di  Innocenzo  III,  come  il  Guarnerio  af- 
fermò e  promise  dimostrare,  ne  una  eseguita,  come  pur 
sarebbe  stato  lecito  sospettare,  su  una  versione  francese 
eventualmente  utilizzata  anche  dal  volgarizzatore  fiorentino 
Bono  Giamboni;  sibbene  una  traduzione  della  Miseria  del- 
l'Uomo  di  esso  Bono  Giamboni,  che  a  sua  volta  l'opera 
propria  elaborò  sul  latino  del  pontefice. 

)  P.  E.  Guarnerio,  La  Passione  ed  altre  prose  religiose  in  dialetto 
genovese  del  sec.  XIV,  in  Giornale  Lig.,  XX,  pag.   270. 


DEL   LIBRO   DK    LA   MISERA    HUMANA    CONDICIONE  677 

Del  Giamboni  non  è  stato  scritto  assai,  ma  la  questione 
se  la  sua  Miseria  dell'Uomo  derivi  o  no  dal  latino  di 
Innocenzo  III,  fu  toccata  dal  Bartoli  ^),  che,  ricalcando  le 
orme  incerte  del  Tassi  -),  primo  editore  del  trattato, 
pervenne  all'esclusione  d'ogni  altra  fonte  intermedia.  E, 
per  vero,  un  nuovo  riscontro  concorrerebbe  a  dargli 
ragione.  Non  già  che  la  Miseria  riproduca  fedelmente  tutto 
il  De  Contemptu  Mundi  o  ne  sia  un  largo  rifacimento  ; 
piuttosto  può  dirsi  una  riduzione,  un  centone  di  periodi 
tolti  qua  e  là  dai  capitoli  latini  e  sapientemente  amalga- 
mati in  limpidissima  prosa;  ma  non  è  difficile,  se  si  voglia 
procedere  con  un  esame  minuto,  rintracciarvi  tutti  questi 
capitoli,  sdoppiati  o  fusi  o  tradotti  anche  integralmente  a 
servigio  d'un  intento  nuovo  e  diverso. 

In  tal  modo  tutta  l'opera  toscana  rivela  saltuariamente 
questa  dipendenza,  e  spesso  dove  meno  ce  l'aspetteremmo, 
in  un  breve  apprezzamento  o  in  un  esempio  spigolati  quasi 
di  furto  ;  né  crederei  opportuno  di  soffermarmi  oltre  su 
questo  punto,  se  non  mi  vi  obbligasse  il  vedere  con  quanta 
leggerezza  e  facilità  va  perpetuandosi,  d'una  in  un'altra, 
per  le  storie  della  nostra  letteratura,  un  giudizio  comples- 
sivo del  Tassi,  che  suona  contrario  alla  verità  dei  fatti. 
"  E  perchè,  egli  dice,  siffatta  imitazione  gradatamente  si 
allontanasse...,  cotale  accorgimento  usava  il  G.,  nella  com- 
pilazione del  suo  scritto,  che  ora  l'ordine  della  materia 
rovesciando  ed  ora  questa  di  nuovi  argomenti  rivestendo, 
operò  che  quanto  quello  in  sul  principio  col  primo  libro 
di  Lotario  consonava,  nel  seguito  poscia  dal  secondo  e 
più  ancora  dal  terzo  si  rendesse  discosto  „.  Davvero  non 
mi  sembra  che  questo  "  graduale  allontanamento  „  giovasse 
a  dimostrare  una  relazione  diretta  fra  le  due  opere:  quel 
che  piìi  monta  si  è  che  dall'esame  loro  non  risulta.  Certo 
il  Giamboni  attinse  poco  dal  terzo   libro,  ma    non    meno 

^)  Storia  della  letteratura  italiana,  Voi.  Ili,  pag.  83. 

')  La  Miseria  dell'  Uomo  e  altri  trattati.  Firenze,  Piatti,  1836. 


678  FRANCESCO   LUIGI   MANNUCCI 

letteralmente  da  questo  che  dai  primi  due.  I  trattati,  anzi, 
si  ricongiungono  alla  fine  : 

Innocenzo  III,  cap.  xviii.  Giamboni,  pag.  125  ^). 

Ibi  erit   fletus   et   stridor   den-  E  nel  detto  luogo  staranno  mai 

tium,    gemitus,    ululatus,    luctus  sempre  in  lutto  e  in  pianto,  e  in 

et   cruciamentum,    stridor  et  eia-  guai,  e  in  strida  e  in  paura,  e  in 

mor,   timor   et   tremor,    dolor   et  tremore  e   in   fatica,  e  in   dolore 

labor,  ardor  et  faetor,    obscuritas  e  in    oscuritade,  e  in   puzza  e  in 

et  anxietas.  acerbitas  et  asperitas,  asprezza,  e  in  ambascia  e  in  mi- 

calamitas  et  egestas,  angustia  et  seria,  e  in  povertà  e  in  angoscia, 

tristitia,  oblivio  et  confusio,  tor-  e  in  tristizia  e  in    tormenti,  e  in 

siones    et   punctiones,   amaritudi-  pene  e  in  amaritudine,  e  in  pen- 

nes    et    terrores,    fames    et   sitis,  sieri,  e   in   fame   e  in   sete,  e  in 

frigus  et  cauma,  sulphur  et  ignis  freddo  e  in  caldo,  e  in  fuoco  ar- 

ardens  in  saecula  saeculorum.  dente,  che  non  resterà  mai  d' ar- 
dere nel  secolo  dei  secoli. 

Come  potè  il  Tassi  incappare  in  tale  errore?  Probabil- 
mente, poiché  più  frequenti  si  fanno,  verso  la  fine,  le  inter- 
polazioni originali,  egli  non  seppe  distinguerle  dalle  parti 
del  trattato  che  presentavano  analogie  con  il  latino,  e  le 
qualificò  a  priori  "  materia  di  Lotario  rivestita  „  ;  ma,  da 
buon  accademico  ch'egli  era,  badava,  più  che  ad  altro,  a 
mietere  in  ogni  pagina  nuovi  vocaboli,  per  trarne  occasione 
a  frivolezze  cruscheggianti. 

Queste  interpolazioni  non  sono  numerose;  si  riducono  a 
una  diecina  di  "  rimedi  „,  a  uno  sviluppo  didattico-ascetico 
dei  Dieci  Comandamenti  e  a  una  digressione  sul  paradiso 
e  sull'inferno:  in  tutto  diciassette  capitoli  sopra  settanta. 
E,  se  alcuno  non  volesse  tener  conto  del  fatto  che  esse 
costituiscono  un  quarto  solo,  e  forse  meno,  dell'opera  totale, 
troverebbe  pur  sempre  negli  argomenti  loro  nuova  testi- 
monianza di  attinenze  immediate  fra  la  Miseria  e  il  D.  C.  M., 
imperocché  rispondono  appieno  all'indole  del  trattato  me- 
dioevale toscano,  che  vuol  essere  in  genere  un  componi- 
mento di    morale    accessibile    e    utile    a  chicchessia.  E  il 

*)  Della  Miseria  dell'Uomo  di  Bono  Giamboni.  Silvestri,  Milano,  1847. 


DEL   LIBRO   DE    LA   MISERA   HUMANA   CONDICIONE  679 

Giamboni  stesso  non  sembrava  scostarsene,  scrivendo  :  sì 
mi  posi  in  cuore  di  fare  un'operetta,  nella  quale  io  mostrassi 
per  ordine  tutta  la  misera  condizione  dell'umana  generazione... 
per  comune  utilità  degli  uomini  e  delle  femmine,  sì  come 
degli  alliterati,  come  dei  laici.  Invero,  con  quanta  utilità 
dell'umano  consorzio  e  del  sentimento  religioso  cristiano 
levasse  Innocenzo  III  così  cupa  e  terribile  la  voce  nel  suo 
libro,  ne  so  ne  indago.  Opera,  che  più  di  quella  ispiri 
all'uomo  il  disgusto  dell'essere  e  lo  spavento  della  morte, 
credo  sia  difficile  rinvenirla  in  tutta  la  letteratura  esclu- 
sivamente ascetica.  È  naturale  quindi  che  un  trattatista 
del  trecento,  un  notare,  ossia  uomo  di  mondo  e  colto 
{buono  e  'santo  lo  dicono  i  codici),  quando  già  svaporavano 
i  furori  dell'abnegazione  monastica,  cercasse  di  temperare 
con  parole  di  speranza  lo  sconforto  generato  da  una  visione 
tenebrosa  della  vita  e,  spronando  alla  pazienza  e  alla 
ragione,  dipingesse  con  fervida  fantasia  i  regni  della  divina 
beatitudine  cui  non  accenna  l'austero  pontefice.  Se  dal 
testo  latino,  onde  certo  gli  venne  la  prima  ispirazione, 
non  seppe  sempre  scostarsi  e,  quante  volte  vi  tornò  sopra, 
altrettante  forse  se  ne  partì  annerito  di  quella  pece,  elevò 
tuttavia  la  materia  del  suo  trattato  a  un  intento  piìi  no- 
bile ed  umano,  e  la  distribuì  secondo  un  ordine  più  razio- 
nale, accompagnando  l'uomo  di  dolore  in  dolore  dal  giorno 
della  concezione  fino  a  quello  del  giudizio,  mettendo  talora 
in  evidenza  un  po'  del  proprio  io  e  dando  al  tutto  quella 
veste  romantica  che  più  tardi,  e  non  molto,  divenne  pregio 
di  più  ideali  e  grandiose  figurazioni.  Del  resto  anche  Al- 
bertano  da  Brescia,  giudice  come  il  Giamboni,  avea  com- 
posto, verso  la  metà  del  dugento,  tre  dottissimi  trattati 
morali  e  chi,  dopo  Andrea  da  Grosseto,  li  tradusse,  fu 
un  notare  pistoiese,  Sofifredi  del  Grazia. 

Ma  veniamo  al  Libro  de  la  misera  humana  condicione. 
Con  il  De  Contemptu  Mundi  qui,  già  lo  dissi,  non  vi  sono 
più  che  rapporti  indiretti;  strettissimi  e  indiscutibili  invece 
con  la  Miseria  dell'  Uomo.  Infatti  parti  sostanzialmente  diverse 


680 


FRANCESCO   LUIGI   MANNUCCI 


e  ritenibili  quindi  come  aggiunte,  non  v'occorrono  di  fre- 
quente; pili  rare  poi  sono  quelle  parafrasate.  In  massima 
convien  dire  che  la  traduzione  procede  di  pari  passo  con 
il  testo  toscano,  conservando  intatti  per  pagine  intere 
persin  l'ordine  delle  parole  e,  col  proprio  significato  spe- 
cifico, certi  costrutti  che,  se  le  fossero  giunti  per  il  tramite 
di  uno  scritto  francese  intermedio  o  fossero  stati  attinti 
da  un  originale  comune  con  il  Giamboni,  apparirebbero 
indubbiamente  mutati  nella  forma, 
Eccone  un  saggio: 


GiAMiìONi,  pag.  5. 

dice  Seneca:  Acconcia  l'animo 

tuo  e  turbati  del  male  e  del  bene 
ti  allegra.  E  santo  Pagolo  disse: 
Tra  gli  allegri  si  dee  1'  uomo  ral- 
legi-are  e  tra'  tristi  turbare.  Ma 
di  questo  t'  ammonisco,  perchè  il 
dicono  i  savi,  che  delle  tue  avver- 
sitadi  ti  debbia  tosto  consolare  e 
non  vi  debbia  porre  il  tuo  pensa- 
mento, se  non  in  quanto  credessi 
poterlo  schencire  o  schifare,  per- 
chè i  miseri  pensieri  fanno  misera 
la  vita  dell'  uomo.  E  cotanto  hae 
ciascuno  inverso  sé  di  miseria, 
quanto  pensando  se  ne  fa  egli 
stesso.  E  chi  sopra  tutte  le  avver- 
sitadi  che  gl'incontrano  nel  mondo 
vorrà  pensare,  non  sentirà  mai  che 
bene  si  sia;  perchè  questo  mondo 
non  è  altro  che  miseria.  E  da  Dio  fue 
dato  all'  uomo  perchè  qui  dovesse 
tribulare  e  tormentare  e  portasse 
pene  de  le  sue  peccata. 


Genovese,  p.  116  del  codice. 

dixe  senecha:  aconza  l'animo 

to  e  turbate  de  lo  mal  e  de  lo 
bem  t  alegra.  E  sam  Polo  dixe  che 
inter  li  alegri  se  de  1  omo  ale- 
grare  e  con  li  tristi  turbare;  ma 
de  qwesto  t  amaystram,  chi  (lo) 
dixam  li  savi,  che  de  le  toe  auer- 
sitae  te  deby  tosto  consolar  e 
no  gè  debi  meter  lo  to  pensa- 
mento, so  no  in  tanto  comò  tu 
te  creysse  asminuyr  o  alegrar  o 
schiuar,  perzoche  li  miseri  pen- 
samenti si  fam  misera  la  uita  de 
1  omo.  Unda  9aschaum  si  a  in  si 
tanto  de  miseria,  quanto  elio 
mesmo  pensando  se  fa.  E  chi  in 
tute  le  auersitae  chi  uewne  a  1 
omo  in  lo  mondo  uora  pensar, 
no  sentirea  che  bem  (si?)  sia, 
perzoche  questo  mondo  no  e  atro 
cha  miseria  e  da  deo  fo  dayto  a 
1  omo  perzoche  elio  gè  deuesse  tri- 
bular  e  tromeutar  e  portar  penna 
de  le  soe  peccae. 


Ond'è  che  la  lingua  riesce  un  genovese  toscaneggiante 
e  che  in  ogni  capitolo  si  rileva  l'architettura  aggraziata 
e  schietta  dei  periodi  toscani,  anche  in  mezzo  a  frequentis- 
simi pleonasmi  di   casi    obbliqui,    a    sconcordanze    di  nu- 


DEL   LIBRO    DE    LA    MISERA    HUMANA    CONDICIONE  681 

mero  e  di  persona  nei  verbi  e  ad  erronee  sequenze  di 
tempi,  dovute,  il  più  delle  volte,  non  tanto  alla  sintassi 
diversa  e  propria  del  ligure  volgare,  quanto  all'  ignoranza 
del  copista,  della  quale  ci  sono  di  prova  le  correzioni 
vergate  con  inchiostro  uguale,  ma  da  mano  forse  piìi 
esperta  ^). 

Il  Libro  non  è  presentato  come  lavoro  originale;  e  ciò 
sia  detto  ad  onor  del  vero  e  anche  un  po'  del  traduttore, 
che,  se  non  dice  esplicitamente  d'averlo  tradotto,  dichiara 
francamente,  dopo  alcune  pagine  di  introduzione:  Acomen- 
rasse  qui  uni  tractao  ordinno  per  uni  sauio.  Sfratta  egli 
invece  i  primi  periodi  del  testo  toscano,  forse  perchè  con- 
tenevano il  nome  del  Giamboni  e  gli  sembravano  troppo 
personali:  il  che  pare  confermato  dall'artificio  onde  riesce 
a  rabberciare  il  periodo  con  cui  principia  la  versione: 

Giamboni,  pag.  4.  Genovese,  pag.   116. 

Onde    non   ti    conviene    questo         Se  tu  uoy    auer    bo»na  uita  in 

modo  tenere,  se  in  questo  mondo  qwesto  mondo,  elio  te  cowuem  par- 

vogli  avere  buona  vita,    ma    par-  tir  da  li  dolorosi    penser,    e    star 

tirti  dai  dolorosi  pensieri,  e  stare  co«  1  animo  alegro,    p^rzoche    lo 

con    r  animo    allegro,    perchè    lo  stao    de    1  omo    segondo    1  animo 

stato  dell'uomo  secondo    l'animo  si  e  zuegao. 
è  giudicato. 

Nel  corso  della  quale,  pur  mantenendo  invariato  l'ordine 
della  materia,  ha  poi  provveduto  del  suo  a  un'enumerazione 
più  ragguagliata  di  quegli  argomenti  che  il  G.  raccoglie  in  un 
riassunto  preliminare  a  capo  d'ogni  trattato,  e  ha  sdoppiato 
e  unito  in  seguito,  secondo  l'enumerazione  propria,  i  vari 
capitoli,  facendoli  terminare  con  un  riferimento  laudatorio 
a    Dio,   alla    Vergine    e    ai  santi:  spesso  con  un  amen. 

')  I  costrutti,  che  hanno  qui  un  carattere  prettamente  genovese, 
si  possono  trovar  tutti  negli  studi  sistematici  del  Flechia  {Archivio 
Glott.  It.,  X,  p.  66)  e  del  Parodi  (ibid.,  XV,  p.  41).  Ma  sono  rari  e, 
con  l'aiuto  del  Giamboni,  è  facile,  dove  occorra,  aggiungere  o  sosti- 
tuire la  parola  che  rida  al  periodo  la  forma  di  quello  corrispon- 
dente toscano. 

StndJ  di  flolo^ia  romanin,  IX.  43 


632  FRANCESCO    LUIGI    MANNUCCI 

Tuttavia,  fra  tanta  fedeltà,  quasi  direi  rispettosa,  al- 
l'opera del  sauio,  parrà  strano  trovare  anche  qui  delle 
vere  e  proprie  interpolazioni.  E,  poiché  vi  sono,  vogliono 
un  cenno  dichiarativo.  Già  pensai,  al  primo  esame  del 
Libro,  che  il  traduttore  fosse  un  frate  pricaor,  come  quello 
che  avea  redatto  il  Trattato  dei  sette  peccati  mortali,  tra- 
scritto nella  prima  metà  del  nostro  codice;  e  a  convin- 
cermene contribuirono  lo  stile  più  semplice  e  famigliare, 
il  tono  oratorio  e  la  prolissità  di  questi  brani.  Piuttosto 
che  pagine  d'un  trattato,  sembrano  squarci  d'una  predica 
alla  buona,  improvvisata  dal  pulpito  a  un  pubblico  grosso, 
e  ricorrono  per  lo  piìi  nella  chiusa  delle  varie  parti,  ora 
come  clausola  didattica  ora  come  richiamo  a  concetti  svolti 
piìi  innanzi.  Considerevole,  perchè  uno  dei  piìi  lunghi, 
è  ad  es.  quello  interposto  nel  trattato  terzo,  intorno  ai 
nemici  dell'uomo  e  alla  gloria  divina:  un  sermone  spoglio 
di  quella  benda  dottrinale  che,  se  posso  cosi  esprimermi, 
fascia  ogni  argomento  del  Giamboni.  Anzi,  che  sia  una 
digressione  personale,  il  traduttore  lo  lascia  intendere 
dalle  parole  con  cui  riprende  —  si  noti,  allo  stesso  punto  — 
la  sua  versione:  e  per  tornar  a  lo  nostro  proponimento  in 
questa  rubrica.  E  piìi  avanti,  nel  capitolo  primo  del  trat- 
tato quarto,  egli  introduce  alternatamente,  a  mo'  di  chiosa, 
altre  digressioni,  ma  più  brevi,  sullo  stesso  soggetto, 
apostrofando  direttamente  il  lettore,  come  per  obbligarlo 
a  porvi  maggior  considerazione. 

L'argomentazione  d'una  fonte  diversa  non  sarebbe  fuor 
di  luogo  per  il  trattato  sesto,  ove  il  genovese  abbandona 
senz'altro  il  Giamboni,  sviluppando  con  nuove  considera- 
zioni i  Dieci  Comandamenti;  e  qui  la  traduzione  resta 
mutila,  priva  cioè  del  settimo  e  dell'  ottavo  trattato.  Ma  il 
sospetto  non  regge,  perchè  il  traduttore,  in  un  capitolo 
preliminare,  annuncia  questa  parte  mancante  e  non  mostra 
di  volerla  escludere:  //  VII  tractao,  dice,  sera  de  la  beatitu- 
dine e  de  la  gloria  de  l  omo  insto  da  l  omo  danao  e  la  sententia 
de  lo  jorno  de  lo  di  de  lo  ziiixio  e  hj  segni  chi  apparam  per 


DEL    LIBRO    DE    LA    MISERA    HUMANA    CONDICIONE  ^83 

caxom  de  quello  jorno  ecc.:  parole  ancor  queste  riportate 
dal  Giamboni.  Ne  è  da  credere  che  l'amanuense  possedesse 
il  libro  intero,  avendo  egli  apposto,  dopo  l'ultima  riga,  la 
formula  monastica  "  Deo  gratias  ,  e  il  proprio  nome, 
fra  ter  hyerommus  de  hauaro.  La  ragione  sta  invece  nella 
circostanza  che  la  maggior  parte  dei  codici  della  Miseria 
è  interrotta  al  punto  stesso  della  redazione  genovese  e 
che  il  nostro  frate  dovè  tradurre,  per  conseguenza,  da 
uno  di  questi  esemplari  mutili  ;  tant'  è  che  il  Tassi,  già 
nella  prima  metà  del  secolo  passato,  ricorse  a  un  codice 
di  proprietà  privata,  per  poter  pubblicare  interamente 
l'opera  toscana.  Provvide  quindi  come  meglio  gli  pareva 
ai  Comandamenti  —  compito  che,  in  grazia  del  suo  mini- 
stero religioso,  non  doveva  tornargli  difficile  ne  discaro  — 
e  non  più  osò  avventurarsi  con  gli  ultimi  due  trattati. 

Per  mala  ventura  il  Libro  de  la  misera  huìnana  condicione, 
così  come  ci  è  pervenuto,  interrotto  e  mancante  della 
consueta  nota  a\\'exj)licit,  non  dà  luogo  a  congetture  ri- 
guardo all'autore  e  all'anno.  Si  può  soltanto  argomen- 
tare che,  non  essendo  un  compendio,  ma  una  traduzione 
regolare,  sia  stato  compilato  poco  tempo  dopo  l'originale 
suo.  Non  dispero  tuttavia  che  da  un  giorno  all'altro  s'abbia 
a  trovare  una  nuova  redazione  dialettale  della  Miseria, 
opera,  come  dimostra  il  gran  numero  dei  codici  tuttora 
esistenti,  certo  assai  letta  e  diffusa  prima  del  Rinascimento  ; 
e  che  un  opportuno  raffronto  riesca  a  fare  un  po'  più  di 
luce.  Del  resto,  una  traduzione  genovese  dal  toscano  non 
costituisce  un  fatto  isolato:  altre  non  ne  mancano  e  con 
fonti  ben  definite.  Recherebbe  piuttosto  meraviglia  che  non 
rimanessero  tracce  letterarie  delle  strettissime  relazioni 
che  correvano  fra  la  Toscana  e  la  Liguria,  e  proprio  fra 
Genova  e  Firenze,  ai  tempi  di   Dante. 

Anzi,  mi  parrebbe  potersi  far  qualche  ipotesi  intorno  al 
tramite  pel  quale  il  trattato  toscano  sarà  giunto  sino  a 
Genova.  Dirimpetto  alla  chiesa  di  S.  Tecla,  in  quel  gran 
quartiere,  che  era  abitato  da  toscani  d'ogni  professione  e 


634  FRANCESCO    IXIOl    MANNUCCI 

d'ogni  età,  s'addentra  tuttora  il  vico  Vegetti  "  che  prese 
il  nome  dalla  famiglia  dei  Vecchietti,  i  quali,  lontani  dal 
loro  bel  S,  Giovanni,  temprarono  in  Genova  le  amarezze 
dell'esigilo,  dopo  la  battaglia  di  Montaperti  (4  settembre 
1260),   1). 

Questo  nome,  evidentemente,  non  è  che  un  diminutivo 
del  gentilizio  Del  Vecchio,  non  del  tutto  scomparso  o 
ignoto  in  Genova,  perchè  trovasi  in  due  atti  del  16  e  17 
agosto  1278,  attribuito  a  un  curatore  toscano.  Ora,  il 
Giamboni  apparteneva  alla  famiglia  Del  Vecchio  :  nulla 
di  più  probabile  quindi  che  egli  v'avesse  qualche  parente, 
cui  mandasse  in  dono  il  suo  trattato  ,  scritto  per  comune 
utilità  degli  uomini  e  delle  femmine,  o  che  questo  parente, 
se  per  avventura  ascritto  ad  ordine  religioso,  lo  divul- 
gasse a  scopo  morale. 

Comunque  ciò  sia,  posto  in  sodo  che  il  Libro  de  la  mi- 
sera humana  condicione  sia  una  traduzione  condotta  sulla 
Miseria  dell'  Uomo,  cade  il  sospetto  espresso  dal  Gaspary 
che  il  trattato  del  Giamboni,  per  essere  scritto  in  prosa 
troppo  forbita  e  piena,  provenga  da  una  penna  del  secolo  se- 
guente 2).  Se  così  fosse,  la  traduzione  genovese  dovrebbe 
collocarsi  o  nel  secolo  XV  o  in  altr'  epoca  più  recente  ; 
laddove  essa  è  indubbiamente  del  principio  del  XIV  o 
anteriore,  perchè  del  XIV  sec.  è  la  copia  a  noi  pervenutane. 


Al  brano  riprodotto  e  raffrontato  più  sopra  aggiungo 
quello  che  rimane  a  compiere  il  capitolo  introduttivo  del 
trattato.  Per  dare  poi  un'  idea  generale  della  traduzione, 
credo  opportuno  riportare  anche  una  delle  interpolazioni, 
attenendomi  sempre,  ben  s'intende,  alle  norme  conven- 
zionali delle  pubblicazioni   scrupolosamente    diplomatiche: 

*)  Cfr.  Arturo   Ferretto,  in  Atti  della  Soc.   Ligure    di    St.    Patria, 
Voi.  XXXI,  1901,  pag.  xiir. 
^)  Storia  della  letteratura  italiana,  traJuz.  ital.,  Voi  I,  pag.  164. 


DEL    LIBaO    DE    LA    MISERA    HUMANA    CONDICIONE 


685 


sciogliendo  cioè  i  nessi,  sostituendo  lo  varie  lettere  ai 
segni  d'  abbreviatura  e  chiudendo  fra  parentesi  quadre 
le  parole  da  frapporre,  fra  curve  quelle  da  espungere. 


Giamboni,  pag.  5. 
Ma  quelli  sono  meno  tormentati 
che  per  pazienza  sanno  le  cose 
passare;  perciò  che  per  pazienza 
hae  tale  virtude,  che  tutte  avver- 
sitadi  vince.  E  che  il  mondo  sia 
così  rio,  come  t' ho  mostrato  di 
sopra,  vedi  santo  .Tob,  che  disse: 
Perchè  sono  io  uscito  dal  ventre 
della  madre  mia ,  acciocché  io 
vegga  fatiche  e  dolori,  e  consumi 
i  dì  miei  in  confusione?  E  vedi 
che  disse  Salomone  :  Lodai  mag- 
giormente il  morto  che  il  vivo  : 
e  colui  giudicai  ancora  più  bene 
avventurato  che  in  questo  mondo 
non  nacque,  ma  nel  ventre  della 
madre  tostamente  fuggì  la  vita. 
E  vedi  che  pregò  Iddio  un  pro- 
feta: disse:  Trai  di  carcere,  cioè 
del  corpo,  l'anima  mia;  ove  non 
ha  tranquillità ,  né  riposo ,  ove 
non  ha  pace  ne  sicurtade  ;  ove  ha 
paura  e  tremore;  ove  ha  fatica  e 
dolore.  Onde  se  Job,  che  fue  santo 
e  cossi  grande  appo  Dio,  e  di 
pazienza  a  tutte  le  genti  diede 
esemplo,  e  fue  povero  e  ricco,  e 
provò  il  bene  e  il  male  di  questo 
mondo,  favellando  di  se  medesimo, 
biasimò  così  la  sua  nativitade;  se 
Salomone,  che  fue  così  savio  re  e 
così  ricco,  ed  ebbe  tutti  i  diletta- 
menti  del  mondo,  e  appo  Dio  fue 
profeta  grandissimo,  ed  in  cielo  e 


Codice  gen.,  pag.  117. 
Ma  quelli  gè  som  mera  turbay, 
chi  in  pacientia  sam  pasar  le 
cosse,  perchè  la  pacientia  si  e  una 
uirtue  chi  uenze  ogni  auersitae; 
e  che  lo  mondo  sia  cossi  ree  comò 
e'  t  0  mostrao,  sapi  che  sam  Job  si 
lo  dixe,  digando:  perche  som  e'  in- 
sio  de  [lo]  uentre  de  la  mia  mayre, 
a^o  che  e'  nega  fayga  e  dolor  e 
che  ly  mey  jorni  se  co«sumen 
in  cowfuxiom  ?  E  guarda  asi  che 
dixe  Salomon,  loando  più  lo  morto 
che  lo  uiuo  e  quello  zuiga  ^)  (.) 
Anchor  dixe  che  maor  uewtura  a 
quello  chi  in  questo  mondo  no 
uem,  ma  intr«  lo  corpo  de  la 
mayre  tosto  perdesse  la  uita.  E 
sa[er]  tu  de'  che  um  profeta  prega 
deo,  digando  :  tra'  de  prexom  1  a- 
nima  mea,  unda  eli  e  dentro,  (zoe) 
da  lo  corpo,  unda  no  e  reposso 
ni  tranquillo,  unde  no  e  paxe  ni 
segurtae,  unda  e  paor  e  timor, 
unda  e  fayga  e  dolor;  unda  sam 
Job,  chi  fo  COSSI  santo  e  grande 
a  pe  de  deo,  si  de  esempio  a  tute 
le  gente  de  pacientia  e  si  fo  po- 
uero  e  richo  e  cossi  proà  lo  bem 
e  lo  male  de  questo  mondo  e, 
parlando  de  si  mesmo  biasma  cossi 
la  soa  natiuitae.  E  Salomon,  chi 
fo  cossi  sauio  rey  e  cossi  richo  e 
aue  tuti  li  dilecti  de  questo  mondo 
e  a  pe  de  deo  fo  profeta  e  in  lo 


^)  Il  traduttore  ha  qui  inopportunamente    spezzato    un    periodo    e 
introdotto  il  "  dixe  ,. 


FRANCESCO    LUIGI    MANNUCCI 


in  terra  fue  glorioso,  sovra  la  vita 
dell'uomo  diede  cotale  sentenza: 
e  se  il  Profeta,  veggendo  la  vita 
dell'uomo  in  cotanta  miseria,  pregò 
Dio  che  gli  desse  la  morte ,  non 
ti  crucciare,  se  ti  senti  gravato 
stando  nel  mondo,  perchè  chi  arde, 
stando  nel  fuoco,  non  è  da  mara- 
vigliare. E  se  tu  delle  tue  avver- 
sitadi  vogli  pigliare  consolamento, 
pensa  sopra  la  miseria  della  vita 
dell'uomo,  e  vedi  che  ne  è  detto 
dalli  Savi.  E  da  che  le  ti'ibulazioni 
itltrui  avrai  conosciute,  sopra  le 
tue  ti  potrai  consolare;  perchè 
dice  un  Poeta:  Che  gli  è  grande 
consolamento  ai  miseri  di  trovare 
compagnia  in  su  le  pene. 


Or  fa'  con  Dio,  ch'io  me  ne  vo 
e  più  innanzi  dire  non  ti  voglio  : 
perciò,  se  vorrai  cercare  la  Scrit- 
tura, tutte  le  cose  troverai  dette 
dai  Savi. 

E  nel  partire  che  si  fece  la  boce 
fui  desto,  e  guarda'  mi  d' intorno, 
e  non  vidi  nulla.  Allora  mi  segnai, 
e  umilmente  orai  e  dissi:  0  boce 
di  sapienza  e  di  beatitudine,  che 
a  me  per  consolarmi  sei  venuta, 
dammi  forza  e  vigore  di  trovare 
quello  onde  tu  m'hai  ammaestrato. 


cel  fo  glorioso  e  sì  de  soura  la 
uita  de  1  omo  aue  cotanta  sa- 
pientia  (.)  E,  negando  lo  dicto 
profeta  che  in  la  uita  de  1  omo 
e  tanta  miseria,  elio  pr^gà  a  deo 
che  elio  li  dese  la  morte,  perche 
atri  se  de  bem  condeyr,  seando 
in  lo  mondo.  Unda  chi  arde  intra 
lo  fogo,  no  e  marauegia  se  elio  se 
lamenta^).  Ma,  se  de  le  toe  auer- 
sitae  tu  uoy  prende  consolaciom, 
pensa  in  la  misera  uita  de  questo 
mondo  e  guarda  zo  che  per  li 
sauy  n  e  dicto.  E,  quando  tu 
aueraj  cognosuo  le  tribulatiom  in 
autreu,  tu  te  poray  cowsegiar  soura 
le  toe.  Unda  um  poeta  dixe  che 
grande  cowsolatiom  e  a  li  mis- 
sé'r[i]  de  trouar  cowipagnom  (.)  a 
le  penne. 

Or  sta  co«  deo  che  me  ne  vago 
e  piìi  in  anti  dir  no  te  uogio, 
perzoche,  [si]  tu  uoy  cerchar  la 
scritura,  tu  troueray  tute  le  cosse 
diti  -)  da  li  sauy  de  quello  che  tu 
uoray  sauer. 

In  lo  partir  chi  fé  la  uoxe,  e' 
fu  desuegiao  e  guardayme  d  in- 
torno e  no  ui  niente;  sì  me  si- 
gnay  e  humilimewti  si  oray  e  dissi 
0  uoxe  de  sapi[enti]a,  eh  e  uegna'') 
per  mi  consolar,  dame  forza  e 
uigor  de  trouar  quello  unda  tu  m  ay 
amaystrao.  E,  quando  cossi  e'  aui 


*)  Tutto  questo  luogo  è  errato.  Probabilmente  il  traduttore  s' è 
staccato  dall'  originale  e  il  copista  ha  poi  scritto  falsando.  Il  "  con- 
deyr „  è  inintelligibile.  Troverei  opportuno  quindi  rabberciare  nel 
modo  seguente  la  copia,  pensando  che  sieno  state  scambiate  le  parole 
'  unda  ,  e  "  perche  ,  a  capo  delle  righe  :  unda  atri  no  se  de  lamenta, 
seando  in  lo  mondo,  perche  chi  arde  intra  lo  fogo,  no  e  marauegia. 

^)  Corr:  dite. 

^)  Corr:  uegnua. 


DEL    LIBRO    DE    LA    MISERA    HUMA.NA    CONDICIONE 


687 


E  quando  liei  così  detto,  mi  levai 
ritto  in  piede  dal  tenebroso  luogo, 
ove  pensando  giacea  doloroso,  e 
cominciai  a  cercare  la  Scrittura, 
e  a  veder  i  detti  dei  Savi  sopra 
la  miseria  della  vita  dell'  uomo. 
E  quando  bei  assai  cercato  e  ve- 
duto e  diligentemente  considerato, 
sì  si  mosse  il  cuor  mio  a  pietade 
e  cominciai  dirottamente  a  pian- 
gere ,  pensando  tanta  miseiùa 
quanta  nella  creatura  dell'  uomo 
e  della  femmina  avea  trovato. 

Ma  tuttavia  pigliai  consola- 
mento,  percbè  trovai  detto  per  li 
Savi,  che  ninno  altro  pensiero  u- 
milia  così  il  cuore  dell'  uomo  e 
della  femmina,  come  in  pensare 
e  riconoscere  la  miseria  sua;  onde 
dice  un  Profeta:  In  mezzo  di  te 
è  la  cagione  percbé  ti  dei  umi- 
liare. Non  andare  dunque  cercando 
le  cose  de'  cielo,  non  quelle  della 
terra,  non  niuna  altra  cosa  strana; 
se  umiliare  ti  vuogli,  te  medesimo 
pensa.  E  colui  che  bene  penserà 
quello  che  egli  è,  e  riconoscerà 
se  medesimo,  se  non  si  umilia, 
sarà  peggio  che  bestia;  perchè  si 
dice  del  paone,  che  quando  egli 
leva  in  alto  la  coda  e  vedevi  co- 
tanta bellezza,  va  molto  allegro 
e  superbio,  ma,  quando  volge  l'oc- 
chio alla  sozzura  dei  suoi  piedi, 
immantinenti  si  umilia  e  china  la 
coda.  Ed  io,  considerando  che  l'u- 
railitade  è  quella  virtù,  per  la 
quale  l' uomo  è  più  piacevole  a 
Dio  che  niuna  altra  cosa,  e  che 
è  cominciamento  e  fondamento  di 
colui  che  vuole  intendere  al  ser- 
vizio di  Dio,  secondo  che  dice 
santo  Bernardo:  Per  l'umiltà  sar- 


dicto,  si  me  leuay  drito  in  pe 
de  lo  tenebroso  e  doloroso  logo 
unda  e'  dormia.  E  si  me  comen- 
zai  a  cerchar  de  la  scritura  e  a 
guardar  li  dicti  de  li  sani  soura 
la  miseria  de  la  uita  de  1  omo. 
E,  quando  e'  ani  asay  cerchao  e 
diligentimenti  considerao,  si  se 
moue  lo  cor  meo  a  pietae  e  in- 
coraewzay  dirotamewti  a  pianzer» 
pensando  in-  tanta  miseria  quanta 
in  la  scriptura  e'  aueua  trouà  de 
1  omo  e  de  la  femena:  ma  tutafia  e' 
pryxi  consolatiom,  perzoche  trouay  ■ 
dicti  de  sauy,  chi  dixam  che  ne- 
xuw  antro  pensamento  humilia 
cossi  lo  cor  de  1  omo  e  de  la  fé" 
mena  corno  pensar  e  recognose 
la  soa  miseria.  Unde  dixe  um  pro- 
feta che  in  mezo  de  ti  e  la  caxom. 
per  che  tu  te  pò  humiliar.  No 
anday  doncha  cercando  le  cosse 
de  lo  cel  ni  quelle  de  la  terra  ni 
nesuna  atra  cossa  stran(y)na.  Ma, 
se  tu  uoy  humiliar,  pensa  in  ti 
mesmo  e  quello  che  bem  penseray 
90  che  elio  e,  (e)  recognoseray 
bem  si  mesmo;  se  elio  no  se  hu- 
milia, elio  sera  pezo  cha  una  bestia, 
perzoche  elio  si  dixe  che  eli  e 
paóm,  che,  quando  elio  leua  in  auto 
la  eoa  e  elio  se  ne  tante  belleze, 
elio  uà  monto  alegro  e  superbo. 
Ma,  quando  elio  uaze  li  ogi  a  ly 
soy  pe  e  uelli  cossi  sozi ,  incon- 
tenente elio  se  humilia  e  china 
la  eoa  e  passa  la  soa  alegreza. 
Unda,  considerando  che  1  [hjumi- 
litae  e  quella  uertue,  per  la  qual 
1  omo  piaxe  più  a  deo  cha  per 
nesuna  atra  e  che  humilitae  si  e 
principio  e  fondamento  de  quello 
chi  uol  intender  a  lo  seruixio  de 


688 


KRANCESCO    LUIGI    MANNUCCl 


rai  alla  grandezza;  ed  è  questa 
la  via,  e  altra  non  si  trova  che 
questa:  e  chi  per  altra  via  vuole 
salire,  cade  poscia  eh'  è  montato; 
sì  mi  posi  in  cuore,  di  molti  detti 
di  Savi,  che  avevano  trovato,  di 
fare  un'  operetta,  nella  quale  io 
mostrassi  per  ordine  tutta  la  mi- 
sera condizione  dell'  umana  gene- 
razione, non  per  neuna  burbanza 
di  vanagloria,  ma  per  comune  u- 
tilità  degli  uomini  e  delle  fem- 
mine, sì  come  degli  allitcrati, 
come  de'  laici:  acciò  che,  leggendo 
e  udendo  leggere  altrui,  in  questo 
libro  riconoscano  la  loro  miseria 
ed  abbiano  via  e  modo  d'umiliarsi 
e  di  convertirsi  e  di  tornare  al 
loro  Creatore,  considerando  il  loro 
pessimo  stato  e  misera  condizione, 
a  che  sono  dati  in  questo  mondo 
e  neir  altro.  E  avvegna  che  per 
umiltade  diventi  vile  l' uomo  al 
mondo,  non  dee  lasciare  perciò 
d'essere  umile;  però  che,  secondo 
che  la  luce  non  si  conviene  con 
le  tenebre,  e  la  giustizia  con  la 
niquitade,  e  Iddio  col  Diavolo, 
così  è  impossibile  cosa  a  essere 
uomo  chiaro  e  piacevole  al  mondo, 
e  glorioso  e  grande  appo  Dio. 
E  però  disse  santo  Bernardo: 
Impossibile  cosa  è  all'uomo  di 
poter  avere  i  beni  di  questo 
mondo  e  dell'  altro,  e  che  qui  il 
ventre  e  colà  la  mente  possa  em- 
piere, e  che  di  ricchezze  a  ricchezze 
passi,  e  in  cielo  e  in  terra  sia 
glorioso.  Onde  chi  al  mondo  piace, 
a  Dio  piacere  non  puote;  e  quanto 


deo,  e,  segondo  che  dixe  sam  Ber- 
nardo :  Y>er  la  humilitae  ueray  a 
la  grandeza  e  questa  si  e  la  uia 
e  atra  no  se  ne  troua,  e  chi  per 
autra  uol  montare  in  uenirge  cha 
per  la  humilitae,  si  ca^-e  da  poa 
che  elio  e  inontao.  ') 
Unda  e'  me  missi  a  cor  de  far 
una  oura  per  la  quale  e'  mostrasse 
per  ordem  tuta  la  coHdiciom  de 
la  humanna  generatiom.  Ma  no 
per  nesuna  utilitae  de  uanagloria, 
ma  per  comuna  hutilitae  de  li 
homi  e  de  le  femene,  cossi  comò 
de  quilli  chi  sam  letera  comò  de 
quilli  chi  no  la  sam,  azoche,  le- 
zando  e  odando  lezer  autri  in 
questo  libro,  se  recognoscam  e 
uegam  apertamewti  la  soa  miseria 
e  abiam  uia  e  modo  de  humilytae 
e  de  tornar  a  lo  so  creator,  con- 
siderando lo  so  pessimo  stao  e  la 
soa  pessima  condiciom,  auegna  deo 
che  per  1  humilitae  1  omo  deuegna 
uil  a  lo  mondo.  No  de  perzo  la 
persona  lassar  de  esser  humile, 
perzoche  la  luxe  no  se  confa  con 
le  tenebre  e  la  iustixia  cu»  la  ini. 
quitae,  ni  deo  cun  lo  diauo[ro], 
e  cossi  serea  imposibile  cossa  che 
la  persowna  sia  piaxej^uer  a  lo 
mondo  e  glorioso  a  deo,  perzoche 
la  luxe  e  la  gloria  temporal  si  e 
contraria  de  la  spirituale.  E  perzo 
dixe  sam  Jeronimo  che  eli  e  im- 
posibile  cossa  a  la  perso?ina  poer 
aueyr  1  um  bem  e  1  antro,  zoe  de 
questo  mondo  e  de  1  atro.  Unde 
che  a  lo  mondo  piaxe,  a  lo  segnor 
deo  no    pò    piaxer,    doncha   apar 


')  Questo  periodo  v»,  come  nel  G.,  unito  al  seguente,  perchè  gram- 
maticalmente non  regge. 


DEL    LIBRO    DE    LA    MISERA    HUMANA    CONDICIONE 


689 


r  uomo  è  più  vile  al  mondo,  di 
tanto  è  più  prezioso  e  grande 
appo  Dio.  E  però  santo  Paolo, 
nella  pistola  sua,  favellando  di 
se  e  degli  altri  Apostoli,  disse: 
Domeneddio  fece  noi  Apostoli  vi- 
lissimi,  e  al  parere  delle  genti 
via  più  sottani  che  gli  altri,  ed 
uomini  quasi  pur  della  morte,  e 
come  una  spazzatura  del  mondo  '). 
Appare  dunque  che  a  umiliarsi 
e  avvilarsi  l' uomo  per  Dio  non 
è  abbassamento,  ma  accrescimento; 
e  però  dice  il  Vangelo:  Colui  che 
s'  aumilierà  sarà  esaltato  e  chi  si 
esalta  sai'à  umiliato. 

E  avvegna  che  conosca  bene  che 
io  non  sono  di  tanto  senno  eh'  io 
sia  sufficiente  da  poter  pienamente 
dire  quello  che  nuovamente  ho 
trovato,  e  che  si  converrebbe  a 
così  utile  Trattato,  impertanto  io 
non  mi  rimarrò  di  sforzarmi  di 
dire  quello  che  ho  ritrovato,  per 
dare  inviamento  a  coloro  che  sono 
più  savi  di  me,  di  compiere  ed 
ammendare  quello  che  male  o 
meno  fosse  per  me  detto.  E  io 
ne  starò  volontieri  al  loro  compi- 
mento, considerando  che  così  sono 
trovate  tutte  le  scienze  che  l'uomo 
hae  incominciate  :  e  1'  altro  veg- 
gendo  il  detto  di  colui,  sopra 
quella  materia  ha  trovato  nuove 
cose,  laonde  tutte  le  scienze  in 
questo  mondo  sono  avanzate. 


che  humiliarsse  per  deo  a  lo  mondo 
no  e  abassamento,  ma  e  grande 
acressimento  e  grande  honor,  ser- 
uando  a  lo  so  segnor,  p^r  chi  eli 
e  uegnuo  a  lo  mondo  e  in  che  elio 
a  possan9a  de  farlo  grande  e  pi- 
9em  a  lo  so  piaxer  e  cossi  chi  fa 
le  oure  piaxeure  a  deo,  si  se  pò 
reputar  possante  e  no  pi^em  ni 
uil.  E  comò  dixe  in  1  auajigelio 
che  chi  se  humilia  sera  exaltao 
e  chi  se  exalta  sera  humiliao. 


Auegna  deo  che  (no)  sia  cogno- 
scente  che  no  som  de  tanto  sauer 
che  sea  sufficiente  piennaraenti 
dir  tuto  quello  chi  se  co«uerea  a 
cossi  utile  traytao  corno  e  questo* 
pero  no  me  romaró  [de]  forcar  a 
dir  che  nonamenti  e'  o  trouao. 
per  dar  aui(s)amertto  a  quilli  chi 
som  più  sauy  de  mi  a  compir  e  a 
mendar  quello  chi  più  e  mem  per 
me  fosse  dicto  e  si  staro  uolunter 
a  lor  compimento,  considerando 
che  cossi  sum  stayte  trouae  le 
arte  e  le  .sientie  che  1  um  si  a 
incomenzao  e  1  atro  sum  ■)  quello 
dicto  si  a  trouae  cosse  none  la 
unda  g  e  parsuo,  e  cossi  sum 
stayte  auanzae  per  questo  modo 
tute  le  sientie. 


*)  La  citazione  intera  è  omessa  dal  genovese,  forse  per  il  paragone 
inclusovi.  La  sostituisce  con  la  solita  lode  a  Dio. 

"^)  Per  questo  sum  cfr.  Flechia,  Archirio  Glottologico  It.,  Vili,  p.  395. 


690  FRANCESCO    I.UKM    MANNUCCI 

Si  notino  ora  nel  brano  seguente,  a  cui  nulla  trovo 
corrispondere  nel  Giamboni  e  che  attribuirei  al  traduttore, 
le  peculiarità  avvertite  più  sopra.  Vi  si  discorre  prolis- 
samente dei  nemici  dell'uomo.  Codice,  pag.  130: 

e  in  quella  (la  terra)  tomeromo,  cossi  comò  deo  comanda,  quando 

elio  dixe:  tu  e  zener  e  in  zener  torneray;  e  iwpe?*zo  se  pò  dir  che 
lo  corpo  si  e  um  uaxello  ')  e  una  prixom  spu^ente  e  de  uil  con- 
diciom,  unda  1  anima  si  e  termina  a  star.  Uno  tempo  eia  intro,  si 
se  purifica  segondo  la  soa  uertue,  che,  se  ella  e  uirtuosa  e  piacente, 
ella  si  fa  finna  ^)  e,  si  no  se  pò  \)ìh  brutar  per  la  gracia  e  i  amay- 
stramewto,  che  deo  g  a  dato,  onerando  li  remedy  chi  g  am  meste, 
ma,  se  ella  e  pocho  uertuosa  e  no  uogia  usar  li  remedy  de  uertue, 
che  chi  g  a  comisso  deo,  ella  si  se  bruta  e  si  deuem  de  uil  condiciom 
\)er  soa  caxom,  che  se  pò  ualer,  se  ella  noi,  e  netezar  per  li  amay- 
strame?tti,  che  chris^e  gè  ordenà  bem,  quando  elio  era  a  lo  mondo, 
che  caschaum  pò  e  de  imprende  che  no;  e,  no  uogiando  esser  neta, 
coMuem  che  la  uaga  a  lo  logo  unda  le  cosse  brute  som  ordenà  a 
star,  zoe  in  brutezo  e  spuya  e  penna  e  langor,  chi  e  apellao  lo  pro- 
fondo d[e]  abisso;  e  questo  si  e  raxoyneue  che  zaschaum  staga  unda 
elio  più  se  contenta,  si  che  quilli  chi  se  contentam  de  star  in^ro 
uil  cose  e  spu9ente  e  penose,  si  e  bom  che  gè  stagam  e  questi  som 
li  peccaor  chi  no  uolam  contrastar  contra  le  bruteze  de  questo 
mondo  e  Ili  iusti,  chi  le  refuam  e  Ile  contrastam,  si  e  raxom  che 
elli  no  abia[m]  mal.  ma  siam  mixi  donda  elli  dexiraw  esser,  in  cosse 
nete  luxente  e  olitoxe,  zoe  lo  regno  celestia[l],  de  che  lo  segnor, 
pim  e  abondeyue  de  ogni  puritae  e  de  ogni  perfectiom  de  bem,  si 
gouerna  quello  reame  dignitosso  de  chi  eli  e,  e  in  questo  receue 
tuti  quilli  chi  som  digni  de  star,  e  quilli  chi  no  ne  som  digni,  comò 
e'  [o]  dito,  si  uam  in  lo  reame  tenebroxo,  [...V]  '')  si  e  penna  dolor 
e  tribulatiom  de  ogni  condiciom,  perzo  che  quello  logo  si  guarda  e 
gouerna  sathanas  e  li  soy  cowpagnom  chi  som  li  angelli  maledicti 
da  deo  chi  fom  descazay  de  lo  so  regno  glorioxo  per  le  soe  iniquitae 
e  malicie  e  ostinay  in  soperbia  e  orgoio  e  per  la  soa  malicia  e  ini- 
quitae elli  si  perseguam  e  combatem  in  ogni  modo  che  li  po[m]  la 
humana  generatiom,  comò  inuidioxi  de  1  amor  e  de  la  gracia  de  deo, 
che  elli  am  perduo  per  lor  caxom  ni  may  la  po»t  i-ecuuerare,  tanto 
som  ostinay  e  abominay  in  la  lor  iniquitay;  e  pero  ogni    cossa    che 


*)  La  similitudine  occorre  pure  nella  parte  tradotta,  a  pag.  120. 
■)  Corr.  :  s  afinna. 
^)  Porrei  "  unda  ,. 


DEL    LIBRO    DE    LA    MISERA    HUMANA    CONDICIONE  691 

elli  pom  fa  contra  lo  lionor  e  lo  piaxé  de  deo,  elli  la  percazaw  e 
si  la  persegua/M  ta«to  corno  elli  pow  e  pero  che  i«  le  cosse  celestià 
elli  no  am  poey,  elli  som  monto  inigi  e  feruenti  contra  le  cosse 
temporale.  Unde  elli  [no]  am  alcum  poey,  pero  che  elli  som  uil  e 
pinne  de  fragilitae;  e  pcrzo  che  la  natura  humana  procee  de  lo 
mondo,  si  g  e  p<?ricoloxa  la  persecutiom  de  quilli  inimixi,  ma  lo 
segnor  nostro  si  n  a  armay  e  guemye  de  arme  defendeyue  contra 
le  lor  malicie  a  tuti  quilli  chi  se  uolem  defende  e  aquistar  uictoria 
contra  de  quilli  inimixi,  comò  pietoxo  e  misericordioxo  che  elio  si 
e  de  tuti  li  soy  seruioy  e  amixi,  lo  qual  remedio  si  e  cognoscimento 
for9a  e  uertue  a  sotomete  e  a  confunde  ogni  desiderio  e  piaxer  de 
quelli  inimixi  ;  e  questa  uictoria  si  acquista  tuti  quisti  chi  se  uolam 
arma  de  quelle  arme  de  gracia  che  deo  n  a  dayto,  de  le  quay 
caschaum  se  ne  pò  arma  chi  uol,  si  *)  nesum  no  se  ne  pò  scusar, 
pcrzoche  elle  som  tute  aparegià  a  la  uoluntà  de  tuti  quilli  chi 
uolam  contrasta  e  combater  centra  quelli  inimixi,  per  auer  uictoria 
a  lo  honor  e  a  lo  piaxer  de  deo  e  fayando  li  merita  de  lo  regno  e 
chi  no  uol  uencer  li  soy  inimixi,  si  e  raxom  che  elio  perda  e  quello 
sia  prexow  e  iwprexionao  da  quilli  da  chi  elli  som  persegui  e  som 
pagai  come  elli  som  degni,  corno  e'  te  o  dicto  de  soura,  che  tu 
sapi  questa  persecutiom  e  batagia  da  questi  inimixi  si  e  a  termina 
in  picem  te/npo,  chi  e  la  uita  de  la  personna  de  che  ella  aquista 
perpetuale  gloria  e  merito,  zoe  chi  a  la  uictoria;  e  chi  no  la  si  [...?]  ^), 
i-omam  perpetualmenti  in  lo  tormento  e  in  la  tribulatiom  de  quilli 
inimixi;  doncha  e  bem  uil  e  traitor  de  so  segnor  e  de  si  proprio  e 
digno  de  ogni  iniga  puniciom  chi  se  uo  auante  mete  a  perdiciom  in 
•  maw  de  li  soy  inimixi  perpetualmenti  cha  obey  e  serui  lo  so  le- 
giptimo  segnor,  chi  1  a  fayto  e  creao  e  lo  merita  perpetualmenti 
de  tanta  gloria  e  beatitudine  comò  el  de  lo  regno  de  cel  celestial 
e  si  e  certo  dauero  ^)  lo  bem  e  lo  male  chi  e  tuto  dicto  e  pero 
caschaum  s  auixe  bem  che  in  questo  mondo  elio  faza  quello  che  in 
1  atro  ;  elio  no  se  penta,  pero  che  niente  no  uarà  pentirse,  ma  starà 
a  lo  zuigamento  de  quello  che  1  auerà  aquistao  a  lo  so  tempo  in  lo 
mondo,  o  gloria  o  dawpnatiom  :  e  perzo  le  penne  e  le  fayge  de  lo 
mondo  si  som  gran(y)de  e  forte,  peroche  chi  uol  auer  la  uictoria  de 
la  gloria  de  parayso  che  elio  si  ha  proao,  e  bem  neto  e  bem  puro 
per  auer  tanta  gracia,  si  che  de  grande  hono  conuem  grande  faj^ga  ; 
chi  no  uol  auer  lo  merito  de  lo  regno  celeste,  si  e  degno  de  zo  che 


*)  Corr.  :  ni. 
"-)  Forse:  uol. 
^)  0  d  auer  (o).  ? 


692  FRANCESCO    LUIGI    MANNUCCI 

elio  cercha  penna  e  fayga  e  questo  si  cowuem  che  1  abia  i»  questo 
mondo  e  in  1  atro,  si  che  in  1  antro  elio  ha  90  che  elio  deserue  in 
qwe^sto  mondo  0  bem  0  mal,  e  sapi  che  lo  mondo  si  e  comò  lo  fogo. 
che  purificha  le  cosse  bonne  e  degne  e  si  arde  [e]  consume  le  cossi- 
ree  e  mete  a  perdiciom,  donda  elio  mete  lo  peccaó  i»  profondo  d[e] 
abisso  e  cossi  am  penna  in  1  autro  e  in  questo  mondo,  ma  li  insti 
si  am  in  1  antro  zo  che  elli  dexiram  e  in  questo  90  che  elli  pom  v 
uolam  soferi  e  cossi  li  insti  in  questo  mondo  som  più  contenti  cha 
li  peccaor  no  som  ni  pom  esser,  peroche  elli  som  sempre  abraxa  e 
acessi  de  lo  fogo  de  lo  mondo,  chi  may  no  li  sacia,  per  darge  più 
penna  e  per  farla  ')  più  confunde  e  uegnir  a  perdiciom;  e,  per  tornar 
a  lo  nostro  p7"oponimento  in  q?<esta  rubrica  e  tractao, 

Feancesco  Luigi  Mannucci. 

^)  Corr.  :  farli. 


NOTE  LESSICALI  ED  ONOMATOLOGICHE  DI  GIOVANNI  FLECHIA 
EDITE  DA  Giuseppe  Flechia. 


1.  —  Anf rione,  npr. 

Credo  che  questo  nome,  non  infrequente  presso  i  Fio- 
rentini, sia  probabilmente  un'alterazione  di  Onofrione  o 
piuttosto  di  Xofrione,  nel  quale  ultimo  caso  Va  d'Anfrione 
nato  da  *Nfrione  potrebbe  considerarsi  come  vocale  pro- 
tetica,  quale  ha  luogo  assai  spesso  ne'  dialetti  dell'Italia 
Superiore. 

2.  —  Bonturo,  npr. 

Bonturo  Bonturi  della  famiglia  de'  Dati,  lucchese,  è  ri- 
cordato tra  i  barattieri  nel  XXI  canto  dell'  'Inferno'.  Pro- 
babilmente da  Bono  e  Tura  {Ventura),  portato  poi  come 
maschile  al  finimento  in  -o;  sicché  propriamente  questo 
nome  consti  di  due  altri  che,  presi  nella  loro  interezza, 
suonano  Buono,  Buonaventura. 

3,  —  sen.  capar  elio. 

Vale  '  capezzolo  della  mammella  '.  Il  Fanfani  (Vocab. 
dell'uso  tose,  s.  v.)  registra  caperello  e  lo  dice  "  d'uso  co- 
mune a  Siena  „ .  Sì  a  Siena,  se  vuoisi,  ma  in  bocca  di  chi 
non  parlasse  senese. 

4.  —  caschereccio. 

Voce  non  registrata  nei  vocabolari  del  Fanfani,  ma  tutta 
propria  come  aggiunto  di  frutto  che  cada  assai  per  tempo 
0  facilmente. 


694  G.    KLECHIA 

L'usa  tra  gli  altri  il  Targioni  Tozzetti  (Diz.  bot.  II,  23) 
chiamando  marrone  caschereccio  la  castanea  vesca,  sa- 
tiva  praecox  dei  botanici. 

5.  —  caverozzola. 

Così  ha  il  Volgarizzamento  di  Palladio  nell'edizione  di 
Verona  (1810),  citata  dalla  Crusca.  Ciò  nondimeno  il  Fan- 
fani  registra  insieme  col  Tramater  cavarozzola,  tolta  ap- 
punto dallo  stesso  luogo,  donde  il  Tramater  reca,  sopra 
un'edizione  manifestamente  guasta,  cavarozzola,  e  sopra 
la  veronese  caverozzola. 

6.  —  cittarello. 
(Poliziano  :  Prose,  pag.  30). 

Il  senese  ha,  insieme  coll'aretino  e  con  qualche  altra 
varietà  di  dialetto  toscano,  citto,  citta  in  significato  di 
'  fanciullo  ' ,  '  fanciulla  ' ,  e  perciò  le  forme  derivate  di  cit- 
tino,  cittolo,  cittarello. 

Questo  nome  è  ignoto  affatto  al  fiorentino;  quindi  è  che 
incontrandosi  la  parola  cittarelli  nelle  Prose  volgari  del  Po- 
liziano ^),  cioè  in  iscrittura  di  origine  e  di  forma  al  tutto 
fiorentinesche,  la  critica  dee  ragionevolmente  dubitare  della 
genuinità  di  tale  lezione,  come  quella  che  porge  una  voce 
estranea  al  glossario  specialmente  fiorentino  e  presentan- 
tesi  sotto  forma-  essenzialmente  antifiorentina  per  quell'ai 
in  cambio  di  er.  Se  non  che  dato  uno  sguardo  al  testo  la- 
tino che  vi  sta  da  lato  (poiché  trattasi  di  latinucci  colla 
versione  dati  dal  Poliziano  a  Piero  de'  Medici),  si  trova 
che  a  cittarelli  risponde  expositii  ^),   donde   appare   chiaro 

^)  Prose  volgari  inedite  e  poesie  latine  e  greche  edite  e  inedite  di  An- 
gelo Amhrogini  Poliziano  raccolte  e  illustrate  da  Isidoro  del  Lungo. 
Firenze,  Barbera,  1867,  pag.  30. 

^)  Ecco  il  passo  latino:  "  ...idemque  mihi  quod  ex j) ositi is  ac- 
cidit,  itti  me  repente  quasi  parente  orbatum  sentiam  „  ed  ecco  l'italiano 
corrispondente:  "  et  interverrammi  come  a'  cittarelli,  che  a  un 
tratto  vii  ritrovi  senza  padre  ,  (pag.  30). 


NOTE    LESSICALI    ED   ONO.MATOl.OGICHE  695 

che  in  cambio  di  citfareììi  e  da  leggere  (/ittatelli  o  gittateglL 
voce  al  tutto  fiorentina  ed  esprimente  quello  che  ora  con 
vocabolo  pur  toscano  diciamo  piìi    comunemente  trovatelli. 

7.  —  giulleresco. 

I  vocabolarj  hanno  giulleria  e  non  giullaria  ;  giullaresco 
e  non  giulleresco,  cioè  nel  primo  con  -er-,  nel  secondo  con 
-ar-'.  incoerenza  che  non  dee  far  maraviglia.  Giulleresco 
trovasi,  fra  gli  altri  luoghi,  nelle  Prediche  inedite  del  Beato 
Giordano  da  Rivallo  (Boi.,  1867,  p.  334). 

8.  —  lapislazzero. 

Lapislazzero  =  lapislazidi.  Il  Fanfani  non  registra  questa 
forma  in  alcuno  de'  suoi  vocabolarj,  quantunque  sia  propria 
del  fiorentino  e  del  livornese  e  s'incontri  nelle  antiche 
scritture  e  fra  gli  altri  per  ben  quattro  volte  nella  Descrizione 
delle  nozze  di  Maria  de'  Medici  e  nelle  Opere  del  Buonar- 
roti il  Giovane,  pur  ristampate  dallo  stesso  Fanfani  {Opere 
varie,  Firenze  1863,  pp.  417-419).  La  forma  originaria  di 
questo  vocabolo  è  lapislazidi  o  lapislazuri  (cfr.  Diez,  Et. 
Wort,  s.  azzurro);  ma  lapislazzero  potrebbe  anco  venire 
immediatamente  da  lapislazzaro,  forma  assai  frequente  che 
insieme  con  lapislazzalo  s'incontra  pure  in  scrittori  fioren- 
tini 1)  ;  e  in  tal  caso  lapislazzero  presenterebbe  er  =  ar.  Ad 
ogni  modo  le  due  forme  genuinamente  fiorentine  sono  lapi- 
slazzolo  e  lapislazzero. 

9.  —  Maccajone,  Lajatico  e  Donoratico. 

Maccajone,  antico  nome  essenzialmente  pisano,  credo  che 
rifletta  Maccarione  da  Maccario  (Macario).  Si  avrebbe 
qui  il  fenomeno  piìi  o  men  proprio  de'  dialetti  toscani: 
'j  =  7'J,rf  (cfr.  ant.  pis.  F^^/o/o  =  Vieto  rio,  denajo  =  de- 
nario,  ecc.). 

')  Nel  Ricettario  si  ha  lapislazzoli,  nello  Stratto  de'  Doganieri  ecc., 
di  Firenze  (Firenze,  1664)  lapislazzuli;  nelle  varie  Tariffe  toscane, 
lapislazzoli. 


fi96  G.   FI.ECHIA 

E  così  noi  potremmo  anche  per  via  di  questo  fenomeno 
giungere  ad  un'origine  assai  verisimile  del  pur  pisano  nome 
locale  Lajatico,  cavandolo  da  Hilariaticum,  derivato  dal 
gentilizio  Hilarius.  Fra  i  nomi  locali  di  questa  forma  derivati 
indubitatamente  da  nome  personale  abbiamo  il  boi.  Loren- 
zatico,  e  credo  assai  verisimile  che  il  pur  pisano  Donoratico, 
raddotto  alla  più  antica  ed  organica  sua  forma  di  Donno- 
ratìco  (così  p.  es.  nella  Cron.  pis.  di  R.  Sardo,  passim), 
accenni  a  nome  di  valor  personale,  cioè  ^Donnolatico  da 
*Donnolo,  *Domnolo,  *Dominnlo    ^). 

Un  altro  argomento  ancora  per  cavar  Lajatico  da  Hila- 
riatico  l'abbiamo  in  altro  nome  locale  pur  pisano,  voglio 
dire  Z/o/awo  =  Hilariano,  non  registrato,  è  vero,  nel  vo- 
cabolario geografico,  ma  attestato,  tra  gli  altri,  dal  nome 
di  (\\\q\\' Andrea  da  Lajano,  che  nel  1360  fu  in  Pisa  tra  i 
congiurati  per  l'uccisione  di  Gualtieri  (cfr.  R.  Saedo,  Op. 
cit.,  p.  146).  Sarebbe  molto  inverisimile  che  questo  Lajano 
non  fosse  un  luogo  pisano  e  avesse  punto  a  che  fare 
per  es.  col  Lajano  del  Beneventano,  che  tenuto  conto  di 
quell'ambiente,  io  non  dubitai  di  riportare  a  un  Laianum 
da  Lai  US  2),  il  quale  nella  Toscana  si  sarebbe  mutato  in 
*Lac/giano.  È  superfluo  infine  fermarsi  sull'aferesi  dell' i- 
in  Lajatico  e  Lajano,  quale  è,  p.  es.,  in  Lario,  Larione, 
secondo  che  suonano  generalmente  nella  loro  forma  popo- 
lare Ilario,  Ilarione. 

10.  —  fior,  macherozzolo. 

Questa  voce  si  trova  registrata  nello  Stratto  de'  Doga- 
nieri, ecc.  di  Firenze,  p.  25,  insieme  con  altri  arnesi  come 
'taglieri',  'corbelli',  'bicordi',  ecc.  Invano    però  si  cer- 

')  Si  tenga  presente  il  nome  proprio  Domnulus  che  ricorre,  p.  es., 
in  SiDONio  Apollinare,  £'/)is^.,  4,  25,  e  il  fr.  Donneley  =  Domntdacum; 
e  cfr.  Flechia,  Di  alcune  forme  di  nomi  locali  dell'Italia  Superiore, 
pag.  68,  s.  Donelasco. 

*)  V.  G.  Flechia,  Nomi  locali  del  Napolitano  derivati  da  gentilizj 
italici,  Torino,  1874,  pag.  32. 


NOTE   LESSICALI   ED   ONOMATOLOGICHE  697 

cherebbe  ne'  vocabolarj  cosi  macherozzolo  come  bicordo  o 
hicord^e.  Forse  maclierozzolo,  che  erroneamente,  credo,  nel- 
l'indice alfabetico  dello  Stratto  è  registrato  sotto  la  forma 
di  macherozziiolo,  non  è  altro  che  una  varietà  di  forma 
del  materózzolo  de'  vocabolarj,  e  in  questo  caso  avremmo 
qui  un  esempio  della  sostituzione  della  gutturale  alla  den- 
tale, che  forma  oggidì  uno  dei  caratteri  fonetici  più  note- 
voli del  fiorentino,  del  pratese  e  di  qualche  altra  varietà 
di  parlar  toscano. 

11.  —  fior,  marmerucola. 

E  vocabolo  essenzialmente  fiorentino,  perocché  il  solo 
scrittore  che  ce  lo  presenti  come  nome  di  pianta  è  il  Cel- 
lini  {Vita,  I,  6,3),  laddove  il  Targioni  Tozzetti  non  lo  re- 
gistra; e  Via  delle  Marmeruole  era  (ed  è  forse  ancora)  per 
attestazione  del  Varchi  {Storie,  lib.  VII)  una  via  di  Firenze 
posta  nel  quartiere  di  S.  Giovanni.  Non  mi  pare  impro- 
babile che  per  una  qualche  analogia  di  colore  od  altro 
questa  parola  si  connetta  etimologicamente  con  marmor 
e  presenti  er  =  or.  È  nome  di  pianta  che  i  vocabolaristi 
(v.  Fanf.  s.  v.)  e  anche  l'annotatore  al  Cellini  (Brunone 
Bianchi,  pag.  70)  identificano  con  marruca  (Rhamnus 
paliurus  di  Linneo),  ma  che  potrebbe  per  avventura  es- 
sere Vacanthus  mollis  de'  botanici,  dal  Vigna  {Animadver- 
siones  in  Theophrastmn)  chiamato  erba  marmoracia 
(cfr.  Targioni  Tozzetti,  Diz.  boi.  II,  5).  Plinio  {Nat.  Hist.  XIII, 
23,44)  parla  di  un  marmaricum  genus  capparis  e 
mentova  pure  un  genere  d'erba  dai  Greci  detto  m arma- 
riti  s  (XXIV,  17,17),  due  nomi  di  piante  connessi  col  greco 
nome  del  marmo  (nap)aapo<5). 

Ai  botanici  la  questione  se  la  marmeruola  risponda  alla 
marruca  o  sia  pianta  diversa  ;  a  risolver  la  quale  gioverà 
forse  il  citato  passo  del  Cellini  dove  si  parla  di  un  giar- 
dino posto  sul  Tevere  "  chiuso  da  una  folta  siepe  di  mar- 
merucole  „.  Il  connettere  etimologicamente  questa  voce  con 
marmocchio   (minimuculus),    marmaglia  (minimalia)   e 

Stu'!j  di  filologia  ronvinza,  IX.  44 


698  G.    KLECHIA 

col  *>narmeUino  (minimellinus)  dell'Italia  Superiore  ci 
tira  al  tema  minimus,  sicché  qui  Ver  dovrebbe  tenersi 
per  elemento  di  derivazione,  che  sarebbe  unico  caso  dinanzi 
al  sufjfisso  -uculo.  Quando  poi  fosse  tra  marmerucola  e 
marruca  una  connessione  etimologica,  non  sarebbe  il  primo 
alterazione  del  secondo,  come  dice  il  Bianchi  (1.  e),  ma 
si  questo  di  un  più  organico  ^marmeruca,  che  sincopatosi 
in  *marmruca,  si  sarebbe  naturalmente  converso  in  mar- 
ruca (romagn.  maruga). 

12.  —  mìllaghera. 

Il  Fanfani  non  ha  che  mullaghera,  che  è  la  forma  del 
Diz.  hot.  del  Targioni  Tozzetti;  ma  la  forma  mìllaghera 
s'incontra  in  Targ.  Tozz.,  Istruz.  ecc.,  p.  55. 

13.  —  fior,  pacchierotto. 

Questa  è  la  forma  genuina,  indubbiamente.  Ma  il  Fan- 
fani, che  registra  la  forma  pacchierotto  nel  Vocab.  dell'uso 
tose,  dichiarandolo  per  diminutivo  di  pacchierone  (che,  se  dio 
ci  ajuti,  dovrebb'essere  pacchieronotto),  nel  Vocab.  della 
lingua  it.  registra  invece  la  forma  pacchiarono,  che  si 
fonda  sopra  un  esempio  della  Secchia  Rapita. 

14.  —  piluccherare. 

Ha  senso  di  '  piluccare  ' ,  '  spogliare  ' ,  '  scorticare  '.  Non 
è  nel  vocabolario,  ma  s'incontra  nelle  Chiose  sopra  Dante 
(Firenze,  1846),  p.  170. 

15.  —  fior,  spicchierone. 

Nome  fiorentino  dello  '  strillozzo  ',  registrato  dal  Savi 
{Ornit.  Tose,  II,  79),  ma  che  indarno  cerchereste  nei  vo- 
cabolarj,  compresi  anche  i  due  del  Fanfani,  cioè  l'Italiano 
e  quello  Dell'uso  toscano. 


NOTE   LESSICALI   ED   ONOMATOLOGICHE  699 

16.  —  fior,  taffera. 

Questa  voce  non  è  registrata  nel  vocabolario,  ma  la 
trovo  in  uno  Stratto  (ms.)  delle  stime  della  Dogana  di  Fi- 
renze, annesso  a  un  mio  esemplare  del  già  citato  Stratto 
dei  Doganieri,  ecc.  di  Firenze  (Fir.  1664),  appartenuto  a 
un  Isidoro  Pistoiesi,  prima  doganiere  di  Casentino,  vissuto 
intorno  alla  metà  del  secolo  scorso  [sec.  XVIII]. 

17.  —  fior,  trajero. 

Erroneamente  il  Fanfani  nel  suo  Voc.  accenta  trajéro  per 
trajero.  E  una  moneta  veneziana  chiamata  sotto  quella  re- 
pubblica colle  varie  forme  di  trdgiaro,  traero,  trairo,  traro 
e  che  i  fiorentini  dicevano  trajero. 

18.  —   Usigliano,   Urliano,  Oriano,  nn.ll. 

Auselius  (cfr.  Fabretti,  Lex.  s.  Ausel,  Auselius; 
CoRssEN,  Aussjyr.  1,24:9;  Vanicek,  Etijni.  Wort.,  161)  donde 
Aurelius.  Alla  prima  forma  del  gentilizio  è  forse  rad- 
ducibile  V  Usigliano  che  si  presenta  ben  quattro  volte  in 
quel  di  Pisa,  e  che  mantenne  come  dialettico  il  sigma 
originario,  mentre  dalla  normal  forma  latina  di  Aurelius, 
per  via  del  celtico  Aureliacum  venne  il  ni.  Oriago 
(cfr.  Flechia,  Di  ale.  forme  di  nn.  II.  delVIt.  Snp.,  p.  48 
[320]),  e  per  via  di  Aurelianum  le  altre  forme  di  nomi 
locali  Urliano  (Aret.)  e  Oriano  (Parma,  Brescia,  Como, 
Milano).  Il  quale  ultimo  nome  mi  porge  ancora  occasione 
di  accennare  un  nome  di  famiglia  originariamente  locale, 
voglio  dire  Oriani:  e  l'astronomo  Oriani,  come  lombardo, 
non  avrebbe  potuto  non  riconoscere  il  suo  nome  da  uno 
dei  quattro  nomi  locali  Oriano,  che,  come  proprj  della 
Lombardia,  riflettono  normalmente  Aurelianum,  qui  reso 
tanto  pili  verisimile  dai  varj  fundi  Aureliani  attestati 
dalla  tavola  alimentaria  di  Velleja. 


700  G.    FLECHIA 

19.   —  Nomi  originariamente  personali, 
diventati  senza  più  nomi  locali  ^). 

1.  Aguzzo  (Terni):  dal  gentilizio  Acutius  (cfr.  Bram- 

BACH,  Corp.  Inscr.  Rhen.,  448,  660,  662,  681):  ma 
potrebbe  essere  anche  abbreviazione,  p.  es.,  di  Mont- 
aguzzo  (cfr.  il  piem.  ni.  J/o«^?>  =  Mont-acùtu  s). 

2.  Azeglio  (Torino).  In  dial.  suona  Azèi  e  Zèi,  e  piuttosto 

che  da  arielli  (cfr.  Di  alcune  forme,  p.  74)  sarà  da  ri- 
condurre al  gentilizio  Acilius  (cfr.  azil  aceto,  piv.  azì). 
Da  agellum  dovranno  invece  ripetersi  il  calabr.  Ajeìlo 
(Cosenza)  e  il  tose.  Gello  (Arezzo,  Pistoja,  Pisa). 

3.  Bergonzo  (Piacenza),  Bergonza  (Pavia),  Bergon- 

zoli  (Novara):  da  Verecundius,  come  Gonzaga 
verisimilmente  da  *Verecundiaca  e  Gognano  da 
*Verecundiano. 

4.  B i g i 0 g n 0  (Novara)  =  *Biagiogno,  daBlajunius  ( Ta- 
vola alim.  di  Velleja,  IV,  74)  :  cfr.  il  Blixuno  del  Cod. 
Dipi.  Langob. 

5.  Bobbio  (Pavia,  ecc.).  Da  Bovius:  cfr.  il  piac.  Bob- 

Mano  =Bovìanu.m,  nap.  Bojano  (v.  Flechia,  A^o?;u 
locali  del  Nap.,  ecc.,  p.  19). 

6.  Carisio  (Novara),  da  Caricius.  Cfr.  Cliiarisacco  (dial. 
friul.  Ciarisa)  e  il  fr.  Carisey  da  Carisiacum,  e  il 
Carisiaco  delle  monete  merovingiche. 

7.  Ciamarella  (dial.  alp.)  =  Casa  Marella  (cioè  '  casa 

dei  Marcili  '  ). 

8.  Cicogno  (Novara):  da  Ciconius.  Cfr.  il  ni.  Cicogìiiago 
{Misceli,  di  Storia  ital.,  VII,  347)  e  il  fr.  Cicogne  =Ci- 
coniacum  (cfr.  Di  ale.  forme,  p.  30). 

9.  Comazzo  (mil.):  dal  gentilizio  Comatius  che  si 
legge  in  una  iscrizione  milanese. 

*j  [Questa  serie  si  aggiunge  agli  esempì  già  allegati  dall'A.  a  pa- 
gina 96  della  monografia:  Di  alcune  forme  di  tiomi  locali  dell' It.  Sup., 
citata  più  sopra]. 


NOTE    LESSICALI    ED   ONOMATOLOGICHE  701 

10.  Coreglia    (Genova,    Lucca),    genov.    Guef/a:    da  Co- 
rellius. 

11.  Cossogno  (Novara):  da  Cossonius. 

12.  Ebbio    (Piacenza).    Incerto    se    da    Helvius    o    da 

Ebulus. 

13.  Morbio  (Corno,  Mendrisio)  da  Molvius. 

14.  Nonio  (Novara),  da  Nonius.  La  forma  dialettale  di 

questo  nome,  che  suona  Gnugn  {nun),  invece  di  *tiun, 
e  dovuta  ad  assimilazione. 

15.  Ottiglio  (Aless.):  pronuncia  paesana  ylw^/e.  Da  *A u- 
tilius,  Altilius. 

16.  Ozegna  (Vercelli).  Da  Eugenia? 

17.  Poviglio  (Reggio)  da  P o p i  1  i u s :  cf r.  il  piac.  Poviago 
=  Popiliacum. 

18.  Pian  ciò  (Arezzo):  daPlancius.  Così  Pia  w^o  (Reggio). 

19.  Piejo  (Nap.)  da  Pedius  (v.Mommsen,  Tnscr.  R.  Neap.). 

20.  Rueglio  (Torino).  Questo  nome  può  normalmente  rad- 

dursi  a  tre  tipi  :  Rubellius,  Rodellius,  Rutilius. 

21.  Servagno  (Cuneo):  da  Servandius,  gentilizio  atte- 
statoci delle  iscrizioni  (v.  Brambach). 

22.  Sa  vigno  (Bologna):  da  Sabinius. 

23.  TarzognvO  (Parma):  da  Tarsunius  (Tav.  c^i  F(?/^gJa). 

24.  Tuoro  (Nap.):  da  Thorius  (v.  Mommsen, /wscr.  B.  N.). 

25.  Vareglio  (Aless.,  Cuneo):  da  Varilius. 

20.  —  Forme  accorciate  di  nomi  propri  italiani  ^). 

A)  Accorciamento  per  cui  il  nome  parossitono  perde  per 
sincope  quanto  è  tra  la  consonante  o  gruppo  consonantico 
iniziale  e  la  vocale  tonica  ^). 

*)  [Pubblico  queste  pagine  come  saggio  del  copioso  e  importante 
materiale,  lasciato  dal  Flechia,  intorno  all'origine  dei  cognomi  ita- 
liani, che  doveva  far  parte  di  quella  larga  trattazione  sull'origine  e 
formazione  del  sistema  onomastico  neolatino,  che  era  vivamente  at- 
tesa dai  dotti  dopo  l'insigne  saggio  che  l'Autore  pubblicò  nel  1878 
tra  le  "  Memorie  dell' Accad.  dei  Lincei  „.  Cotesto  materiale,  che  io 
sto  ordinando,  sarà  messo  in  luce  insieme  cogli  studj  inediti  di  to- 
ponomastica italiana]. 

^)  [Gli  esempj  che  qui  si  recano  sono  da  aggiungere  a  quelli  alle- 


702  <"t.    FLECHIA 

Baci'  da  B(onap)ace  {B.  di  Ser  Rustichello  è  ricordato 
dall'iLDEFONSo,  XVI,  857). 

Bardo  da  B(ern)ardo. 

Benghi  da  B(enev)enghi  o  da  B(enciv)enghi,  che 
ricorre  nell' Ildefonso  (II,  281)  accanto  a  Bencivieni 
(ivi,  8,  249).  Venglii  sta  per  vieni  come  tenghi  per 
tieni  in  "  e  me  ne  voglio  andare  e  tu  mi  tenghi  „ 
(Tigri,  Canti  poi),  tose,  2^  ed.,  p.  205). 

Benni  da  B(enciv)enni.  Un  ser  Bartolo  Benni  di  Signa 
fu  mandato  legato  per  Firenze  a  Narni  il  25  agosto  1346. 

Bese  da  B(orgh)ese.  Se  dovessimo  credere  al  senatore 
Carlo  Strozzi  citato  dal  Manni  [Sig.  XIX,  31),  Bese 
sarebbe  accorciativo  di  Baldese,  e  questo  diminutivo 
di  Baldassarre;  laddove  Baldese  è  molto  verisimilmente 
aferesi  di  Rimbaldese.  Da  Borghese  deriva  pure,  per 
aferesi,  il  cognome  Ghese.  Da  Bese  {Borghese)  vengono 
poi  i  cognomi  Besio,  Besini,  Besozzi,  ecc. 

Bice  da  B(eatr)ice.   In   un   documento   del   1321:  "  no- 
mine Beatricis  sive  Bicis  „  (Ildefonso,  XVI,  398). 
E  nota  la  terzina  dantesca  {Par.,  VII,  13-15): 

Ma  quella  riverenza  che  s'indonna 
Di  tutto  me  pur  per  Be  e  per  ice, 
Mi  richiamava  come  l'uom  che  assonna. 

Forse  al  Poeta  doleva  di  quasi  sconsacrare  il  nome  di 
Beatrice,  che  fu  la  forma  costantemente  da  lui  adoperata 
nella  Divina  Commedia,  presentandolo  sotto  la  volgare  e 
direi  quasi  esoterica  forma  di  Bice,  che  egli  adopera  solo 
nel  Canzoniere;  quindi  egli  trovò  modo  d'introdur  questa 
forma  nella  Divina  Commedia  senza  porvi  la  volgare  di  Bice, 
non  certo  per  tema  di  attenuare  l'altezza  del  poema,  dove 
egli  adopera  pur  nel  Paradiso  e  Cianghella  e  Lapo  e  i  Lapi 


gati  dall'Autore  a  p.  10  dello  scritto  Di  alcuni  criteiy  j^^r  l'origina- 
zione  dei  cognomi  italiani,  dove  si  discorre  di  cotesta  sorta  di  accor- 
ciamento]. 


NOTE    LESSICALI    ED   ONOMATOLOGICHE  703 

e  i  Bifidi.  Il  senso  adunque  di  quei  versi  sarà:  "  ma  quel 
sentimento  di  riverenza,  che  io  provo  fortissimo  sentendo 
il  nome  di  quella  divina  donna  pur  sotto  la  men  nobile 
ed  accorciata  forma  di  Bice  [B-ice),  ecc.   „ 

Bino  da  B(ernard)ino. 

Bista  da  B(att)ista. 

Boccio  da  B(artolome)occio. 

Borso  da  B(onacc)orso.  Notevole  pure  Borsin. 

Bufo  così  da  B(enven)uto   come   da  B(onaj)uto.   Da 

non  confondersi  con  Buti,  ni.  in  quel  di  Pisa,  nel  quale 

ultimo  caso  il  cognome  sonava  da  Buti  (come  p.  es., 

in  Francesco  da  Buti). 
Cante  da  C(avalc)ante. 
Cìiessa  da  C(ont)essa. 
Dello  da  D (ani) elio.  Un  Daniello  di  Nicolò  Delli  si  legge 

presso  il  Milanesi  (Gior.  Stor.  degli  Arch.  tose,  IV,  203). 

Duti  da.  D- {ìe    .-aj)uti. 

Fecca  da  F(ranc)esca,  con  fenomeno  quale  in  Cecco  da 
*Cesco  (Francesco).  Una  Fecca  dei  Buondelmonti  era 
nel  1353  moglie  di  Lapo  di  Binde  Cavalcanti. 

Feldi  da  F(igliin)eldi. 

Fese  da  F(or)ese. 

Figo  da  F(eder)igo. 

Fresco,  Fresca  da  Fr(anc)esco,  Fr(anc)esca  (cfr. 
Giorn.  Stor.  degli  Arch.  tose,  III,  38  e  39). 

Gajo  da  G(alig)ajo,  che  ricorre  nell'lLDEFONSO. 

Gardo,  Garda  da  G(her)ardo,  -a  (cfr.  il  n.  Gherardo 
Gardi). 

Geppe,  Geppo  da  G(ius)eppe,   G(ius)eppo. 

Gesio  da  G(en)esio. 

Gheldo,  Ghelda  da  Gh(in)eldo,  Gh(in)elda;  così  Ghel- 
dolo  da  Gh(in)eldolo. 

Gianni  da  G(iov)anni,  col  g  conservato  palatale. 

Lieo  (Ildef.,  XVI,  240),  Ligo  da  L(odov)ico. 

Lolfo   e   Loffo  da  L( and) elfo   o   da   L (od) elfo,  senza 


704  G.    KI.ECHIA 

escludere  che  possa  essere   aferesi   di   Agi-lolfo   o    di 

Sigi-lolfo.  Da  Lolfo  venne  Loffo  (cfr.   Xoffo  da  Nolfo, 

Ar-nolfo)    per   legge  fonetica   d'assimilazione  propria 

del   fiorentino   (cfi\   Flechia,    Rivista   di  Filol.  Class., 

VII,  388  e  394). 
Maldino  daM(ag)aldino  (Magaldo)  oda  M(on)aldino 

(Monaldo),  od  anche  per  aferesi  da  G ri-ma Idino. 
Maio  (e  Miato?)   da  M(ini)ato,  se  non,  per  aferesi,   da 

Amato  (cfr.  il  composto  Bonamato),   più   raro   assai 

di  Miniato. 
Meo  daM(att)eo   o   M(azz)eo.  Avvertasi  però  che  Meo 

coi  derivati  Meino,  Meticcio,  Meuzzo,    ecc.,   può  anche 

essere  da  Bartolo-meo  (cfr.   Flechia,  Riv.  di  FU. 

Class.,  VII,  380). 
Mese  da  M(arch)ese  o  da  M(ilan)ese. 
Metto   da  M(an)etto:   la    storia   parla   d'un   Manetto   di 

Signa. 
Mingo  da  M(er)ingo. 
Mita  daM(argher)ita  (questo  nome  s'incontra  nel  Ciampi, 

Statuti  dell'Opera  di  S.  Jacopo  di  Pistoia,  p.  132). 
Monna  da  M(ad)onna. 
None  da  N(apole)one. 
Nosa  da  N(icol)osa. 
Nuccio  da  N(icol)uccio. 
Pardo  da  P(icc)ardo? 
Roifo  da  R(id)olfo  (cfr.  Loffo  da  Lolfo  e  v.  Riv.  di  FU. 

Class.,  VII,  388). 
Saldo  da  S(inib)aldo. 
Sone  da  S(im)one. 

Tacco  da  T(al)acco  (cfr.  Manni,  Sig.,  XI,  100). 
Taldo  da  T(eb)aldo   o   T(ed)aldo. 
Tedi  da  T(ordov)edi. 
Tj^o  (senese  del  1300)  da  T(eodor)igo,  e  come  ali.  Te- 

dorigo,  fior.  Te  derigo. 
Toro  da  T(eod)oro. 
Zone  per  Sone  da  S(im)one    (cfr.  zolfo   da  solfo  e  Zepp>^ 

da  Seppe,  Giuseppe). 


NOTE    LESSICALI    ED   ONOMATOLOGICHE  705 

B)  Accorciamento  per  cui  il  nome,  dopo  aver  subita 
l'aferesi  della  sillaba  iniziale,  subisce  un  secondo  accorcia- 
mento per  sincope  analogo  al  precedente  '). 

Bico,  Biga  (senese  B'ujozzi)  da  ( Al)b(er)igo. 

Cajo  da  (Nic)c(ol)ajo. 

Cegna  (Ildef.)  da  (Ben)c(iv)egna. 

Cerra  da  (Vin)c(igu)erra. 

Chigio  da  (Ac)c(ar)igio. 

dolo  da  ( Ac)c(ia)jolo. 

Ciuto  da  (Benri)c(ev)uto. 

Coso,  Cosa  da  (Ni)c(ol)oso,  {-colosà). 

Dando  (coi  derivati  Dandino,  Dandolo,  ecc.)  da  (Al)d(o- 
br)ando. 

Fello  da  (Ilaf)f(a)ello. 

Ghino  da  (  U  )  g  (  0 1  )  i  n  0  (  =  Ugonino)  o  da  (  A  )  g  (  o  s  t  )  i  n  o. 

Ghita  da(Mar)gh(er)ita. 

Gino  da  (Rug)g(er)ino  o  da  (An)g(el)ino. 

Giotto  da  (An)g(el)otto  o  da  (Rug)g(er)otto  (cfr. 
Arch.  Stor.  Ital,  App.  V,  N.  20,  p.  39). 

Goso  da  (Vi)g(or)oso. 

Lora  da  (E)l(eon)ora,  se  pure  non  è  da  (Va)lora: 
cfr.  Loi'e  =  Valore. 

Loso  da  (A)l(id)oso  {Alidosio,  Alidogio),  donde  il  co- 
gnome degli  Alidosi  d'Imola.  Il  Fanfani,  Accorcia-, 
ture,  ecc.,  vuol  trarlo  da  Luigi!! 

Luti  da  (Die)l(aj)uti. 

Maccio  da  (Tom)m(as)accio. 

Mede  da  (  D  i  o)  m  (  i  d  i  )  e  d  e,  se  pure  non  è  aferesi  di  Dio- 
mede o  di  Xicomede. 

Nagio  da  (A)n(ast)agio. 


')  [Di  tale  accorciamento  si  tocca  a  pagg.  10-11  dello  scritto  già 
citato  del  Flechia  e  a  pp.  377-78  della  Rivista  di  Filol.  Classica, 
volume  VII]. 


706  e.   FLECHIA 

Setta    da    (Eli)s(ab)etta.   La   storia   ricorda  una   Setta 

degli  Strozzi,  maritata  nei  Vecchi, 
Tano  da  (Ot)t(avi)ano  o  da  (Ca)t(al)ano. 
Tante  [con  Tantini,  Tantucci,  Tantuzzi)  da  (At)t(av)ante. 
Teci  da  (Die) t(if)eci. 
Tiede  da  (Die)t(id)iede. 
Tina  da  (Ca)t(er)ina. 
Vicjio  da    (Sa)v(er)igio.    Vigio  di   Saverigi   è  ricordato 

dairiLDEFONSO. 


PER  IL  DIALETTO  DI  CAMPOBASSO 


Caro  Monaci, 

Ricorro  a  te  e  al  vostro  periodico  per  una  dichiarazione 
che  da  piìi  mesi  avrei  dovuta  fare,  se  molte  altre  faccende 
non  me  ne  avessero  distratto.  Il  prof.  Goidanicli  ha  pub- 
blicato, nella  Miscellanea  in  onore  dell'Ascoli,  un  suo  ar- 
ticolo sul  dialetto  di  Campobasso,  dove  fa  il  contrappelo 
alla  descrizione  che,  or  è  più  di  un  quarto  di  secolo,  feci 
io  del  mio  dialetto  nativo.  Non  istò  a  dire  quanto  sia  il 
garbo,  e  nei  concetti  e  nella  forma,  della  requisitoria  ;  e 
neppure  quanto  sia  già  di  per  sé  garbata  l'idea  di  ripi- 
gliare, dopo  tanti  anni,  un  lavoro  altrui,  per  cincischiarlo 
d'osservazioni  ovvie  e  tardive,  o  contrapporvi  spiegazioni 
assai  spesso  audaci.  E  ciò,  trattandosi  d'un  lavoro  specia- 
lissimo, che  a  nessuno  sarebbe  venuto  in  mento  di  rifare, 
come  si  rifanno,  senza  domandar  licenza  ad  alcuno,  a  proprio 
rischio  e  pericolo,  quelle  trattazioni  che  son  veri  capitoli 
d'una  qualunque  scienza  o  disciplina.  Il  Goidanich,  trovan- 
dosi a  corto  di  titoli  concernenti  la  grammatica  neolatina, 
poiché  per  questa  non  aveva  che  un  unico  lavoro,  s'è  af- 
ferrato al  primo  soggetto  che  gli  si  è  parato  dinanzi  alla 
mente  ;  e  forse  questo  fu  il  primo  a  pararglisi  sol  perchè 
io  gli  ero  ben  presente  alla  memoria,  come  colui  che  al 
suo  anteriore  unico  lavoro  neolatino  mi  ero  amorevolmente 
interessato.  Ci  fu  per  giunta  che  egli  aveva   tra  i  suoi  di- 


708  F.   b"0VlD10 

scepoli  di  Pisa  un  Mastropaolo,  nativo  pur  lui  di  Campo- 
basso ;  il  che  rendeva  agevole,  opportuno,  conveniente,  di 
contrapporre  la  testimonianza  del  giovane  alunno  a  quella 
del  vecchio  descrittore  del  dialetto  sannitico. 

E  sta  bene;  ne  io  voglio  ora  infastidire  te  e  i  vostri 
lettori  con  una  requisitoria  alla  requisitoria.  Da  un  pezzo 
m'ero  già  proposto  di  ritornare  sul  mio  antico  lavoro,  e 
spero  di  trovar  prima  o  poi  il  tempo  di  mettere  in  atto 
il  proposito.  Non  è  che  io  mi  debba  pentire  di  quanto  mi 
fu  dato  di  stampare,  che  non  discordava  da  tutti  i  criterii 
prevalenti  allora  nell'indagine  neolatina,  né  che  sian  molti 
1  punti  sui  quali  i  criterii  prevalsi  dopo  mi  costringano  a 
modificare  le  spiegazioni  fonetiche,  morfologiche,  etimolo- 
giche. Ma  i  tempi  sono  mutati,  ed  io  con  essi,  come  in  altri 
scritterelli  ho  già  mostrato,  e  talune  cose  le  cangerei  vo- 
lentieri 0  le  atteggerei  un  po'  diversamente.  Non  mi  sono 
affrettato  a  farlo  anche  perchè  presumo  che  ogni  discreto 
lettore  sopperisca  da  se,  ed  ogni  buon  critico  debba  sde- 
gnare come  troppo  facile  l'impresa  di  darsi  aria  di  corret- 
tore là  dove  ha  ben  da  credere  che  io  oggi  sarei  il  primo 
a  correggermi.  Quanto  al  resto,  cioè  alle  escogitazioni  nuove 
e  più  0  meno  ardimentose  degli  altri  intorno  "  ai  mate- 
riali „  che  io  ebbi  l'onore  di  suppeditare  ai  futuri  sapienti, 
vedremo  a  suo  tempo,  ove  accorra.  E  in  una  cosa  non  vorrò 
certo  far  mutamenti,  cioè  nella  mia  abitudine  di  dar  piena 
ragione  a  chiunque  l'abbia  e  comunque. 

Ma  fin  da  ora  debbo  insistere  su  un  particolare,  che  non 
è  d'apprezzamento  ma  di  fatto,  e  rientra  fra  quei  mate- 
riali appunto  che  io  accumulai.  Qui  la  recisa  smentita  altrui 
verrebbe  subito  a  traviare  gli  studiosi  di  dialettologia  me- 
ridionale. Io  asserii  che  nel  mio  dialetto  si  avesse  la  ridu- 
zione di  i  breve  ed  e  lungo  tonici  latini  in  èi,  e  quella  di 
n  breve  ed  o  lungo  in  òu.  Registrai  gli  esemplari  che  potei 
raccapezzar  nella  mia  memoria  o  nell'altrui,  e  non  omisi 
di  registrar  pure  gli  esemplari  ove  una  tale  riduzione  man- 
casse e  si  avesse  la  semplice  vocale  e  ed  o.  Nella  classi- 


PER    IL    DIALETTO    DI    CAMPOBASSO  709 

ficazione  degli  esemplari  potei  incorrere  in  qualche  falsa 
reminiscenza  mia  o  altrui,  come  certo  nel  modo  d'interpre- 
tare l'oscillazione  del  fenomeno  non  ebbi  tutta  la  sicurezza 
che  l'odierno  stato  della  scienza  suggerirebbe.  Ma  questo 
ora  non  c'entra.  Il  Goidanich,  fidandosi  appieno  dell'autorità 
del  suo  alunno,  assicura  che  a  Campobasso  i  dittonghi  non 
esistono  affatto,  bensì  soltanto  nel  contado,  e  gli  par  che 
suonino  piuttosto  óo,  ée  anziché  óu,  éi.  Ne  cava  la  con- 
seguenza che  non  un  intonaco  letterario  veli  qua  e  là, 
com'io  presunsi,  il  dialetto  cittadino,  ma  che  il  cittadino  e 
il  rustico  siano  "  due  dialetti  diversi  „  :  nientemeno  I  II 
grossolano  abbaglio  che  cosi  io  avrei  preso  gli  parve  che 
fosse  reso  credibile  dalla  mia  stessa  dichiarazione,  che 
"  vivendo  da  molti  anni  lontano  dal  luogo  nativo,  dovevo 
raccapezzarmi  tra  una  folla  di  reminiscenze  „.  Veramente 
io  proseguivo  così  :  "  verso  le  quali,  quantunque  alla  prova 
le  trovassi  ben  più  fide  ch'io  non  osassi  sperare,  avevo 
sempre  una  volontaria  diffidenza  ;  che  forse  avrebbe  finito 
a  sgomentarmi  del  tutto,  se  non  mi  fosse  venuta  in  soc- 
corso l'amorevole  cooperazione  di  due  miei  ottimi  congiunti, 
Tito  «e  Gennaro  Cerio  „ .  Aggiungo  ora  che  il  primo  di 
questi  due  è  autore  inedito  di  argute  poesie  vernacole. 

Si  trattava  dunque  di  scrupoli,  non  d'altro  che  di  scru- 
poli ;  e  lo  dicevo  chiaro,  ne  davo  ansa  ad  alcuno  di  cre- 
dermi perciò  così  immemore  della  mia  loquela  nativa,  così 
stordito,  e  così  storditi  con  me  i  miei  adiutori,  da  ascri- 
vere ad  essa  indebitamente  una  caratteristica  fonetica  di 
tanto  rilievo  e  tanto  appariscente.  Diamine  !  Qui  non  si 
tratta  d'una  parola  singola,  d'un  fonema  secondario,  d'un 
esemplare  più  o  meno  ;  ma  di  tal  cosa  che  non  può  sfug- 
gire dalla  memoria  od  entrarvi  per  equivoco.  E  facile  im- 
maginare a  quanti  ricordi  e  impressioni  della  puerizia  si 
colleghino  certe  forme  della  parlata.  Poniamo,  tra  i  quattro 
e  gli  otto  anni  abitai  in  una  casa  dirimpetto  a  cui  s'apriva 
uno  stretto  viottolo  a  scalini  che  il  volgo  chiamava  la 
Rtia  de  tre  ddeita  (Via  di  tre  dita),  e  io   ho   ancora    pre- 


710  F.  d'ovidio 

sente  la  cera  dei  miei  vecchi  quando  mi  ammonivano  di 
star  attento  a  non  dir  così  ;  poiché  nelle  famiglie  colte  del 
Sannio  è  continua  la  guerra  al  vernacolo,  tollerato  appena 
inconsapevolmente  in  quel  suo  carattere  musicale  che  si 
suol  dire  l'accento  d'un  paese,  e  più  o  meno  inconsapevol- 
mente in  certi  idiotismi  di  sintassi,  di  frasi,  di  parole,  di 
pronunzia  in  generale  o  di  pronunzie  peculiari  a  qualche 
parola.  La  smentita  che  altri  mi  dà  mi  ferisce,  piii  che  nella 
coscienza  o  nell'amor  proprio  di  studioso,  nelle  dolci  ri- 
membranze patrie  e  domestiche.  Son  cose  che  altri  non 
può  prevedere  in  concreto,  ma  che  è  prudenza  e  onesto 
riguardo  intravedere  e  presupporre  in  massima. 

Or  eccomi  a  dire  più  precisamente  come  la  cosa  stia. 
La  distinzione  fra  un  dialetto  cittadino  ed  uno  rustico  è 
od  era,  in  un  certo  senso  e  in  molti  casi,  vuota  di  signi- 
ficato per  tante  città  del  Mezzogiorno.  Nelle  quali  i  lavo- 
ratori della  terra  nascono,  vivono  e  muoiono  entro  le  mura 
cittadine.  Quand'ero  fanciullo,  i  contadini  di  Campobasso, 
nati  e  battezzati  in  città,  dormivano  in  città,  uscivano  la 
mattina  ai  campi,  torna van  la  sera  a  casa,  e  in  città  so- 
stavano nelle  feste,  durante  le  loro  infermità  e  nella  vec- 
chiaia. Il  contadiname  e  la  plebe  (fin  dove  questa  distin- 
zione era  possibile  colà)  parlava  il  vecchio  dialetto,  il 
dialetto  coi  dittonghi,  che  rappresentava  il  vero  e  genuino 
fondo  del  vernacolo  paesano  ;  il  quale  era  invece  ammac- 
cato, rammorbidito,  raggentilito,  sulle  bocche  della  gente 
civile,  aspirante  a  non  parlar  che  italiano,  e  nelle  bocche 
degli  artigiani,  aspiranti  ad  uniformarsi  ai  civili.  Questo  è 
tutto  ;  e  chi  per  una  città  come  la  mia  avesse  voluto  pre- 
scindere dal  fondo  plebeo  o  rusticano,  non  avrebbe  quasi 
quasi  avuto  di  che  dialetto  trattare.  Il  campobassano  ti- 
pico, antico,  fedele,  era  quello  specialmente  del  rione  di 
San  Mercurio,  vicino  alla  chiesa  di  Sant'Antuono.  Adesso 
lo  cose  sono  assai  mutate.  Oggi  l'emigrazione  in  America 
ha  portata  via  molta  di  cotal  popolazione  rustico-cittadina. 
Anche  i  reduci  dall'emigrazione  ritornano  trasformati  e  rin- 


PER    II.    DIALETTO    DI    CAMPOBASSO  711 

civiliti.  Inoltre,  le  moderne  proibizioni  municipali,  col  vietare 
finalmente  di  ricondur  la  sera  a  casa  dai  campi  l'asino,  il 
maiale,  la  pecora,  han  finito  di  diradare  quella  povera  gente. 

Così  è  avvenuto  che  oramai  i  dittonghi,  salvochè  da 
qualche  rudere  dell'antico  stile,  non  si  odono  più  nell'ambito 
urbano  ;  mentre  ai  miei  tempi  bastava  che  il  fanciullo 
uscisse  a  far  una  palla  di  neve  innanzi  alla  porta  di  casa, 
per  ritornar  sii,  non  solo  con  le  mani  avviate  ai  geloni, 
ma  con  la  lingua  infetta  di  dittonghi.  E  sennò  te  li  por- 
tava a  domicilio  la  fantesca.  La  civiltà  ha  fatto  rapidi 
progressi,  e  i  miei  concittadini  han  molta  inclinazione  a 
raffinare  rapidamente  la  lor  favella.  È  quindi  naturalis- 
simo che  le  caratteristiche  più  aspre  e  primitive  del  parlar 
locale,  già  ristrettesi  al  vernacolo  rustico  ed  estremamente 
plebeo,  si  sian  venute  dileguando  in  questi  anni,  Campo- 
basso nacque  borgo  feudale,  nel  medioevo  avanzato,  e  solo 
nel  1806  fu  assunto  agli  onori  di  capoluogo  di  provincia; 
la  quale  fin  li  non  aveva  un'esistenza  a  parte,  ma  entrava 
nella  provìncia  di  Lucerà,  che  ora  è  della  provincia  di 
Foggia.  Solo  da  allora  la  capitale  del  Molise  s'avviò  len- 
tamente a  diventare  una  vera  città,  quantunque  sempre 
piccola.  Il  che  dapprima  produsse  un  graduale  incremento 
della  popolazione,  ma  da  ultimo  ha  finito  con  esser  causa 
di  decremento. 

Leggo  in  un  opuscolo  che  a  propria  difesa  ha  or  ora 
pubblicato  1  '  ex-sindaco  commendatore  Francesco  Bucci 
[L'altra  campana,  p,  27-8),  che  nella  cinta  daziaria  la  po- 
polazione "  neirSl  era  di  12,774  abitanti,  oggi  è  ridotta 
a  11,890,  laddove  quella  dei  presenti  nelle  case  sparse, 
che  neir81  era  di  1,218,  è  salita  a  2,438  ;  talché  oggi  alla 
città,  in  confronto  del  1881,  mancano  884  consumatori  di 
generi  soggetti  a  dazio  „.  Le  case  sparse  erano  per  l'ad- 
dietro  una  rarità,  quasi  una  singolarità.  Una  tal  crisi  sto- 
rica produsse  via  via  una  crisi  anche  nel  vernacolo,  sempre 
più  liberatosi,  nelle  sfere  cittadine,  delle  peculiarità  più 
veramente  e  rudemente  vernacolar!  ;  il  che  spiega  come  un 


712  F.  d'ovidio 

adolescente  possa  aver  dato  ragguagli  diversi  dai  miei,  e, 
per  miopia  di  veduta  storica,  addirittura  avversi  ai  miei. 
Senza  dire  delle  tante  ingenuità  in  cui  può  cadere  un  gio- 
vinetto, improvvisato  giudice  di  certe  questioni.  Ma  per 
fortuna  io  mi  trovai  a  cogliere  il  momento  di  transizione. 
In  esso  certe  oscillazioni  venivan  naturali,  e  poteva  acca- 
dere che  una  parola  di  ragion  comune  sonasse  ancora  col 
dittongo,  in  bocca  a  quelli  che  parlassero  davvero  il  ver- 
nacolo, e  che  una  parola  richiamante  cose  strettamente 
cittadine,  piìi  familiari  alla  classe  colta  o  semicolta,  avesse 
già  assicurata  la  schietta  vocale  italianeggiante.  Ma  sempre 
era  questione  di  lotta  tra  il  pretto  vernacolo  campobas- 
sano e  il  volgare  illustre  della  cittadinanza  superiore  ;  non 
già  di  due  dialetti,  il  paesano  e  il  rustico.  Che  rustico  se 
i  contadini  eran  paesani  ?  Essi  erano  per  l'appunto  consi- 
derati come  i  ritardatarii  o  refrattari  al  progresso  nel 
parlar  pulito,  o  come  i  cari  conservatori  del  vero  uso  paesano. 
Nella  modesta  storia  del  mio  piccolo  comune  non  vi 
furono  sopravvenienze  e  sovrapposizioni  di  stirpi  diverse, 
ma  solo  il  crescere  delle  influenze  letterarie  o  delle  in- 
fluenze partenopee,  per  la  nuova  dignità  di  capoluogo  di 
provincia  e  il  frequente  passaggio  d'impiegati,  di  magistrati, 
di  professori  e  via  via.  La  supposizione  d'un  dialetto  ur- 
bano, che,  pur  essendo  vero  vernacolo,  stonasse  dal  con- 
certo del  rimanente  Molise  e  delle  attigue  zone  dell'Abruzzo 
e  delle  Puglie,  torna  stranissima  e  priva  d'ogni  fonda- 
mento. E  già  nel  preambolo  alla  mia  monografia  avevo 
fatto  ben  intendere  quanto  sia  nei  paesi  nostri  stremato 
l'uso  del  dialetto,  tacciato  d'essere  un  parlare  sporco,  e  l'a- 
bitudine e  il  proposito  di  non  usare  che  la  lingua  colta,  il 
parlar  pulito,  benché  più  o  meno  intinto,  massime  in  certe 
occasioni,  di  vezzi  locali.  Quaranta  o  cinquant'anni  fa,  a 
stento  qualcuno,  e  specialmente  qualcuna,  si  ribellava  contro 
il  parlar  tosco,  cioè  l'italiano,  che  gli  pareva  un'affettazione. 
Ormai  le  scuole  e  il  resto  avranno  spazzato  via  tali  codini 
e  codine.  E  una  condizione  di  cose  onde  a  fatica  riesce  a 


PER    IL   DIALETTO   DI   CAMPOBASSO  713 

rendersi  ragione  chiunque  sia  istintivamente  tratto  a  raf- 
figurarsi ogni  dialetto  sul  regolo  dell'Italia  cisalpina.  Là 
si  che  si  può  fare  una  distinzione  abbastanza  netta  fra  il 
dialetto  delle  classi  superiori  e  quel  delle  umili,  o  tra  il 
paesano  e  il  rustico.  Fino  a  un  certo  punto  si  può  dir  lo 
stesso  di  Napoli,  ove  si  può  ravvisar  chiaramente  un  dia- 
letto dogli  aristocratici,  uno  mezzano,  uno  plebeo,  e  fare 
anche  altre  distinzioni.  La  baldanza  di  gran  capitale  fa  che 
i  nativi  non  abbiano  troppi  scrupoli:  e  i  provinciali  stessi 
vengon  qui  a  napoletaneggiare,  come  se  ciò  fosse  appro- 
priarsi una  specie  di  volgare,  se  non  illustre,  mediocre. 
Ben  diversa  è  la  condizione  delle  altre  città  e  terre  meri- 
dionali, soprattutto  di  quelle  men  remote  dall'Italia  centrale. 

In  conclusione,  i  dittonghi  sono  stati  via  via  fugati 
dalla  mia  città  al  pari  degli  asini,  dei  maiali  e  delle  pe- 
core. Per  essa  non  potevo  ne  dovevo  porre  nessuna  pre- 
cisa antitesi  tra  un  dialetto  urbano  ed  uno  estraurbano  ;  e 
il  professor  Goidanich  ha  se  non  altro  perso  qui  di  vista 
il  proverbio,  che  ne  sa  piìi  un  matto  in  casa  sua  che  un 
savio  in  casa  altrui. 

Mi  scusi  lui,  scusami  tu  e  il  tuo  collega  di  direzione,  e 
credimi  sempre 


Napoli,  27  maggio  1902. 


tuo  aff.mo 
F.  d' Ovidio. 


Siudj  di  filolooia  romanza,  IX.  45 


NUOVE  POSTILLE  AL  DIZIONARIO 
DELLE   COLONIE   RUMENE    D'ISTRIA 


In  questo  stesso  periodico  (voi.  VIII,  pp.  517-609)  il  Dottor 
Matteo  Bartoli  raccolse  una  ricca  messe  di  postille,  acute  e 
coscienziose,  al  dizionario  del  rumeno  d'Istria  pubblicato 
teste,  forse  con  molta  fretta  e  poca  prudenza,  dal  Dott.  Arturo 
Byhan  ^).  Anch'io  ebbi  la  ventura  di  sentire,  sopra  luogo,  il 
linguaggio  di  quei  Rumeni  ed  essendo  Rumeno  di  nazione 
potei  raccogliere  facilmente,  col  controllo  del  mio  idioma 
natio  (banatense),  anche  un  nuovo  manipolo  di  voci  abo- 
rigeni, cioè  non  derivate  dall'italiano  (veneto),  ne  dai  varj 
dialetti  delle  vicine  colonie  slave.  Queste  e  altre  postille 
unisco  ora,  per  esortazione  di  lui,  agli  studj  del  Bartoli; 
e  tanto  piti  mi  pare  opportuna  e  adatta  al  caso  questa 
rivista  italiana  (che  gentilmente  mi  concede  ospitalità),  in 
quanto  che  si  tratta  di  "  colonie  straniere  in  Italia,  d'ori- 
gine neolatina  „ ,  in  una  provincia  che  se ,  politicamente, 
non  va  ora  unita  allo  Stato  italiano,  certo  interessa,  scien- 
tificamente, soprattutto  i  romanisti  d'Italia. 

Quanto  alla  trascrizione  dei  suoni,  non  fo,  per  ora, 
alcuna  dichiarazione,  rimandando  ad  altro  lavoro,  dove 
avrò,  fra  breve,  da  discorrere,  con  più  comodo,  dei  molteplici 
problemi  che  offre  la  fonetica  del  rumeno  d'Istria. 


*)  V.  ora  anche  Romania,  XXXII,  1903. 


NUOVE    POSTILLE   AL   DIZIONARIO    DELLE   COLONIE    RUMENE    d'iSTRIA        715 

La  cifra  accanto  ai  singoli  vocaboli  indica  il  villaggio 
da  cui  provengono.  Cioè,  secondo  la  nomenclatura  officiale 
della  Giunta  provinciale  dell'Istria  (V.  Studj  Vili,  p.  523)  : 
1.  Letana,  2.  Castellania,  3.  Avellino,  4.  Frascati,  5.  Colle 
San  Giorgio,  6.  Villanova,  7.  Frassineto,  8.  Sciane  (hei^nu). 

alentu  de  komùn  (4),  agente  comunale. 

àiier  (4):  rosa  din  à.  kade,  la  rugiada  cade  dall'aria. 

àr bolli  (4):  àrbolu  en  brod  pre  mare,  letter.  "  al- 
bero in  nave  per  mare  ,. 

asirita  (8),  (artic.)  asina. 

bàlege  (4),  sterco  di  animali. 

bare  (4).  borea.  Invece  nel  Banato  beare  =  venticello. 

beka  (6),  sorgente:  àpa-n  liiff,  ke  terlea  ansa  din 
pemint,  l'acqua  nel  boschetto,  che  scorre  fuori  dalla 
terra. 

berbécele  (solo  a  Sciane),  il  maschio  della  pecora  e 
della  capra. 

hoboshe  e  siske  (5),  ghianda. 

bo'sku  (artic.)  boskele  (5),  bosco. 

br  end  US  a  (artic)  plur.  -s  (8),  rum.  dac.  brlndusà. 

b  riffe  (4),  temperino. 

de g era  (8),  ha  freddo. 

diveni:  io  divenés,  ani  divenit  (8),  con  tutti  i  si- 
gnificati  del  Banato  ("  chiacchierare,  parlare,  trattare  „). 

duri  ale  (4),  manico  della  scure. 

^nfesà,  fasciare,  io  oi  e.  f etti,  {o  ani  q.ku  rubina 
pe  skutek. 

face,  ha  vari  significati  come  nel  rum.  dacico:  nu-s 
f  e  kilt  e  f  et  eie:  tirere-s  (8),  "  non  sono  mature  le 
(queste)  ragazze:  sono  [ancora]  giovani:  analog.  7iu-s  f. 
Ifmnele:  kreskut-au,  dar  s-au  tal'at,  ibid. 


716  GIUSEPPE   POPOVICI 

f  ente  re  (8),  sorgente  o  non  pozzo;  analog.  nella  Dacia 
vecchia  [tara  Hateguluì). 
fermindnt  (8),  zolfanelli. 

fermenta,  impastare;  fermentés  (8),  e  non  fermentìi 
come  scrive  il  Dott.  Nanu  per  influenza  del  rumeno  let- 
terario. 

feti  ti  a,  ragazza  e  non  bambina,  come  lo  prova  il  pro- 
verbio (caratteristico  anche  da  lato  morale):  musata  f. 
grumbo  se  tire  H  griimha  fino,  "  la  bella  ragazza  ha 
brutti  costumi  e  la  brutta  belli  „. 

fólele  (6),  vale  anche:  mantice. 

frdier  (8),  è  il  maschile  di  fr digerita  (e  non  fraie- 
rita,  cfr.  Byh.,  219). 

fuieta  (artic.)  (4),  gazzetta. 

gabir,  solo  a  Seiane;  ma  anche  esiste  gàbii  (4). 

gerdasele  (8),  pettine  per  cardassare  la  lana;  ger- 
da'si  (6,  8),  cardassare  (sinonimo  del  seguente). 

grebenà;  v.  gerdasele,  io  am  grebenU,  gre- 
benésk. 

grize,  ha  capito  male,  credo,  il  Maj:  iuve-ti-s  oile? 
(lett.:  "  dove  ti  sono  le  pecore?  „),  en  grise-.  luogo  roc- 
cioso; srb.  cr.  krs,  roccia.  Per  "  cura  -  hanno  solo  skurbe. 

gutni  (4),  ma  di  solito  pog.  inghiottire;  da  gut. 

harambaSa  (artic),  h.  de  tàt  (4),  capo  di  banditi;  in 
tutto  il  Balcan;  come  anche  mag.  haramija. 

inkàc  (6):  i.  virit-a  àpa  tot  pe  su  brigure,  "  qui 
è  venuta  l'acqua  sempre  sotto  i  monti  „. 

iàzer,  ricorre  realmente  (6),  gura  de  i. 

iepita,  è  veramente  una  puledra  che  non  ha  figliato 
(rum.  dac.  manza). 

kana  (7):  k.  de  pipe,  canna  da  pipa. 


NUOVE   POSTILLE    AL    DIZIONARIO   DELLE    COLONIE   RUMENE    d'iSTRIA        717 

k  erndt  (4),  (plur.  -t),  sanguinaccio;  o  non  "  salsiccia  „, 
che  vale  kob  a  site  (e  non  -ite). 

kerpa  (artic.)  e  kiirpa,  krpa,  plur.  —  e  {le)  è  rum. 
dac.  cirpà,  carpa. 

klin,  anche  k.  de  sekure  (8)  =  rum.  dac.  barba  de 
sècure. 

kluc,  designa  un  istrumento  rurale,  "  ku  ce  firn  se 
skobé  „. 

kope  de  fir,  non  vale  "  covone  „,  ma  "  fastello  di 
fieno  „  (pagliaio). 

kosivésku  {saka  ài),  mietere. 

kuii,  non  esiste  (il  Maj.  s'è  lasciato  traviare,  anche  qui, 
dalla  lingua  letteraria),  ma  solo  càvel. 

lakom,  fem.  -e:  l.  dupe  kàrna,  desiderosa  di  carne. 

lesa  (artic.)  (4,  8),  porta  di  vimini. 

live:  l.  vodina  (8),  cade  l'acqua,  piove. 

lupo n a  (8),  lupa. 

lu^i:  lavare  colla  liscivia:    io  luhesk  roba,  ptc.  -it. 

lupa  de  glinda  (5),  buccia  di  ghianda. 

mràh  (4),  brina:  ciide    kezut-a    mrazu. 

tnukla  (8),  rum.  dac.  muchi  a. 

obotu  (6),  rum.  dac.  obadà  (orlo  del  cappello). 

0 c^M A; ^M  (4),  malocchio:  là  àpa-n  glàh  si-I  resface 
de  0.,  "  prende  l'acqua  dal  bicchiere  e  lo  libera  dal  ma- 
l'occhio  „  (In  quest'acqua  si  mettono  di  solito  alcuni  pezzi 
di  carbone  ardente,  sette  o  nove).  Anche  il  verbo  dokld, 
col  significato  del  rum.  dac.  deochia;  io  m-am  endoklat, 
m-av  doklat  f etele,  te  ani  endoklat  {A, b),  io  diiklu; 
ciré  voi   a  duklat? 

oienit:  ola  s-av  o.  (8),  "  la  pecora  ha  partorito  „  ;  altre 
forme  non  ho  inteso. 


718  GIUSEPPE   POPOTICI 

okàle  (4),  occhiali. 

osor{u),  plur.  -e  (8),  caste   osore  g a  lira  fekut. 

OS  tra  de  sekure  (8),  il  taglio  della  scure. 

pan:; a,  plur.  -eie  (4),  ragno. 

pàrik{u),  plur.  -k  (4),  paio,  rum.  dac.  pàreche. 

pikùn  (4),  è  picone. 

pinzai  (4),  arare,  io  pluzesk,  rum.  ban.  a  plugàri 
da  plug. 

pokloni,  far  complimenti,  we  poklonesk,  li  s-a  po- 
klonit,  srb.  cr.  klanjam  se,  moj  naklon  =  mein 
Compliment. 

poiane  (4),  prato  =  rum.  dac.  poiana,  invece  srb.  cr. 
poljana  E  ben  e. 

polezeskii  (4),  nascere,  detto  dei  porci:  porci,  pór- 
kele  se  p.  Cfr.  zi  eh  e. 

potop  (6),  inondazione,  rum.  dac.  povoiu,  ban.  p ovàri 
(potop,  nel  rumeno  dacico  è  "  diluvio  universale  „). 

priku  (4),  rum.  ban.  purku,  attraverso,  p.  preste 
ape  =  ban.  purku  peste  ape   da    per  -\-  con? 

ratón{u),  plur.  -n  artic.  -hi  (4),  il  maschio  dell'anitra. 

romàn  (5)  =  rum.  dac.  roman.  (Calomel.). 

skurbe,  v.  grize. 

skobt,  rum.  dac.  se  obi,  grattare. 

stugni:  a  s.  foku  (4),  attizzare  il  fuoco. 

strela  (4),  lampo,  srb.  cr.  strijela,  slav.  eccles. 
strèla. 

strigón(u),  plur.  -n{i)  (4),  ban.  strigoh,  è  "  stri- 
gone „. 

suflà  (4),  soffiare. 

sti,  vale  anche  "  conoscere  „:  nu-l  sti?  "  non  lo  co- 
nosci? „  e  "  leggere  ,. 


NUOVE   POSTILLE    AL   DIZIONARIO    DELLE    COLONIE    UUMENE    d'iSTRIA        719 

sprat  (4),  un  s.,  vestite. 

stroliga  (artic.)  (4),  plur.  -e,  eie,  strega. 

tartoflin{u),  plur.  -u{i),  patate  piccole  che  si  danno 
ai  porci. 

tekni,  (4),  rum.  dac.  tigni. 

tiirs  (4),  tronco  di  vite,  nel  Banato  vale  "  palo  per 
fagiuoli  „, 

tortele  de  k  e  dar  e  (8),  ansa  di  caldaia. 

titait  (4):  ahute-me  pre  cela  làpte  ce  Domnu 
a  t.  ""  aiutami  in  nome  del  latte  che  Dio  ha  succhiato  „. 

UT  sona  (8),  orsa. 

vodina  (8),  pioggia.  Dal  srb,  cr.  r/ódina  =  tem- 
pestas  (cfr.  Budmani,  Rjecnik,  9,  236),  "  attraverso 
*guodina  „.  Cfr.  rum.  dac.  ni  o  vii  a,  dallo  slav.  eccles. 
mogyla,  "  attraverso  *tnoguila  „. 

zepusi  (4),  rum.  dac.  zàpusi. 

zmirkva  (4,  5),  abete. 

zrni  (6),  macinino,  srb.  cr.  hrni,  rum.  dac.  rtjnità, 
dallo  slavo  eccles.  zriiny  +  «^<*- 

Giuseppe  Popovici. 


BULLETTINO  BIBLIOGRAFICO 


RECENSIONI 

D"".   Idelfonso  Nieri,    Vocabolario  lucchese;  pp.  xlvii,  286;  Lucca, 
Giusti,  1901    *). 

Il  Nieri  è  riputato  per  altri  suoi  saggi,  da  una  schiera  di  studiosi 
ed  amici,  come  dotto  conoscitore  della  lingua  nostra  del  trecento, 
buon  traduttore  di  Teofrasto  e  finissimo  e  geniale  "  ricostruttore  ,  e 
narratore  di  novelle  lucchesi  sul  gusto  del  Sacchetti;  alcune  delle 
quali  ottennero  giustamente  d'essere  accolte  nelle  Antologie  di  Gio- 
vanni Pascoli  e  d'altri.  Il  libro  che  egli  ora  pubblica,  frutto  vera- 
mente di  lungo  studio  e  grande  amore,  è  un  molto  importante  e  bel 
contributo  agli  studj  della  dialettologia  italiana;  e  all'Autore  procu- 
rerà senza  dubbio  una  più  larga  e  diffusa  riputazione,  giacche  questa 
opera  sarà  d'ora  innanzi  citata  spesso  e  con  lode  dai  romanisti.  Ab- 
bondantissima e  ricca  di  cose  nuove  è  la  materia  raccolta  nelle  270  pa- 
gine del  testo,  che  è  in  quarto  e  a  due  colonne  ;  e  anche  uno  che  sia 
pratico  del  toscano  e  de'suoi  dialetti  vi  troverà  assai  da  imparare.  È  pre- 
ceduto il  Vocab.  da  una  Prefazione  e  conchiuso  da  un'Appendice  (pp.  iii- 
xLvii,  271-86),  due  discorsi  letti  alla  R.  Accademia  lucchese,  che  a  sue 
spese  procurò  l'edizione,  veramente  magnifica.  Nella  Prefazione  l'A., 
esposto  il  concetto  informatore  dell'opera,  passa  a  indicare  le  varietà 
dialettali  del  lucchese  (§  VI- Vili),  e  le  particolarità  fonetiche  e  mor- 
fologiche (§  IX-XXXIl),  per  poi  venire  alla  critica  de'  lessicografi  suoi 
predecessori  (ch'egli  accusa  soprattutto  d'aver  dato  spesso  come  luc- 
chese un  termine  tose,  comune  o  italiano  ^),  e  alla  descrizione  del  suo 


*)  Così  il  frontespizio;  ma  la  stampa  non  fu  a  termine  che  nello 
scorso  luglio;  o  il  libro  è  venuto  ora  in  luce. 

^)  È  un  difetto  in  cui  cade  più  volte  lo  stesso  Nieri  (tanto  è  vero 
che  a  noi  tutti  è  più  agevole  il  i-ilevare  gli  errori  altrui  che  l'evi- 
tarli); il  quale  a  torto  registra  come  lucchesi:  afjgeggio,  are.  agghia- 
dare, aggranfignare,  alloggiarci,  avvallare  ('  a.  una  cambiale  '),  bevic- 
chiare, bozzo,  cacchione  *,   cascame,    cica   cicala,  cutérzola,  dispensa  (il 

*)  Giacché  nell'es.  ivi  addotto  non  avrà  il  senso  di  '  castagna  intristita  sulla 
pianta  ',  come  mostra  credere  il  Nieri,  ma  quello  suo  solito  e  proprio  ('  verme  '). 


RECENSIONI  721 

proprio  metodo  (§  XXXIII-LXVI);  e  termina  con  siiggi  dei  singoli  testi 
antichi  e  moderni,  che  l'A.  adoperò  nella  compilazione.  Il  discorso  è  un 
po'  troppo  lungo,  ma  non  stanca,  perchè  animato  da  un  sentimento  vivo 
e  sincero;  e  a  ogni  modo  il  Nieri  dimostra  quasi  sempre  una  cono- 
scenza piena  e  sicura  del  suo  soggetto,  che  egli  padroneggia  assai 
bene.  Il  tratto  meno  felice  mi  par  quello  dove,  con  poco  metodo  e 
spesso  con  troppe  parole  e  in  modo  che  ora  sembra  ingenuo,  discorre 
de'  suoni  e  delle  forme,  ridicendo  suppergiù  quel  che  altri  aveva  già 
detto  in  proposito  (v.  Arch.  glott.,  XII,  107-34  e  161-74).  Per  citare 
un  solo  esempio,  nel  §  X  non  si  fa  che  ripetere,  disordinati  nella 
materiale  disposizione  alfabetica,  gli  esemplari  che  si  trovan  raccolti, 
razionalmente  discriminati  e  in  parte  spiegati,  a'  nn.  19-26  della 
'  Fon.  lucchese  '.  Nell'Appendice  si  toccano  o  si  ritoccano  diverse 
particolarità  grammaticali  del  dialetto  lucchese. 

A  vantaggio  d'una  seconda  edizione  dell'opera,  che  è  lecito  l'augu- 
rarsi prossima,  mentre  della  prima  non  restano  che  pochi  esemplai-i, 
oltre  che  metto  a  disposizione  dell'A.  alcune  centinaja  di  mie  vecchie 
schede,  stimo  bene  d'esporre  qui  una  parte  di  quelle  osservazioni, 
che  mi  furon  suggerite  da  un  attento  esame  del  '  Vocab.  lucchese  '  e 
che,  come  confido,  allo  stesso  amico  Nieri  parranno,  o  in  tutto  o  in 
parte,  ragionevoli.  Innanzi  tutto  dispiace  una  certa  trascuratezza,  che 
non  solo  si  mostra  poi  ne'  non  pochi  errori  di  stampa,  nelle  incon- 
gruenze grafiche,  nel  fatto  che  parecchie  voci  sou  fuori  della  loro 
sede  alfabetica  e  nelle  promesse  non  mantenute,  in  quanto  si  rinvìi 
da  una  voce  a  un'altra  che  poi  manca;  ma  che  risalta  subito  nel- 
r  Elenco  degli  autori  '  cercati  '.  Giacche,  essendo  essi  disposti  in  serie 
alfabetica  di  cognome,  Luigi  Fornaciari,  anziché  dopo  il  Fanfani,  oc- 
corre dopo  il  Lucchesini!  Così  alle  singole  voci,  mentre  di  regola  e  a 
buon  diritto  precede  la  definizione,  questa  poi  non  di  rado  segue 
all'esempio.  E  la  definizione  inchiude  talvolta  un  termine  del  vernacolo, 


'  mobile  '),  are.  forcelluto,  garba  (sorta  di  vaglio),  gattune  e  gohbone-i, 
are.  ghiova,  imbuzzare  e  sbuzzare,  impresciuttire,  insulsaggine,  luogo 
(podere),  lustrente,  maggiociòndolo,  manata  (percossa  con  mano),  mostri- 
dna,  pigione  (p.  dell'uva),  porticato,  prestarsi  (adoperarsi),  princisbecche, 
raffio  (forca),  ralla,  ricevuta  (il  recere),  rimessa  (r.  delle  piante),  ron- 
fare,  ruspare,  sano  (intiero),  sbraccettare,  sbraitone,  scassata,  scandiglio, 
schiappa,  sessantina  (agg.  di  '  granturco  '),  spricciare,  tacca  ('  di  mezza  t-  '), 
tassello,  zizzola;  e  parecchie  altre,  con  cui  s'allungherebbe  la  lista. 
Ma  il  Nieri  non  ebbe  a  mano  il  Voc.  del  Petrocchi,  cioè  quello 
tra'  nostri  che  gli  avrebbe  reso  i  migliori  servigi.  D'altra  parte  l'A. 
potrebbe,  a  sua  giustificazione  o  scusa,  osservare  che  la  viva  fioren- 
tinità di  diverse  voci,  registrate  dal  Petrocchi  sopra  la  linea,  è  lecito 
revocare  in  dubbio;  e  che  esse  spetteranno  più  propriamente  al  pi- 
stojese  e  con  esso  anche  non  di  rado  al  lucchese. 


722  BULLETTINO   BIBLIOGRAFICO 

riuscendo  oscura  a  tutta  prima  per  chi  non  sia  lucchese  (v.  a  rincic- 
ciorare,  sbefanata,  ecc.).  Così  al  metaplastico  inana,  ricordato  oppor- 
tunamente s.  mano,  s'assegna  anche  un  articolo  a  parte.  E  possuto  e 
puole  e  vuote  (volete),  anziché  andar  s.  potere  e  volere,  si  notano  di- 
stintamente. Di  serò,  sol  per  negare  che  questa  forma  verbale  sia 
dell'ant.  lucchese,  si  fa  un  articolo  a  parte  s.  «.E  un  articolo  circa 
la  pronunzia  zz  per  ss  (tazzare,  ecc.),  il  quale  doveva  se  mai  trovar 
luogo  s.  s  al  principio,  e  invece  s.  z  alla  fine!  Così  l'etimologia  di 
micca,  scodellata  di  minestra,  figura  assai  curiosamente  s.  scafagna. 
L'A.  poi  non  distingue  nella  scrittura  lo  z  (aspro)  dallo  z  (dolce),  e 
sebbene  quest'ultimo  sia  indicato  non  poche  volte  con  apposita  avver- 
tenza, pure  l'indicazione  è  non  di  rado  omessa  (v.  p.  es.  a  bazzarana, 
bronza,  faenza,  lampezzare  -zzìo,  razzaio  -ata  e  -ato,  zembo,  zemino,  ziz- 
zola) ;  e  la  confusione  s'accresce  per  ciò  che  alle  volte  si  credè  bene 
di  notare  anche  l'altro  suono  del  z  (v.  per  es.  a  lezza,  lézzora  e  pap- 
pazzucco).  Anche  di  s  intervocalico  son  per  egual  modo  confuse  del 
tutto  nella  scrittura  le  due  diverse  pronunzie. 

Erano  poi  da  omettere  alcune  voci,  che  niente  altro  sono  se  non 
le  normali  varietà  fonetiche  lucchesi  delle  corrispondenti  voci  italiane, 
come  polléssora  -ezzola  (ali.  a  -Izzora),  spàzzora  -orino  -orare  (che  se 
mai  sonerebbe  spàssora  nello  schietto  vernacolo).  Di  molte  altre,  che 
non  sono  del  lucchese  comune,  ma  di  territorj  ben  più  ristretti,  bi- 
sognava indicar  sempre  la  provenienza  o,  se  non  altro,  designare 
alcuno  de'  paesi,  dove  un  dato  vocabolo  è  in  uso.  Tale  ad  esempio 
è  góvoro,  parte  superiore  di  ciascuna  gamba  davanti  del  cavallo  (forse 
da  cubi  tu,  mutato  il  suff.),  onde  sgovorato,  spallato;  e  tale  anche  è 
zemo  molle  (rinforz.  di  'bagnato');  voci  che  io  con  parecchi  altri 
lucchesi  ignoravo  e  che  s'odono,  come  il  Nieri  stesso  m'avverte,  al 
Ponte  a  Moriano  e  in  quei  pressi.  In  qualche  caso  l'informazione  anche 
non  appare  abbastanza  estesa  e  sicura.  Così  cita  egli  dichiarire  (si  dice 
soltanto  a  dich-,  a  caso,  come  tocca  tocca)  dal  Bianchini,  e  sgrotolare, 
sgret-  e  tumelài,  disadatto,  minchionciotto,  sull'autorità  dello  Stefani, 
confessando  che  non  conosce  queste  voci,  le  quali  anche  oggi  a  Lucca 
sono  vivissime.  Lo  stesso  è  a  dire  di  rinfuga,  che  l'A.  dà  come  voce  usata 
a  Chifenti!  E  bucina,  giovenca,  non  è  soltanto  della  lingua  infantile, 
ne  cinino  majale,  soltanto  della  '  dictio  ludicra',  ma  son  dell'uso  ge- 
nerale in  certi  paesi  del  contado.  Altre  voci  che  l'A.  avrà  udito,  più 
che  in  altri  luoghi,  al  suo  nativo  Ponte  a  Moriano  o  da  quelle  parti 
(come  ludro,  morbino,  sghei,  ecc.)  sono  stridenti  neologismi  importati 
dall'Alta  Italia.  Negli  opificj  del  Ponte  a  M.  e  del  Piaggione  abbon- 
dano gli  operai  non  lucchesi,  massime  gli  emiliani;  e  non  fa  mera- 
viglia, se  qualche  loro  vocabolo  attecchisce  e  passa  nel  linguaggio 
comune.  Tra  poche  diecine  d'anni,   è   lecito   supporre,  codesta  infil- 


RECENSIONI  723 

trazione  esotica  sarà  molto  più  copiosa:  un  fatto  questo,  che  dovranno, 
per  il  giusto  criterio  storico  e  ad  evitar  curiosi  abbagli  e  illusioni, 
aver  ben  presente  gli  studiosi  avvenire  del  lucchese. 

Ma  questo  del  Nieri  anche  vuole,  di  tratto  in  tratto,  essere  un  Vo- 
cabolario etimologico.  Benché  l'A.  per  lo  più  s'attenga  a  buone  auto- 
rità (Ascoli,  Flechia,  Parodi,  ecc.),  non  ha  però  saputo  resistere  alla 
tentazione  d'etimologizzare  anche  per  conto  suo;  e  non  di  rado,  mi 
pare,  infelicemente.  E  così  molte  osservazioni  fonetiche  o  morfolo- 
giche 0  di  più  larga  ragione  linguistica,  o  non  persuadono  affatto 
0  son  molto  discutibili;  e  ad  ogni  modo  si  potevano  tralasciare  con 
vantaggio.  Mi  sia  consentito  d'addurre  parecchi  esempj  ;  tanto  più 
che  questo  d'una  cotal  pretensione  dottrinale  è  secondo  me  il  difetto 
men  lieve  dell'opera  che   esaminiamo. 

(Pg.  5  s.  abbracchire).  L'it.  bracco,  che  rispecchia  l'equivalente  germ. 
b  r  a  k  k  0,  diffuso  su  gran  parte  del  territorio  neolatino  (v.  Kort.'- 1541), 
per  l'A.  è  derivato  da  f  1  a  e  e  u  s;  etimologia  foneticamente  impossibile 
e  di  cui  per  altra  parte  non  si  sente  alcun  bisogno,  giacche  in  ter- 
mine relativo  alla  caccia  l'origine  germanica  è  quanto  mai  verosi- 
mile.—  (Pg.  11).  L'epentetico  r  d'allegrire,  allegare  dei  denti,  che  a 
Lucca  si  dice  comunemente  anneghire  (non  registrato  dal  Nieri)  è 
ripetuto  da  influsso  d'allegro,  senza  che  ben  si  veda  per  qual  rela- 
zione ideale  tra  le  due  voci  !..  —  (Pg.  27  s.  battimo).  Si  cita  plaga, 
in  senso  geografico  (cioè  p  lag  a),  che  si  fa  procedere  dalla  rad.  plàg 
percuotere,  quasi  fosse  plaga  (efr.  Arch.  XV,  182).— (P.  28).  L'A.  dichiara 
belléndora,  farfalla,  da  *b  e  1 1 1  n  u  1  a  ('  bellu  '),  senza  esser  trattenuto 
dalla  strana  inverosimiglianza  che  è  nel  supporre  un  così  antico  '  di- 
minutivo doppio  '  di  b  e  H  u,  il  quale  per  di  più  avrebbe  dovuto  dar 
*bellin(lora  (forma  che  per  semplice  errore  di  stampa,  fuor  del  posto 
che  a  lei  spetterebbe  nella  serie  alfabetica,  occorre  in  Fanf,  u.  t. 
come  data  dal  Bianchini  e  che  in  Petrocchi  si  trasfigura  anche  peggio, 
spostato  l'accento,  in  bellindòral)  ;  e  ad  ogni  modo  cfr.  Arch.  XII,  127 
(ricordando  anche  ballaena  qpóXXaiva,  Lindsay  ii,  60).  —  (Pg.  36). 
Rispetto  a  brània,  brama,  piana  (sost.),  si  riconosce  la  metatesi  nella 
seconda  forma  ;  laddove,  se  dobbiamo  partire  da  *b  r  a  g  ì  n  a,  come 
r  A.  sembra  ammettere,  sarà  proprio  il  contrario  (cfr.  pània  da 
pdina,  ecc.)! —  (Pg.  39).  Si  deriva  bugnare  mugghiare,  brontolare,  da 
bugno  arnia.  Non  sarà  invece  che  una  variante  di  biigliare  (Salvini  ; 
V.  il  Voc.  it.);  e  cfr.  il  lucch.  ragnare  di  rimp.  all'it.  ragliare.  Ap- 
presso, per  etimo  di  burbdndola,  specie  di  coleottero,  si  esibisce  bur- 
banza\...  —  (Pg.  48).  A  proposito  di  casti'o  castigo,  vi  s'avverte,  quasi 
un  fatto  fonetico,  il  passaggio  della  media  in  tenue,  mentre  non  ab- 
biamo qui  che  sostituzione  di  suffisso  (a  casticare,  cfr.  faticare,  leti- 
care, ecc.)  —  (Pg.  51  s.  chiappare).  Nell'esempio:    '  Preparate   tutto, 


724  BULLETTINO   BIBLIOGRAFICO 

chiappa  che  torni  stasera  ',  il  chiappa  non  sarìi  3  pers.  ind.  col  senso 
di  '  può  accadere,  è  possibile  ',  come  crede  il  Nieri,  ma  2  impv.  col 
senso  di  '  ammetti,  supponi  '  (cfr.  pigliare,  OnoXaupdviu,  ecc.)  —  (Pg.  52). 
Rispetto  al  fenomeno  che  è  in  chiebhito  per  tiebhito,  tiepido,  si  cita 
crischiano  per  cristiano,  dove  l'alterazione  è  avvenuta  in  condizione 
assai  diversa;  e  si  dà  poi  schioppo  qual  succedaneo  di  stioppo,  mentre 
è  proprio  il  contrario,  come  tutti  sanno  (v.  Kòrt.^  8497).  —  (Pg.  72). 
Per  émhora  ed  embra,  specie  d'arbusto,  si  considera  come  epentetica 
la  prima  forma.  0  se  fosse,  invece,  sincopata  la  seconda?...  A  ogni 
modo  non  è  certo  che  sgumhoro,  citato  a  riscontro,  stia  per  sgombro, 
anzi  che  viceversa  (v.  Kòrt.-  2351  e  2676).  Le  stesse  voci  ritornan  poi 
più  innanzi:  Umbora  e  Umbra,  dove  l'A.  vede  l'articolo  agglutinato. 
Con  ugual  diritto  si  potrebbe  supporre,  al  contrario,  che  le  altre 
due  forme  sian  sorte  per  discrezione  dell'articolo.  Come  ha  fatto  il 
Nieri  a  decidere,  ignorando  l'etimologia?  —  (Pg.  92).  L'origine  di 
gromigno,  comignolo,  da  culminpu  potrà  anche  parere  non  im- 
probabile. Ma  dovendosi  supporre  la  forma  intermedia  *gormigno,  col 
passaggio  (non  antico)  di  l  in  r  din.  a  consonante  (v.  Arch.  XII,  118), 
non  potrà  aver  dato  il  nome  al  mt.  Gromigno,  che  è  ricordato  prima 
del  mille,  fin  dal  787,  come  Gruminit)  (forse  da  legger  Gram-).  Ed  è  poi 
peregrina  la  notizia  che  l'A.  ci  dà  dell'esistenza  di  Segromigno,  con  la 
scorta  d'un  documento  assai  tardivo  (1186)!...  Cfr.  Suppl.  Arch.  V, 
127.  —  (Pg.  107).  Si  spiega  inzuffìlare  da  sibilare,  anzi  che  da  s  i- 
filare.  Impossibile,  come  mostra  il  luogo  dell'Arch.  a  cui  l'A.  stesso 
rimanda.  —  (Pag.  109).  Quanto  a  lari  ladri  !  (termine  di  giuoco  ; 
V.  Arch.  XII,  123),  mi  fa  meraviglia  che  all'A.  sia  ignota  questa  im- 
portante forma.  Giocando  a  '  pomba  e  ciccia  ',  quelli  che  devono  esser 
rincorsi  gridano  lari,  cioè  '  ladri  ',  che  sono  essi  (gli  altri  sono  i 
'  birri  ').  Codesto  giuoco  si  dovè  anche  a  Lucca  chiamare  dei  Birri  e 
Ladri,  come  si  chiama  tuttora  altrove.  —  (Pg.  113).  Per  linchetto,  in- 
cubo, dim.  di  lineo  (v.  Arch.  XII,  130),  si  suppongono  le  fasi  ante- 
riori *incubetto  *incuetto,  a  cui  non  si  può  pensare  senza  sorridere.  E 
poiché  l'A.  cita  il  Caix  (st.  119-20)  ed  il  Flechia  (Arch.  II,  10  n),  si 
direbbe  che  egli  abbia  voluto  farli  suoi  complici  in  codesto  tentativo. 
—  (Pg.  122).  L'a  protonico  di  matraglia  mi-  è  attribuito  a  infl.  del 
ni.  Matraglia  -aja  !  —  (Pg.  130  s.  Naguiléa).  In  asso  della  frase  '  la- 
sciare in  asso  ',  se  da  Nasso,  abbiamo  un  caso  di  discrezione,  e 
perciò  non  può  quest'esempio  stare  con  ninferno  nabisso  ecc.,  che  al 
contrario  ci  olirono  concrezione  d'ijn.  —  (Pg.  132).  Il  Nieri  mostra  di 
credere,  a  gran  torto,  che  il  lucch.  ni  (a  lui,  a  lei,  a  loro)  sia  da  gli, 
per  la  curiosa  trafila  di  gliele  gnene  gnine,  mentre  è  da  inde;  v.  Arch. 
XII,  163  (cfr.  M.-Lùbke,  II,  104).  Più  innanzi  v'è  data  come  certa 
l'origine  del  misterioso  nlfito,  inquieto,  stizzoso,  da  niffo;  alla   quale 


RECENSIONI  725 

non  conferiscono  probabilità  alcuna,  perchè  sconvenienti  dal  lato  mor- 
fologico, i  supposti  paralleli  musone  e  itKjrugnato.  —  (Pg.  134  s.  olo  -a). 
In  hrenciùglioro  e  ciortcllora  si  trova  r  all'uscita,  non  perchè  essi  son 
quadrisillabi,  come  all'A.  sembra,  ma  per  dissimil.  dal  gli  (/)  e  dal  //. 
—  (Pg.  136).  L'ottato,  it.  dottato,  agg.  di  '  fico  ',  anche  per  l'A.  vien  da 
optatu  odeoptatu,  come  se  ciò  fosse  la  cosa  più  certa  del  mondo 
(cfr.  Arch.  XV,  168  ').  —  (Pg.  148).  In  piggia  -o,  piìi  cose  messe  in- 
sieme, fagotto,  si  vede  contro  ogni  verosimiglianza  un  allòtropo  di 
piccia.  Considerato  il  sinon.  suo  piggello,  mal  separabile  da  piggia  -a, 
potrebbe  quest'ultimo,  secondo  una  teoria  cara  al  Nieri,  non  essere 
che  un  presunto  positivo,  ricavato  da  piggello;  e  cfr.,  oltre  Caròla 
e  Carola,  Catèra  e  Ccitera,  Giovacco,  Pellégro,  anche:  huccello  buccellato, 
susa  susina,  ecc.  Del  resto,  che  da  piggello  si  risalga  a  p  u  g  i  1 1  u, 
come  pose  il  Caix,  forse  crederemo  ora  assai  meno.  —  (Pg.  149). 
Per  p'iolare ,  pigolare  ,  dall'  A.  s'  attribuisce  con  poca  carità  allo 
scrivente  quell'etimo  che  egli  propose  per  piulare  ipjul-,  onde  2)juli 
-a  ecc.),  lamentarsi:  plorare;  cfr.  Arch.  XV,  386  n.  —  (Pg.  151). 
Si  pensa  a  derivar  pisigno  pisz-  da  bizza,  sul  fondamento  della  forma 
bizzigno  (Valdinievole),  il  quale  invece  non  sarà  che  pizzigno,  rac- 
costato se  mai  a  bizza  (ma  cfr.  bicci  piccioli,  biccigna  bazzecola).  Da 
bizzigno,  per  via  fonetica,  non  si  poteva  mai  venire  a  pizzigno  ;  che 
sarebbe  un'alterazione  regressiva  o  ascendente,  di  cui  forse  non  riu- 
scirebbe d'addurre  altro  esempio.  —  (Pg.  156).  Le  forme  prati-  e  preti- 
sémina,  prezzemolo,  si  dichiareranno  per  semplice  evoluzione  fonetica; 
e  non  ci  sarà  bisogno  di  ricorrere  alla  '  falsa  analogia  ',  come  l'A. 
dice,  di  prato  e  prete  e  di  seminare  !  —  (Pg.  168).  A  etimo  di  rigno, 
cattivo  odore  (cfr.  Arch.  XII,  132)  si  propone  ferigno.  Ma  la  sillaba 
iniziale,  qui,  come  sarebbe  caduta?  Giacche  l'aferesi  non  si  può  am- 
metter senza  una  ragione  probabile  (discrezione  dell'articolo  o  d'una 
preposizione,  ecc.).  A  codesto  modo  il  campo  dell'etimologia  verrebbe 
molto,  e  molto  comodamente,  allargato!...  —  (Pg.  169  s.  rimbozzare). 
Si  pensa  a  connettere  il  tose,  bozzo,  accolta  d'acqua  stagnante  (voce 
ancora  del  tutto  enimmatica)  e  il  sinonimo  sassar.  poggu  col  lat. 
p  0  d  i  u,  senza  riguardo  alcuno  dell'enorme  distanza  che  ne  separa  i 
significati.  —  (Pg.  175).  Per  la  cons.  iniziale  di  roventare  dov-,  se  sta 
bene  il  riscontro  con  rivertirsi  div-,  perchè  in  ambedue  s'ebbe  scambio 
con  r-  prefisso;  non  regge  però  l'altro  con  mirollo  mid-,  dove  è  una 
vera  alterazione  fonetica.  —  (Pg.  176).  La  rugghia,  rasiera,  sarebbe 
direttamente  da  r  e  g  ìi  1  a.  Impossibile.  Forse  essa  è  il  nome  estratto 


^)  È  voce  per  me  sempre  oscura.  Forse  è  da  un  nome  locale  (cfr.  Ot- 
tati,  Salerno)  o  da  un  personale  (cfr.  alamanna,  seral-  e  salamanna, 
l'uva  così  detta  da  Ser  Alamanno  Salviati). 


726  BULLETTINO    BIBLIOGRAFICO 

da  nujghiare,  pareggiare  lo  stajo,  spiegabile  da  r  u  ij'  l  ar  e  =  x  e- 
g  u  1  a  r  e,  o  sia  con  metatesi  delle  due  prime  vocali  sorta  nelle  forme 
rizàtone,  o  con  w  anche  in  prima  sillaba  per  assimilazione.  — 
(Pg.  185).  Da  shuccicare,  scivolare,  si  rimanda  con  giusta  ragione  a 
f<fng<]ìcare  (da  'exfugicare,  cfr.  sfuggire  detto  del  piede  che  sci- 
vola), derivandolo  poi  senz'altro  da  buccia,  da  cui  fu  promossa  bensì 
(ma  niente  di  più)  l'alterazione.  La  forma  sfuggicare,  che  è  la  più 
diffusa  e  comune,  di  certo  non  si  potrebbe  ripeter  da  shuccicare.  — 
(Pg.  186  s.  scancio).  L'etimo  di  guencire,  che  è  l'aat.  wenkjan,  è 
attribuito  con  curiosa  confusione  a  schencire  (v.  Kòrt."  10375  e  9303). 
—  (Pg.  190).  Lo  scervallato,  per  cui  si  fa  un  articolo,  adducendo  un 
esempio  di  Luigi  Fornaciari,  Lett.  71,  non  sarà  che  un  errore  di 
stampa  (il  '  come  qui  diciamo  '  s'adatta  benissimo  a  scervellato,  che 
non  tanto  era  ed  è  italiano  quanto  lucchese).  —  (Pg.  193).  Per  scia- 
bigotto,  balordo,  grullo,  si  pensa,  modificando  una  proposta  del  Caix, 
a  sci(i[pito]  -\-  bigotto.  Se  non  che  bigotto  non  vi  quadra  punto  per  il 
significato.  Se  non  mi  paresse  ostare  l'equival.  sciabica  attestato  dal 
Lucchesini  (cfr.  Arch.  XII,  132),  crederei  ora  piuttosto  che  senz'altro 
s'abbia  qui  sciap-  sciabidotto  (e  sciapito  è  forma  caratteristica  luc- 
chese), con  (/.  0  per  dissimilazione  o  per  infl.  di  qualche  sinonimo.  — 
(Pg.  209).  Il  verso  del  Fucini,  son.  IV:  '  E  si  scappa  a  godessi  a  San  Ma- 
rino ',  non  par  che  sia  bene  scelto  come  esempio  del  si  =  ci  (noi.  a 
noi),  che  è  proprio  anche  del  pisano  e  del  livornese  (cfr.  Arch.  XII, 
163  e  '76).  Lì  godessi  vorrà  dir  '  godersela  '  e  il  si  sarà  pron.  di 
3*  pers.  Più  innanzi,  a  dichiarare  sinibbio,  sizza,  vento  gelato  (un 
altro  duro  problema  etimologico),  si  pensa  asine  nebulo!  ...*)  — 
(Pg.  214).  Per  sovici,  sostegni  delle  botti  (it.  '  sedili  '),  cfr.  Arch.  Xll, 
133,  s'insiste  sull'etimo  del  Caix,  subliciu;  dal  quale,  assoluta- 
mente, non  si  poteva  venire  ad  altro  che  a  *sovecci  (a  "sovicci,  dato 
l'i),  non  a  quella  forma  col  semplice  e  che  è  sovi'ci.  Ove  si  debba 
proprio  partire  dal  parossitono,  bisognerà  rinunziare  a  sùbìces 
'  cose  sottoposte  '  (etimo  dato  già  dallo  scrivente  e  accolto  dal 
M.-Lubke,  Gr.  it.  83).  Del  resto,  potremmo  anche  supporre  accento 
protratto  ;  o  anche  pensare  a  sublicae  -es,  travi  da  sostegno  (forse 
corrad.  a  sudes  stanga,  palo;  v.  Stolz,  I,  271),  supponendo  che  il 
suffl.  derivativo  (-i  k-)  avesse  qui  vocal  lunga  (e  non  breve,  come  se- 
gnano i  lessici,  senza  l'autorità  di  nessun  poeta).  —  (Pg.  239).  Si  fa 
risultare  tràmice,   tralcio ,    da   fusione    di    tramite    e    tradùce. 


')  La  var.  zenibbo,  della  Versilia,  se  la  voce  provenisse  di  là,  po- 
trebbe accennare  a  una  l)ase  in  -I  p  u  (cfr.  ivi  ribba  ripa,  ecc.).  Anche 
il  Petrocchi  registra  sinibbio  sopra  linea  (e  sarà  voce  viva  del  pi- 
stojese),  come  '  vento  con  neve  '  e  '  neve  polverizzata  dal  vento  '. 


RECENSIONI  727 

Sarà;  ma  non  trovo  che  il  primo  di  questi  due  termini  abbia  mai 
significato  qualche  cosa  di  simile  a  '  tralcio  '  ').  —  (Pg.  246  s.  va).  La 
riduzione  di  k-tt  iniziale,  preceduto  da  vocale,  a  v  si  dà  ivi  per  luc- 
chese, ma  dello  schietto  pianigiano  lucchese  non  è.  11  quale,  per 
esempio,  non  dice  di  vi  (di  qui),  ma  di  ui.  A  ogni  modo  è  curiosa 
la  spiegazione  che  si  offre  del  fenomeno:  '  la  gutturale  q  fu  perduta 
nell'aspirazione  e  la  ii  fra  due  vocali  passò  nella  sua  semivocale  '  ^). 
E  avrei  materia  per  seguitare  così  un  bel  pezzo.  Ma  le  mende  di 
vario  genere  notate  finquì,  e  le  altre  che  si  potrebber  notare,  riu- 
scirà agevole  il  correggere,   essendo  più  '  eccessi  '    che    '  difetti  '  ;  e 


')  Ecco,  a  ogni  modo,  parecchi  belli  esemjjj  di  contaminazione  o 
fusione  di  sinonimi,  Jall'A.  non  rilevati:  borborare  (3  prs.  bórbora), 
gorgogliare  del  ventre,  da  mormorare  e  borbottare  -ogliare;  fonfolena, 
da  fanfaluca  e  falena;  ghiomella,  da  giomella  e  ghiomo  (cfr.  Arch.  XII, 
129)  ;  guattire,  che  esprime  la  voce  del  cane  quando  ha  trovato  un 
fiato,  da  guaire  e  squittire  ;  mastucare  (3  prs.  mastùca),  da  masticare  e 
mandu-  manucare;  profe'rgere,  offrire,  da  proferire  e  porgere;  quider no 
varj  fogli  di  carta  insieme,  da  quaderno  e  quinterno.  E  il  Nieri, 
s.  bilurcio,  bene  spiega  sbilurciare,  da  sbiluciare  e  sbirciare. 

^)  Superfluo  l'avvertire  che  Vu  di  qui  quando  questo  ecc.  è  esso  una 
'  semivocale  '  (ad  evitare  ambiguità,  meglio  forse:  una  '  semisonante  ',  u , 
che  nel  caso  rostro  passa  in  sonante  v).  — Del  resto,  con  tutto  l'eti- 
mologizzare di  cui  abbiamo  dato  un  saggio,  avviene  spesso  che  l'A. 
trascuri  altre  proposte  etimologiche,  che  almeno  in  parte  egli  non 
dovrebbe  ignorare  e  che  ben  poteva  ricordare,  se  non  altro  per  con- 
traddirvi. Eccone  qualche  esempio,  con  la  relativa  citazione:  agrilegto, 
Sappi.  Arch.  V,  93  s.  laurus  (aggiungendo  che  un  lagro,  da  *lavro, 
lauro,  e  attestato  dal  Mattioli;  v.  Targ.-Tozz.) ;  bigórdolo  e  bilào, 
Arch.  XII,  128;  bofonchio,  Suppl.  Arch.  V,  111  s.  bubulus;  calaverna, 
NiGRA,  Arch.  XIV,  276;  capitar  solo,  Suppl.  Arch.  V,  112;  catro,  Arch.  XII, 
118  e  XV,  386  n;  cincinpótora  e  condominare,  Arch.  XII,  128  e  '29;  debbio, 
Suppl.  Arch.  V,  146;  dindellare,  Arch.  XV,  216;  féuto,  ib.  \^\;  fórforo, 
Arch.  XII,  129;  fregiane,  Zeitschr.  XXIV,  142  (cfr.  Arch.  XVI,  170); 
gavina.  Mise.  Asc.  431  ;  gavonchio,  Arch.  XII.  173  ;  gongolare,  Arch.  XV, 
216;  gorro  e  gronchio,  Arch.  XII,  129  e  '30;  guspélloro,  ib.  172;  in- 
caracchiato,  ib.  130;  ingudnguaro,  Flechia,  Arch.  Ili,  175;  lappare, 
Arch.  XII,  157  s.  lappula;  leto,  ib.  125  n;  lucia,  Arch.  XV,  150  n; 
mantrugiare.  Mise.  Asc.  433;  pecchia,  Arch.  XII,  172  n  (cfr.  XIII,  400); 
pillàccara  e  pionso,  ib.  131;  polUzzora,  Suppl.  Arch.  V,  99;  pomba, 
Arch.  XV,  144  s.  bomba;  rantacchio,  Arch.  XII,  132:  sbonchio.  Mise. 
Asc,  489  ;  smergolare,  Arch.  XIT,  133;  s(o««ca/v,  Salv.,  Nuove  postille 
s.  sumere;  trabocca,  Arch.  XV,  203;  vagellare,  ib.  206.  Ne  raro  è  il  caso 
che  l'A.  (e  certo  per  mera  disattenzione)  ripeta,  tralasciando  ogni  ri- 
chiamo, cose  già  osservate  dallo  scrivente  nella  '  Fon.  lucchese  '  ed 
altrove.  Per  averne  pochi  esempj  tra  molti,  vedi  s.  abbacchio,  anne- 
'  ghire,  barasciare,  billora,  copo,  culi'gnoro,  deli'co,  limo,  sborniare 
(Suppl.  Arch.  V,  121  s.  bornio),  scaciato  (Mise.  Asc.  443  n),  scedra, 
tieulo,  tràccola. 


728  BULLETTINO    BIBLIOGRAFICO 

tanto  più  che  non  si  devono  per  nulla  imputare  a  mancanza  di 
perspicacia  e  d'ingegno,  giacche  TA.  n'ha  da  vendere.  E  abbon- 
dano del  resto  le  osservazioni  giuste  ed  acute,  come  il  lettore 
vedrà  scorrendo  il  '  Vocabolario  lucchese  ';  e  non  mancano  neppure 
le  nuove  e  probabili  etimologie.  Così  saranno  ben  dichiarati  :  auscare, 
sbirciare,  da  l]usco,  quantunque  la  perdita  di  l  iniziale  per  confusione 
con  l'art,  sia  meno  ovvia  in  aggettivo;  ho-  o  bucina,  giovenca,  da 
*b  u  e  I  n  a,  cioè  b  u  e  u  1  a  con  diverso  suffisso  (cfr.  però  Arch.  XV.  144); 
^raspollo  da  raspollo,  col  g  dell'equival.  gràppolo.  Inoltre:  menno, 
inetto,  citrullo,  da  Menno  (accorciamento  di  '  Domenico  ')  *);  jnccitiolo, 
vinello,  in  quanto  sia  (come  è  sempre  parso  anche  a  me)  un  allo- 
tropo di  picciolo,  a  cui  starà  come  corgnolo  a  córgnolo,  muricciuolo  a 
muricciolo,  nocciuolo  a  nòcciolo,  e  simili  (in  contrario  v.  Salvioni, 
Zeitschr.  XXIII,  523);  garfagn.  pera,  trottola  (lucch.  prillo),  da  piru, 
con  cui  par  confermata  l'origine  ài  prillare  da  *pirinulare  (cfr. 
NiGRA,  Arch.  XIV,  294  e  359),  o  piìi  semplicemente,  da  *p  i  r  u  1  a  r  e. 
Tra  le  cose  notevoli,  messe  in  luce  dal  Nieri,  c'è  anche  qualche 
base  latina,  che  passerà  ad  arricchire  il  Voc.  romanzo.  Tale  è  t  e- 
g  è  r  e,  che  si  rispecchia  nel  pieno  e  sonante  tieggere  o  chieggere, 
coprire,  di  Pescaglia  ed  altri  paesi  vicini. 

Novembre  1902.  Silvio  Pieri. 

V.  Gian,  Vivaldo  Belcalzer  e  l'enciclopedismo  italiano  delle  origini, 
Loescher,  1902  (Estr.  dal  Supplemento  n.  5  del  Giorn.  Stor.  della 
leti.  ital.). 

A  messer  Vivaldo  Belcalzer,  notaio  mantovano,  qualche  cenno  fu- 
gace ed  incerto  dedicarono  eruditi  del  secolo  XVIII  e  del  principio 
del  XIX.  Ma  Vittorio  Gian  perviene  a  fissare  per  entro  un  periodo  che 
va  dal  1279  al  1308  alcune  date  relative  alla  vita  di  lui;  la  sua  figura 
di  studioso  mette  a  campeggiare  in  un  quadro  di  quel  che  fu  la  cul- 
tura mantovana  al  suo  tempo,  e  la  sua  opera  di  volgarizzatore  d'una 
delle  più  pregevoli  enciclopedie  medievali  compiutamente  illustra  per 
ogni  lato. 

L'enciclopedia  che  il  Belcalzer  attese  a  ridurre  in  volgare  è  quella 
compilata  col  titolo  De  proprietatihus  rerum  dal  minorità  Bartolomeo 
Anglico,  inglese  di  nascita,  secondo  il  Gian,  non  francese,  benché  vis- 
suto a  lungo  in  Parigi  per  ragioni  di  studio.  Messala  a  confronto  con 


')  Il  Nieri  insiste,  credo  con  ragione,  su'  nomi  proprii  che  vennero 
a  dire  '  inetto,  balordo  ',  ripigliando  e  modificando  un'idea  non  nuova 
(cfr.  Arch.  XV,  174);  e  adduce  basti  ano ,  bennardo  -ardone,  brogio 
(anche  fior.),  giorgio  -one,  pasquale  ed  altri.  Gon  essi  manderemo  anche 
mommo,  che  deve  esser  '  Girolamo  '  (cfr.  il  lomb.  e  ven.  Mómolo). 


RECENSIONI  729 

quella  ben  più  nota  di  Vincenzo  de  Beauvais,  crede  il  Gian  di  poterle 
assegnar  dei  vantaggi  che  in  qualche  modo  ne  compensano  il  difetto 
relativo  d'ampiezza  ;  e,  dimostrata  l'importanza  ch'essa  ebbe  nel  mo- 
vimento "  enciclopedico  „  italiano  dei  secoli  XIII  e  XIV  (movimento 
ripartito  di  fatto  in  due  correnti,  l'una  indigena,  l'altra  straniera, 
essendo  però  ben  più  copiosa,  tra  le  due,  la  seconda),  passa  egli  a 
render  minuto  conto  dei  procedimenti  che  il  Belcalzer  seguì  nell'opera 
sua  di  volgarizzatore,  qua  e  là  tagliando  e  riassumendo  con  notevole 
destrezza,  altrove  facendo  discretamente  posto  a  qualche  giunterella 
suggerita  da  sentimento  d'amor  regionale  o  municipale. 

Ma  ben  s'intende  come  una  tale  opera  non  possa  uno  studioso  ita- 
liano aver  tra  le  mani  senza  che  il  suo  pensiero  si  rivolga  di  tratto 
in  tratto  agli  scritti  di  Dante  e  in  ispecie  alla  Coininedia,  dove,  av- 
vivata dall'arte  mirabile,  fu  trasfusa  tanta  parte  del  sapere  di  quel 
tempo.  E  bene  opportuna  appar  quindi  l'esplorazione  dal  Gian  pra- 
ticata attraverso  il  De  proprietatibus  per  cercarvi  riscontri  alla  ma- 
teria scientifica  da  Dante  elaborata.  Gopiosi  ed  interessanti  essi  sono  ; 
e,  quand'anche  fossero  in  massima  parte  spiegabili  mediante  identità 
0  somiglianza  di  fonti,  costituirebbero  nel  loro  insieme  una  prova 
ben  concreta  di  quanto  largamente  attinse  Dante  alla  scienza  corrente 
del  tempo  suo  ;  laddove  dalla  legione  ogni  dì  più  crescente  degli  en- 
tusiasti forse  poco  sinceri,  certo  poco  curanti  della  verità  e  nemici 
delle  fatiche  che  la  ricerca  di  essa  impone,  gli  si  vuole  attribuire 
un'assoluta  originalità  in  uno  sconfinato  campo  di  sapere. 

Le  pagine  che  inducono  a  tal  conclusione  son  tra  le  più  com- 
mendevoli  di  <(uesta  memoria,  dove  però  anche  il  glottologo  tro- 
verà buona  materia  per  se,  in  quanto  il  volgarizzamento  di  messer 
Vivaldo,  dal  quale,  oltre  a  copiosi  estratti,  derivò  il  Gian  un  abbon- 
dante glossario,  ha  diritto  d'esser  considerato  come  il  più  fedele  rap- 
presentante del  vernacolo  mantovano  ai  tempi  di  Dante.  E  in  vero, 
il  Belcalzer,  non  avendo  certo  in  mira  quel  tipo  di  lingua  letteraria 
che  Dante  atìannosamente  cercava  a  traverso  l'intricata  selva  dei 
parlari  italici,  nò  alcun  modello  di  lingua  letteraria  di  fondo  toscano, 
si  trovò  di  fronte  a  due  termini  nettamente  distinti:  il  latino  e  il 
volgar  mantovano  ;  nettamente  distinti  di  per  se  e  nell'intenzion  del 
volgarizzatore,  il  quale  sarebbe  contravvenuto  allo  scopo  dell'opera 
propria,  quando  v'avesse  lasciato  sensibilmente  penetrare  la  lingua 
dotta  dell'originale  ch'egli  si  proponeva  di  metter  alla  portata  di 
tutti  in  tutti  i  suoi  particolari.  E  con  questo  è  anche  da  considerare 
che  la  versione  del  Belcalzer  ci  fu  conservata  in  un  manoscritto  dei 
primi  del  trecento,  il  quale  ha  valor  d'autografo  in  quanto  eseguito 
sotto  gli  occhi  dello  stesso  Belcalzer. 

E  poiché  sono  a  parlar  della  lingua  del  volgarizzamento  ecco  qualche 

studi  ài  Jiiolofiiii  rumanea.  IX.  40 


730  BULLETTINO    BIBLIOGRAFICO 

osservazione  sui  brani  pubblicatine  in  appendice  e  sul  glossario.  A 
p.  145,  r.  9,  sarà  forse  da  leggere:  com  è,  gite...;  a  p.  150,  r.  21, 
corod  va  certamente  corretto  in  cored,  come  del  resto  poi  sospetta 
il  Gian  nel  Glossario;  ibid.,  r.  29,  1.  quelh;  a  p.  153,  rr.  10-15,  leggi: 
A',  complid  lo  direnar,  se  remof  le  mense  e  le  man  se  lava,  e  a  De  fi 
reportà  gratie  e  hanor  al  segnar  (=  lat.  hospi ti);  e,  fat  go,  zascadun 
va  ò  ie  plas;  a  p.  157,  cap.  IX,  riga  penultima,  corr.  e  tant  ella  n'a 
più  de  bever'?;  a  p.  59,  r.  25,  corr.  Eciamdè.  Nel  Glossario  a  dug  =  allocco 
sarà  anche  da  avvicinare  il  prov.  due,  collo  stesso  significato,  pel 
quale  vedi  il  mio  Bordello  di  Goito,  p.  253,  n.  al  v.  23  ;  e  il  zugos 
nel  senso  di  "  giocondo  ,  non  ha  nulla  a  vedere  con  "  succoso  ,,  ma 
è  l'equivalente  di  "  giocoso  „.  •  C.  d.  L. 

Paul  Andraud,  La  vie  et  Vijeuvre  du  troubadour  Raimoii   de  Miraval. 
Paris,  1902. 

L'A.  vien  preparando  l'edizione  cx-itica  del  canzoniere,  abbondante 
e  ripartito  tra  un  gran  numero  di  codici,  di  Raimon  de  Miraval,  il 
più  cavalleresco  dei  trovatori:  possiamo  quindi  considérax'e  questo 
volume  come  la  parte  storica  dell'opera  complessiva  e  al  tempo 
stesso,  secondo  che  l'A.  par  desideri,  come  uno  studio  di  costumi. 
Si  tratta  d'un  canzoniere  quasi  esclusivamente  amoroso  ;  e  poiché 
l'A.  dedica  la  maggior  parte  di  questo  suo  lavoro  all'ordinata  rico- 
struzione delle  storie  d'amore  che  quello  ispirarono,  si  può  ben  dire 
che  ne  risultino  stabilite  anche  le  linee  generali  di  quel  che  sarà  per 
essere  l'edizione. 

Maggior  diligenza  non  si  sarebbe  davvero  potuto  desiderare  dall'A.; 
ma  s'intende  bene  che,  data  la  materia  tenue  sulla  quale  le  sue  in- 
dagini venivan  praticate,  non  sempre  certe  se  ne  posson  dire  le  ri- 
sultanze. Le  poesie  d'amore  del  Miraval,  come  tutte  le  trovadoriche, 
offrono  di  per  se  un  mal  sicuro  fondamento  a  ricostruzioni  storiche 
e  mal  soccorrono  le  razós,  derivate  come  sono,  e  Dio  sa  con  quale 
e  quanta  libertà,  dalle  poesie  stesse.  Di  tali  difficoltà  ben  si  mostra, 
teoricamente,  informato  l'A.;  ma  in  pratica  egli  finisce  per  fare 
anche  troppo  larga  parte  all'autorità  delle  razós,  ora  tenendosi  stretto 
ad  esse  fin  là  dove  l'inverosimile  incominci,  ora  menando  loro  buono 
l'inizio  d'una  storia  che  poi  egli  s'industria  di  continuare  e  menare 
a  termine  coli' interpretazione  diretta  dei  testi,  e  quasi  sempre  poi 
accettando  da  esse  l'identificazione  dei  "  segnali  ,,  dal  poeta  adot- 
tati, con  uno  od  altro  nome  di  nobile  dama.  Per  esempio:  l'A.  ben 
riconosce  l'inverosimiglianza  complessiva  dell'episodio  della  separa- 
zione di  Raimondo  da  sua  moglie,  di  cui  egli  stesso  fa  la  consegna 
nelle  mani  del  nuovo  marito,  per  correre  poi  a  sua  volta  a  sposare 
Ermengarda  di  Castres,  la  quale    invece    all'ultimo    momento   sposa 


RECENSIONI  731 

Olivier  de  Saissac.  l^out  cela  fait  sourire,  conclude  l'A.;  ma  non  senza 
aggiunger  subito  che  autentica  è  la  storia  da  cui  un  sì  bizzarro  rac- 
conto ha  preso  le  mosse.  Autentica,  perchè  qualche  tratto  se  ne 
ritrova  nello  scambio  di  sirventesi  occorso  tra  Uc  de  Mataplana  e 
Raimon  de  Miraval,  nel  quale  anche  appajono  (e  qualcuno  storica- 
mente accertabile)  i  pivi  dei  personaggi  che  la  razós  menziona.  Ma 
quei  due  sirventesi,  appunto  perchè  sfuggono  a  qualsiasi  tentativo 
di  determinazione  di  contenuto,  si  prestarono  a  meraviglia  alla  fan- 
tasia capricciosa  del  biografo  ;  e,  quanto  ai  nomi  storici,  —  Gau- 
dairenca,  Uc  de  Mataplana,  Olivier  de  Saissac  — ,  i  due  primi  figurano 
in  questi  due  stessi  sirventesi;  il  terzo  in  un  dei  sirventesi  composti 
pel  giullare  Bayona. 

Vero  è  che  su  terreno  così  malfido  devono  necessariamente  mo- 
versi quanti  intendono  alla  ricostruzione  della  vita  d'un  trovatore. 
Ma  l'A.,  e  lo  ribadiva  egli  stesso  nel  paragrafo  di  conclusione  della 
prima  parte  del  suo  lavoro,  ha  voluto  far  di  più  :  presentarci  un 
quadro  dal  vero  dei  costumi  del  tempo;  e  questo  risulta  troppo 
fosco  perchè  il  lettore  non  abbia  a  vivamente  preoccuparsi  della  sto- 
ricità delle  sue  linee  e  dei  suoi  particolari.  Se  ne  mostra  del  resto 
preoccupato  anche  l'A.,  che  si  chiede  :  "  Mais  avons-nous  bien  le 
droit  de  juger  ainsi  cette  société  pour  l'avoir  entrevue  au  travers  de 
cette  oeuvre  et  de  cette  vie  ?  ,. 

Ma  codesto  a  parte,  molta  lode  merita  l'A.  per  le  ricerche  intorno 
alla  famiglia  del  trovatore  e  le  abbondanti  notizie  che  intorno  al 
suo  paese  d'origine  ci  fornisce  :  non  meno  che  per  la  valutazione  che 
dell'opera  sua  poetica  egli  fa  nel  secondo  capitolo.  Non  dimentica 
egli  di  tener  presenti  i  giudizi  che  ne  dettero  i  Provenzali  contem- 
poranei e  posteriori:  ma  accanto  alle  testimonianze  di  Raimon  Vidal 
e  Matfré  Ermengard  avremmo  voluto  veder  allegata  quella  del  com- 
pilatore della  breve  sumnia  dictaminis  del  canzoniere  vaticano  3207, 
dove  alle  eleganti  formule  e  sentenze  del  Miraval  in  materia  d'amore 
si  fa  un  posto  singolarmente  onorevole  (cfr.  Revue  des  laugues  r<>- 
manes,  1889,  p.  189).  C.  d.  L. 

Liborio  Azzolina,  La  Compiuta  donzella  di  Firenze.  Palermo.  1902. 

L'A.  combatte,  e  con  buone  ragioni,  mi  pare,  gli  argomenti  che  il 
compianto  Borgognoni  traeva  da  qualche  passo  del  canzoniere  di 
Chiaro  Davanzati  e  da  qualche  altro  del  Reggimento  e  costumi  di  donna 
del  Barberino  contro  l'attribuzione  dei  sonetti  CX  e  CXI  del  Vati- 
cano 3793  alla  Compiuta,  come  donna,  ben  inteso,  in  carne  ed  ossa. 
.Ma  nei  due  sonetti  non  riesco  a  scoprire  quella  sincerità  d'ispirazione 
personale  presso  che  palpabile  per  l' Azzolina  :  che  anzi  quel  "  dis- 
degno che  [la  Compiuta]  ha  dell'uomo  nel  suo  ascetismo  meramente 


T.i2  BULt.ETTINO   BIBLIOGRAFICO 

fantastico  ,  a  me  pare  ammantato  del  frasario  convenzionale  trova- 
(lorico,  dove  il  De  jjrofìtniiiiì  per  senno  e  pregio  e  cortesia  sempre 
s'incrocia  colle  imprecazioni  a  falsità  e  villania. 

K  intimamente  connessi  a  questi  due  sonetti  sarebbero,  secondo 
l'Azzolina.  i  tre  costituiti  in  tenzone  nello  stesso  Vaticano  3793  sotto 
i  nu.  CMIX-CMXI,  e  di  cui  il  secondo  reca  appunto  il  nome  della 
Compiuta,  il  primo  ed  il  terzo  sono  adespoti:  ma  con  essi  va  ag- 
gruppata la  canzone  CCXVl  come  quella  che,  tra  l'altro,  "  tradisce 
ad  ogni  passo  il  modo  di  sentire  e  di  vedere  proprio  della  Compiuta  ,; 
e  poiché  essa,  attribuita  per  un  dei  soliti  arbitri  al  Davanzati,  è  ad 
ogni  modo  nei  rapporti  di  risposta  a  proposta  colla  canzone  n.  CCXV, 
indubbiamente  del  Davanzati,  e  questa  offre  certi  "  punti  di  con- 
tatto ,  coi  due  sonetti  adespoti  diretti  alla  stessa  Compiuta,  sorge 
nell'animo  dell' Azzolina  il  sospetto  che  di  essi  due  sonetti  sia  autori' 
il  Davanzati;  e  tal  sospetto  prende  consistenza  dal  raffronto  con  tutte 
le  rime  del  trovatore  toscano. 

Di  che  è  conseguenza  che  la  Compiuta  donzella,  non  persona  fan- 
tastica, ma  reale,  poetò  per  entro  all'ultimo  trentennio  del  sec.  XIII: 
nel  quale  appunto  vengono  a  confluire  l'operosità  letteraria  del  Da- 
vanzati e  quella  di  Maestro  Torrigiano  col  quale  pure  essa  fu  in  cor- 
rispondenza poetica.  P]  Cominuta  sarebbe,  sempre  secondo  l'A.,  non 
nome  proprio,  ma  qualificativo  di  donzella. 

Nel  lavoro  dell'A.  è  certamente  a  lodare  la  coscienziosità  o  almeno 
una  preoccupazione  sempre  viva  di  coscienziosità,  in  quanto  ogni 
punto  del  sottile  ragionamento  egli  cerca  di  por  bene  in  sodo:  ma 
non  so  quanto  probabili  siano  da  proclamarne  i  risultati,  fondati 
come  sono  pressoché  esclusivamente  su  consonanze  di  motivi  e  di 
espressioni  poetiche  in  mezzo  a  un  materiale  in  cui  dello  "  specifico  , 
nelle  situazioni  non  si  sentiva  bisogno  e  le  tracce  dell'individualità 
son  per  lo  meno  da  giudicare  e  definire  impercettibili.         C.  d.  L. 

Amos  Parducci,  Sulla  cronologia  e  sul  valore   delle  rime  di  Bonagiunta 
Orhicciani  da  Lucca.  Messina,  G.  Toscano,  1902. 

A  dir  vero,  non  si  tratta  d'un  lavoro  in  due  parti  logicamente 
distinte  :  sicché  insomma  accertato  nella  prima,  per  via  d'argomenti 
di  carattere  ben  positivo,  l'ordine  cronologico  della  produzione  del 
poeta  lucchese,  si  venga  poi  per  entro  a  questa  a  sceverar  le  varie 
fasi  dell'evoluzione  artistica.  Che  anzi  è  sul  riconoscimento  di  queste 
che  si  fonda  la  distinzion  ci'onologica;  ma  d'error  di  metodo  non 
si  può  parlare,  data  l'accertabilità  della  cronologia  che  ad  esse  fasi 
spetta,  indipendentemente  dalla  rappresentanza  che  se  ne  può  asse- 
gnare ad  uno  od  altro  poeta,  nella  stoi'ia  della  nostra  lirica  delle 
origini. 


RECENSIONI  733 

E  mi  pare  che  con  sufficienza  di  prove  e  bontà  di  ragionamenti  per- 
venga l'A.  ad  accertare  tre  periodi  nell'opera  letteraria  del  lucchese: 
uno  di  stretta  imitazione  siciliana,  dal  quale  ebbe  origine  il  giu- 
dizio ornai  tradizionale  su  lui  ;  uno  di  transizione,  nel  quale  ebbe  a 
modello  Guitton  d'Arezzo,  non  tanto  nell'abuso  delle  complicazioni 
formali  quanto  nel  far  larga  parte  all'elemento  filosofico-morale,  e 
non  senza  lasciar  balenare  qua  e  là  uno  spirito  preannunziatore  di 
cose  nuove;  un  periodo,  finalmente,  nel  quale  sarebbe  "  innegabile 
l'influsso  del  dolce  stil  novo  ,. 

Un  po'  pili  di  luce  sarebbe  stata  forse  desiderabile  per  quanto 
spetta  a  quella  fase  durante  la  quale  il  Lucchese,  all'ombra  dell'Are- 
tino, sarebbe  venuto  maturando  la  propria  arte  alle  grazie  e  le  gen- 
tilezze dello  stil  novo. 

Ma  si  può  dir  forse  precisata,  come  dovrebb'essere,  la  parte  che 
veramente  spetta  allo  stesso  Aretino  nella  evoluzione  della  antica 
lirica  nostra  V 

C.  d.  L. 


NOTIZIE 


n.r;,«^tnf  rf-';fjL^Tr  J'':'^'''^%'P''''''^il'  degli  antichi  dialetti  italici 
netmocienit  dialetti  Ualiani  e  negV idiomi  romanzi  in  qenere  Fraucesco 
d  Ovidio  ha  pubblicato  una  memoria  che  nell' intenzione  sua  non 
vuole  avere  che  carattere  proemiale.  Ma  essa  può  essere  suLestlvad" 

To  v'i'si%or'  ';?,"'*;  ff  P"'^  ^^  P"'^  ""'  '^'  ^^'^  un  assetto  defin- 
!nnr;  1  1  ,*i^''«^/^"'^  ^^^^^^  reazione  dei  parlari  preromani  in  -enere 
sopra  11  latino  dovunque  questo  si  estese  e  radicò;  e  della  pÒssIb  H  à 
che  per  quanto  spetta  agl'italici,  abbiano  a  rinvenirsenrreliÒu  e 
anche  al  di  la  di  quelli  che  furono  i  loro  naturali  ed  or.Vinar  ìcoi 
fini,  e,  quasi  per  incidenza,  ma  con  sostanziale  compiutSza  e  -rande 
perspicuità  VI  si  riassume  la  questione  dell'origi^delle  linC  ri 
manze,  partitamente  e  in  successione  rigorosam^ente  logica  Snen: 

tribù"  ot'albT"  '■  '"'^r'*^  in  malgiore  o  minox^mi'surr con- 
tribuirono alla  formazione  di  esse.  In  un  ultimo  paragrafo   assenna- 

eSioni  elictr-^'T  ''rr""'  ^''  ''  'l"^^^  "  problema  duSe 
s'e^rn'df  ;Siss?mh^^^^^     ''  '^'  ''^''''  ''''^'^''    "-   ^'^   ^Lato 

è  Ìrt/f^/"^"'''"'T'  '^''  ^^'^'''"«"'»'  '"  Francia  e  la  Chanson  de  Roland 
e    1  titolo  d  una  breve  memoria  (estratta  dalla  Rivista  //  Saqqiatore) 
del  professore    Bortolo    Faggion.  Vi  si  vuol   dimostrare   la   Stami- 
nazione  epica  della  sconfitta  di  Roncisvalle  colla  invasione  normanm 
capitanata  da  Rollo  o  Rollone.  ai  tempi  di  Carlo  il  SempHce     con 

mort^'^n^Ha^r'^  "'^  Rolando,  gonfaloniere,  sarebbe  diramente" 
Frnn.in  vo  iT  .7""-"°™^"°°  ^^'^  precedeutemeute  stabilitosi  in 
loHngia.  '''^'^■'^^•^  "^   «^  '  ^'^^^'  '^'^   *^^^n«lon«  della   leggenda   ca- 

A  "^o^-"'^  ir*''^  Espaùa  y  su  literatura  en  el  extran jero,  il  professore 
A  Farinelli  ha  pubblicato  nella  rivista  spagnuola  La  JctMraTrl 
sua  conferenza  letta  nell'Ateneo  di  Madr  d  il  19  gennaio  1901  ^ 
uno  scritto  denso  di  fatti  sicuramente  domina  e  quTdi  periicua 
mente  esposti  e  ordinati;  suggestivo  anche  là  dove  esso  è^più^  con- 
ciso, tale  insomma  sotto  ogni  rispetto  da  indurci  a  deplorare  che 
non  sia  stato  pubblicato  in  Italia  e  in  italiano.  Vi  si  leXno  x  m? 
d  appendice  alcune  pagine  di  bibliografia,  nelle  quali  paiSmente 
colie  Xp  "■  """T  ^«-«^™?ti  le  relazioni  letterarie  cLlla  Cg.a 
otnda)  ^^  ""'''"'    {^r'.xn^ni,    Italia,  Germania,  Inghilterra, 

.rn^/.in^"'''^"^''  Crescini  dobbiamo  una  nuova  edizione,  accompa- 
gnata da  versione,  de  La  lettera  epica  di  Rambaldo  di  VaQueiras\ì 
marchese  Bonifacio  di  Monferrato  (Padova,  Tip.  Randi;  e'str  Igì 
Atti  e  Memorie  della  R.  Accademia  di  Padova).  Sicuri  vanta-ffi  essa 

n!n%rn'^ru  ^f  ^r^""  accurata  dello  SchuItz-Gora;  e  miglior  lode 
non  SI  potrebbe  darle. 

Con  questo  fascicolo  cessa  la  pubblicazione  degli  Studj  di  filologia 
romanza.  o  mAo 

3  marzo  1903. 


Tipografia  VINCENZO  BONA  -  Via  Ospedale,  8,  Torino. 


Pubblicazioni  della,  stessa  Casa  Editrice. 


1   20 

6  — 

7  50 

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8  — 
3  50 

10  - 


EETANA  E.  Vittorio  Alfieri  studiato  nella  vita,  nel  pensiero  e  nel- 
l'arte con  lettere  e  documenti  inediti,  ritratti  e  fac-simile;  in  8° 
grande,  di  pag.  vii-547 

UZZOLO  C.  Luigi  Concato.  Discorso  commemorativo,  letto  nella 
R.  Università  di  Torino  ;  in-8",  di  pag.  45  . 

AMPORl  G.  e  SOLERTI  A.  Luigi,  Lucrezia  e  Leonora  d'Este.  Studi; 
in-S",  di  pag.  iv-211 " 

RESCINI  V.  Contributo  agli  studi  sul  Boccaccio,  con  documenti  ine- 
diti; in-8°,  di  pag.  xii-264    " 

•ANCONA  A.  Origini  del  teatro  italiano,  libri  tre  con  due  appendici 
sulla  rappresentazione  drammatica  del  contado  Toscano  e  sul 
teatro  Mantovano  nel  secolo  xvi.  Seconda  edizione  rivista  ed 
accresciuta;  2  voi.  in-8°,  di  pag.  626  e  670        ...         « 

}RAF  A.  Foscolo,  Manzoni,  Leopardi.  Saggi.  Aggiuntovi  preraffaelliti, 
simbolisti  ed  esteti  e  letteratura  dell'avvenire;  in-8°,  di  pa- 
gine viii-487  ...••■••■■" 

-  Le  Danaidi;  in-16°,  di  pag.  vm-194 • 

Miti,  leggende  e  superstizioni  del  medio  evo  ;  2  volumi   m-S»,  di 

pag.  xxiii-708        ••••■■■■■". 
Medusa.   Terza  edizione  accresciuta  di  un  terzo   libro,  adorna  di 

100  disegni  di  C.  Chkssa  :  in-8',  di  pag.  viii-292 

Legato  elegantemente        .         •         ,. 
Attraverso  il  cinquecento  ;  in-8°,  di  pag.  viii-395    .... 

-  Prometeo  nella  poesia;  2"  ediz.  in- 16°,  di  pag.  xii-194   . 

-  Studi  drammatici  ;  in-8°,  di  pag.  327 - 

-  Roma  nella  memoria  e  nelle  immaginazioni  del  medioevo;  2  volumi 
in  8°,  di  pag.  xv-462  e  602 

-  Poesie  e  novelle;  in  8»,  di   pag.  359 

-  La  crisi  letteraria  ;  in-8»,  di  pag.  38 

-  La  leggenda  dell'amore;  in-8'Mi  pag.  35         .         • 

-  Dello  spirito  poetico  dei  tempi  nostri  ;  in-8",  di  pag.  38 

-  Di  una  trattazione  scientifica  della  storia  letteraria.  Prolusione  al 

corso  di  letteratura  italiana,  letta  nella  R.  Università  di  Tonno; 
in-16»,  di  pag.  34 

-  Provenza  e  Italia;  in-8°,  di   pag.  37 

LEOPARDI   G.    Le  tre  lettere  intorno  alla  divisata   fuga   dalla  casa 

patella;  in-16»,  di  pag.  65;  col  disegno  della  camera  del  Leopardi , 

MERLIN!  D.  Saggio  di  ricerche  sulla  Satira  contro  il  villano,  con  ap- 

•       pendice  di  documenti  inediti;  in-8°,  di  pag.  viii-231^ ^ , 

"TORINO  -"cIsTÉDiTmcTERMANNO  LOESCHER  -  TORINO 


7 

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5 

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Pubblio  azioni  della,  stessa  Gasa  Editrice. 


NOVATI  F.  Studi  critici  e  letterari.  L'AlBeri  poeta  comico.  Jl  ritmo 
cassinese  e  le  sue  interpretazioni.  Un  poeta  dimenticato.  La 
parodia  sacra  nelle  letterature  moderne;  in-8"  di  pag.  310      L.       4 

OTTOLENGHI  L.  La  vita  ed  i  tempi  di  Giacinto  Provana  di  Collegno. 
Studio,  col  diario  dell'Assedio  di  Navarino,  1825,  che  si  pubblica 
per  la  prima  volta  nell'oi-iginale  francese  ;  in-8°,  di  pag.  317  „    .     5 

—  Vita,  studii  e  lettere  inedite  di  Luigi  Ornato  ;  in-8*',  di  pag.  428  ,         6 

—  La  vita  e  i  tempi  di  Luigi  Provana  del  Sabbione.  Studio;  in-8",  di 

pag.  231,  con  ritratto  del  Pro  vana ,3 

SAVI-LOPEZ  M.  Leggende  del  mare,  con  60  illustrazioni  di  C.  Chessa  ; 

in-8°,  di  pag.  vjn-360  con  ritratto  dell'autrice  .         .         .         ,         5 

—  Leggende  delle  Alpi,  con  60  illustrazioni  di    C.   Chessa;  in-8°,  di 

pag.  358 5 

SCHERILLO  M.  Alcuni  capitoli  della  biografia  di  Dante;  in-8'',  di  pa- 
gine xx-529 5 

—  Arcadia  di  Jacobo  Sannazaro    secondo   i   manoscritti   e   le    prime 

stampe,  con  note  ed  introduzione;  in-16",  di  pag.  ccxciv-370     ,       16 
SOLERTI  A.  Vita  di  Torquato  Tasso  ;  3  volumi  in-8°  gr.,  di  pag.  xiv- 
883,  xvui-541  e  218,  con  10  fac-simili,  3  piani,  30  illustrazioni, 
4  medaglie  e  28  ritratti «35 

TAVERNA  G.  Lettere  raccolte  e  pubblicate  a  cura  di  Virginio   Cok- 

TEsi  ;  in-8°,  di  pag.  xv-167 ^1 

TOMMASINI  0.  La  vita  e  gli  scritti  di  Nicolò  Machiavelli  nella  loro 
relazione  col  machiavellismo.  Storia  ed  esame  critico.  Voi.  1, 
in-8<'  gr.,  di  pag.  xxvii-750,  con  ritratto  del  Machiavelli  .         „       16 

TORRACA  F.  Gli  imitatori  stranieri  di  Jacobo   Sannazaro.  Ricerche. 

Seconda  edizione  accresciuta,  in-8°,  di  pag.  103         .         .         „         2 

VITTORIA  COLONNA  (Marchesa  di  Pescara).  Vita,  fede  e  poesia  nel 
secolo  decimosesto  per  A.  Reumont.  Versione  di  Giuseppe  Muller 
ed  Ermanno  Ferrerò;  2"  edizione,  in-8°,  di  pag.  xx-331     .         ,  5 

—  Carteggio  raccolto  e  pubblicato  da    Ermanno  Ferrerò    e    Giuseppe 

Muller.  2""  edizione  con  supplemento  raccolto  ed  annotato  da 
DoM.  Tordi;  in-8°,  di  pag.  xxxii-522 ,8 

—  Supplemento  al  carteggio  raccolto  ed  annotato  da  Domenico  Tordi 

coll'aggiunta  della  vita  di  lei  scritta  da  Filonico  Alicarnas^o. 
(In  commemorazione  del  quarto  centenario  della  nascita  della 
divina  poetessa)  ;  in-8°,  di  pag.  128 „         3 


TORINO   —  Casa  Editrice  ERMANNO  LOESCHER  -  TORINO 

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